L’ex leader della mala del Brenta: «sono libero ma dannato, mi affido al Giudizio Divino»

Il “doge” della mala del Brenta. Giampaolo Manca racconta la sua conversione in carcere nel quale ha scontato la sua lunga pena, in attesa della giustizia divina.

 

Ha passato metà della sua vita in carcere. Parliamo di Giampaolo Manca, alias “Doge”, uno degli esponenti più noti della cosiddetta “mala del Brenta”, una banda mafiosa veneta che ha operato nell’Italia nord-orientale dagli anni 70 agli anni 90.

A carico di Manca c’è sopratutto la complicità nell’omicidio dei fratelli Rizzi su ordine di Felice Maniero. Verso la fine del 2017 il tribunale di sorveglianza di Bologna ha accolto l’istanza di affidamento in prova permettendogli di scontare gli ultimi tre anni di pena in una comunità di Rimini.

In una recente intervista (su Libero, 29/10/18) è emersa forte la sua richiesta di non essere imitato dai giovani, non vuole diventare un modello da emulare. Una preoccupazione comprensibile se si pensa quanto accaduto al criminale Renato Vallanzasca, a cui hanno dedicato film che lo hanno trasformato in eroe. Quella di Manca è una testimonianza che in qualche modo si collega alle vertiginose parole di Franco Bonisoli, l’ex brigatista condannato a quattro ergastoli di cui abbiamo raccontato qualche mese fa.

L’orribile svolta alla sua vita la diede sul finire degli anni 70 quando la polizia uccise un suo complice durante una rapina. «Non si trattava più di un gioco ed ero disposto a uccidere», ha confessato Giampaolo Manca. Rapine a banche, caveau e furgoni blindati, anche tre al giorno: «Era impossibile fermarci. Eravamo in un delirio di onnipotenza, anzi oggi penso che eravamo totalmente pazzi». Poi l’arrivo della droga, gli introiti miliardari e il passo successivo: da rapinatore e spacciatore ad assassino.

Manca ha saldato i conti con la giustizia terrena ma durante i lunghissimi anni di carcere ha scoperto che c’è un’altra Giustizia, più importante. «Il carcere in isolamento mi ha portato a parlare prima con me stesso e poi con Dio. Io parlavo con Dio, mi sono affidato a Lui. Mi sono detto: Giampaolo devi rimediare». Il suo desiderio ora è «aiutare i bambini, perché non accada a loro quello che è successo a me. Inoltre voglio esortare i giovani a non prendermi come esempio, io sono un dannato, non un’icona da emulare. Ho deciso che tutti i proventi dei quattro libri serviranno per una struttura che accolga i bambini autistici. Voglio fare del bene. Per me è un riscatto poi mi affido al Giudizio Divino».

La redazione

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«Alcuni Papi Dio li infligge». Citazione falsa, mai scritta da S. Vincenzo di Lerino

I “Papi inflitti da Dio”. San Vincenzo di Lerino non lo ha mai scritto, tale frase non compare nell’unica opera a lui attribuita ed infatti è citata dagli oppositori di Francesco senza bibliografia. Se ci si riduce ad inventare citazioni ed attribuirle ai Padri della Chiesa per denigrare il Successore di Pietro c’è davvero bisogno dell’intercessione di San Vincenzo.

 

«Alcuni papi Dio li dona, altri li tollera, altri ancora li infligge». Questa la frase attribuita a San Vincenzo di Lerino e popolare tra i vari blog e autori antipapisti, dedicata ovviamente a Papa Francesco e diffusa in particolare da Antonio Socci che la riportò anche nel suo libro Non è Francesco. Addirittura, su LifeSiteNews, Don Linus Clovis, dopo aver citato la frase in questione, ha aggiunto: «Questa è sicuramente un’opinione che Benedetto XVI sottoscrive».

Quanto c’è, però, di vero in tutto ciò? Nulla. A fornire una puntuale confutazione è Giovanni Marcotullio sul sito web Breviarium. Si legge: «mi sono stupito di non aver mai letto quella citazione… non solo nelle pagine di Vincenzo ma neppure altrove: cercando su Google ho trovato nella risposta motivo di conforto. Nessuno, mai, riporta il dettaglio della citazione, come se ciascuno l’avesse copiata dagli altri, e neppure mi è riuscito di rinvenirla in libri anteriori alla nostra epoca (intendo gli ultimi vent’anni)».

Non solo, ma non è neppure storicamente verosimile che sia stata mai scritta da San Vincenzo: «Quella frase è assolutamente prematura per un qualunque anno della prima metà del V secolo. Sarebbe come – che so… – se si attribuisse a Carlomagno un parere di De Gasperi sulla Costituente Repubblicana Italiana, o come se si pretendesse di vendemmiare a marzo […] quella dichiarazione è sconcertante per l’anacronismo, ancora prima che per il contenuto». Inoltre, si può serenamente affermare che «Vincenzo non avrebbe mai sostenuto simili tesi. E la riprova si fa senza grosse difficoltà, visto che l’unica opera unanimemente attribuita a Vincenzo è quel Commonitorium ricordato nella notitia di Gennadio di Marsiglia. Ora, gli unici Papi romani di cui Vincenzo parla sono Stefano I (254-257), Celestino I (422-432) e Sisto III (432-440): il primo è ricordato per aver resistito alla diffusione della pratica dell’iterazione del Battesimo; il terzo per essersi opposto alla febbre nestoriana; il secondo per aver lottato contro “l’errore” che allora imperversava nelle Gallie […] di loro si afferma soltanto che abbiano sempre difeso la fede cattolica e conservato la Tradizione degli antichi».

