L’Universo non nasce dal “nulla”: la meccanica quantistica indica un “qualcosa”

L’Universo è nato da una ‘singolarità’ dello spazio-tempo, all’incirca 13,8 miliardi di anni fa: è un fatto ormai accettato dalla comunità scientifica. Pur essendo sicuri di questa “nascita esplosiva”, gli scienziati non sono riusciti a trovare un accordo sulla ‘causa’ che può averla generata e, quindi, sul ‘perché’ e sul ‘come’ sia ‘inizialmente’ avvenuta.

Sull’argomento esistono grosso modo due gruppi di opinione: i filo-casuali, che hanno come punto di riferimento il caso, credono che l’Universo sia nato dal nulla e non ci sia stata nessuna causa iniziale e cercano di dimostrarlo ipotizzando meccanismi compatibili con le attuali conoscenze fisiche; e i filo-causali, che negano la nascita spontanea, forti anche del principio metafisico che ‘niente può derivare dal nulla’, e che cercano perciò di mostrare con argomenti, anche filosofici, che il Big Bang ha invece comportato una causa che lo ha generato. Questa dicotomia è presente anche in altri ambiti della scienza, ad esempio in biologia per quanto riguarda il problema insoluto della nascita della vita, vedendo opposti schieramenti simili.

In effetti i due aggettivi casualisti e causalisti differiscono solo per lo spostamento di una vocale ma si riferiscono a due visioni del mondo agli antipodi: c’è tra essi la stessa distanza che passa tra zero e infinito, tra il niente e il tutto. Vien da sé che il primo gruppo è composto, seguito e supportato principalmente da scienziati e non che hanno come denominatore comune l’ateismo, mentre il secondo è sostenuto soprattutto da ricercatori credenti in Dio, convinti che oltre la natura, descritta dalle scienze, esista un mondo trascendente che la fisica non può indagare.

In questo confronto tra due concezioni diametralmente opposte si inseriscono le considerazioni critiche che il ricercatore Neil Shenvi ha espresso recentemente contro chi attribuisce il Big Bang ad una fluttuazione quantistica e afferma che l’Universo sia quindi nato dal nulla.

Shenvi fa notare che in meccanica quantistica una fluttuazione viene descritta da una funzione d’onda ed apparirebbe ben strana se questa si riferisse al nulla. Per definizione, infatti, una funzione d’onda descrive lo stato quantico di qualcosa, come sovrapposizione di stati quantici incompatibili ognuno con il suo peso di probabilità (ad esempio stato ‘testa’ e stato ‘croce’ di una moneta non truccata che hanno un peso 50% ciascuno) e la fluttuazione non è altro che il collassare di questa funzione in uno degli stati molto improbabili, e quindi con peso piccolo, che la compongono. Lo stesso vuoto, che potrebbe avvicinarsi al concetto di nulla di cui si parla, in realtà è un oggetto quantico in cui nascono e scompaiono continuamente coppie di particelle-antiparticelle anche virtuali, e perciò tutto si può dire tranne che esso sia ‘nulla’.

La critica di Shenvi cade a pennello contro l’anti-teista (come si autodefinisce) Lawrence M. Krauss, autore del libro Un Universo dal Nulla (2012) che sostiene la tesi secondo cui l’Universo sarebbe nato da una fluttuazione quantistica e “quindi dal nulla”. Shenvi fa notare che quando Krauss venne intervistato dal filosofo Sam Harris, nonostante questi gli abbia chiesto più volte cosa intendesse con il termine ‘nulla’, non seppe rispondere in maniera convincente. Krauss, in tale intervista, è stato trattato pur sempre meglio rispetto alla quasi stroncatura fattagli sul New York Times da David Albert, professore di Filosofia alla Columbia University e autore di “Meccanica quantistica ed esperienza”, che concluse la recensione al libro di Krauss dando ragione agli apologeti credenti perché, a suo parere, il fisico non aveva saputo definire essenzialmente cosa fosse questo ‘nulla’ di cui parla. Albert, tra l’altro, metteva in risalto che, pur trattando la fisica moderna solo di ‘campi’ la cui disposizione è equivalente all’esistenza o meno di particelle, Krauss si riferisce in maniera impropria al campo che non definisce particelle come al nulla, dimenticando che ogni campo, anche quello che definisce il vuoto, non è nulla ma è già qualcosa!

Siamo ben lontani quindi dalla postfazione al suo libro scritta, a suo tempo, dal biologo Dawkins: questi prevedeva, forse in maniera un po’ imprudente ed affrettata, che le affermazioni di Krauss avrebbero messo la parola fine alle discussioni sull’esistenza di Dio, paragonando addirittura il loro impatto in cosmologia, e di riflesso in teologia, nientemeno a quello provocato in biologia dalle tesi di Darwin con il suo ‘L’origine delle specie’. Purtroppo per Krauss finora, a sei anni dall’uscita del libro, non pare ci siano stati segni decisivi in tal senso e anzi il dibattito sembra più vivo che mai.

Tornando all’intervista rilasciata a Sam Harris, il fisico Krauss si definisce ‘anti-teista’ in quanto contrario all’idea di Dio: ritiene che l’uomo debba vivere la sua vita senza seguire i ‘capricci’ (sic) di un eventuale Creatore. Assume, dunque, un grande pregiudizio anti-religioso che nella discussione del tema lo fa apparire poco imparziale. Fra l’altro, oltre a non chiarire cosa intenda per il nulla –come abbiamo già parlato-, afferma che l’Universo e le sue leggi fisiche potrebbero anche essere nati contemporaneamente e che nulla impedirebbe la continua nascita di altri universi con leggi fisiche proprie, magari differenti. Con ciò Krauss riprende l’idea dell’esistenza di infiniti universi che nascerebbero continuamente, ipotesi introdotta tempo fa per cercare di superare le difficoltà che sorgono nello spiegare la struttura finemente antropica dell’Universo. Una tesi, però, che presenta problemi con il rasoio di Occam, introduce un infinito attuale, non appare verificabile sperimentalmente e presuppone l’esistenza di una specie di madre di universi di origine sconosciuta e natura misteriosa. Dall’ipotesi del nulla iniziale si passerebbe così a quella della genitrice, che sarebbe tutto fuorché il nulla e non risolverebbe comunque il dilemma dell’origine, in quanto si dovrebbe spiegare come e quando questa madre sia nata.

