Scoperto l’anello di Ponzio Pilato, un’altra prova della storicità del prefetto dei Vangeli

L’anello di Ponzio Pilato e i Vangeli. L’importante scoperta è stata realizzata nel sito archeologico di Herodion, vicino a Gerusalemme, diversi anni fa. Ma oggi è stata decifrata la scritta su un anello di bronzo. Un’altra conferma dell’esistenza storica di quel noto personaggio dei Vangeli.

 

Il nome “Pilato” è stato decifrato su un anello di bronzo ritrovato cinquant’anni fa in scavi effettuati nel complesso archeologico dell’Herodion, vicino Betlemme in Cisgiordania. La notizia è stata data dal giornale israeliano Haaretz e si tratta della seconda scoperta archeologica legata al prefetto romano. Dopo un’opportuna pulizia, le immagini fotografiche hanno rilevato l’effigie di un un vaso di vino sovrastata da una scritta in greco, che è stata appunto tradotto con il nome Pilato. L’oggetto, quasi sicuramente un sigillo, è di fattura semplice e ciò induce a pensare che il funzionario romano lo portasse tutti i giorni e non soltanto in eventi speciali.

Il collegamento con quel personaggio, così centrale nella fine della vita terrena di Gesù, è stato immediato. «Quel nome era raro nell’Israele di quei tempi. Non conosco nessun altro Pilato di quel periodo e l’anello mostra che era una persona di rango e benestante», ha affermato il prof. Danny Schwartz, responsabile della scoperta. Il sito archeologico in cui è stata effettuata la scoperta è lo stesso in cui nel 2015 è stato trovato il palazzo di Erode, dove avvenne anche il processo di Gesù guidato da Ponzio Pilato.

Pilato condannò Gesù di Nazareth alla morte in croce e la sua esistenza storica è dimostrata senza alcun ragionevole dubbio dalla convergenza di numerose testimonianze indipendenti. «La testimonianza convergente dei quattro vangeli, degli Atti degli Apostoli, di Flavio Giuseppe, di Filone, di Tacito e dell’iscrizione di Cesarea Marittima», ha infatti scritto il biblista J.P. Meier, «rendono almeno moralmente, se non scientificamente, certo che Ponzio Pilato fosse il governatore romano della Giudea negli anni 28-30 d.C.» (Un ebreo Marginale, vol 1, Queriniana 2006, p. 158).

Meier cita giustamente anche l’iscrizione di Cesarea Marittima, ovvero una sensazione scoperta del 1961 in cui per la prima volta è comparso il nome di Ponzio Pilato, abbinato al titolo di Praefectus Iudaeae. In quell’occasione si accertò che lo storico romano Tacito commise un errore in quanto definì Pilato come “procuratore” mentre i Vangeli si riferiscono a lui come il termine greco di heghemon, che era la designazione generica per gli incaricati imperiali e quindi valeva allo stesso modo sia per procuratore che per prefetto. Più storicamente attendibili gli evangelisti di Tacito?

Se dunque l’esistenza storica di Ponzio Pilato non è più messa in discussione da nessuno, diversi studiosi contestano la storicità del ritratto che di lui emerge nei Vangeli, ovvero desideroso di rilasciare Gesù ma infine acquiescente nei riguardi delle richieste dell’élite più influente di Gerusalemme, cioè i sommi sacerdoti. Molti suppongono che gli evangelisti abbiano deformato la storia per interessi apologetici, cioè per presentare i primi cristiani “dalla parte di Roma”. Ma due eminenti studiosi come Craig A. Evans e NT Wright hanno respinto tale accusa mostrando in modo convincente che «se consideriamo il contesto politico e sociale della Palestina al tempo di Pilato, non dovrebbe affatto sorprenderci che quest’ultimo fosse riluttante a mettere a morte un profeta popolare proveniente dalla Galilea e i cui seguaci erano presenti in gran numero a Gerusalemme. Inchiodare Gesù ad una croce avrebbe potuto a tutti gli effetti aizzare una sommossa: cosa che Pilato sperava di evitare. Se Gesù non aveva fini militari, allora era poco più di uno scocciatore. Una sferzata e un po’ di prigione sarebbero stati sufficienti. Eppure no: i capi dei sacerdoti lo volevano morto. Pilato si sentì costretto a far loro il favore, ma solo dopo che fosse stato posto in chiaro che la decisione di ucciderlo non sarebbe stata sua» (Gli ultimi giorni di Gesù, San Paolo 2010, p. 33).

“Poco più di uno scocciatore”, pensava Pilato a proposito di Gesù. Talmente “scocciatore” che il nome di quel remoto prefetto romano è impresso in modo indelebile nella storia umana e oggi, oltre 2000 anni dopo, la notizia del ritrovamento di un anello con il suo nome è diventata d’interesse per milioni di persone in pochissimo tempo. Tutto grazie a quello “scocciatore”, che ha sconvolto l’esistenza dell’umanità anche in seguito a quella terribile decisione di Ponzio Pilato.

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L’amicizia discreta tra Michael Schumacher e mons. Georg Ganswein

Schumacher e padre Georg. Il vescovo ha visitato il leggendario pilota, rimasto vittima di un grave incidente. Il racconto del prefetto della Casa pontificia sulle condizioni di salute di Schumacher e quell’amicizia discreta e accompagnatrice che simboleggia il senso della Chiesa tra gli uomini.

 

Uno non ha bisogno di presentazioni, Michael Schumacher è forse il miglior pilota di Formula 1 della storia ed il suo nome è indiscutibilmente legato alla Ferrari. L’altro è mons. Georg Ganswein, arcivescovo tedesco e prefetto della Casa pontificia, nonché segretario personale di Benedetto XVI.

Cos’hanno a che vedere l’uno con l’altro? Molto, e lo sappiamo solo da qualche ora. Schumacher, si sa, nel 2013 ha subito un incidente sciistico sulle Alpi francesi che lo ha tenuto in coma farmacologico per diversi mesi. Le sue attuali condizioni di salute sono un mistero in quanto la famiglia, comprensibilmente, ha costruito una fortezza attorno alla villa del pilota garantendogli una privacy totale.

A parte i medici che lo hanno in cura, soltanto pochissime persone possono accedere alla stanza in cui Schumacher è ricoverato, nella sua casa in Svizzera. Una di queste è stata proprio padre Georg. In una recente intervista ha infatti rivelato, per ragioni ancora sconosciute, di aver visitato l’ex campione nell’estate del 2016: «Mi sono seduto di fronte a lui, gli ho preso le mani e l’ho guardato in faccia, quell’espressione che tutti conosciamo che è tipica di Michael Schumacher. Lui percepisce che attorno vi sono persone che lo amano, che si prendono cura di lui e, grazie a Dio, tengono lontano il pubblico curioso. Una persona malata ha bisogno di avere discrezione e comprensione».

