L’Esodo biblico degli ebrei, conferme dall’archeologia

Il più importante archeologo austriaco, Manfred Bietak, riconosce sul Biblical Archaeology Review la storicità del racconto biblico sulla fuga degli ebrei dall’Egitto. Ecco riassunti gli argomenti a favore dell’Esodo biblico.

 
 
 

L’Esodo biblico, realtà o finzione?

Recentemente abbiamo analizzato le origini della Pasqua cristiana, smentendo il legame con il paganesimo e affermando invece un forte legame con la Peasch ebraica.

Questa festa, infatti, celebrava l’Esodo, la fuga degli ebrei dall’Egitto, dov’erano sottoposti alla schiavitù, verso la Palestina e sotto la guida di Mosè.

Da più parti si sostiene tuttavia che l’Esodo sarebbe un racconto leggendario e mitologico, mai provato dall’archeologia.

Pur avendo più volte sostenuto la necessità di interpretazione dell’Antico Testamento, senza ritenerlo un libro di storia o di scienza, abbiamo anche sottolineato che ciò non esclude tratti di storicità.

 

L’Esodo biblico e le prove storiche: nessuna leggenda.

Sul numero di maggio/giugno 2016 della rivista Biblical Archaeology Review è apparsa infatti una dettagliata analisi delle prove a favore della storicità dell’esodo biblico, firmata dal più importante archeologo austriaco Manfred Bietak, professore emerito di Egittologia all’Università di Vienna e fondatore dell’Austrian Archaeological Institute.

Esaminando testi egizi, manufatti e siti archeologici, Bietak conclude sostenendo che il testo biblico riporta eventi storicamente accurati risalenti al XIII secolo a.C.

Un primo esempio sono i nomi di tre luoghi che compaiono nel Libro dell’Esodo, i quali corrispondono precisamente ai toponimi egizi del periodo Ramesside (XIII-XI secolo a.C.).

Si tratta di Pithom, Ramses e Yam Suph corrispondenti ai toponimi egizi Pi-Ramesse, Pi-Atum e (Pa-)Tjuf, i quali compaiono nel periodo Ramesside e cessarono di essere utilizzati all’inizio del Terzo periodo intermedio dell’Egitto (iniziato nel 1085 a.C.).

Questi luoghi specifici registrati nel testo biblico dimostrano che la memoria dei profeti, autori dei brani, è anteriore al Terzo Periodo Intermedio, supportando l’avvenimento dell’Esodo nel XIII secolo a.C. durante il periodo Ramesside (come d’altra parte sostiene gran parte degli studiosi biblici).

Una seconda prova archeologica citata nell’articolo è relativa alle scoperte avvenute a Tebe.

Negli anni ’30, in occasione dello scavo del tempio funerario degli ultimi faraoni della XVIII dinastia egizia (Aya e Horemheb) da parte degli archeologi dell’Università di Chicago, venne alla luce una casa (e parte di un’altra) appartenente agli operai che avevano l’incarico di demolire il tempio su ordine del faraone Horemheb (morto nel 1292 a.C.).

La pianta della casa è caratteristica delle abitazioni israelite durante l’età del ferro pur essendo costruita in canniccio e fango. Risulta significativo che questa casa sia stata costruita in Egitto nello stesso periodo in cui gli israeliti stavano costruendo case simili in Cananea e le forti somiglianze inducono a ipotizzare che i costruttori della casa tebana fossero o proto-israeliti o un gruppo strettamente imparentato con gli israeliti.

Una terza prova a favore dell’Esodo biblico è l’Onomasticon Amenope, un elenco di parole classificate del Terzo Periodo Intermedio dell’Egitto.

Scritto in ieratico, il papiro include il toponimo semitico b-r-k.t, che si riferisce ai laghi di Pithom.

Ciò dimostra che nelle fonti egiziane, al posto del nome egiziano originale, veniva usato un nome semitico inducendo a considerare che una popolazione di lingua semitica abbia vissuto nella regione abbastanza a lungo per far sì che i loro termini soppiantassero gli originali.

Un quarto argomento convincente dell’Esodo deriva dalla stessa analisi del testo biblico in cui si parla della storia della schiavitù. È probabile che una storia di schiavitù sia vera.