Mi sembra che una situazione simile si sia presentata anche in biologia per quanto riguarda il problema della nascita della vita sulla Terra, nel momento in cui alcuni hanno ipotizzato come soluzione la panspermia, cioè l’arrivo della vita da fuori del sistema solare: la risposta data non ha risolto il dilemma dell’origine ma lo ha semplicemente spostato più in là nello spazio e nel tempo.

Con buona pace di Krauss e del suo mentore Dawkins, credo si possa affermare che attualmente il problema dell’origine dell’Universo, così come quello della vita, non sia stato ancora risolto e che, perciò, non sia neanche riuscito – e personalmente dubito che lo sarà mai – il tentativo scientifico di escludere l’esistenza di un eventuale progetto divino e, quindi, di un intervento trascendente nella creazione.

Salvatore Canto

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Come non perdere la fede? Come trasformarla in certezza?

Stimolante la confessione laica da parte dello scrittore Teju Cole, ospite al Festival la Milenesiana. E’ la testimonianza di un cristiano protestante che si è lasciato scivolare nell’agnosticismo scettico. E’ caduto nel dubbio, come tanti. Ma come non perdere la fede? Come può maturare da divenire certezza?

Guardiamo l’esperienza dello scrittore: tutto è iniziato quando si è interrogato se «la Bibbia era davvero l’unica verità dell’esistenza?». Si è accorto che poteva rispondere solo assumendo per vero quello che diceva la stessa Bibbia. Già qui c’è il sintomo di una debolezza, di un errore: un uomo solo, con la sua Bibbia. Ma nel cristianesimo, la Verità non è la Bibbia, ma una Persona“Io sono la via, la verità e la vita”. E la Verità non la si possiede, la si incontra. Il cristianesimo (quello cattolico, in particolare) non è una religione del Libro e senza l’esperienza personale di incontro con Cristo, la fede non può reggersi solo su delle pagine scritte, seppur divinamente inspirate. Avrebbe dovuto essere lui stesso, Teju Cole, a saper rendere ragione su ciò che dell’esistenza è il Vero, non scaricando la responsabilità sui testi sacri.

Così, continua la “confessione”, «un mattino, a ventisette anni, mi svegliai e scoprii di aver perso la fede». Destino inevitabile quando manca quella certezza della fede che matura non in solitari pensieri teologici, ma convivendo laddove Gesù Cristo è rimasto presente nella storia: la compagnia cristiana di coloro che Lui ha chiamato, cioè la Chiesa (la propria parrocchia, il sacerdote, i volti della comunità cristiana laddove si gioca concretamente la vita di ognuno). La fede cristiana, per sua natura, nasce e matura in un rapporto umano con un altro che è testimone dell’Altro, con la maiuscola: Cristo testimone agli apostoli del Padre e gli apostoli, assieme ai loro successori, testimoni di Cristo. Benedetto XVI ci ha donato parole insuperabili: «La fede non è un prodotto della riflessione e neppure un cercare di penetrare nelle profondità del mio essere. Entrambe le cose possono essere presenti, ma esse restano insufficienti senza l’ascolto mediante il quale Dio dal di fuori, a partire da una storia da Lui stesso creata, mi interpella. Perché io possa credere ho bisogno di testimoni che hanno incontrato Dio e me lo rendono accessibile. La Chiesa non si è fatta da sé, essa è stata creata da Dio e viene continuamente formata da Lui»

La risposta al dubbio, dunque, è l’appartenenza attiva, consapevole, ragionevole e gioiosa al popolo cristiano: questo è l’antidoto ad una fede sentimentale ed emozionale, in balia del dubbio e della secolarizzazione. Proprio i Vangeli lo insegnano: essi «descrivono il percorso degli apostoli: “e i suoi discepoli credettero in lui” si ripete molte volte, la conoscenza diventa persuasione, passo dopo passo», ha scritto il teologo spagnolo José M. García. «Il credere diventa convinzione in un successivo ripetersi di riconoscimenti, cui occorre dare uno spazio e un tempo perché avvengano. Solo la fedeltà, la convivenza e la familiarità fa entrare sempre più radicalmente in noi la certezza» (J.M. Garcia, Il protagonista della storia, BUR 2008, p. 122). E’ dunque normale che lo scrittore afro-americano si dica “sollevato” dopo essersi scoperto lontano da quella fede così intimista: se l’io non è coinvolto nel mistero della compagnia cristiana, il cristianesimo si riduce ad una serie di dogmi morali incomprensibili, basato su spinte emotive. Lo ammette lo stesso Teju Cole: «la mia fede cristiana era senza dubbio emotiva». Mons. Luigi Negri ha invece scritto: «il Cristianesimo non è una dottrina, ma una realtà storica, un gruppo di uomini che afferma di essere il luogo dove l’evento definitivo di Cristo continua ad essere presente e a influire sulla storia. Continua attraverso l’unità dei cristiani» (L. Negri, False accuse alla Chiesa, Brossura 2016, p. 17).

La nuova vita che lo scrittore racconta è priva di «senso della certezza, trovai quello del dubbio», circondato da attività e interessi che «potevano darmi compagnia e conforto»». «Non siamo sicuri. Abbiamo perso la fede e la testa», conclude. Per non perdere “la fede e la testa” occorre vivere fisicamente laddove «Gesù è entrato per sempre nella storia umana e vi continua a vivere con la sua bellezza e potenza», spiega ancora Papa Ratzinger. Ovvero, «quel corpo fragile e sempre bisognoso di purificazione, ma anche infinitamente ricolmo dell’amore divino, che è la Chiesa. È questo il motivo che rende la Chiesa contemporanea di ogni uomo, capace di abbracciare tutti gli uomini e tutte le epoche perché guidata dallo Spirito Santo al fine di continuare l’opera di Gesù nella storia».

La redazione“”

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Proibite le gonne nelle scuole inglesi, offendono alunni transessuali

Nel Regno Unito, quasi cinquanta scuole hanno vietato alle ragazze di indossare le gonne: solo pantaloni, che risultano più inclusivi per gli studenti transgender.