Il quadro che ne risulta è il seguente: ci si è ridotti a fare uso di citazioni false, inverosimili e addirittura contrarie al pensiero dei Santi che vorrebbero citare. Di certo, chi ha valide argomentazioni non deve ricorrere a simili espedienti. Qualcuno avrà forse ricopiato quella citazione in buona fede, senza pensarci, mentre qualcun altro l’avrà fabbricata in malafede. Sta di fatto che l’uso di citazioni inventate la dice ben lunga sulla qualità e sulla fondatezza delle affermazioni di chi combatte l’attuale Pontefice.

Una cosa è pacifica: la frase in questione non rappresenta né il pensiero di San Vincenzo di Lerino, né tantomeno quello di Ratzinger (contrariamente a quanto sostenuto da Padre Clovis). Proprio alla luce di ciò, Marcotullio conclude: «solo la presunzione di certi sedicenti apologeti colma la misura della loro ignoranza». Chiediamo, dunque, l’intercessione di San Vincenzo in favore di questi nostri fratelli in difficoltà.

Marco Visalli

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Leggi razziali, l’eroica opposizione della Chiesa cattolica

La Chiesa e le leggi razziali fasciste. Lo storico Andrea Riccardi e due storiche dell’Università di Firenze ricostruiscono il ruolo dei cattolici e degli ecclesiastici nel salvare gli ebrei, coordinati dalla Santa Sede che proibì ai sacerdoti di aderire alla “Difesa della razza”.

 

1938-2018, 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziali. In tutta Italia si stanno organizzando eventi per fare memoria di quanto accadde a milioni di persone ebree. Anche l’Università Cattolica di Milano ha organizzato un incontro intitolato “Chiesa, fascismo ed ebrei: la svolta del 1938”, in collaborazione con la Società Dante Alighieri, di cui è presidente Andrea Riccardi, ordinario di Storia Contemporanea a Roma.

Riccardi è un eminente studioso dei rapporti tra Chiesa cattolica e fascismo e durante l’evento ha rivelato che nel 1938 la Santa Sede era preoccupata della «fragilità dei cattolici di fronte alla propaganda razzista e nazionalista». Per questo, la Segreteria di Stato diede istruzione ai vescovi «di impedire al clero l’abbonamento a “La Difesa della Razza”». Secondo il Vaticano, infatti, si correva «il rischio che i preti, in mezzo al popolo, insulsamente si schierassero con la propaganda». «Questa», ha spiegato Riccardi «era la coscienza che si aveva in Vaticano della capacità di tenuta d’una parte del clero di fronte alle passioni nazionaliste e al razzismo». Per lo storico, «la battaglia sull’antisemitismo e il razzismo nel 1938, nonostante la crescente chiarezza di Pio XI, rivela le complessità del mondo cattolico e talvolta lo scarso allarme su questi problemi». A proposito di Pio XI, Riccardi ha ricordato che nel suo Magistero affermò una «visione dell’unità del genere umano opposta al nazionalcattolicesimo, che è il primato della nazione sul cattolicesimo e l’universalismo».

Effettivamente, come riconobbe Giovanni Paolo II e come ha ricordato pochi giorni fa il presidente della CEI, Gualtiero Bassetti, «i cattolici italiani avrebbero potuto fare di più, quando gli ebrei venivano discriminati con leggi razziste». Tuttavia, ha riconosciuto sempre lo storico Riccardi, «nel corpo autonomo della Chiesa, pur infiltrato da idee e propaganda del fascismo, circolavano convinzioni, presupposti diversi, mentre il papa era il grande riferimento, fuori dall’orizzonte di una nazione fascistizzata. La Chiesa era (relativamente) lo spazio più libero nell’Italia fascista». D’altra parte quel «noi siamo spiritualmente semiti» pronunciato da Papa Ratti ancora risuona.

Ma ci furono anche tanti cattolici attivi a favore degli ebrei, sopratutto ecclesiastici. Un libro storico intitolato La Chiesa fiorentina e il soccorso agli ebrei e curato da Francesca Cavarocchi ed Elena Mazzini (Università di Firenze), presentato pochi giorni fa dall’Istituto Italiano della Resistenza, in collaborazione con l’associazione ebraica Delasem, ha rivelato ad esempio ben 42 monasteri, orfanotrofi e conventi cattolici fiorentini in cui vennero nascosti gli ebrei e dove alle donne ebree venne dato l’abito delle monache per mimetizzarle meglio. «Un lavoro che ci ricorda l’impegno eroico di tanti religiosi», ha commentato Marco Mazzoni, direttore dell’Istituto.

Tanto che negli anni l’onorificenza di “Giusto tra le Nazioni” è stata assegnata al cardinale Elia Dalla Costa, ma anche a sacerdoti come Leto Casini e Giacomo Meneghello, a religiosi come Cipriano Ricotti e suore come Benedetta Vespignani, Ester Busnelli, Agnese Tribbioli. Ma anche il ciclista Gino Bartali che, su richiesta del card. Dalla Costa, trasportà nella canna della bicicletta falsi documenti d’identità.

Aiuti e salvataggi, ha spiegato ancora Andrea Riccardi, che non potevano essere soltanto “iniziative dal basso” ma erano chiaramente coordinati e consentiti dai vertici della Chiesa. Su cui si trova d’accordo anche Anna Foa, docente ebrea di storia moderna Università La Sapienza di Roma: «gli studi degli ultimi anni stanno mettendo sempre più in luce il ruolo generale di protezione che la Chiesa ha avuto nei confronti degli ebrei durante l’occupazione nazista dell’Italia». Proprio ieri è morta la suora più anziana del mondo (110 anni), la polacca Cecylia Roszak, nota per aver nascosto gli ebrei dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale.

 

AGGIORNAMENTO, ORE 19
Proprio in un discorso odierno, Papa Francesco ha ricordato la figura di Giorgio La Pira, terziaro domenicano e grande statista italiano: «Dal 1936 dimorò nel convento di San Marco, dove si diede allo studio della patristica, curando anche la pubblicazione della rivista Principi, in cui non mancavano critiche al fascismo. Ricercato dalla polizia di quel regime si rifugiò in Vaticano, dove per un periodo soggiornò nell’abitazione del Sostituto Mons. Montini, che nutriva per lui grande stima».