L’archeologo Manfred Bietak scrive, infatti:

«La trama dell’Esodo, di un popolo in fuga da un’umiliante schiavitù, suggerisce elementi storicamente credibili. Normalmente, sono solo le storie di gloria e di vittoria che vengono conservate nelle narrazioni da una generazione all’altra. È probabile che una storia di schiavi contenga elementi di verità».

 

La scienza e la separazione delle acque del Nilo

Così, se da un lato le scoperte archeologiche riassunte nell’articolo sembrano confermare l’accuratezza dell’Esodo biblico, sarebbe sbagliato sostenere che ogni dettaglio della storia dell’Esodo nella Bibbia è automaticamente vero.

Ad esempio, non risulta dimostrato che si trattò della fuga di 600.000 ebrei, come afferma la Torah. Numeri così esorbitanti avrebbero senz’altro lasciato maggiori tracce storiche. E’ molto più probabile che l’esodo abbia riguardato solo alcune grandi famiglie.

Che dire, infine, dell’evento più epico del racconto dell’esodo, cioè la separazione delle acque del Nilo da parte di Mosè? Si tratta ovviamente di un evento trascendente che, per ovvie ragioni epistemologiche, non può essere indagato dall’indagine storica o scientifica.

Nel 2010, tuttavia, i ricercatori del National Centre for Atmosphere Research e dell’Università del Colorado, attraverso una simulazione, hanno sostenuto che l’evento sarebbe naturalmente possibile e non avrebbe violato le leggi naturali.

Anzi, è stato concluso, «il nostro studio suggerisce che la narrazione biblica è perfettamente verosimile. Per i credenti sarà un miracolo del Signore, per i non credenti un miracolo della Natura, ma il risultato è lo stesso».

La redazione

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Piergiorgio Odifreddi trasformato grazie a Ratzinger

Il noto matematico impertinente Piergiorgio Odifreddi ha da tempo abbandonato le immature provocazioni per impegnarsi in dialoghi seri e rispettosi con il Papa emerito. Un rapporto epistolare raccolto oggi in un libro in cui il confronto è serio, anche sul tema della morte dopo la scomparsa della mamma di Odifreddi e del fratello di Ratzinger.

 
 

Cos’è successo a Piergiorgio Odifreddi?

Da matematico (sedicente) impertinente, appassionato lettore di UCCR, si è nel tempo trasformato in moderato commentatore d’attualità.

Nel 2018 Repubblica scelse di chiudere il suo storico blog a seguito delle sue accuse al direttore Eugenio Scalfari.

Già nel 2012, tuttavia, gli venne impedito temporaneamente di scrivere dopo aver accusato di nazismo lo stato di Israele.

 

Le odifreddure di Odifreddi: provocazioni poco mature

Noto dai più come ateo fondamentalista, lo ricordiamo brevemente per alcune di quelle che abbiamo definito odifreddure.

«I cristiani? Sono dei cretini», scrisse nel 2007. Nello stesso anno e nel 2008 vinse ben due Asini d’Oro come peggior divulgatore scientifico.

Nel 2010 se la prese anche con gli ebrei accusando il celebre matematico Giorgio Israel di essere «un virulento, un intellettuale di nicchia, una testa calda. In più esercita il vittimismo dell’ebreo» (affermazioni che gli causarono non poco scompiglio a causa nostra).

Nel 2011 Odifreddi accusò i medici cattolici di essere «inaffidabili in quanto malati di mente», pochi mesi dopo invitò lo Stato ad «intervenire per impedire la procreazione» di persone infelici, «anzitutto forzando all’uso di anticoncezionali. E poi, quando la prevenzione avesse fallito, imponendo la cessazione della gravidanza».

Un anno dopo, nel 2012, sostenne che «mi fa piacere se le bestemmie verso Dio danno fastidio».

 

Nel 2013 l’inizio delle lettere tra Odifreddi e Benedetto XVI

Dal 2013, più o meno, Piergiorgio Odifreddi sembra aver smesso i vestiti del bizzarro personaggio che ha a lungo interpretato, sicuramente condizionato dalla perdita di appeal dell’ateismo aggressivo in voga fino a qualche tempo fa (anche Richard Dawkins è finito d’altra parte per dichiararsi “cristiano culturale”).

E’ probabile che questo cambiamento sia stato provocato dalla sua corrispondenza con Benedetto XVI, culminata anche in incontri personali.

Lui stesso ne ha parlato recentemente sponsorizzando il libro In cammino alla ricerca della verità (Rizzoli 2022), con prefazione del card. Ravasi.