Addirittura, alla Copleston High School sono state definite “indumenti inaccettabili”, a cui andranno preferiti “pantaloni  grigi e semplici”. Lo scopo è «rimuovere tutti i riferimenti al genere», ha affermato il preside della scuola primaria di Parson Street a Bristol, «perché dovremmo definire i nostri figli con i vestiti che indossano?». Educate & Celebrate è una delle organizzazioni LGBT che ha sponsorizzato la censura delle gonne: «Stiamo semplicemente assicurando che tutti gli studenti siano rappresentati, compresi i giovani che non si identificano come maschi o femmine».

Non voglio nemmeno ipotizzare se fosse stata una scuola cattolica ad imporre i pantaloni grigi alle alunne: “repressivi, soffocanti, colpevolizzanti, riduttivi della creatività femminile, bigotti, sessuofobi, medioevali”… quante ancora ne avrebbero vomitate i media di tutto il mondo? Invece, se ad imporlo sono le laicissime scuole del Regno Unito, tutti dicono che una  nuova luce si è accesa all’orizzonte. Quante sono le libertà che si seppelliscono prendendo per verità ogni capriccio? Quante tangenti senza uscita si imboccano investendo e lasciando a terra la realtà delle cose?

Se la discesa verso il precipizio viene indicata come la strada maestra, bisognerebbe percorrere tutto il tragitto ed avere il coraggio di saltare di sotto.  Ma gli ideologi da sartoria, i teorici del prèt à porter senza sesso non hanno alcun ardimento: se ne stanno là, senza andare a vedere cosa provochi la loro menzogna. Non hanno calcolato alcune conseguenze che fanno saltare il banco dell’inclusività: e se i transgender da maschio a femmina si sentissero discriminati senza la gonna? Li obblighiamo a rimettersi i pantaloni, per di più “grigi e semplici” che di femminile hanno zero? E come si sarebbe trovato il Signor Vladimiro Guadagno, che si vanta delle sue gambe ed esige di metterle in mostra (ndr: parole sue)?

E’ dal 1968 che le femministe, non su richiesta di noi donne, ci mostrano la loro biancheria ed il ben noto gesto di emancipazione…per poi arrivare a farsi imporre i pantaloni “grigi e semplici”? Per farsi rappresentare ai concorsi di bellezza dai trans o per cedere loro il posto? Per essere costrette -in nome del politicamente corretto- a sfidare atleticamente trans con lo scheletro maschile più robusto, le leve più lunghe, la maggiore capacità respiratoria, la minore propensione all’accumulo di grasso, la massa muscolare più sviluppata e sviluppabile? Le femmine hanno i diritti, ma i transgender hanno diritti che sono ancora più diritti dei diritti delle femmine?

Ci dicono che fare figli è limitazione delle nostre aspettative professionali, che abortire è un diritto umano, che spogliarsi in pubblico è libertà, che il “femminicidio” rende più atroce l’omicidio, che lavorare fuori e dentro casa è emancipazione…ci mancava pure di metterci i pantaloni grigi, please, così i trans non si sentono esclusi. In fondo al fosso c’è sempre un fondo, ancora più in fondo.

Da certi corti circuiti non si esce vivi, sempre che i presidi British lo siano ancora. Questi dirigenti delle scuole della Regina mostrano di vivere in una dimensione fumosa, ottusa, che nulla contempla di reale, di vivo, di bello ed impongono la loro imbarazzante realtà. Sparita la nebbia dai cieli di Londra, è finita tutta nel loro cranio.

E voi, care signore femministe, se dopo tanta lotta e tanto impegno siete arrivate a farvi surclassare dal testosterone che vuol sembrare progesterone, avanti tutta e magari fra altri sessantanni saprete dire di no almeno ad un’insensata divisa scolastica.

Carla Vanni

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«Bergoglio difende Humanae Vitae», così Sandro Magister si arrende

Dipingere Papa Bergoglio come oppositore di Paolo VI e dell’enciclica Humanae Vitae era un boccone troppo ghiotto per farselo scappare. E’ terminato ieri un altro capitolo del misterioso caso dei vaticanisti anti-bergogliani, responsabili della grande opera di disinformazione ai danni del loro nemico. Il Papa, per l’appunto.

Ha iniziato nel maggio 2017 l’ex vaticanista Marco Tosatti, inventandosi «una commissione segreta» vaticana «per esaminare ed eventualmente studiare modifiche alla posizione della Chiesa in tema di contraccezione». Abboccarono Roberto De MatteiSandro Magister, vaticanista de L’Espresso. Quest’ultimo, nel gennaio scorso, annunciò l’imminente catastrofe: «Francesco liberalizza la pillola. “Humanae vitae” addio». Magister aveva semplicemente spulciato i discorsi di un teologo, don Maurizio Chiodi, a favore di «un metodo artificiale per la regolazione delle nascite», facendoli direttamente passare come convinta opinione di Papa Francesco. Antonio Socci riprese catastroficamente twittando: “viene giù tutto!” e la nuova bufala sul “Bergoglio sponsor della contraccezione” venne compulsivamente condivisa.

La commissione su Humanae Vitae esisteva davvero, ma non era affatto segreta. «Marengo e Paglia», scrisse Magister, riferendosi ai coordinatori, «hanno negato che i lavori della commissione riguardino i contenuti di Humanae vitae e tanto meno una loro reinterpretazione. Ma è fin troppo evidente che la rivisitazione del tormentato percorso di preparazione di quell’enciclica potrà solo giovare al cambio di paradigma che è in atto». Si noti la ferrea convinzione: le smentite ufficiali provocano soltanto ulteriori conferme.

La commissione vaticana ha concluso tranquillamente i lavori ed il già citato coordinatore, mons. Gilfredo Marengo, ha ribadito che l’obiettivo era semplicemente studiare il processo di genesi della coraggiosa enciclica. «Humanae Vitae», ha commentato, «è un documento autorevole del magistero pontificio che siamo chiamati ad accogliere, attraverso un esercizio pastorale intelligente. Non c’è bisogno di alcun aggiornamento». Anzi, ha sentito l’urgenza di tale studio -all’opposto di quanto “rivelato” dai vaticanisti- proprio per porre fine alle critiche progressiste contro Humanae Vitate, le quali «dipendono, se non in modo esaustivo almeno in gran parte, da congetture sul processo seguito nell’elaborazione dell’enciclica». Nessuna modifica o “via libera alla pillola”, nessun aggiornamento o cambio di paradigma. D’altra parte, lo abbiamo ricordato pochi giorni fa, Francesco più volte ha elogiato il coraggio di Paolo VI. «La sua genialità fu profetica», disse Bergoglio, «ebbe il coraggio di schierarsi contro la maggioranza, di difendere la disciplina morale».