Un antecedente significativo risale all’estate 2017 quando lo stesso arcivescovo Gänswein organizzò per la moglie Corinne e i due figli un’udienza privata con Papa Francesco, in Vaticano. Nella recente intervista ha comunque rivelato di aver mantenuto stretti contatti con la famiglia e che lo stato di salute di Michael continua a preoccuparlo. «Ricordo Michael Schumacher e la sua famiglia nelle mie preghiere», ha spiegato.

Un’amicizia discreta tra una leggenda dello sport, un dio per migliaia di tifosi, un miliardario ricoperto di fama e gloria ma costretto all’infermità dal destino della vita, ed un umile vescovo, che entra nella sua stanza e gli tiene le mani nel silenzio e nel nascondimento. E’ quel che fanno ogni giorno centinaia di sacerdoti, in qualunque parte del mondo. E’ una buona immagine simbolica della presenza della Chiesa nella storia, il cui significato si potrebbe sintetizzare con questa frase: sostenere la speranza degli uomini.

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Hong Kong e Taiwan difendono il matrimonio: oltre 7 milioni contro le nozze gay

Nozze gay nel mondo. Nel continente asiatico si rafforza la famiglia naturale grazie al referendum di Taiwan e ai parlamentari di Hong Kong che quasi contemporaneamente hanno respinto le istanze Lgbt.

 

Nel silenzio di gran parte dei media occidentali, il Parlamento di Hong Kong ha respinto con 27 voti contrari e 24 astenuti una mozione che esortava il governo ad equiparare giuridicamente l’istituzione del matrimonio con le unioni omosessuali. In contemporanea, a 715 km di distanza, il popolo di Taiwan ha votato compatto a favore di un referendum in cui si sottoscriveva che il matrimonio è esclusivamente l’unione tra un uomo e una donna.

Nella regione cinese (Hong Kong possiede un’autonomia politica rispetto al resto della Cina), la mozione è stata promossa dal deputato omosessuale Raymond Chan, che ha chiesto di «studiare la formulazione di politiche in modo che le coppie omosessuali possano formare un’unione così da godere degli stessi diritti delle coppie eterosessuali». Ad Hong Kong, l’omosessualità è stata fortunatamente depenalizzata dal 1991, mentre continua ad essere un reato nel resto della Cina. Tuttavia, il matrimonio resterà ciò per cui è stato previsto nella sua originaria istituzione: l’unione naturale tra l’uomo e la donna.

A Taiwan, invece, sabato 24 novembre si è tenuto un importante referendum sulla definizione del matrimonio. Secondo i dati offerti dal Consiglio elettorale centrale dell’isola, 7,39 milioni di cittadini (contro 2,79) si sono schierati a favore dell’oggettività, affermando che il matrimonio è un istituto esclusivamente ideato e concepito per assicurare stabilità alla famiglia naturale. Si sono dimostrati invece favorevoli alle unioni civili.

Anche nel continente asiatico, estraneo alla cultura cristiana, stanno nascendo spontaneamente numerose associazioni di cittadini per la difesa della famiglia, come la Happiness of the Next Generation Alliance di Taiwan, che ha contribuito all’affossamento delle nozze gay e ha raccolto le firme necessarie per porre la questione ai cittadini tramite referendum. In esso comparivano diverse domande: se le scuole primarie e secondarie avrebbero dovuto includere l’educazione gender e se il codice civile dovrebbe dovuto autorizzare soltanto il matrimonio tra persone del sesso diverso. Le associazioni Lgbt hanno inserito altri quesiti, piuttosto ridondanti: se il codice civile avrebbe dovuto proteggere il diritto al matrimonio delle coppie omosessuali e se la legge sull’istruzione sulla parità di genere avrebbe dovuto richiedere tematiche come l’omosessualità e l’educazione sessuale nelle scuole.

Al referendum hanno votato oltre 10 milioni di persone e i risultati sono stati questi:
1) La creazione di unioni civili per gli omosessuali, diverse dal matrimonio: 6,2 milioni a favore e 3,9 milioni contro.
2) Rifiuto dell’inclusione dell’educazione gender nelle materie di parità di genere: 6,8 milioni a favore, 3,2 milioni contro.
3) Il matrimonio dev’essere consentito solo a coppie di sesso diverso: 7,3 milioni a favore, 2,7 milioni contro.
 

Nel 2017 la Corte costituzionale di Taiwan aveva dichiarato legittime le unioni gay, ma il Parlamento prima di legiferare ha preferito ascoltare la voce del popolo. Il quale ha risposto compatto e ora la politica difficilmente andrà contro il volere dei cittadini, sopratutto dopo che è stato espresso in modo così chiaro. Ha funzionato l’amicizia e alleanza tra cristiani e buddisti, sostenuti da esponenti autorevoli della Chiesa cattolica, come l’arcivescovo John Hung Shan-chuan e mons. Sladan Cosic, diplomatico del Vaticano a Taipei dal 2016.

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Dna umano modificato, la condanna del mondo scientifico: «il progresso ha un limite»

I primi esseri umani nati con Dna modificato, ma la dura reazione della comunità scientifica è stata tempestiva. Non tutto ciò che è tecnicamente possibile è lecito, il “vietato vietare” non vale più. Non era scontato.

 

Ci ha colpito molto la durissima e tempestiva presa di posizione del mondo scientifico riguardo alla presunta nascita, in Cina, di due gemelle il cui Dna è stato modificato per renderli resistenti al virus dell’Aids. Questo perché secondo un certo tipo di bioetica tecno-scientista, tutto ciò che è tecnicamente possibile, per il solo fatto che è possibile, è anche lecito. O, per meglio dire, “vietato vietare”.

Ed invece no. Innanzitutto ci sono molti dubbi sul fatto che sia accaduto davvero: lo ha annunciato su Youtube il dottor He Jiankui, dell’Università di Scienza e Tecnologia del Sud, a Shenzhen, in Cina. L’Università ha subito avviato un’indagine interna in quanto era completamente all’oscuro del grave evento. Il biologo ha comunque affermato di aver alterato il Dna delle due nasciture , in una procedura di fecondazione in vitro, «quando erano ancora un’unica cellula, con un potente nuovo strumento capace di riscrivere il codice genetico della vita». Lo scopo non sarebbe stato quello di curare o prevenire malattie ereditarie, ma cercare di impiantare la capacità di resistere a possibili infezioni da Hiv, il virus dell’Aids.

La comunità scientifica non ha affatto accolto positivamente questo “progresso” etico. Il biologo e premio nobel David Baltimore ha subito registrato un video, affermando: «L’intervento diretto sul Dna di un embrione – e quindi anche sulla sua discendenza futura – è il superamento di una linea rossa che molti paventavano». E’ stato lo stesso Baltimore, nel 2015, a promuovere tra i colleghi una moratoria sull’uso del sistema CRISPR/Cas9 negli embrioni umani, capace di realizzare un editing genetico. Uno strumento usato frequentemente negli animali di laboratorio, ma non sull’uomo.