Una raccolta di lettere tra Odifreddi e Ratzinger a partire (guarda caso) dal 2013, quando il Papa emerito rispose personalmente al libro Caro papa ti scrivo (2011), nel quale il matematico commentò quel che definisce «il capolavoro» di Benedetto XVI, ovvero Introduzione al cristianesimo (1968).

Ratzinger, scrive oggi Piergiorgio Odifreddi, «mi aveva tirato le orecchie con parole “dure e franche”, invitandomi “in modo deciso a rendermi un po’ più competente da un punto di vista storico”, per rimediare a “un parlare avventato che non dovrei ripetere”».

I due hanno proseguito a scriversi negli anni, confrontandosi sulla storicità di Gesù, sulla veridicità dei miracoli, sul monoteismo e sulla prova ontologica dell’esistenza di Dio di Kurt Gödel. In un incontro personale, al termine di un’udienza, Odifreddi racconta di essere stato bonariamente stuzzicato da Benedetto XVI: «Lei finirà per diventare un grande teologo!».

Il card. Ravasi, nella prefazione del libro, mette comunque in guardia dal fatto che l’autore del libro è Odifreddi ed è sua la parte preponderante, il quale «talora plasma parole e giudizi del suo interlocutore».

Tuttavia, nota il cardinale, «sorprende, comunque, una indubbia delicatezza affettuosa del narratore, che rivelerà a molti un volto inedito, rispetto a certe asprezze fin aggressive riservate in passato al mondo cristiano, e in particolare all’orizzonte ecclesiale»

 

La mamma di Odifreddi ed il fratello di Ratzinger.

C’è anche un aspetto più personale al di là del confronto sui massimi sistemi.

«Nel 2015 avevo scritto al papa emerito una lunga lettera su come un ateo vede la morte», ricorda Odifreddi, «ma nel 2020 le parole astratte divennero dolore concreto, quando lui perse suo fratello e io mia madre. Il libro si conclude dunque con le nove lettere che ci scambiammo in quell’annus horribilis, nel tentativo di elaborare i nostri rispettivi lutti».

Il 18 ottobre 2020, in occasione della morte di sua madre, Odifreddi inviò infatti al pontefice emerito una lettera che definì «sfogo filiale, tanto privato e personale da risultare quasi una “confessione”».

Il card. Ravasi la definisce «una straordinaria testimonianza dell’approccio personale, anche emotivo, di un ateo di fronte alla morte di una persona cara, un’esperienza umana radicale. E Benedetto XVI, rispondendo il 24 novembre 2020, confessa senza esitazione che “la Sua lettera circa la morte della Sua amata Madre mi ha profondamente toccato”».

Infine, la decisione da parte di entrambi di rendere pubblica questa corrispondenza.

 

Odifreddi interpreta così questa esperienza: «La dimostrazione di come anche due persone con idee antitetiche, come un papa e un ateo, possano comunque confrontarsi rispettosamente e andare d’accordo, con buona pace dei fondamentalisti e dei bellicisti».

Una riflessione probabilmente autobiografica, riferibile senz’altro all’Odifreddi “fondamentalista e bellicista” di qualche anno fa. Oggi non è più così, (anche) grazie al Papa emerito.

«Saper invecchiare è il capolavoro della saggezza», scrisse Herman Melville, aggiungendo che «è uno dei capitoli più difficili della grande arte del vivere».

La redazione

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Tutto è omofobia, anche la foto delle tue nozze su Zoom

Se partecipi ad una videochiamata da casa e alle tue spalle compare la foto del tuo matrimonio soffri di omofobia inconscia: ecco il nuovo psicodramma dell’associazionismo arcobaleno. Ma qual è il vero obbiettivo di questa campagna e delle Giornate contro l’omotransfobia?

 
 
 

Oggi i grandi media e le associazioni Lgbt ci impongono di celebrare la Giornata contro l’omotransfobia.

Fortunatamente, non ce n’è bisogno.

I dati statistici imparziali indicano chiaramente che non esiste alcuna emergenza in Italia, tant’è che gli unici numeri che vengono citati sui giornali sono quelli divulgati (ed autocertificati) dall’associazionismo arcobaleno.

 

Cosa c’è dietro le Giornate contro l’omotransfobia

In molti hanno ormai capito cosa si cela dietro alla celebrazione delle Giornate contro l’omotransfobia ed al tentativo di autoconvincere gli italiani di essere un popolo di indomiti omofobi.