La buona notizia è che Sandro Magister ha scelto di riportare la verità e auto-corregersi, almeno per gradi. Ha iniziato stupendosi che «tra gli uomini di Francesco c’è chi difende “Humanae vitae”», ovvero Pierangelo Sequeri. Curioso e significativo il doppiopesismo: se l’apertura alla pillola del teologo Chiodi era stata fatta passare come opinione diretta di Francesco, la chiusura di Sequeri -uomo scelto dal Papa- viene ritenuta solo un’opinione, non la linea ufficiale: «L’altolà dato da Sequeri non è da sottovalutare. È stato pronunciato da un teologo al quale papa Francesco ha conferito un autorevole ruolo di guida», concluse Magister. «Ma è da escludersi che fermerà l’ondata revisionista nel “processo” messo in moto da Jorge Mario Bergoglio».

Pochi giorni fa, altro passo indietro: nessun processo revisionista messo in moto dal Papa. Il vaticanista dell’Espresso ha riconosciuto che il coordinatore della famosa commissione vaticana, mons. Marengo, «contraddice con la forza dei fatti proprio le tesi più care ai fautori del cambiamento». Infine ieri, Magister, ha dato il colpo finale alla bufala da lui stesso creata: «Con “Humanae vitae” Paolo VI aveva ragione. “L’Osservatore Romano” detta la linea». Infatti, il quotidiano della Santa Sede ha celebrato l’enciclica di Montini con due editoriali (Magister ne cita solo uno), nei quali si «mette in luce la “lucidità profetica” di Paolo VI». Ovvero, le stesse espressioni usate da Francesco (citate sopra). Peccato che il vaticanista non abbia comunque avuto coraggio di citare Francesco dietro alla posizione de L’Osservatore Romano, ma lo avrebbe certamente chiamato in causa se il quotidiano vaticano si fosse schierato contro l’enciclica montiniana. Così come scorrettamente fece con il discorso “pro-pillola” del teologo Chiodi.

Va dato atto a Magister di essersi corretto, al contrario dei suoi colleghi. Nel frattempo, però, sono passati numerosi mesi in cui tanti lettori cattolici hanno creduto a queste false profezie e inesistenti scoop. I meno prudenti hanno urlato la loro confusione sui social, accusando di “tradimento”, “ambiguità”, “eresia” e moltiplicando la disaffezione nei confronti della Chiesa e del Papa. “Cecità” e “papolatria” sono stati scagliati contro chi negava e ricordava la stima del Pontefice verso il suo predecessore Montini. Cosa c’è dietro a queste continue fake news? Prima le illazioni contro Papa Francesco, annunciando distruzioni/riforme/cambiamenti/modifiche della dottrina cattolica e generando confusione e disaffezione. Poi, almeno i più onesti, fanno marcia indietro: «no, falso allarme». Ma, intanto, il danno è fatto.

Eppure, avevamo già avvertito di prestare attenzione. Fu sempre Magister ad aver annunciato un’altra rivelazione che tenne banco per mesi, quella dell’imminente apertura papale all’ordinazione femminile, sempre utilizzando il solito gioco: le parole di un teologo/vescovo/opinionista attribuendone la paternità morale a Francesco (un modus operandi che altri portali definiscono «edificio diffamatorio»). Una (catto)bufala, sgonfiata recentemente dal prefetto Luis Ladaria.

 

AGGIORNAMENTO ORE 08:30
Ci è stato segnalato che il movimento di cattolici progressisti Noi siamo Chiesa ha preso atto della chiusura vaticana a qualunque “aggiornamento” di Humanae Vitae: «Nelle ultime settimane», hanno scritto, «teologi, che si dicono vicini a papa Francesco, hanno tentato, in modo sorprendente, di collocare l’Humanae Vitae in una linea di continuità con il passato. Questa linea ci appare sconcertante e ci insinua il sospetto che sia stata ispirata per confermare un pesante statu quo». Così, si conclude: «Speriamo e supponiamo che il Vaticano e le strutture ufficiali della Chiesa, nell’ipotesi comprensibile che non vogliano criticare esplicitamente l’enciclica, usino almeno questo cinquantenario per dimenticarla. Essa dovrebbe diventare ormai parte solo della storia della chiesa». Eppure, Papa Francesco santificherà il “coraggioso” Paolo VI, per nulla intenzionato a dimenticare l’enciclica che ha più volte pubblicamente lodato. Noi siamo Chiesa, al contrario, non dovrebbe scordare che i suoi fondatori sono stati scomunicati proprio dall’attuale Pontefice.

La redazione

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Amnesty International, la lobby pro-aborto ha perso metà dei volontari in 4 anni

E’ indiscutibilmente una ONG contraddittoria. Amnesty International aveva promesso che non avrebbe svolto «campagne generali in favore dell’aborto o di una sua generale legalizzazione». Si è però smentita sostenendo l’interruzione di gravidanza in Nicaragua, Perù, Messico, Polonia ed El Salvador. In quest’ultimo Paese, come abbiamo riportato, la sua campagna è stata fallimentare e pare che anche la Polonia stia ben resistendo alle sue pressioni.

Amnesty sta scontando le conseguenze di tale contraddittorietà avendo perso, in appena quattro anni, più della metà dei suoi volontari, oltre che, ormai da anni, il sostegno della Chiesa (già nel 2007, il Pontificio Consiglio della giustizia e della pace aveva ritirato il sostegno economico). Probabilmente oggi anche il suo fondatore ne rinnegherebbe l’operato: è stata infatti fondata da un ebreo convertito al Cattolicesimo, Peter James Henry Solomon (alias Peter Benenson), la cui prima azione di solidarietà fu adottare a distanza un bambino orfano della Guerra Civile spagnola. Il fondatore salvava vite, «oggi l’opera che ha fondato è un affare di morte».