«Qui stiamo parlando di eugenetica», ha sottolineato Giuseppe Novelli, genetista e rettore dell’Università di Tor Vergata. Il direttore dell’Istituto clinico Humanitas e docente alla Humanitas University, l’immunologo Alberto Mantovani, si è invece definito «profondamente preoccupato, per non dire scandalizzato. Se davvero quanto scritto è stato fatto, lo considero contrario all’etica della Medicina e al giuramento di Ippocrate. Mi auguro dunque che le autorità sanitarie ed accademiche cinesi prendano adeguati provvedimenti. Mi preoccupa molto che quanto accaduto dia l’errato segnale che è possibile varcare quella linea rossa che la comunità scientifica si è data rispetto alle modificazioni genetiche di cellule umane embrionali».

Più di cento scienziati cinesi hanno condannato l’esperimento come «folle», ha riferito il Global Times di Pechino. Joyce Harper, professore di embriologia all’University College di Londra, ha condiviso: «Se è vero è mostruoso». «Inconcepibile, un esperimento su esseri umani non è eticamente difendibile», per il dottor Kiran Musunuru, genetista alla University of Pennsylvania. «Il vaso di Pandora è stato aperto», ha scritto un altro gruppo di scienziati. «Possiamo ancora avere un briciolo di speranza di chiuderlo prima che sia troppo tardi». Il miglior commento è forse stato quello della neuropsichiatra Paola Binetti: «La manipolazione del Dna era, fino a ieri, un terreno vergine, da cui ci si era tenuti lontano per rispetto dell’uomo e della sua dignità. L’utopia di voler creare in laboratorio il bambino perfetto, da cui sono state rimosse tutte le potenziali cause di malattia è di per sé una follia di stampo eugenetico».

«Speriamo che la comunità scientifica sappia condannare “senza se e senza ma” la ricerca scientifica che usa gli esseri umani come cavie», si è infine augurata Assuntina Morresi, docente di Chimica Fisica all’Università di Perugia. Almeno in questo caso, la condanna c’è stata, evidenziando che il progresso ha ancora un limite: la dignità ed il rispetto della vita umana. Non è affatto scontato in tempi bui di riduzionismo scientista.

 

AGGIORNAMENTO 23/01/19
La Southern University of Science and Technology di Shenzhen ha reso noto di aver licenziato He Jiankui.

 
La redazione

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«No a missione verso gli ebrei»: Ratzinger corregge don Tullio Rotondo

Benedetto XVI e la conversione degli ebrei. Ratzinger interviene per precisare l’errore commesso da un teologo tedesco nel riportare il suo pensiero ma, così facendo, smentisce anche don Tullio Rotondo, un prete-blogger, collaboratore de La Nuova Bussola Quotidiana e una celebrità nel mondo antipapista.

 

«La “Nostra Aetate” non ha mai detto che non dobbiamo fare una missione verso gli ebrei, né mai alcun documento magisteriale ha potuto affermare una tale assurdità!». A scriverlo è don Tullio Rotondo, parroco del paesino di Gallo Matese (Molise), 533 abitanti, che da tempo ha ingaggiato su Facebook una lotta senza esclusione di colpi contro Papa Francesco.

Don Tullio, collaboratore de La Nuova Bussola Quotidiana, se l’era presa con l’Osservatore Romano ed in particolare con il cardinale “modernista” Walter Kasper, tuttavia quella che ha definito “assurdità” è stata ribadita pochi giorni fa da Benedetto XVI (grande amico di Kasper, oltretutto). Con una insolita durezza, il Papa emerito ha voluto precisare il suo pensiero sulla relazione tra cattolici ed ebrei, malamente travisato dal teologo tedesco Michael Böhnke. Sono «stupidaggini grottesche e non hanno nulla a che vedere con quanto ho detto in merito», ha scritto Ratzinger, «il mandato della missione è universale – con un’eccezione: la missione agli ebrei non era prevista e non era necessaria semplicemente perché solo loro, tra tutti i popoli, conoscevano il “Dio sconosciuto”». Così, verso Israele, non vale la missione ma il dialogo sulla comprensione di Gesù di Nazareth, ossia se egli è «il Figlio di Dio, il Logos», atteso. Riprendere questo dialogo è «il compito che ci pone l’ora presente». Ebraismo e cristianesimo sono «due modi di interpretare le Scritture».

La questione è piuttosto chiara e ricalca il Documento pubblicato nel 2015 dalla Commissione della Santa Sede per i rapporti religiosi con l’ebraismo, dove si esplicita che «i cristiani sono chiamati a rendere testimonianza della loro fede in Gesù Cristo anche davanti agli ebrei», ma occorre «comprendere l’evangelizzazione rivolta agli ebrei, che credono nell’unico Dio, in maniera diversa rispetto a quella diretta a coloro che appartengono ad altre religioni o hanno altre visioni del mondo. Ciò significa concretamente che la Chiesa cattolica non conduce né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli ebrei».

Ma don Tullio Rotondo, grande sostenitore dell’ex nunzio Viganò e proclamatore delle dimissioni di Papa Francesco, non ne vuole sapere di lasciarsi «catturare dalle idee ebraiche», ricordando che tanti cristiani sono stati «uccisi da persone di religione ebraica», a partire da «nostro Signore Gesù». Così, nel suo sermone infuocato, il prete tradizionalista aveva invitato alla missione verso Israele perché «se gli ebrei pregassero di più Dio e si informassero meglio capirebbero» che hanno torto. «Noi dobbiamo utilizzare i metodi santi che Cristo ci ha insegnato e non i metodi diabolici hitleriani o simili. Ci può essere una missione verso gli ebrei? Rispondiamo: evidentissimamente si, essa ce l’ha e ce l’avrà sempre. Perciò gli ebrei si mettano in pace e pensino piuttosto ad aprire il cuore a Gesù Cristo!!».

Se Benedetto XVI oggi ricorda che Cristo ha inviato i suoi discepoli in missione presso tutti i popoli e tutte le culture, ad eccezione degli ebrei, il prete anti-Bergoglio è convinto che «la Chiesa è in perpetuo stato di missione anche verso gli ebrei: questo è un dato teologico che è radicalmente inconfutabile! Gesù ci ha mandato anzitutto a convertire gli ebrei, mai li ha ritenuti esenti dalla missione della Chiesa. Cristo è morto per convertire anche e prima di tutto coloro che professano la religione ebraica!». Don Tullio tiene anche a puntualizzare che «gli ebrei non hanno né la fede né la carità, loro hanno bestemmiato il nostro Dio!».