E’ un grimaldello per legittimare una legge apposita (come si cercò di fare con il ddl Zan), in cui includere i veri obbiettivi: il self-id (la libera autocertificazione del proprio genere sessuale), le restrizioni della libertà di manifestazione del pensiero e l’imposizione alle scuole di corsi propagandistici sul gender (mascherati da lotta all’omofobia).

Nel marzo scorso abbiamo elencato tutti gli esponenti più autorevoli (in gran parte laici) che si sono accorti di questo e hanno condannato il ddl Zan all’affossamento: giuristi, costituzionalisti, magistrati, accademici, avvocati, storiche femministe, importanti filosofi ed opinionisti e perfino alcune sigle ed esponenti del mondo Lgbt.

 

Si vede la tua foto del matrimonio su Zoom? E’ omofobia

E’ surreale ormai constatare i livelli di psico-ossessione dell’omofobia.

A partire dal lockdown, in tempo di coronavirus, applicazioni come Skype, Teams e Zoom hanno permesso a milioni di persone di continuare a lavorare in smartworking, partecipando a riunioni online collegandosi da casa propria.

Anche su questo, incredibilmente, è nato l’ennesimo pretesto per urlare all’omofobia.

Il tutto è partito da Caroline Brooks e Amy Bonomi, omo-femministe della Michigan State University che lottano contro il fantomatico eteropatriarcato, per le quali ci sarebbe un «pregiudizio inconscio nelle riunioni online», un ennesimo problema urgente di dilagante omofobia.

I dipendenti delle aziende che si confrontano tra loro in videoconferenza, infatti, starebbero utilizzando un «linguaggio non verbale, manifestando simbolismo e segnali che rafforzano le identità sociali normative rispetto a genere, razza, preferenza sessuale e stato socioeconomico».

Un esempio? «Quando lo sfondo virtuale di un partecipante alla riunione su Zoom presenta immagini del suo matrimonio, rinforza involontariamente l’idea che il matrimonio sia più adatto tra sessi opposti».

Detta in parole semplici: la foto del matrimonio che si scorge sulla mensola alle spalle mentre si è in call con i colleghi comunica un’insopportabile discriminazione omofobica.

Si, serve assolutamente una legge.

La redazione

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Il Royal College of Physicians ora si oppone all’eutanasia

Eutanasia ed associazioni mediche. Nel 2019 il Royal College of Physicians si dichiarò neutrale rispetto alla morte assistita, un cambiamento politico definito “simbolico” dai media. Oggi è tornato ad opporsi dopo le proteste dei suoi membri.

 
 
 

Il 21 marzo 2019 il Royal College of Physicians (RCP) decise di adottare una posizione neutrale sulla morte assistita.

Una decisione sorprendente, la più antica associazione medica inglese rinnegava la sua storica opposizione all’eutanasia.

Una decisione, quella del Royal College, in totale controtendenza rispetto alle principali associazioni mediche del mondo, a partire dall’American Medical Association (AMA), dalla British Medical Association (BMA) e la German Medical Association (assieme a tante altre).

Nel febbraio scorso rendevamo noto in Italia che anche il College of Psychiatrists of Ireland, principale associazione medica di psichiatri irlandese, ha assunto una posizione drasticamente contraria alla legalizzazione della morte assistita.

 

Quando il Royal College of Physicians divenne neutrale

La posizione di neutralità venne assunta dopo un sondaggio interno tra i membri nel quale nessuna delle parti espresse (a favore o contro) raggiunse il 60% della maggioranza (43,4% contrari e 25% neutrali).

«Neutralità significa che non supportiamo né ci opponiamo ad un cambiamento della legge», disse Andrew Goddard, presidente dell’RCP, «non ci concentreremo sulla morte assistita nel nostro lavoro, continueremo invece a promuovere servizi di cure palliative di alta qualità».

Nonostante queste parole ancora piuttosto equilibrate, tuttavia, la BBC accolse il cambiamento con euforia, definendo “simbolica” la decisione di mutare posizione e sottolineando la gioia degli attivisti pro-eutanasia.

 

Il Royal College of Physicians ripristina il no all’eutanasia

Un entusiasmo durato poco in quanto il Royal College of Physicians è tornato sulla sua decisione, ripristinando l’opposizione alle pratiche di eutanasia e suicidio assistito.