Ciò detto, non sembra solo questa la ragione per cui Amnesty ha perduto 4800 dei 7700 volontari che aveva nel 2011: da un lato si presenta come politicamente e religiosamente neutrale, ma, dall’altro, è arrivata a sostenere le manifestazioni anticattoliche del Gay Pride di Belfast; da un lato, difende (giustamente) la vita dei migranti e promuove lo spirito di accoglienza, ma, dall’altro, combatte contro l’accoglienza della vita nascente. Senza contare i licenziamenti discriminatori operati verso i propri collaboratori.

Amnesty nacque con un nobile intento, difendere i diritti inviolabili enunciati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Ciò nonostante, oggi pare avere perso il contatto con la sua missione originaria, arrivando a propugnare, in nome dei diritti umani, persino la legalizzazione della prostituzione e della droga. In ciò, lo spirito della ONG sembra essersi allontanato da quello dei redattori della Dichiarazione del 1948, unendosi, invece, alla «moda dei tempi» ed appoggiando «la cultura dello scarto», oltre che «potenziandola nei paesi ispanici ed africani».

L’augurio è che Amnesty, anche a fronte degli abbandoni che ha subito, possa riscoprire e ritornare alla sua vocazione originaria, così da servire l’uomo in ogni sua condizione, dall’inizio alla fine della vita.

Marco Visalli

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La “cristianizzazione forzata” delle Americhe? Alcuni chiarimenti storici.

Alcuni parlano di evangelizzazione forzata delle Americhe, lo ha fatto lo storico Edmondo Lupieri nel suo Identità e conquista (Feltrinelli 2005). Si legge di “colonialismo”, “conquiste cristiane” e di “imposizione del cristianesimo”. Cosa c’è di vero?

Le cose andrebbero storicamente chiarite e lo abbiamo fatto nel nostro apposito dossier dedicato all’argomento: legare la religione cattolica al colonialismo è un’operazione controversa. Oltre al fatto che molti dei sovrani “cattolici” -quelli di Spagna, Francia e Portogallo-, lo erano in modo piuttosto nominale (mentre Inghilterra, Olanda e altri paesi avevano già aderito alla Riforma), i vertici della Chiesa erano spesso designati e governati direttamente dal re e non dai Pontefici.

I Papi, in ogni caso, già a partire dal 1435 (con la bolla “Sicut Dudum di Eugenio IV), condannarono la schiavitù delle popolazioni indigene sotto pena di scomunica (qui l’approfondimento) e, a partire dal 1537 con la bolla “Veritas Ipsa”spazzarono via gli appetiti schiavistici sulle popolazioni del Nuovo Mondo, proclamando che “Indios veros homine esse”Una regina storicamente ritenuta un’autentica cattolica fu, invece, Isabella di Castiglia. Fin dal 1493, qualche mese dopo la scoperta dell’America, Isabella chiese a Cristoforo Colombo che gli indios fossero trattati “amorosamente” (testuali parole presenti nel documento originale del 1501), guardandoli «come gli altri abitanti del nostro reame». Lei stessa rimanderà nelle Antille, come uomini libri, gli schiavi che Colombo -da lei destituito- aveva inviato in Europa per essere venduti.

Riflettendo sull'”imposizione del cristianesimo” e sulle “conversioni forzate” operate dai colonizzatori nei confronti dei popoli indigeni, si percepisce il senso di forte ingiustizia. Che fine ha fatto la cultura dei vinti? Le cose si ridimensionano leggendo una delle principali studiose delle civiltà azteca e maya, la storica e antropologa australiana Inga Vivienne Clendinnenla scomparsa dell’impero azteco, ha scritto, le crea dispiacere più o meno come la sconfitta dei nazisti dopo la guerra mondiale. Infatti, il sistema di sterminio nazista era decisamente più soft degli innumerevoli sacrifici umani settimanali che avvenivano a Tenochtitlán, capitale azteca (I.V. Clendinnen, The Cost of Courage in Aztec Society: Essays on Mesoamerican Society and Culture, Cambridge University Press 2010). La Clendinnen fu tra le prime studiose del mondo Maya e Azteco e, diversi anni dopo, pubblicò anche un libro sull’olocausto nazista (premiato dal New York Times come miglior libro del 1999). E’ difficile quindi avere una prospettiva più ampia e accurata su tale panorama.

L’antropologa australiana ha così spiegato che l’unico animale che veniva tagliato e sacrificato pubblicamente era l’essere umano, con la partecipazione attiva di tutte le classi sociali: tutto a Tenochtitlan era costruito per celebrare l’uccisione e il sacrificio umano. «Ad insanguinare ogni giorno i gradini degli enormi templi era quest’ansia ossessionante di non lasciare finire il mondo, un’ansia che raggiungeva il suo culmine ogni cinquantadue anni, quando la minaccia delle catastrofi si faceva più concreta ed imminente» (B. Diaz del Castillo, La conquista del Messico, Longanesi 1968). Il film Apocalypto di Mel Gibson è stato accurato nel descrivere il bisecolare mondo azteco. «Le persone», ha scritto Clendinnen, «venivano coinvolte nella cura e nella preparazione delle vittime e dei corpi: lo smembramento, la distribuzione di testa e arti, la divisione di carne, sangue e pelle scorticata». Tutta la cultura Azteca, Inca e Maya era costruita attorno al sacrificio umano di massa. «In occasione dei riti di fertilità», ha aggiunto l’antropologo americano George Clapp Vaillant, «venivano uccisi donne e bambini per assicurare la crescita delle piante. Saltuariamente si ebbero casi di cannibalismo cerimoniale. Infliggersi ferite a sangue era un altro modo di assicurare il favore divino. La popolazione faceva orribili penitenze, mutilandosi con lame o trapassandosi la lingua di spaghi cui erano annodate spine» (G.C. Vaillanti, La civiltà Azteca, Einaudi 1962, p. 184-188). E’ recente la notizia di una scoperta a Tenochtitlan, capitale dell’impero azteco: un enorme accumulo di teschi (tra cui molte donne e bambini) dedicati al dio azteco del Sole, della guerra e dei sacrifici umani, depositati all’interno della torre dopo l’esposizione al pubblico su un’intelaiatura in legno.