Se Benedetto XVI sostituisce la missione verso gli ebrei con il dialogo, don Rotondo predica che «il dialogo non può continuare. Il dialogo che la Chiesa cattolica instaura con le religioni è parte della missione della Chiesa verso tutti gli uomini (compresi gli ebrei)». Chi afferma cose «contrarie alla missione dei cristiani verso gli ebrei è fuori strada e le sue affermazioni sono radicalmente assurde». Non ci si deve permettere di «diffondere le tenebre nelle coscienze della gente, è più che mai necessario riportare la luce dalla Verità nel mondo e anche nella Chiesa militante». Il sermone del prete mediatico prosegue con un copia ed incolla da altri siti web (basta una ricerca con Google), facilmente riconoscibile dai toni pacati.

E’ evidente come il sacerdote tradizionalista che predica la confusione e l’ambiguità di Papa Francesco sta generando confusione e ambiguità proclamando un magistero alternativo e diametralmente opposto a quello della Chiesa cattolica. Non è semplicemente una grave responsabilità di un prete di un piccolo paese di campagna, perché don Tullio Rotondo è una celebrità nel network dei blogger che contrastano ogni azione dell’attuale pontefice: è stato chiamato da Riccardo Cascioli come affidabile “voce della Chiesa” ad “orientare i cattolici” per La Nuova Bussola Quotidiana e i suoi sermoni sono divulgati da Marco Tosatti. Tra titoli urlati, invocazioni a “stritolare Satana”, ammonimenti agli errori bergogliani, predicazioni su Youtube e selfie sull’altare mentre celebra la Messa tridentina, don Tullio Rotondo è seguito da centinaia di persone (e, cosa molto meno importante, ritiene UCCR un sito web gestito direttamente da Satana).

La solitudine dei nostri sacerdoti è un tema che andrebbe messo a tema da parte delle Conferenze Episcopali, sopratutto il preoccupante fenomeno dei preti mediatici che trovano nei social network la loro valvola di sfogo. Conosciamo bene i preti “progressisti” che combatterono aspramente Benedetto XVI dai loro blog, come don Giorgio De Capitani, don Paolo Farinella, don Aldo Antonelli, don Franco Barbero. Anche Papa Francesco ha i suoi nemici tra i preti-blogger, legati questa volta all’eresia del “tradizionalismo”: don Curzio Nitoglia, don Minutella (recentemente scomunicato), don Ariel Levi di Gualdo e i vari esponenti della Fraternità San Pio X. Un’eccezione in mezzo a tantissimi buoni pastori, ma un grosso problema a causa della visibilità loro donata dal web.

La redazione

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Kurt Gödel, il matematico cristiano amato da Odifreddi

Odifreddi e Gödel. Il celebre matematico austriaco si definiva teista cristiano e si oppose allo scientismo novecentesco, lo stesso che invece anima Piergiorgio Odifreddi e che lo spinge a denigrare il cristianesimo in nome della scienza. Tuttavia l’ammirazione per Gödel è smisurata: «il protagonista della mia carriera accademica». Odifreddure del destino!

 

Era dall’aprile 2018 che Piergiorgio Odifreddi aveva fatto perdere le sue tracce dopo che il direttore di Repubblica, Mario Calabresi, aveva chiuso il suo blog sul “non senso”: il matematico si era preso gioco del fondatore, Eugenio Scalfari, per aver inventato un altro colloquio con Papa Francesco smentito, per l’ennesima volta, dalla Santa Sede.

Il matematico più ateo d’Italia ha così interrotto la collaborazione con il quotidiano sul quale scriveva da 18 anni e ha trovato spazio su Il Fatto Quotidiano, dove però si cimenta saltuariamente in pedanti articoli divulgativi che non ricordano nemmeno lontanamente le sue goliardie antireligiose che caratterizzano il suo simpatico personaggio.

In una recente intervista però è tornato con qualche odifreddura: se l’è presa, infatti, con la cattolicità di Salvini, Conte e Di Maio, lamentandosi del fatto che «in Italia non c’è mai stata una classe politica al potere che fosse atea». Effettivamente non abbiamo avuto la fortuna di vantare nemmeno un Lenin, un Tito, un Pol Pot, un Mao o un Ceausescu. Solamente statisti cattolici del calibro di La Pira, Alcide De Gasperi ed Aldo Moro. Già, che peccato!

Più sorprendente, invece, la santificazione da parte del matematico impertinenteKurt Gödel (1906-1978), al quale ha dedicato un saggio: lo ha paragonato ad Aristotele, lo ha definito «uno dei più grandi pensatori della storia umana ed è stato al centro della quasi totalità della mia carriera accademica». Ma come, proprio Odifreddi? Lui, che è convito che i cristiani siano “cretini” e che «per uno scienziato essere credenti è innaturale»?

Eppure, l’austriaco matematico e logico Gödel tentò una prova ontologica dell’esistenza di Dio dopo aver studiato le opere di Leibniz, sostenendo -sinteticamente- che, se Dio è possibile, allora esiste necessariamente ed essendo Dio possibile, allora necessariamente esiste. Odifreddi lo ritiene un mero “gioco di logica”, per l’appunto, e ha ragione. Nessuno si è mai realmente persuaso grazie a tali “prove logiche”, sforzi intellettuali che prescindono da una fede personale. Ma non fu il caso di Gödel.

Innanzitutto, il più grande logico-matematico del ventesimo secolo fu proprio colui che, tramite il suo teorema, ha mostrato che non tutto ciò che è vero è allo stesso tempo provabile, che ci sarà sempre un numero infinito di affermazioni vere indimostrabili. Dunque “la scienza”, quando si trasforma in “scientismo” e “positivismo”, cade in errore. Non è un caso che Gödel, fuggito da Vienna in direzione di Princeton, divenne amico di Albert Einstein e condivise con lui l’avversione al positivismo ed uno spirito fondamentalmente metafisico.

Il concetto chiave sotteso al teorema di Gödel è che «un sistema non può spiegare se stesso se non riferendosi a qualcosa di esterno ad esso» (I. e G. Bogdanov, I cacciatori di numeri, Piemme 2012, pp. 173-183). Ciò indica che lo stesso Universo, un sistema coerente governato da leggi, che Gödel considera finito nel tempo e nello spazio, può essere spiegato soltanto facendo riferimento a qualcosa al di fuori. La questione diventa così inevitabilmente metafisica ed infatti, in un questionario sottopostogli nel 1975, Gödel scrive: «Religione: Battista Luterano, ma senza appartenere ad alcuna congregazione. Il mio credo è teista non panteista, nel solco di Leibnitz più che di Spinoza» (F. Agnoli, Filosofia, religione e politica in Albert Einstein, EDS 2015, p. 141).