In seguito ad una sfida legale intrapresa da numerosi suoi membri, infatti, l’RCP ha ufficialmente chiarito che «non supporta un cambiamento alla legge per consentire la morte assistita».

Infatti, si legge nel comunicato, «la maggior parte dei medici inglesi non sarebbe disposta a partecipare attivamente alla morte assistita anche se la legge venisse modificata per consentirla».

 

«Non è progressista uccidere le persone più vulnerabili»

«Nel chiarire la sua posizione rispetto all’eutanasia», ha commentato Robert Clarke, vicedirettore di ADF International, organizzazione bioetica di medici in difesa della vita umana, «il Royal College of Physicians ha compiuto un passo nella direzione giusta respingendo coloro che hanno cercato di travisare e strumentalizzare il cambiamento avvenuto nel 2019».

«Gli effetti dannosi dell’eutanasia sugli individui e sulla società», ha spiegato Clarke, «sono diventati molto chiari nei paesi che hanno seguito questo percorso, non c’è nulla di “progressista” in una società che rifiuta di prendersi cura dei suoi membri più vulnerabili».

Considerando ciò che il Royal College of Physicians rappresenta in Inghilterra, «sarebbe stato deludente vederlo abbandonare la sua consolidata opposizione all’eutanasia, specialmente quando il cambiamento è promosso da una piccola minoranza animata da motivi politici».

La redazione

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Libero arbitrio, smentito il celebre esperimento di Libet

L’esperimento di Libet sul libero arbitrio è stato replicato e ha dato conclusioni diverse: la consapevolezza di intraprendere un’azione coincide (e non più segue) con il momento in cui il cervello si attiva per compierla. A dimostrarlo uno studio pioneristico del ricercatore Aaron Schurger.

 
 
 

E se il famoso esperimento di Libet venisse replicato e le conclusioni fossero opposte, smentendo il più importante argomento usato contro il libero arbitrio?

Per decenni un celebre studio sul funzionamento del cervello ha alimentato la speculazione sul fatto che la nostra consapevolezza di voler intraprendere un’azione nasceva dopo che il cervello aveva già deciso di compierla.

Eppure, sembra che Libet -l’autore di questo studio- commise un errore fatale.

 

L’esperimento di Libet: prima il cervello poi la coscienza.

Innanzitutto, chiariamo le cose per chi non sa di cosa parliamo.

Benjamin Libet è stato un eminente neurofisiologo dell’University of California e nel 1977 ha studiato la correlazione tra l’attività cerebrale e l’intenzione di compiere un’azione minima, ossia quella di flettere un dito della mano.

Dal 1965 sappiamo che nel cervello, prima di compiere un movimento spontaneo, si verifica un accumulo di fluttuazioni dell’attività neuronale che, una volta superata una certa soglia, influenzano l’inizio del movimento. Questo accumulo è stato soprannominato “potenziale d’azione” (PR) o potenziale di Bereitschaft.

Libet nel suo celebre esperimento osservò sorprendentemente che il potenziale d’azione antecedeva non solo il movimento stesso ma sembrava iniziare anche prima (circa 206 millisecondi) che i soggetti si dichiaravano consapevoli dell’intenzione di muovere un dito.

Si concluse così che l’intenzione cosciente di agire non era la causa dell’azione, ma era il cervello del soggetto a predisporsi al movimento prima che questi intendesse davvero compierlo.

 

L’esperimento di Libet usato in chiave anti-teologica.

Lo studio di Libet venne ben presto strumentalizzato in chiave filosofica e teologica, entusiasmando i riduzionisti secolarizzati.

Lo stesso Libet, tuttavia, fin da subito difese la realtà del libero arbitrio, affermando: «La volontà cosciente seleziona comunque quali iniziative possono procedere verso un’azione o verso quali porre il veto e interromperle, l’esistenza del libero arbitrio rimane comunque altrettanto buona e una migliore opzione scientifica rispetto alla sua negazione da parte della teoria deterministica».

Ma, inevitabilmente, il dibattito prese piede e vi fu chi soffiò sull’onda determinista e chi sottolineò i grandi limiti dell’esperimento (e di quelli successivi compiuti da John-Dylan Haynes).

In particolare, molti notarono la differenza enorme tra la semplice decisione di muovere un dito e l’ideare invece un’azione complessa e stratificata come la pianificazione di un viaggio o l’acquisto di un auto, mentre altri sostennero prove ed argomenti a favore della volontà cosciente.