Questo è ciò che si trovarono davanti agli occhi i conquistadores. I quali riuscirono a sconfiggere gli Atzechi trovando pronta alleanza con popolazioni indigene vittime del crudele dominio azteco (i prigionieri di guerra erano i primi ad essere scuoiati vivi e sacrificati ai capricciosi dèi atzechi). L’instaurazione del cristianesimo servì anche a dotare questi uomini -totalmente sottomessi al capriccio delle loro crudeli divinità- di una morale più “umana”, allontanandoli dalla violenza religiosa. Il popolo Azteco, è stato infatti dimostrato, smise di praticare uccisioni di massa e altre violente forme autoctone di culto proprio grazie alla conversione cristiana di molti dei suoi membri (cfr. Koschorke, A History of Christianity in Asia, Africa, and Latin America 2007, pp. 31–32; McManners, Oxford Illustrated History of Christianity 1990, p. 318).

Il condottiero Hernán Cortés fu avido di denaro, di ricchezze e fu efferato nel combattere i guerrieri indigeni, ma anche disgustato dai loro sacrifici di massa, sentendosi per questo un vero liberatore. Spesso la furia della guerra prese il sopravvento ma si consideri anche che ad opporsi alla non rara violenza degli stessi conquistadores furono anche monaci e sacerdoti cattolici, come Bartolomé de Las Casas, protettore degli indios. In Paraguay, addirittura, i gesuiti armarono, educarono le popolazioni locali e respinsero i colonizzatori: l’esempio più classico è la famosa Battaglia di Mbororè. Le missioni gesuite furono oasi di paradiso rispetto al dominio atzeco e a quello degli “uomini bianchi”.

Di richieste ufficiali di conversioni forzate, tuttavia, non c’è traccia. Anzi, il primo Concilio d’America, quello di Lima nel 1552, stabilì: «Ordiniamo che nessuno battezzi indios di oltre 8 anni di età, senza verificare che venga volontariamente battezzato e per amore a quanto richiede e riceve, e capisca il sacramento. Non si dovranno battezzare bambini indios prima dell’età di ragione, oppure contro la volontà dei genitori o di coloro che ne hanno la cura». Occorre anche considerare quanto afferma l’eminente storico francese Jean Dumont, tra i massimi esperti della storia spagnola dei secoli XV e XVI: «Ce n’è abbastanza per dire che l’evangelizzazione degli indios non fu forzata e nemmeno superficiale, come si è troppo spesso scritto. Popoli indios interi e di primaria importanza abbracciarono subito autonomamente la fede cristiana […]. In Perù la cristianizzazione degli indios sarà talmente profonda che la grande rivolta contro il potere coloniale, quella di Topak Amaru alla fine del XVIII secolo, si farà in nome del cristianesimo, in un totale rovesciamento dei riferimenti religiosi degli indios. In Messico, dal 1925 al 1930, sarà il cattolicesimo indios che si opporrà con resistenza eroica all’impresa di scristianizzazione violenta dei senza Dio giacobini e bolscevichi».

Ombre e luci,  come sempre. Così è la storia degli uomini. Ma la realtà è più complessa e laddove ci si indigna (giustamente) per popoli occidentali che sottomettono le civiltà primitive, si può anche riconoscere come i valori cristiani hanno civilizzato popoli violenti, dominati da sangue e omicidi. Ancora oggi i vescovi continuano a combattere a fianco degli indios, spesso pagandone le conseguenze. E’ accaduto qualche anno fa al brasiliano mons. Pedro Casaldaliga, minacciato di morte per il suo impegno più che quarantennale in difesa dei diritti della tribù Xavante.

La redazione

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Eliminati Dio e famiglia, gli inglesi si affidano al ministero della Solitudine

La notizia non è nuova: il primo ministro inglese Theresa May ha creato il ministero della Solitudine, nominando Tracey Crouch. L’obiettivo è combattere quel che la May definisce «la triste realtà della vita moderna». Dopo sei mesi, il ministro sta ancora studiando e rilascerà un programma strategico nel prossimo autunno.

Il moltiplicarsi di rapporti virtuali non ha reso più uniti gli uomini ma ha esasperato individualismo, divenuto una vera epidemia. Non è una coincidenza che ciò avvenga in particolare in un Paese con il più alto tasso di disgregazione familiare ed in cui oltre il 53% dei cittadini si dichiara privo di senso religioso.

«Per troppe persone», ha dichiarato la leader conservatrice britannica, «la solitudine è la triste realtà della vita moderna». Si parla, secondo le statistiche, di 9 milioni di persone che si sentono sempre o molto spesso sole, prive di legami importanti sia all’interno che all’esterno della famiglia. Anziani, ma sopratutto giovani e adolescenti. Un esercito di monadi, pieni di relazioni virtuali e profondamente soli.

Michael Cook, direttore di Mercatornet, giustamente ha criticato le varie soluzioni promesse dal governo inglese: soltanto palliativi che non «curano la vera causa della cosiddetta epidemia della solitudine». Essa, ha proseguito Cook, va individuata nella scomparsa e nel declino della famiglia come ambito di vicinanza, educazione ed impegno vicendevole. «I due maggiori cambiamenti sociali dell’ultimo mezzo secolo», ha proseguito, «sono stati l’aumento dei tassi di divorzio e la diminuzione dei tassi di matrimonio. Le famiglie sono diventate più piccole e frammentate in gruppi isolati. Non sorprende che l’isolamento sociale e la solitudine aumentino». La convinzione di Cook è confermata da uno studio secondo cui già nel 2003 il Regno Unito aveva uno dei più tassi più elevati di disaggregazione familiare nel mondo.

Bisognerebbe anche guardare, come ha suggerito il sociologo Giuliano Guzzo, a quell’invisibile popolo che ancora «prega, fa figli, che educa a valori controcorrente. E’ una ribellione totale ma non urlata, domestica e silenziosa, al tempo stesso concreta e spirituale. Trattasi però di una rivolta numericamente assai minoritaria, purtroppo, rispetto a una maggioranza che ancora non capisce. E non si accorge che il Ministero per la Solitudine arriva fuori tempo massimo, come un ossimoro che non sa di cura ma di accanimento terapeutico».

Che la questione sia anche legata alla scomparsa del sentimento religioso è innegabile, la recente ricerca del National Centre for Social Research ha rilevato che più della metà (53%) dei britannici afferma di non avere alcuna religione. Eppure, secondo un altro studio, il 59% è superstizioso, il 29% ritiene di saper prevedere il futuro e regredire nelle vite passate, il 23% ha riferito di essere telepatico.