Di madre luterana e padre cattolico, Gödel sposò una ballerina cattolica, Adele, che gli starà al fianco tutta la vita. Si interrogò più volte su Dio, leggeva la Bibbia e nei suoi taccuini ancora oggi si rilevano domande sulla dottrina cattolica. Nei I demoni di Gödel (Mondadori 2008), Pierre Cassou-Noguès cita i dubbi che il celebre logico appuntava, come il fatto se «un prete cattolico infedele può amministrare i sacramenti?», se «si può parlare di peccato mortale per un non cristiano?», se «è un peccato mortale chiedere consiglio a un medium?». Il filosofo conclude: «Sono domande che hanno qualcosa di infantile. Tuttavia esse si pongono nell’universo di Gödel. Egli crede alla vita eterna dell’anima e alla dannazione. Devono esserci dunque un inferno e un paradiso» (p. 191).

Bisogna dare atto a Piergiorgio Odifreddi di avere ammesso almeno qualcosa di tutto ciò, pur accennandolo di sfuggita. Nel libro La prova matematica dell’esistenza di Dio (Bollati Boringhieri 2006), curato proprio dal matematico torinese (assieme a Gabriele Lolli), Odifreddi infatti scrive: «per Gödel, in un mondo finito, Dio esiste ed è unico» (p. 90). Così, il matematico più amato da Odifreddi è anche colui che confuta completamente le sue idee antireligiose. Odifreddure del destino.

La redazione

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Il Miur ora contrasta il gender a scuola: consenso informato e diritto all’astensione

 
 
di Filippo Savarese*
*Direttore delle Campagne della Fondazione CitizenGO

 

La battaglia delle famiglie per la libertà educativa e contro la “colonizzazione del Gender” nelle scuole segna un punto fondamentale e per certi versi storico.

Lo scorso 21 novembre il Miur ha infatti emanato una Circolare per tutti gli istituti scolastici su alcune questioni fondamentali inerenti il Piano Triennale dell’Offerta Formativa (Ptof), ovvero il documento in cui tutte le scuole mettono nero su bianco come intendono concretamente istruire gli alunni e studenti iscritti, comprese le attività e le iniziative ulteriori rispetto al cosiddetto curricolo nazionale obbligatorio (in altre parole la grande varietà di iniziative proposte dalle scuole che esulano dalle ‘classiche’ materie: italiano, matematica, storia, etc).

Prima di esaminare i contenuti della Circolare, è bene ricordare che il Ptof è di gran lunga il più importante documento sull’identità, per così dire, di una scuola. È quello che i genitori firmano all’atto di iscrizione del figlio. Firmandolo, in poche parole dichiarano: “Sì, scuola, voglio che tu istruisca mio figlio sulla base di quello che c’è scritto qui”. Ecco perché è fondamentale (benché spesso possa essere anche molto noioso) leggere e conoscere il Ptof nel dettaglio. L’idea che la scuola insegni solo a contare, scrivere, datare esattamente la battaglia di Waterloo e risolvere equazioni di primo, secondo o terzo grado è un’idea gravemente in ritardo rispetto alla realtà dei fatti.

Oggi le scuole integrano il classico “pacchetto base” con una enorme quantità di contenuti che non riguardano minimamente le materie tradizionali, e che vorrebbero trasmettere ai ragazzi una serie di “competenze” sociali, relazionali, culturali e – per quel che più ci interessa in questa sede – sessuali, affettive e sentimentali.

Queste attività e questi contenuti vengono spesso inseriti nel Ptof in modo generico e vago, e con l’esposizione dei soli princìpi generali che si intendono perseguire (Es: ‘contrasto a ogni forma di discriminazione e violenza’; ‘decostruzione degli stereotipi di genere’; ‘educazione alla parità di genere’; etc). Di conseguenza, quando i genitori iscrivono i loro figli a scuola spesso non sanno, e non possono sapere, che cosa concretamente si farà in classe per realizzare questi scopi. Non sanno chi entrerà a far cosa, con quali materiali cartacei o video, per affermare cosa e promuovere quale visione dell’uomo e della società. Lacune gravissime che violano il diritto Costituzionale dei genitori di supervisionare sempre l’educazione dei loro figli, e di farlo in via prioritaria rispetto a qualsiasi altra realtà, scuola compresa, come sancito anche dall’art. 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Per risolvere questo problema, la Circolare del MIUR fissa finalmente con chiarezza 5 principi fondamentali:
1) “Il Ptof deve, necessariamente, essere predisposto antecedentemente alle iscrizioni, per consentire alle famiglie di conoscere l’offerta formativa delle scuole così da assumere scelte consapevoli in merito all’iscrizione dei figli”;
2) “Tutte le attività didattiche inserite nel Ptof, anche ove aggiunte in corso d’anno, devono essere portate tempestivamente a conoscenza delle famiglie (…) in particolare, per quelle che prevedano l’acquisizione di obiettivi di apprendimento ulteriori rispetto a quelli di cui alle indicazioni nazionali di riferimento”;
3) “La partecipazione a tutte le attività che non rientrano nel curricolo obbligatorio, ivi inclusi gli ampliamenti dell’offerta formativa di cui all’art. 9 del D.P.R. n.275/1999, è, per sua natura, facoltativa e prevede la richiesta del consenso dei genitori per gli studenti minorenni, o degli stessi se maggiorenni”;
4) “In caso di non accettazione, gli studenti possono astenersi dalla frequenza”;
5) “Al fine del consenso, è necessario che l’informazione alle famiglie sia esaustiva e tempestiva”.

Oltre a ribadire l’importanza di comunicare alle famiglie il contenuto delle integrazioni al Ptof in modo esaustivo e tempestivo, si afferma nettamente che queste stesse attività integrative – ivi comprese quelle su temi sessuali o affettivi – sono per loro natura facoltative e pertanto necessitano di consenso informato, mancando il quale scatta il diritto di astenersi dalla partecipazione.

Si tratta di una vera e propria rivoluzione, frutto diretto del lavoro iniziato ormai 3 anni fa dal Comitato Difendiamo i Nostri Figli (CDNF) promotore dei Family Day del 20 giugno 2015 a San Giovanni e del 30 gennaio 2016 al Circo Massimo. Fu proprio il Comitato presieduto da Massimo Gandolfini a ingaggiare la battaglia per il consenso informato preventivo e per il diritto di astensione col Ministero dell’Istruzione dopo l’approvazione della Riforma della cosiddetta “Buona Scuola”, che col comma 16 del suo unico articolo obbliga tutte le scuole italiane di ogni ordine e grado a inserire nei propri Piani Triennali dell’Offera Formativa attività sull’educazione di genere, aprendo un’autostrada legale alla “colonizzazione del Gender” nelle scuole italiane.