La redazione

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«Mio marito suicida in Svizzera. Ma io stimo chi resta, chi rispetta la vita e la sua famiglia»

Eutanasia in Svizzera. Parla la moglie di Simon Binner, giornalista di Sky News suicidatosi nel 2016, attraverso il libro “Io sono ancora qui”. Un tradimento, la scelta del marito, che l’ha portata ad opporsi ad una legge sulla morte assistita.

 

Una scelta egoistica, un tradimento. Così la moglie di un uomo, morto per suicidio assistito in una clinica svizzera, ha tolto la maschera alla sdolcinata retorica mediatica che sempre accompagna queste notizie.

Solitamente si sottolinea la scelta eroica e coraggiosa della persona suicida, decisione presa per togliere i familiari da un inutile peso di un’esistenza ormai priva di qualità. Eppure Deborah Binner, moglie di Simon Binner, giornalista di Sky News, ha già visto morire di cancro la loro figlia, tre anni prima: «Sapevo di non aver lasciato nulla di intentato nella battaglia per salvarla», ha detto. «E alla fine la sua morte fu dolce. Mentre stava morendo, mi sedetti con lei e la tenni tra le braccia, accarezzandole la testolina. Mi disse che era felice. Incredibilmente per quel momento, lo ero anch’io. Ho toccato l’amore al suo livello più profondo».

Eppure, non Deborah non può dire lo stesso della scelta di morte del marito, per nulla dolce: «Al contrario, la morte di Simon è irrisolta. A me è sembrato arrabbiato, rifiutato, un vero suicidio. Penso che abbia sinceramente pensato che togliersi la vita fosse coraggioso e che ci avrebbe risparmiato un sacco di angoscia. So che le sue intenzioni erano completamente pure. Ma sicuramente è altrettanto coraggioso vivere con coraggio la malattia, la disabilità, abbracciare la vulnerabilità e accettare che nessuno di noi ha davvero controllo di sé».

A malincuore la donna ha accompagnato il marito alla clinica Swiss Eternal Spirit di Basilea nel 2016, insieme ad una troupe di avvoltoi della BBC che ha realizzato un documentario, How to Die: Simon’s Choice, per spingere tanti altri alla “dolce normalità” del togliersi la vita così da creare una sufficiente pressione sociale e guadagnare una legge in patria. Ma Deborah Binner ha rovinato il progetto con queste dichiarazioni, contenute nel libro Yet Here I Am (Io sono ancora qui).

«Mentre la sofferenza di Simon era finita, in qualche modo la mia era solo all’inizio. Non volevo che Simon soffrisse, ma non volevo neppure che lui morisse. Guardarlo pianificare la propria morte, mentre io volevo ancora più tempo, è stato traumatico. Il mio cuore dice ancora no. Non dovremmo essere più gentili, più pazienti, più rispettosi della vita umana? C’è una parte di me che crede sia meglio, se una persona ha la migliore cura possibile, lasciare che la natura faccia il suo corso. Personalmente, sono assolutamente irritata che mio marito mi abbia lasciato a difendermi da sola in questo mondo. Questo non era l’accordo tra noi».

Una testimonianza scioccante che dà voce a chi resta, perché non siamo monadi isolate ma creiamo forti legami nella nostra esistenza verso i quali ci assumiamo delle responsabilità. Il suicidio, ha detto la moglie, per quanto possa essere umanamente comprensibile, è un tradimento verso se stessi, innanzitutto, verso la propria famiglia e verso la società. Ed il vero coraggio, il vero eroismo vive nelle persone che restano, che combattono la malattia a fianco dei loro cari, che pretendono cure migliori, che afferrano quel significato esistenziale che permette loro di mettere in secondo piano l’inarrivabile guarigione fisica.

Deborah Binner, moglie del sucida Simon, è contraria alla morte assistita. «Mi preoccupo profondamente di come le persone malate possono perdere il senso di dare importanza ad altre persone. Se ci fosse la possibilità di porre fine a tutto in modo relativamente semplice», come nel caso di una legge apposita, «sentiranno la pressione di optare per questo anziché diventare un “fastidio”?». Ed proprio questo uno dei più grandi rischi che stiamo correndo approvando l’eutanasia: indurre un ricatto morale nei sofferenti a scegliere di eliminarsi piuttosto che ritenersi un peso per la famiglia.

La redazione

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Ondata di suicidi nell’era del benessere: ma cosa basta al cuore dell’uomo?

Suicidi nel mondo. Uno psicologo americano sul New York Times è arrivato a parlare di “una crisi di mancanza di senso”, perché siamo soli in un cosmo indifferente. Tutti attendono qualcuno che porti la salvezza, ma quel Qualcuno è già venuto e gli uomini non se ne sono accorti.

 

Un’ondata di suicidi di persone, sopratutto, ricche e famose ha investito le società occidentali negli ultimi vent’anni. Si parla di un aumento del 25% dal 1999, soltanto negli Stati Uniti. Ma la nostra generazione vive il massimo confort di sempre, a livello di salute, livelli d’istruzione, redditi pro-capite, diritti individuali, tecnologia e servizi.

«Quid animo satis?», si chiedeva Francesco d’Assisi. Cosa basta al cuore dell’uomo? Ma non solo San Francesco. Perfino uno psicologo di livello, come Clay Routledge (North Dakota State University), sul blasonato New York Times, è arrivato a scrivere: «il tasso di suicidi è aumentato anche se sono sempre più disponibili cure per la depressione e l’ansia. Come scienziato comportamentale, sono convinto che la crisi del suicidio della nostra nazione sia in parte una crisi di mancanza di senso». Ovvero, «l’aumento del rischio di disperazione esistenziale».