La morte di Dio e, di conseguenza (o viceversa) della famiglia sono un indice della morte della civiltà. «Il vero problema in questo nostro momento della storia», ci ha ricordato Benedetto XVI, «è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta da una mancanza di orientamento i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più». Il Regno Unito è un esempio concreto.

La redazione

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La frasi di Albert Einstein su Dio: era credente? Nuovo dossier UCCR

Le citazioni e gli aforismi di Einstein vanno alla grande sul web, evidentemente è stato un personaggio la cui fama è arrivata ben oltre il campo scientifico. Certamente è stato mitizzato e ancora oggi vi sono diatribe sul suo pensiero religioso.

L’esistenza di una moltitudine di opinioni sulla visione metafisica del celebre fisico è dovuta anche al fatto che il suo pensiero non fu sempre coerente e chiaro ma, anzi, scostante, non lineare e incoerente. Come quello di gran parte degli esseri umani. Tuttavia è possibile tracciarne una sintesi, seguendo il percorso che lui stesso fece. Il nuovo dossier di UCCR è proprio incentrato su questo.

Ci siamo basati solo su biografie ufficiali e attendibili, come quelle di Max Jammer, Walter Isaacson e Abraham Pais, prendendo ampio spunto dall’ottimo lavoro italiano realizzato dal saggista Francesco Agnoli: Filosofia, religione e politica in Albert Einstein (Edizioni Studio Domenicano 2015).

Ne è emerso un cammino, da parte del padre della teoria della relatività, che passa dal panteismo di Spinoza alla riscoperta dei valori biblici e cristiani, in particolare dopo l’ascesa del Nazismo e in coincidenza con la sua fase più matura. Le costanti nel suo pensiero sono il rifiuto dell’ateismo, del materialismo, del positivismo e del nazionalsocialismo. Molto spesso ha respinto anche l’idea di un Dio “personale” o “antropomorfico”, come quello cristiano, anche se con varie eccezioni.

Sopratutto dopo il 1933, in opposizione alla «divinizzazione di una nazione, di una classe, e meno che mai di un individuo», Einstein riscopre e richiama la necessità dei «più alti principi su cui si fondano le nostre aspirazioni e i nostri giudizi», i quali «ci vengono dalla tradizione religiosa giudaico-cristiana» (A. Einstein, Pensieri, idee, opinioni, Newton 2004, p. 26). In questa fase matura della sua vita si allontanerà anche dal pacifismo militante e dall’antimilitarismo, mentre coltiverà l’amicizia con i frati francescani di Fiesole (Toscana), in particolare con l’organista padre Odorico Caramelli.

Sintetizzando, quello che Einstein professò era un Dio sovrapersonale, una Intelligenza ordinatrice del cosmo, muovendosi in modo altalenante tra il Dio di Spinosa, il deismo ed il Dio biblico. Cinque anni prima di morire, come abbiamo mostrato, scriverà di Dio in modo inedito, come di un “Lui” (“Him”): «C’è una cosa che ho imparato nel corso della lunga vita: è diabolicamente difficile avvicinarsi a “Lui”, se non si vuole rimanere in superficie» (A. Einstein, Lettera a Michele Besso, 15/04/1955).

 

Clicca qui per consultare il dossier:
“Einstein, Dio e la religione: cosa pensava e in cosa credeva”

 

La redazione

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Esporre il crocifisso dovrebbe essere un diritto, non un obbligo di legge

Obbligo del crocifisso nelle scuole, nei tribunali e negli aeroporti. E’ una proposta di legge, risalente al marzo scorso, arrivata a far notizia solamente in questi giorni. Le intenzioni dei deputati leghisti sono condivisibili,  ma l’idea non ci piace.

Siamo stati i primi ad esultare quando il laicismo venne sconfitto dalla Grande Camera del Corte europea dei diritti dell’uomo, che -grazie all’iniziativa controproducente degli atei italiani- sentenziò la non discriminazione dell’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche in tutta Europa. Era il 2010, e a difendere il simbolo cristiano fu il giurista e rabbino ebreo Joseph Weiler. Un anno dopo abbiamo riferito la decisione della Corte Costituzionale del Perù, la quale stabilì che la Bibbia e il crocifisso non violano la laicità. Allo stesso modo si è espressa la Corte Costituzionale austriaca e la Cassazione italiana, la quale ha stabilito che la sola esposizione del crocifisso, e non il simbolo di altre religioni, non viola la pluralità religiosa.

Riteniamo però vi sia una distinzione, seppur fin troppo sottile per alcuni, tra difendere il diritto di esporre il crocifisso, sottolineare il non diritto di rimuoverlo in nome di un falso concetto di laicità ed il dovere di legge, obbligatorio pena sanzione, di tappezzare i luoghi pubblici con “croci di Stato”. Sono tre temi differenti e si può essere favorevoli ai primi due senza dover essere necessariamente d’accordo con l’ultimo.

Comprendiamo tuttavia, almeno da un certo punto di vista, l’iniziativa della deputata salviniana Barbara Saltamartini, firmataria della proposta, la quale ritiene «inaccettabile per la storia e per la tradizione dei nostri popoli, se la decantata laicità della Costituzione repubblicana fosse malamente interpretata nel senso di introdurre un obbligo giacobino di rimozione del Crocifisso; esso, al contrario, rimane per migliaia di cittadini, famiglie e lavoratori il simbolo della storia condivisa da un intero popolo». A quanto sembra, dunque, l’idea dei promotori è creare un autorevole appiglio giuridico (oltre ai decreti regi del 1924 e 1928) che impedisca la rimozione del simbolo religioso-culturale alla base della civiltà europea. Se il proposito è accettabile, la conseguenza è appunto imporne la presenza con una multa, fino 
a mille euro, a chi si sottrae dall’obbligo.

Sulla vicenda del crocifisso è intervenuto nel 2016 anche Papa Francesco, lamentandosi di «coloro che vogliono togliere la Croce di Cristo dai luoghi pubblici ed escluderla dalla vita pubblica, nel nome di qualche paganità laicista o addirittura in nome dell’uguaglianza che Cristo stesso ci hai insegnato». Se ci si reca al nostro dossier, nel capitolo dedicato ai suoi interventi sulla laicità, appaiono altri discorsi del Pontefice, come quando ha spiegato che «il rispetto dovuto alle minoranze di agnostici o di non credenti non deve imporsi in un modo arbitrario che metta a tacere le convinzioni di maggioranze credenti o ignori la ricchezza delle tradizioni religiose».