 

Che cosa c’entra l’emergenza Gender col Ptof? Moltissimo. Elementi di ideologia Gender, più o meno espliciti, possono entrare nelle scuole in diversi modi. Il più diretto e lampante è sempre stato, per ovvie ragioni, il variegato ambito della cosiddetta ‘educazione sessuale’. Quale occasione migliore per parlare di identità e fluidità di genere se non proprio nell’ora di educazione sessuale? Tanto più dato il fatto che se una volta il tema era trattato negli istituti dalle Asl in chiave per così dire ‘tecnica’ (comunque spesso gravemente superficiale), negli ultimi anni il monopolio è passato alle associazioni di natura culturale e certamente anche politica come quelle del movimento LGBT (Lesbiche-Gay-Bisessuali-Transessuali) evidentemente interessate a cambiare i connotati del tradizionale discorso sulla sessualità maschile e/o femminile, in particolare attaccando e sovvertendo quello che chiamano con disprezzo il “paradigma eterosessista”.

Dall’anno scorso tutte le scuole di ogni ordine e grado devono inserire nel Ptof attività di “prevenzione della violenza di genere”. È sbagliato? Siamo forse per la violenza di genere? Assolutamente no: purché sia chiarissimo che cosa si intende per violenza di genere. A tal fine, però, dovrebbe anche essere chiaro che cosa si intende per genere. E il problema è proprio che sul concetto di ‘genere’ oggi il caos ideologico è pressoché totale. Com’è noto, infatti, le associazioni LGBT che entrano, numerosissime, nelle scuole a parlare di sessualità e affettività considerano l’identità di genere di una persona una sorta di lavagna bianca su cui ognuno può scrivere quello che preferisce, cancellando poi quanto scritto e riscrivendolo infinite volte senza limiti oggettivi.

D’altro canto, è proprio ciò che avviene nella nota rappresentazione teatrale Fa’afafine, messa in scena in decine di teatri alla presenza di centinaia di alunni di scuole medie e liceali in questi anni. Alex, un bambino, non sa se vuole essere maschio o femmina. Così si sveglia ogni mattina e si sente ora l’uno ora l’altro. Il suo obiettivo dichiarato, però, è non essere né l’uno né l’altro, ma un terzo sesso/genere indefinito. Alex viene definito dalla trama ufficiale dello spettacolo un “Gender-creative child”, ovvero un “bambino che crea da sé la propria identità di genere”. Domanda: ritenere il messaggio di questo tipo di spettacoli ideologico e dannoso per la sana maturazione psicofisica e anche affettiva dei minori, rientra o no nella violenza di genere citata dalla Buona Scuola? Il movimento LGBT dice di sì: dire che tutti i bambini sono maschi e tutte le bambine sono femmine, e che non esistono bambini-femmine e bambine-maschi, è violenza di genere.

È per questo che il Comitato Difendiamo i Nostri Figli ha lottato in questi anni per il consenso informato preventivo dei genitori e per il diritto di non far partecipare i propri figli alle attività svolte in particolare in attuazione del comma 16 della Buona Scuola. La Circolare dei giorni scorsi corona tre anni di incontri al MIUR coi Ministri Giannini e Fedeli e di sensibilizzazione dei Dirigenti Ministeriali e degli Uffici Scolastici Regionali, nonché ovviamente delle Dirigenze Scolastiche locali nei Comuni italiani. Tre anni difficilissimi, segnati anche da due manifestazioni di genitori davanti al Ministero, che finora avevano portato a due documenti emanati dai precedenti Ministri sicuramente propensi a venire incontro alle istanze delle famiglie ma che mancavano sempre di chiarire in modo netto la necessità del consenso informato preventivo e del diritto di astensione in caso di mancato consenso.

E ora? La Circolare e i suoi contenuti resteranno lettera morta se i genitori non torneranno protagonisti nelle scuole dei loro figli. Corsi malsani e attività ideologiche nelle scuole continueranno ad entrare, e benché la scuola sia ora più che mai istituzionalmente obbligata a tenere i genitori sempre informati, saranno sempre loro a dover prendere l’iniziativa per non farsi passare sotto il naso contenuti lesivi della sana maturazione dei loro figli. La prassi migliore consolidata in questi anni è prendere appuntamento col Dirigente scolastico insieme a qualche altro genitore e, portando con sé anche l’ultima Circolare del MIUR, far sapere alla scuola che ci sono genitori che su certe tematiche non intendono delegare la scuola e non intendono transigere in alcun modo sul loro diritto di priorità educativa.

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I segreti delle reliquie bibliche, un nuovo libro cerca la verità nella leggenda

Pubblichiamo qui di seguito l’invito alla lettura di Massimo Olmi, scrittore e studioso di storia antica, al suo ultimo libro, intitolato “I segreti delle reliquie bibliche” (X Publishing 2018).

 

In questo nuovo libro, vengono esaminati alcuni manufatti menzionati nella Bibbia, tra cui l’Arca dell’Alleanza, la croce di Cristo, la lancia del soldato che trafisse il costato di Gesù e il calice dell’Ultima Cena.

Il primo capitolo del volume è dedicato all’Arca perduta, la misteriosa cassa realizzata all’epoca di Mosè per contenere le tavole dei Dieci comandamenti. Non è chiaro che fine abbia fatto, dal momento che nell’Antico Testamento, ad un certo punto, non se ne parla più. Alcuni studiosi ipotizzano che l’Arca sia stata portata via dai babilonesi, i quali saccheggiarono il tempio di Gerusalemme nel 587 o nel 586 a.C. Ma la Bibbia ci informa che più tardi gli arredi sacri del santuario furono tutti restituiti. Nel Libro di Esdra troviamo l’elenco di tali oggetti, ma dell’Arca dell’Alleanza non vi è alcuna traccia. Oggi si sente spesso dire che il misterioso manufatto biblico si trova in Etiopia. Ad Axum, infatti, è custodita un’arca che viene indicata come l’originale. Qualcuno, invece, ritiene che l’Arca si trovi tuttora a Gerusalemme, in una camera segreta sotto le rovine del tempio. Ma stando ad alcuni testi medievali il prezioso manufatto fu portato addirittura a Roma e nascosto nella basilica di San Giovanni in Laterano. Si tratta solo di una leggenda?

Ampio spazio è dedicato inoltre ad alcuni strumenti della Passione, a cominciare dalla croce. Dopo la deposizione di Gesù nel sepolcro, che fine fecero i legni di tale strumento di supplizio? Circa tre secoli dopo la Crocifissione, furono rinvenuti presso il Golgota i resti di tre croci. Alcuni autori della tarda antichità affermano che fu portata alla luce anche la tavoletta recante il motivo della condanna, posta da Pilato sulla croce di Gesù. Questa si trova oggi a Roma, nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Si tratta davvero dell’autentico titulus crucis descritto nei Vangeli? Dall’esame del carbonio 14 sembra trattarsi di un manufatto medievale, ma dall’esame paleografico il reperto può benissimo essere collocato all’epoca di Cristo. Ci troviamo dunque di fronte ad un altro caso come quello della controversa datazione medievale della Sindone?

Nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme sono conservate anche altre importanti reliquie, tra cui quello che sembra il legno orizzontale di un’antica croce romana, che la tradizione attribuisce allo strumento di supplizio del buon ladrone ricordato dall’evangelista Luca. Di solito gli studiosi tendono a sorvolare su questo straordinario reperto, probabilmente per la difficoltà nel reperire informazioni al riguardo. Alcuni testi medievali contengono comunque notizie molto interessanti sui resti della croce del buon ladrone, che ci portano da Gerusalemme a Roma passando per l’isola di Cipro.

Fra gli oggetti esaminati nel libro c’è anche il Santo Chiodo di Milano, una reliquia dall’aspetto curioso, essendo formata da tre ferri che si avviluppano in uno strano groviglio. Si tratta, pare, di ciò che resta di un antico morso per cavallo, forse quello menzionato da sant’Ambrogio in una sua celebre orazione, realizzato con uno dei chiodi della croce. In tempi recenti, però, è stata avanzata una particolare ipotesi sull’impiego, da parte dei carnefici romani, di strumenti del genere da usare nelle crocifissioni.

Per quanto riguarda invece la cosiddetta lancia di Longino, quasi tutti conoscono la reliquia conservata a Vienna, ma in pochi sono a conoscenza della lancia di Cracovia, di quella conservata in Armenia e di quella di Smirne, ma soprattutto del ferro della lancia custodito nella basilica di San Pietro. Di quest’ultimo, è possibile ricostruirne la storia a partire dal VI secolo e non è da escludere, anche in base alla testimonianza di Andrea di Creta (660 circa-740), che si tratti dell’autentica lancia menzionata nel Vangelo di Giovanni e che sia stata rinvenuta anch’essa da sant’Elena durante gli scavi eseguiti presso il Golgota nel IV secolo. Cosa interessante, la sua larghezza coincide perfettamente con la ferita del costato dell’Uomo della Sindone. Nel libro ci sono diverse immagini di questa reliquia.

C’è poi la coppa usata da Gesù nell’Ultima Cena, che nell’immaginario di ognuno di noi è legata indissolubilmente alla leggenda del Santo Graal. Antichi documenti ne attestano la presenza a Gerusalemme in età tardo antica. Secondo un anonimo pellegrino del VI secolo, tale coppa era di onice. Ma in un testo di circa un secolo più tardi si parla di un recipiente d’argento con due manici. Come si spiega questa differente descrizione? E dove si trova oggi la preziosa reliquia?

Nel libro si tenta di dare una risposta a questi e ad altri interrogativi. Ma a proposito del Santo Graal, alcuni studiosi continuano a riproporre la tesi secondo cui deriverebbe da sang réal, il “sangue reale” dei re merovingi discendenti di Gesù e di Maria Maddalena. Vedremo invece che ciò è assolutamente privo di fondamento e che i testi medievali dedicati al Graal parlano semplicemente di un recipiente, di una coppa di pregevole fattura con incastonate delle pietre preziose, in cui è raccolto il sangue divino scaturito dalle ferite del Cristo crocifisso. Una reliquia, dunque, estremamente preziosa.

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Ucciso dagli indigeni che voleva convertire, ma è stato un azzardo non una missione

Differenza tra missione e avventura. Pubblichiamo il commento di un missionario del Pime sulla morte del giovane missionario protestante, colpito da una scarica di frecce scagliate dagli abitanti dell’isola di North Sentinel, territorio indiano dove vive la comunità più incontaminata del mondo, i Sentinelesi. Desiderava convertirli ma lo hanno ucciso appena si è avvicinato alla riva. La notizia è diventata virale.

 
di Padre Alberto Caccaro
missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime)

da Mondo e Missione, 24/11/18

 

«L’isola ultima roccaforte di Satana», così titolava un articolo sulla pagina web di uno dei più noti quotidiani italiani a proposito della vicenda accorsa al giovane americano John Allen Chau, ucciso tra il pomeriggio del 16 e la mattina del 17 novembre scorsi nell’isola di North Sentinel, una delle isole Andamane nel golfo del Bengala. È un passaggio preso dall’ultima lettera scritta dal giovane prima di essere ucciso e consegnata ad uno dei pescatori che lo hanno portato e poi lasciato sull’isola.

John, in passato, si era recato lì più volte con l’intento, si dice, di convertire a Cristo i pochi abitanti di quello sperduto fazzoletto di terra. Nell’ultimo viaggio però, ha trovato la morte. La notizia ha fatto il giro del mondo. A breve verrà dimenticato, ma poco importa. La sua morte, il riferimento a Satana, la collocazione sperduta dell’isola, una bibbia tra le mani, sono ingredienti sufficienti per lanciare la notizia e generare sciami di commenti. Spesso di fronte a ciò che accade siamo appiccicati ai video, ma lontani dai volti, condannati ad essere spettatori di tutto, protagonisti di niente. Senza tempo per pensare, capire, chiedere, approfondire, toccare.

La famiglia di John ha già perdonato gli aggressori così come – ha fatto sapere – nessuno degli amici coinvolti o dei pescatori che lo hanno portato sull’isola, deve essere considerato responsabile della sua morte perché John ha agito di sua iniziativa, senza alcun obbligo dall’esterno. Già solo questa presa di posizione fa capire quanto l’avventura nella quale John ha purtroppo trovato la morte fosse certamente un azzardo dei suoi anni giovanili. Nella lettera esprime disappunto perché nei precedenti tentativi di approccio alla popolazione locale, tra le 50 e 100 persone in tutto, scriveva ieri il New York Times, aveva percepito una forte ostilità nei suoi confronti. Eppure era determinato, forse incoraggiato non solo dalla sua voglia di avventura, ma anche da un certo background famigliare fideista, ai limiti del buon senso. «It’s wired – actually no, it’s natural: I’m scared», scriveva nell’ultima lettera. Non si esclude nemmeno che nella popolazione locale abbia prevalso, come in passato, una certa paura per l’arrivo improvviso di una minaccia esterna e si siano difesi. Hanno vissuto isolati per troppo tempo e le stesse autorità indiane da cui l’isola dipende, non hanno mai promosso alcun contatto.

Sono quindi molteplici i piani di lettura e le possibili interpretazioni dell’accaduto. In questo caso è inevitabile lo sciame mediatico, di pro, di contro, di indifferenti. Non occorre spendere parole sull’ingenuità del tentativo “missionario”, in solitaria, di John. Se di un tentativo missionario si è trattato! Eppure non mi serve nemmeno dubitare della sua buona fede. Pur esprimendo cordoglio ai famigliari e un profondo dispiacere per la morte di questo giovane, devo anche riconoscere che questa non è missione. Che quell’isola non è una roccaforte di Satana. E che John non andava lasciato solo. I social in quanto strumenti di comunicazione in tempo reale, possono aiutarci a capire e, in alcuni casi, a prevenire certe mosse dagli esiti fatali.