Certo, Routledge riduce tutto ad una lettura della psicologia evoluzionista per cui (erroneamente) ogni pensiero/sentimento/esigenza umana deve avere un riscontro biologico. Però coglie il punto, poiché anche naturalisticamente parlando «vogliamo vite che contino qualcosa. E quando le persone non sono in grado di dare un significato diventano più vulnerabili psicologicamente». Anche lo psichiatra americano, tuttavia, ha riconosciuto che «il senso di significato offerto dalla religione non è così facilmente replicabile in contesti non religiosi». E non è un caso se la crisi di identità odierna è contemporanea al fatto che le persone «di questi tempi, specialmente i giovani adulti, hanno meno probabilità di identificarsi con una fede religiosa, frequentare la chiesa o impegnarsi in altre pratiche religiose». D’altra parte basterebbe leggere Carl Jung, quando afferma: «Tra i miei pazienti oltre i 35 anni non ne ho trovato uno il cui problema ultimo non fosse rappresentato dal suo comportamento religioso. Anzi, in ultima analisi, ognuno si ammala perché ha perduto ciò che le religioni vive hanno dato in tutti i tempi ai loro fedeli. Prima o poi il tema religioso fa capolino nel racconto di vita dei pazienti» (C. Jung, Psicologia e religione, Comunità 1966, p.139).

Siamo soli in un cosmo indifferente, privo di spiegazione o scopo dove la somma totale delle singole esperienze personali non offre un senso compiuto all’esistenza. Nell’uomo riflessivo si palesa la totale estraneità dal mondo, l’incapacità del pensiero di giustificare l’accadimento delle cose, il sentirsi straniero nell’universo. «Siamo soli nell’immenso vuoto che c’e», dice il testo di una canzone di Raf. «Soli in fondo all’universo senza un perché. C’e bisogno di una luce quaggiù, non lasciarmi amore almeno tu». C’è quindi una duplice accezione di mancanza di un fondamento a tutto ciò che esiste e di assoluta vanità delle azioni umane. Se Albert Camus, davanti a ciò, rifiutò il suicidio e propose di nobilitare l’esistenza (consapevole che ciò non la priverà dell’assurdità) tramite la stoica resistenza, il mostrare i pugni ad un universo sordo alla nostra angoscia, continuando a vivere a dispetto di esso, Giacomo Leopardi vide nel suicidio la liberazione da una condizione di sofferenza esistenziale senza limiti. E, per sempre più persone oggi, sembra essere l’unica soluzione.

«Un imprevisto è la sola speranza», scriveva Eugenio Montale (in Prima del viaggio). Manca qualcosa, un imprevisto, appunto. C’è nell’esistenza umana un quid che non si riesce ad afferrare mai. E più il mondo offre risposte e distrazioni da questa drammatica assenza, e più si esaspera il vuoto: «Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? Che colmi tutta la terra della tua assenza?», si domanda Par Lagerkvist (Uno sconosciuto è il mio amico,). Lo scrittore svedese si rivolge ad uno Sconosciuto, ad un “tu”. Poiché il senso del mondo può essere fondato solo se lo si cerca fuori da esso. «Se si risponde negativamente» all’esistenza di questo “Tu”, scrive il filosofo Roberto Timossi, «dovremmo precostituirci un alibi per giustificare la nostra presenza nel cosmo; e a questo scopo non sarà certo sufficiente il puro caso, che può forse risultare una spiegazione accettata dalla scienza, ma mai una ragione per vivere e morire serenamente» (Prove logiche dell’esistenza di Dio, Marietti 2005, p. 20).

Così, l’insoddisfazione esistenziale dell’uomo moderno porta alcuni a rialzare lo sguardo a Dio, alla proposta cristiana. «In realtà, è Gesù che cercate quando sognate la felicità», disse Giovanni Paolo II. «E’ Lui che vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate; è Lui la bellezza che tanto vi attrae; è Lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso». Il mondo ha sempre più bisogno di testimoni di questo, il compito dei cristiani altro non è che sostenere la speranza degli uomini. L'”imprevisto” si è reso incontrabile, colmando della Sua presenza la vita di chi è aperto per incontrarlo. Ma gran parte degli uomini non se n’è accorto.

La redazione

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L’apologeta protestante si converte al cattolicesimo: «E’ l’unico cammino autentico»

Protestanti convertiti. Una dirompente conversione, quella del giovane apologeta calvinista J. Luis Dizon, molto attivo e combattivo contro il cattolicesimo. Ma, ad un certo punto, ha ammesso che non poteva più negare l’origine autentica del cristianesimo anche osservando che i suoi argomenti trovavano facile e convincente risposta nella teologia cattolica.

 

Il 31 ottobre è stata una data significativa per J. Luis Dizon, un giovanissimo blogger canadese e studente di Teologia presso l’Università di Toronto. Un “apologeta” legato al cristianesimo calvinista.

Il 31 ottobre 1517, si dice che Martin Lutero inchiodò le sue 95 tesi sulla porta della chiesa di Wittenberg, dando inizio alla Riforma protestante (in realtà è un episodio che non si è mai storicamente verificato), mentre il 31 ottobre 2007 cominciò il cammino di conversione di Lizon.

E’ lui stesso ad esordire citando queste date nel suo sorprendente ultimo articolo del suo blog. Sì, perché il 31 ottobre 2018 è accaduto qualcos’altro: «il mio viaggio ha raggiunto la sua fine. Oggi, annuncio che sto tornando alla fede della mia infanzia, che è il cattolicesimo». Un annuncio scioccante per molti suoi lettori e anche inaspettato, più volte lo stesso giovane teologo apologeta aveva difeso la visione evangelica del cristianesimo rispetto alla posizione della Chiesa di Roma.