Vi fu ovviamente chi usò gli studi di Libet come “prova” dell’inesistenza di Dio (vedi Coyne, Wegner, Harris ecc.) sulla base che se la creatura non è per nulla eccezionale (un nient’altro che, secondo il mantra riduzionista) allora non è necessario coinvolgere l’esistenza di un Creatore.

Altri studiosi risposero falsificando tale ragionamento, osservando che la negazione della libertà implica la sottomissione totale alle leggi della fisica, senza più alcuna forma di intenzionalità, capacità intellettive e di ragionamento (pro o contro Dio).

La comunità scientifica per la gran parte ha giudicato frettolosa la negazione della libertà rispetto alle poche prove a disposizione. Lo stesso Libet nel 2014 scrisse: «Dato che il problema è di fondamentale importanza per la nostra visione di chi siamo, un’affermazione secondo cui il nostro libero arbitrio è illusorio dovrebbe essere basata su prove abbastanza dirette. Tale prova non è disponibile».

 

Lo studio di Schurger: coscienza coincide con attivazione cervello.

Ed eccoci arrivati al punto.

Nel 2010 Aaron Schurger, ricercatore del National Institute of Health and Medical Research di Parigi, incominciò a studiare le fluttuazioni dell’attività neuronale, osservando che nell’esperimento di Libet i soggetti non ricevevano alcun indizio esterno per attuare il movimento, agivano semplicemente in base a momenti spontanei.

Così, il ricercatore ha ipotizzato che in tale situazione altamente specifica il potenziale d’azione (PR) intervenga salvandoci da un’indecisione senza fine, ed esso non sia affatto la “preparazione del cervello ad agire” come invece interpretato da Libet. Semmai, quanto registrato dal noto neurofisiologo corrispondeva all’inizio del potenziale d’azione, ovvero alle fluttuazioni sotto-soglia che sono solo una parte del “segnale” che darà avvio all’azione.

Studi successivi su animali hanno confermato l’ipotesi di Schurger.

Alcune scimmie dovevano decidere tra due opzioni uguali ed i ricercatori hanno rilevato che l’imminente scelta era correlata all’intrinseca attività cerebrale (potenziale Bereitschafts) prima ancora che alla scimmia fossero presentate le opzioni.

Nel 2015 Schurger ha vinto il BMI-Kaloy Prize per le neuroscienze per aver “ribaltato una vecchia interpretazione” sul funzionamento del potenziale d’azione.

Nel 2019, Schurger e due ricercatori dell’Università di Princeton hanno ripetuto l’esperimento di Libet, evitando però di registrare inavvertitamente il potenziale d’azione. La scoperta è stata che l’esperienza soggettiva dei soggetti riguardo ad una decisione -ciò che lo studio di Libet suggeriva fosse solo un’illusione- corrispondeva precisamente al momento in cui il loro cervello si attivava per prendere una decisione.

«Mi ha aperto la mente», ha confessato Patrick Haggard, neuroscienziato dell’University College di Londra e collaboratore di Libet.

Si tratta comunque di un lavoro pionieristico, tanto quanto lo era quello di Libet, la cui interpretazione sul “cervello che decide prima della coscienza del soggetto” è stata tuttavia smentita.

Nel 2020 uno studio del cognitivista Eoin Travers ha provato a mettere in dubbio la scoperta di Schurger, senza però convincere né la comunità scientifica, né i commentatori più scettici.

 

«Questa nuova prospettiva capovolge il modo in cui sono stati interpretati i risultati», ha affermato Adina Roskies, filosofa ed esperta di scienze cognitive al Dartmouth College. «La nuova interpretazione mina tutte le ragioni per pensare che il libero arbitrio sia messo in discussione».

Nel 2021 lo stesso Aaron Schurger è intervenuto nuovamente sul potenziale d’azione (PR), concludendo: «Non si può dedurre che ci manchi il libero arbitrio cosciente basandosi sul profilo temporale del PR. Se questi modelli sono corretti, possono avere implicazioni per la nostra comprensione del libero arbitrio ma l’RP non riesce a supportare la classica inferenza per l’inefficacia della volontà cosciente».

La redazione

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Hitler cattolico? La tattica nazista per scristianizzare la società

Il pensiero religioso di Hitler. Profondamente anticristiano, evitò di attaccare frontalmente le confessioni religiose per opportunismo politico ma avviò un piano per scristianizzare lentamente la società. Ecco cosa fecero i nazisti.