Francesco parla di “tradizioni religiose” e la croce cristiana è la più simbolica di esse. In un paese come l’Italia, il cui progresso civile e culturale è inscindibile dal cattolicesimo, rimuovere un crocifisso lasciando una parete vuota significa optare per una visione atea della società, cioè priva di simboli religiosi. Ma questa visione non rappresenta la storia italiana. Così, sbaglia anche chi replica dicendo “o tutte le religioni o nessuna”. Nelle scuole italiane, infatti, non si studiano “tutti” i pensatori di “tutte le civiltà”, ma si selezionano quelli fondamentali per la storia occidentale: Platone, Aristotele, Agostino, Dante, Leopardi, Manzoni ecc. Allo stesso modo, islam, ebraismo, buddhismo o ateismo non hanno piantato la radici italiane e non hanno contribuito storicamente alla creazione della cultura europea/occidentale, come invece ha fatto il cristianesimo. La rimozione dei crocifissi sarebbe comprensibile in Turchia, Giappone, Israele e Cina. Ma non nell’Europa cristiana.

«Il crocifisso non genera nessuna discriminazione», scrisse in modo celebre l’atea Natalia Ginzburg. «E’ l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente». Ma non basta: per quanto detto sopra, dovrebbe essere un dovere morale esporlo pubblicamente, specialmente negli ambiti educativi e sopratutto coinvolgendosi in un confronto storico-culturale. Ma l’obbligo di legge, con addetti alla vigilanza ed il ricatto della multa no, non serve. Non educherebbe, polarizzerebbe le visioni e risulterebbe controproducente.

La redazione

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Il suicidio della Femen e il tragico inganno del femminismo

«Sempre più donne vedono il femminismo come irrilevante, se non addirittura dannoso per gli interessi delle donne (e delle famiglie)». Così ha scritto Naomi Schaefer Riley sul New York Post. Il tema torna d’attualità dopo la tragica notizia del suicidio di Oksana Shachko (nella foto), 31 anni, co-fondatrice del movimento femminista Femen.

Un gruppo, quello delle Femen, che ha sfruttato la giusta battaglia culturale per l’equiparazione morale della donna all’uomo, trasformando il femminismo in fascismo rosa. Combattono l’immagine della donna oggetto ma lo fanno denudandosi per dare più forza al loro messaggio, confermando solamente il pregiudizio di chi non ritiene la donna capace di catturare l’attenzione senza scoprire le gambe. Proclamano l’emancipazione radicale dagli uomini, ma sono comandate a bacchetta da Viktor Svyatskiy, il padre-padrone che studia e finanzia i loro cinque minuti di notorietà.

Non si conosce ancora la causa del suicidio per impiccagione della giovane Oksana, a cui vanno le nostre preghiere. Al di là di ciò che l’ha portata a compiere tale terribile gesto ed indipendentemente da questo, la giovane donna  (come le compagne che lascia) è stata una delle tante vittime del femminismo. Ricordiamo l’opposta decisione di una sua collega, l’ex Femen Sara Fernanda Giromini, che ha abbandonato “la setta” delle Femen (come le definisce), denunciando che «il loro lo scopo è di infiammare l’odio contro la religione cristiana, l’odio contro gli uomini, l’odio contro la bellezza delle donne, l’odio contro l’equilibrio delle famiglie. Questo è ciò che il femminismo è, posso garantirlo perché io ci sono stata dentro. Oggi sono molto più felice e sono in grado di aiutare le donne». La stessa donna ha rivelato in queste ore che Oksana era in disaccordo con le leader di Femen, Inna e Sasha Shevchenko, perché usavano la causa femminista e il dolore delle donne ucraine (che soffrono per il turismo e lo sfruttamento sessuale), solo per arricchirsi e diventare famose.

Il «paradosso del declino della felicità femminile», hanno sottolineato le studiose Betsey Stevenson e Justin Wolfers dell’University of Michigan, aumenta all’allontanare l’attenzione dalla famiglia, favorendo l’emancipazione da essa in favore della carriera lavorativa. La sociologa Dana Hamplová, dal canto suo, ha pubblicato uno studio analizzando i dati di oltre 30 paesi europei, concludendo che le donne preferiscono accudire i figli e il lavoro domestico a tempo pieno. Le mamme casalinghe, si legge, sono più felici e più soddisfatte di quelle che lavorano. «Un altro colpo alla narrativa femminista», la conclusione.

Lungi da noi l’immagine stereotipata dell’uomo lavoratore e della donna che lo aspetta lavando, stirando e cucinando. Anzi, siamo più che convinti che in molti settori lavorativi il “genio femminile” merita ruoli di comando e di responsabilità. Ma, trasformare le donne in maschi, illudendole dell’inutilità dell’uomo, del padre e dei figli -come ha preteso fare violentemente il femminismo- è stato un tragico errore, uno snaturamento. Mettere contro la donna alla madre è quel che lo psicoanalista Massimo Recalcati ha chiamato «l’esaltazione narcisistica di se stesse». Il movimento femminista ha trasformato la battaglia culturale per il riscatto della donna in una guerra contro le donne stesse: «Se c’è stato un tempo — quello della cultura patriarcale — dove la madre tendeva ad uccidere la donna», ha continuato Recalcati, «adesso il rischio è l’opposto; è quello che la donna possa sopprimere la madre».

Il femminismo è stato un inganno, che ha individuato il nemico della donna nella famiglia e nella maternità. «Non capisco proprio il femminismo», ammise Alda Merini. «La donna che vuole diventare uomo sovverte tutta la cultura passata. La donna deve essere se stessa». Per la poetessa italiana, «il vero diritto di una donna è quello alla maternità: il figlio è il più grande atto d’amore e il suo mistero resta intatto. L’occasione che la madre dà al suo bambino è ogni volta un miracolo, ed è una bestemmia negare tutto questo in nome di un femminismo che è l’opposto dell’essere femmina, nel senso più alto del termine».

La redazione

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