Comprende lo shock delle persone che lo seguono: «Se mi hai incontrato in un qualsiasi momento durante gli ultimi undici anni saprai che sono una persona molto appassionata e competente nel presentare giustificazioni razionali per il motivo per cui credo in quello che credo, e per nulla facilmente persuaso dagli argomenti dei sostenitori di altre teorie (cristiane o meno)». Ha studiato per anni sui testi di Lutero e Calvino, e sui libri degli apologeti protestanti, come William Webster, James White e Tony Costa.

«Ho ascoltato ogni singolo dibattito di White contro gli apologeti cattolici», ha rivelato J. Luis Dizon, «assorbendo le polemiche anticattoliche. Ho imparato come fare apologetica contro una varietà di punti di vista religiosi, e mentre il cattolicesimo non era in cima alla mia lista di obiettivi religiosi, ho certamente avuto la mia giusta dose di dibattiti su quell’argomento. Conoscevo le mie argomentazioni e, per quanto la gente lo vedeva, ero più o meno “a prova di Roma”». Cioè, per nulla propenso all’essere convinto dalla fede cattolica.

Eppure, alla fine, la sua “apologetica” non ha retto. Molto interessanti i motivi che ha elencato:

«Innanzitutto c’è una marcata differenza di qualità tra coloro che si convertono dal cattolicesimo al protestantesimo e coloro che compiono il viaggio nella direzione opposta. Nella mia esperienza, quelli che si convertono dal cattolicesimo al protestantesimo sono solitamente cattolici nominali o hanno ricevuto una catechesi inferiore alla media. La maggior parte di loro non conosceva davvero bene la propria fede, per citare il profeta Osea: “La mia gente è distrutta dalla mancanza di conoscenza”. (Osea 4,6). Al contrario, i protestanti convertiti al cattolicesimo sono spesso i migliori e i più brillanti pastori, teologi professionisti e laureati provenienti dai principali seminari protestanti, come quello di Westminster, il Collegio di Ginevra e il Wycliffe College (come lo sono io). Le loro testimonianze danno un’idea di ciò che normalmente guida la maggior parte di questi convertiti: insoddisfazione per il soggettivismo che emerge dalla Sola Scriptura (che si traduce in alcuni dei Riformati a proporre autorità finali alternative), l’incapacità di spiegare i presupposti teologici fondamentali (ad esempio il Canone delle Scritture), una esegesi biblica inferiore rispetto ai teologi cattolici e la testimonianza della storia della chiesa pre-Riforma (l’abitudine a leggere i primi Padri della chiesa ha un effetto dirompente nella conversione dei protestanti al cattolicesimo, così che alcuni protestanti scoraggiano tali letture). Inoltre, non ho mai sentito parlare di prestigiosi protestanti convertirsi all’ateismo, al mormonismo o all’islam. Solo il cattolicesimo ha avuto tanto successo nel conquistare i migliori e più brillanti esponenti del mondo Riformato».

E’ una testimonianza che fa riflettere, quella del giovane teologo. Colpisce, in particolare, l’umiltà di essere coerenti: la storia del cristianesimo poggia sulle radici e sul tronco del cattolicesimo. Da lì, a causa di errori, fatali incomprensioni e umane invidie, sono nati dei rami “protestanti” che hanno preso strade tortuose ma che, come testimonia J. Luis Dizon, faticano a rendere ragione di se stessi e non possono censurare la loro origine, seppur ci provino.

Lo stesso giovane teologo, allarmato dalla conversione al cattolicesimo di alcuni suoi compagni di università, si era attivato “contro il cattolicesimo”:

«Avevo creato un gruppo di studio sull’apologetica della Riforma e ho pubblicato diversi articoli che rivendicano la teologia protestante dalle critiche cattoliche. Ho cercato di raccogliere le mie migliori risorse di apologetica in questo sforzo, e nonostante ciò, le conversioni continuarono a verificarsi e i dubbi dei miei colleghi non si attenuarono. Ho lanciato tutti i miei migliori argomenti sul ring e ho scoperto che venivano facilmente sconfitti. Per ogni obiezione al cattolicesimo che ho potuto raccogliere, c’era già una pronta risposta. Per ogni citazione scritturale o patristica che ho sollevato, l’esegesi cattolica si è mostrata costantemente superiore. Alla fine, sono arrivato ad accettare che il loro modo di leggere la Scrittura e la Storia della Chiesa era l’unico modo che rendeva giustizia al loro contesto generale. Così, attraverso una serie di scontri, crisi e conversioni, la mia catena di cavilli costruita con cura contro il cattolicesimo è crollata. Sebbene abbia resistito mentalmente all’idea per molto tempo, l’apologeta in me dice che dovrei seguire la verità ovunque essa porti. Ed in questo caso, riconduce proprio al punto in cui ho iniziato, nell’unica vera chiesa di Cristo».

Parole che rendono onore a questo giovane teologo, così onesto con se stesso e così coraggioso nell’ammettere i suoi fallimenti. Non vuole comunque rompere i rapporti con i suoi amici e colleghi protestanti, «dopo tutto, Lumen Gentium si riferisce a loro come “fratelli separati” e riconosce che possiedono “molti elementi di santificazione e di verità”. Non voglio minimizzare in alcun modo le verità che abbiamo in comune -come la morte e la risurrezione di Cristo, la Trinità, l’inerranza della Bibbia, e la realtà della condizione umana e il suo bisogno di grazia- che in molti modi supera di gran lunga le nostre differenze». Il messaggio che vuole dare ai suoi lettori è di «non dare per scontati i presupposti della fede, ma testarli per vedere se possono correttamente spiegare la natura della realtà così com’è. Ascoltate i dibattiti e le testimonianze dei convertiti. Spero e prego che voi tutti arriviate ad una decisione informata su ciò che è in realtà l’autentico cristianesimo storico e biblico. E con ciò, ho detto tutto ciò che devo dire al riguardo».