Ammetto che con il senno di poi è tutto più facile. Ma insisto con veemenza sul buon senso, come primo antidoto agli eccessi umani. E sul fatto che qui non ci serve il “senno di poi”, ma “l’esperienza di prima”. Quella di migliaia di missionari che hanno speso anni per apprendere una lingua, una cultura, e cercare di amarle fino al dono, non allo sciupio, della vita. Che c’entra dunque una simile avventura con la missione di Gesù Cristo? Che c’entra con chi ha speso la vita accanto alla gente, spesso scrivendo dizionari di lingue e tradizioni prima solo orali, conservando e promuovendo le culture locali, non per un tempo di due giorni, ma per una vita intera? Se molti sono gli errori imputabili ai missionari, dobbiamo riconoscere che altrettanti e forse di più sono gli anni spesi da centinai di sacerdoti, religiosi, laici in terre nuove, sconosciute, poi diventate “casa”. Ci vuole buon senso, prima che fede, per valutare vicende come quella di John. Quel buon senso che ci fa riconoscere nella missione non un’ipotesi di morte, ma un programma di vita, nella quale non si sciupa niente, ma si dona tutto. «I don’t want to die» ha scritto John nella sua ultima lettera. Come non credergli? E come non intercettare nel suo ingenuo coraggio una domanda di vita?

Il giorno dopo la morte di John, sempre in India, la notte tra il 17 e 18 novembre, padre Antonio Grugni, missionario del Pime, è morto presso il Good Samaritan General hospital di Vangayagudem, in Andhra Pradesh. Settantasette anni, cardiologo, originario di Legnano, ha lavorato in India dal lontano 1976. Nel luglio scorso gli era stato diagnosticato un cancro allo stomaco in fase terminale. Nella sua vita missionaria ha servito migliaia di malati. «Quando ci vedono arrivare – raccontava in una testimonianza – i malati ci corrono incontro, sono contenti perché sanno che siamo lì per loro».

A padre Antonio e al giovane John: possano riposare in pace.

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Il pasticcere cristiano perseguitato dall’odio Lgbt, suo nipote si converte: «E’ un eroe»

Il pasticcere di Denver negò torna ad una coppia gay. La Corte Suprema lo ha assolto e Jack Phillips è diventato un simbolo della libertà religiosa, vittima di odio, vandalismo e minacce di morte. Ha resistito in pace e serenità, diventando un testimone e cambiando la vita di chi gli è stato vicino.

 

Ha visto lo zio resistere cristianamente alla persecuzione arcobaleno, così il nipote di Jack Phillips si è lentamente convertito. Della vicenda ne avevamo parlato quest’estate, lui è il pasticcere di Denver (il “pasticcere omofobo”, come viene chiamato sui media), Jack Phillips, ormai famoso in tutto il mondo. Non per i suoi dolci, ma perché è diventato il simbolo internazionale della libertà religiosa e colui che è riuscito a sconfiggere la dittatura Lgbt.

La Corte Suprema degli Stati Uniti, infatti, ha ribaltato i giudizi di condanna di altri tribunali assolvendo il pasticcere cristiano per essersi rifiutato di preparare una torta speciale in occasione del matrimonio di due persone dello stesso sesso, evento che confliggeva con i suoi valori morali e religiosi. E’ stato denunciato e perseguitato mediaticamente per anni, tra minacce di morte e vandalismo al suo negozio, fino alla completa assoluzione nel giugno scorso con votazione favorevole di sette giudici su nove (compresi due giudici legati a Barack Obama): «le obiezioni religiose e filosofiche al matrimonio gay sono idee protette», ha concluso la Corte.

Un caso che ha creato un precedente importantissimo, tanto che pochi mesi dopo anche la Corte Suprema britannica ha assolto due pasticceri per lo stesso identico motivo. Dopo l’assoluzione di Phillips, a Denver (Colorado), si è scatenata la grande festa della libertà e la sua pasticceria, la Masterpiece Cakeshop, si è riempita di attivisti e di nuovi clienti.

Ma le buone notizie per Jack Phillips non sembrano finite. Suo nipote, Sean, è rimasto impressionato da come lo zio è riuscito a resistere con pazienza ed umiltà cristiana alla persecuzione e all’odio da parte dei militanti Lgbt. «Ad un certo punto», hanno raccontato gli avvocati di Phillips, «Jack ha persino ricevuto una minaccia di morte quando sua figlia e suo nipote erano nel negozio. Li ha mandati nel retro a nascondersi mentre chiamava la polizia. Le minacce sono diventate così frequenti e gravi che la moglie di Jack, Debi, aveva troppa paura di entrare nella pasticceria».

Lo zio Jack è stato tuttavia un autentico testimone della letizia cristiana, subendo l’odio con tranquillità e senza reazioni fisiche. Sean, il nipote, al contrario era pieno di rabbia per quanto stava accadendo contro la sua famiglia ma, nel corso del tempo, ha voluto fare esperienza in prima persona della fonte che sosteneva moralmente la tenacia dello zio. Così, da sempre lontano e disinteressato dal cristianesimo, Sean «ha scavato nella Bibbia per comprendere il conforto che Jack aveva in Cristo e scoprire come poteva sopportare tali difficoltà con grazia e pace. E alla fine, Dio ha attirato Sean a Se stesso».

E’ stata anche la coraggiosa testimonianza di fratellanza degli altri cristiani di Denver a sconvolge il nipote. Lo stesso pasticcere ha dichiarato: «Siamo stati benedetti nel vedere tanti altri cristiani alzarsi in piedi coraggiosamente. Alcuni non erano affatto in piedi, e ora sono fermi negli insegnamenti di Dio. Questo è profondamente incoraggiante per noi e penso che sia una delle cose più belle che potrebbero accadere a chiunque in una situazione simile: sapere che altre persone vengono incoraggiate e, a loro volta, incoraggeranno gli altri. Questo ha davvero reso tutto ciò molto utile». Lo stesso suo nipote, Sean, sbalordito da tutto ciò, è «un uomo cambiato» e sta «facendo i primi passi con Gesù».

La lobby gay non si è comunque arresa e dopo l’assoluzione ha inviato nella pasticceria di Jack un avvocato transessuale che gli ha chiesto (provocatoriamente) una torta artistica per festeggiare l’anniversario del suo cambio di sesso. Ovviamente Phillips è rimasto coerente e si è gentilmente rifiutato, perché creare un’opera d’arte per celebrare qualcosa che moralmente non condivide? Così, è stato denunciato una seconda volta, per lo stesso motivo. Seguiremo anche questo caso, sapendo che comunque ha già moralmente vinto.

La redazione

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