La redazione

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«Aiutiamoli a non emigrare». Il Papa ribadisce il suo pensiero, spesso frainteso

Bergoglio e migranti. Nel discorso ai delegati dell’Albania, Francesco ha invitato ad uno sviluppo autentico per evitare che i giovani scelgano l’emigrazione, togliendo al Paese forze e competenze. Nessun inno allo “sbarco massiccio” di migranti, come falsamente gli fa dire Antonio Socci.

 

Nella sua giornaliera esaltazione del sovranismo nazionalista e patriottico sulle colonne di Libero, Antonio Socci non si dimentica nemmeno una volta di deridere Papa Francesco. Pochi giorni fa ha collegato i risultati di un sondaggio che vedono la maggioranza degli italiani a favore delle istanze immigratorie della Lega con la «sconfitta dell’ideologia incarnata da Bergoglio e dalla sinistra».

Il Papa -chiamato solo per cognome per sottolineare la volontaria mancanza di rispetto alla sua autorità-, «in questi anni ha tuonato di continuo contro coloro che costruiscono muri», ha proseguito il giornalista. «Secondo lui dovremmo abbattere le frontiere e offrirci allo sbarco massiccio di migranti per avere un futuro radioso».

Ma questo non è il pensiero di Francesco, è la calunnia di un sedicente cattolico verso il Santo Padre. Certamente Papa Bergoglio è una voce instancabile dell’apertura cristiana, dell’evangelica accoglienza dello straniero. Così come lo era Giovanni Paolo II, quando ricordò ai paesi ricchi che «non possono disinteressarsi del problema migratorio e ancor meno chiudere le frontiere o inasprire le leggi». Sempre Wojtyla ricordava a «ciascuno, per quanto da lui dipende, eserciti l’accoglienza cristiana verso i rifugiati e i migranti». La voce della Chiesa, perciò è chiara, ed è normale che i suoi oppositori siano contrari.

Ma non è tutto. Francesco ha anche più volte ribadito che l’accoglienza ha un limite che si chiama “integrazione”. Spingendosi, addirittura, ad affermare: «Accogliere lo straniero è un principio morale. Ma non si tratta di accogliere “alla belle étoile”, no, ma un accogliere ragionevole. Prudenza dei popoli sul numero o sulle possibilità: un popolo che può accogliere ma non ha possibilità di integrare, meglio non accolga. Lì c’è il problema della prudenza». Se non si può integrare, meglio non accogliere.

Pochi giorni fa, in un passaggio del suo discorso rivolto ai delegati politici dell’Albania, lo ha ripetuto. Gli albanesi in Italia sono la seconda comunità straniera più presente, con quasi 500mila residenti, e la loro immigrazione è iniziata negli anni ’90. Francesco ha elogiato «le origini della civiltà» albanese, basate anche sui «valori spirituali e il nome cristiano». Ha ricordato che dopo «l’invasione dell’Albania, molti albanesi preferirono emigrare e numerosi si stabilirono in Italia».

Tuttavia, ha invitato i governanti albanesi ad impegnarsi «a favore di un autentico ed equilibrato sviluppo, in modo che le giovani generazioni non siano poste nella condizione di scegliere l’emigrazione, indebolendo il Paese di forze e di competenze indispensabili alla sua crescita umana e civile». Parlando dunque nella lingua del ministro Salvini, si potrebbe giornalisticamente sintetizzare con il “aiutatevi a casa vostra”. Nessun inno all’immigrazione selvaggia o allo “sbarco massiccio” di migranti per un “futuro radioso”, come gli fa falsamente dire Antonio Socci. Anzi, proprio l’opposto: emigrare toglie il roseo futuro a chi resta ed è un problema anche per il Paese d’origine.

Al di là dei sondaggi che piacciono ai “sovranisti italici”, è curioso osservare che nella metropoli di Milano una delle parrocchie più vive e in cui la Messa è più frequentata (e la domenica i posti sono solo in piedi) è gestita proprio seguendo l’invito all’accoglienza (ragionevole e prudente) di Papa Francesco. E’ quella di don Mario Garavaglia, parroco di Dergano (quartiere milanese), punto di riferimento anche di tanti stranieri e fedeli di altre religioni. Come le donne musulmane che prestano servizio come volontarie nel distribuire cibo ai poveri. La multietnicità è «il volto nuovo del nostro quartiere», ha raccontato don Mario e, volente o nolente, dell’Europa intera. Così la parrocchia diventa «una possibilità di incontro e di esperienza di una vita buona, come diceva il cardinale Scola. Bisogna rigenerare una fede che abbia un rapporto con la realtà, che non sia un’esperienza astratta. Per questo bisogna che i cristiani siano più aperti, più fedeli al dono della fede che hanno incontrato, all’esperienza dell’incontro con Gesù».

Ecco quindi una posizione diffamatoria (verso il Papa) e non cristiana, come quella di Socci, ed una perfettamente evangelica, quella di don Mario Garavaglia. Il quale ha colto nell’inarrestabile fenomeno immigratorio l’opportunità di una nuova evangelizzazione, accettando la realtà e trasformandola dal di dentro. Lo stesso fanno tanti altri sacerdoti e sono moltissimi gli immigrati convertitisi al cristianesimo. Alcuni per convenienza, tanti altri per l’incontro con una realtà accogliente e misteriosamente diversa. Cioè, cristiana.

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Khmer rossi, condannati ultimi leader. La sentenza: «volevano creare una società atea»

Condanna Khmer rossi. Nessuno riporta le parole della sentenza, in cui si legge che “volevano creare un società atea ed omogenea”. Lo stesso progetto di tutte le dittature del Novecento. Pol Pot era amico di Sartre e un ammiratore della Rivoluzione Francese.

 

Sorprende che l’organo di stampa del comunismo italiano, Il Manifesto, parli della condanna degli ultimi due leader dei Khmer rossi, seguaci militari del dittatore cambogiano Pol Pot e responsabili di uno dei maggiori stermini di massa della seconda metà del secolo scorso. La Corte straordinaria della Cambogia, infatti, ha condannato per genocidio Nuon Chea e Khieu Samphan.

Meno strano che nel riportare la notizia, invece, il giornalista comunista Emanuele Giordana eviti accuratamente di citare la parola comunismo. Come se i Khamer rossi fossero stati solo un po’ matti e non esecutori pratici dell’ideologia che anima lo stesso quotidiano rosso. Il New York Times, al contrario, fin dalle prime righe ha scritto: «Undici anni dopo il loro arresto, e dopo un lungo e costoso processo, sono stati condannati come membri sopravvissuti di una comunità comunista molto unita e ritenuti responsabili dell’uccisione di almeno 1,7 milioni dei loro connazionali dal 1975 al 1979».

Né il Manifesto, né il New York Times, tuttavia, riportano le parole esatte della sentenza che li ha condannati: i Khmer Rossi, si legge, «volevano stabilire una società atea e omogenea, sopprimendo tutte le differenze etniche, religiose, razziali, di classe e culturali». I due condannati hanno negato le atrocità commesse, ma i giudici cambogiani hanno denunciato il piano di Pol Pot di voler estirpare «i vietnamiti fino all’ultimo seme», come pure l’etnia Cham. Secondo le testimonianze emerse al processo, fra 100mila e 500mila Cham (un’etnia musulmana) sono stati uccisi con massacri collettivi, roghi di libri di preghiere, decapitazioni, stupri, matrimoni forzati e cannibalismo.

Dunque, nero su bianco, è scritto: “volevano creare una società atea e omogenea senza divisioni di classe”. Ma non fu lo stesso identico progetto tentato nel Novecento da tutte le grandi dittature? Quel secolo senza Dio, come è stato ribattezzato? Da quella cinese a quella sovietica, da quella jugoslava a quella nordcoreana? Molti non sanno che il dittatore Pol Pot era un grande amico di Jean-Paul Sartre, fu un ammiratore della Rivoluzione francese ed entrò presto in contatto con gli ideali marxisti dei rivoluzionari parigini. Nel 1951, vent’anni prima di dare avvio al genocidio nel suo paese, Pol Pot si unì al Partito Comunista Francese.

Il quotidiano comunista francese, Liberation, ha cercato di minimizzare l’influenza parigina sui futuri sterminatori. Ha dato la parola a Henri Locard, uno storico specializzato sulla Cambogia: «Questi studenti non sono stati introdotti al marxismo in Francia, erano già politicizzati lasciando la Cambogia». Locard ha comunque ammesso: «Si unirono al Partito Comunista francese, spesso sotto altri nomi per cercare di contrastare i servizi di intelligence francesi. I cambogiani vennero influenzati molto dalla storia della Rivoluzione francese, il loro più grande eroe fu Robespierre. Presto, l’idea che lo scopo della loro nobile lotta potesse tollerare l’esecuzione degli esseri umani divenne un’ovvietà». Il fratello del dittatore Pol Pot, Saloth Neap, il giorno della sua morte, aveva invece precisato: «E’ in Francia che è cambiato». Così, i leader dei Khamer rossi appresero le loro idee sulla “società atea” proprio nella Parigi illuminista, culla della democrazia e dei “nostri valori” secondo alcuni odierni intellettuali. Oggi tutti esultano per la loro condanna, senza però raccontare la verità. E senza nemmeno leggere la sentenza di condanna.

La redazione

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Presepe a scuola, perfino l’Imam e i Cirinnà lo difendono: ora basta scuse

Presepe nelle scuole e laicità. Dopo il caso di Terni e di Roma, sia un rappresentante del mondo islamico che il sindaco Esterino Montino (compagno della Cirinnà) prendono posizione contro chi toglie i simboli cristiani nelle scuole. Non discriminano nessuno, lo dicono loro.
 

Puntualissimi. Ad un mese di distanza dal Natale, ecco che inizia la giostra dei dirigenti scolastici allergici alla cristianità che vietano presepi, recite e canzoni natalizie. Il motivo? Si preoccupano, in anticipo, di evitare la discriminazione di persone di fede islamica.

A dirla tutta, le uniche notizie arrivate in questo senso provengono da una scuola primaria di Terni, dopo la segnalazione dell’assessore comunale alla Scuola, Valeria Alessandrini (Lega). La polemica è divampata a livello nazionale grazie anche all’intervento del ministro degli Interni, Matteo Salvini, in difesa della “tradizione”. La preside dell’istituto però ha definito “insussistente” il fatto, spiegando che «l’idea di realizzare un presepe vivente era solo un’ipotesi, neanche formulata più di tanto. In tutte le scuole della nostra direzione vengono fatti presepi e canti natalizi, dunque il rispetto è totale per tutte le sensibilità, anche religiose. Ma senza superare certi limiti e seguendo le regole base imposte dal principio di laicità».

Caso chiuso, dunque. Anzi, no. Perché il polverone alzato dalla Lega è stato comunque utile, sia come deterrente per dirigenti scolastici che invece hanno realmente una mezza idea di censurare la propria tradizione culturale-religiosa in nome di un insana idea laicista, sia perché ha permesso l’intervento dell’imam locale. Mimoun El Hachmi, rappresentante della comunità musulmana di Terni, ha spiegato: «Non siamo noi a volere cambiare la cultura del Paese che ci ospita, siamo qui per rispettarla. C’è chi sta cavalcando la polemica a nome nostro. Per la nostra Comunità lo scambio è una ricchezza, siamo tutti fratelli. Diciamo ‘no’ all’integralismo islamico così come a quelli di altro genere. Per cui trovo giusto che a scuola si possa fare anche un presepe vivente, Dio è nel cuore e non nelle parole». Un’apertura importante da parte del mondo islamico, un dialogo positivo beneficiato dal rispetto rivolto al mondo musulmano da parte degli ultimi tre pontefici.

Gli islamici, dunque, non si sentono affatto discriminati dalla presenza dei simboli cristiani nelle scuole. E tanto meno i “laici”, almeno così si intende l’intervento del sindaco di Fiumicino Esterino Montino, marito/compagno della laicissima Monica Cirinnà. Il senatore leghista William De Vecchi ha infatti denunciato il caso accaduto in una scuola elementare romana, dove si sarebbe eliminato il crocifisso sempre in nome del rispetto dei musulmani. #VivailNatale ha twittato, ancora una volta, il ministro Salvini. Dell’episodio si è interessato anche Montino, dichiarando: «Ero totalmente all’oscuro. Stiamo approfondendo per venirne a capo. Mi auguro che nessuno abbia preso iniziative di questa natura autonomamente e senza confrontarsi con il dirigente scolastico».

Così, sia un autorevole rappresentante del mondo islamico, sia un rappresentante dell’area laicista hanno manifestato la medesima posizione nel giro di poche ore. La presenza del Presepe o del crocifisso non discriminano le loro idee e le loro convinzioni. Basta scuse, perciò. Si eviti di parlare “a nome” del mondo islamico o dei laici, perché evidentemente chi intende sradicare la cultura cristiana non rappresenta nessuno e non lo fa per “evitare di discriminare” ma semplicemente in nome della sua personale intolleranza a simboli che, come scrisse l’atea Natalia Ginzburg, sono «l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea di uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente. La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo».

La redazione

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Il fisico Lee Smolin: «gli universi paralleli? Su, basta fantasticare»

Lee Smolin, il tempo e la teoria del Multiverso. Il celebre fisico statunitense rifiuta categoricamente la tesi degli universi paralleli e negli ultimi anni ha sostituito la sua nota avversione alla trascendenza con una visione più possibilista.

 

“Su, ragazzi. Basta scherzare, è ora di tornare con i piedi per terra”. Potrebbe essere questa l’estrema sintesi dell’ultimo libro del celebre fisico teorico Lee Smolin, intitolato “The Singular Universe and the Reality of Time: A Proposal in Natural Philosophy (Cambridge University Press 2014). D’altra parte il “tornare con i piedi a terra” è anche il titolo di un suo articolo abbastanza famoso.

Smolin non ha bisogno di presentazioni, membro del Perimeter Institute for Theoretical Physics e docente presso l’Università di Waterloo e di Toronto, è noto per i suoi importanti contributi alla meccanica quantistica. La tematica affrontata è quella riguardante il Multiverso, la tesi secondo la quale il nostro universo sarebbe soltanto uno degli infiniti altri (10500 universi, per la “precisione”). Un’ipotesi che molti respingono in quanto inverificabile e priva di fondamenti scientifici. Tra essi proprio Smolin: «La scienza viene danneggiata quando si abbandona la disciplina di validazione empirica», ha scritto. Per questo, se vogliamo restare nel campo scientifico, «abbiamo ragione di credere nell’esistenza di un solo universo, l’universo in cui ci troviamo. Nulla è stato scoperto fino a oggi che giustifica la convinzione che esso sia solo uno dei tanti. La moltiplicazione degli universi nella cosmologia contemporanea è il risultato di un tentativo di convertire un fallimento in un successo per quanto riguarda la spiegazione del cosmo».

L’astrofisico Adam Frank, a sua volta, in un articolo del 2015 sul New York Times ha confermato che la fisica moderna è in crisi per l’incapacità di spiegare l’origine dell’universo, concordando che la teoria del Multiverso «si trova al di là delle nostre capacità di osservazione e non potrà mai essere direttamente indagata».

La questione rimane comunque aperta ed affascinante, sopratutto perché l’argomento degli universi paralleli è frequentemente utilizzato da chi prova turbamento verso l’unicità del nostro universo ma anche per il cosiddetto fine-tuning: le leggi fisiche che hanno permesso l’emergere della vita intelligente sembrano essere perfettamente calibrate per questo obiettivo, come se ci fosse alla loro origine una mente cosiente. Proprio su questo sito web, il prof. Paolo Di Sia, docente di Matematica presso l’Università di Verona, ha spiegato che «il multiverso è stato anche definito “l’ultimo dio dell’ateo” e utilizzato da atei e materialisti come un modo per evitare argomenti che potrebbero essere presi a favore dell’esistenza di Dio, come l’inizio dell’universo, il “cosmological argument”, il “fine tuning argument”», osservando comunque a sua volta che «tutte le prove attualmente disponibili sembrano condurre al fatto che l’universo abbia avuto un inizio».

Il Multiverso, nonostante ciò che ripetono molti sostenitori anti-teisti, non è affatto incompatibile con una spiegazione teleologica dell’origine del cosmo. Smolin, in ogni caso,  non è certo un credente. O, meglio, non lo era fino al 2006. Tutti conoscono (e citano) la celebre conclusione del suo libro più famoso, datato 1997: «Dunque non c’è mai stato un Dio, non c’è mai stato nessun pilota che ha fatto il mondo imponendo un ordine al caos e rimanendo poi al di fuori ad osservare e a prescrivere» (L. Smolin, La vita del cosmo, Einaudi 1998, p. 382).

Pochi, tuttavia, sanno che nel suo L’Universo senza stringhe, ha sostituito questa visione disincantata e pessimista con una decisamente più aperta e possibilista: «Che esista o meno Dio, la nostra ricerca del divino ha qualcosa di nobilitante», ha scritto. «E anche qualcosa che rende più umani, che si esprime in ognuna delle strade scoperte per raggiungere un livello più profondo di verità. Alcuni cercano la trascendenza nella meditazione e nella preghiera, altri ancora […] nella pratica di un’arte. Un altro modo di dedicarsi a questioni più profonde della vita è la scienza» (L. Smolin, L’Universo senza stringhe, Einaudi 2007, p. IX).

La redazione

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