 
 
 

Nonostante fosse stato battezzato, Adolf Hitler abbandonò presto la sua fede d’infanzia per manifestare una profonda ostilità verso la Chiesa.

Come riportato dal celebre storico Emilio Gentile, già nel 1908 il futuro dittatore tedesco manifestò la sua avversione per il cattolicesimo, come confermato anche dal suo più intimo amico August Kubizek.

Hitler sostenne infatti che le Chiese mondiali «sono estranee all’anima del popolo, anche le pratiche del culto della Chiesa sono estranee, il popolo non capisce neppure il linguaggio ecclesiastico, tutto colmo di mistica straniera»1citato in E. Gentile, Contro Cesare, Feltrinelli, Milano 2010.

Inoltre, fin dalla gioventù, Hitler si era prefissato l’obiettivo di combattere la Chiesa: «Liberare il popolo tedesco da questo giogo è uno dei compiti culturali del futuro»2citato in E. Gentile, Contro Cesare, Feltrinelli 2010 p. 236.

 

Hitler e la religione: opportunismo politico di facciata.

Una volta che iniziò la sua carriera politica, tuttavia, il leader del nazismo non manifestò questi pensieri e, anzi, nelle sue dichiarazioni pubbliche, dichiarò più volte il suo rispetto nei confronti della religione cristiana.

Questi pronunciamenti non rispecchiavano, però, le opinioni private di Hitler ed erano solamente dettate da opportunismo politico.

Era un politico troppo astuto per non comprendere che non sarebbe stato politicamente saggio fare una guerra aperta alla religione, intuiva che non sarebbe riuscito a conquistare la maggioranza dei voti se avesse attaccato frontalmente le confessioni cristiane.

Anzi, se si può prestare fede ad alcuni suoi ex collaboratori che diverranno in seguito avversari del nazionalsocialismo, come Kurt Ludecke o Hermann Rauschining, il capo del partito nazista privatamente si era dichiarato profondamente ostile al cristianesimo, convinto che con il tempo sarebbe stato sostituito o trasformato radicalmente in Germania dal nazionalsocialismo3E. Gentile, Contro Cesare, Feltrinelli 2010 p. 254.

 

La campagna anticristiana di Hitler.

E’ accertato, del resto, che dopo la conquista del potere, i nazisti avviarono una campagna avente l’obiettivo di scristianizzare la società. Per raggiungere questo scopo, gli uomini del Terzo Reich adottarono diverse tattiche.

Per prima cosa vennero propagandate e promosse dottrine in aperto contrasto con quelle cristiane: grande diffusione ebbe Il mito del XX secolo di Alfred Rosenberg, la cui opera venne messa nell’indice dei libri proibiti dal Vaticano.

In secondo luogo, vennero intraprese misure per limitare il più possibile la presenza della Chiesa nella vita pubblica come la chiusura delle scuole confessionali o la confisca di monasteri e conventi; e nel contempo, si tentò di gettare discredito verso  gli uomini del clero orchestrando processi contro preti e monaci accusati di abusi sessuali o contrabbando di denaro.

La tattica nazista non prevedeva uno scontro diretto contro la Chiesa, il regime cercò infatti di presentare gli attacchi contro quest’ultima effettuati non per motivazioni religiose, ma a causa di attività politiche illegali o criminali.

 

Migliaia di preti internati dei campi di concentramento.

Nonostante questo, durante il Terzo Reich vi furono migliaia di preti e religiosi uccisi o deportati in campi di concentramento per essersi opposti in un modo o nell’altro al Nazismo, e tra questi vi furono anche casi di religiosi uccisi In odium fidei.

II beato Otto Neururer, deportato nel campo di Buchenwald, venne appeso a testa in giù, morendo dopo quasi due giorni, per aver battezzato un prigioniero; il beato Wladyslaw Demski venne ucciso a Sachsenhausen per aver rifiutato di ubbidire all’ordine delle guardie di profanare il rosario.

Per lo stesso motivo fu assassinato ad Auschwitz il beato Jósef Kowalski; mentre il beato Dominik Jerzejewski morirà a Dachau rifiutando la proposta di una sua liberazione a patto che abbandonasse il sacerdozio.

Don Paolo Liggeri, internato a Gusen, raccontò di un terribile episodio avvenuto durante il giorno del Venerdì Santo:

«Un prete di Linz fu chiamato alle tre del pomeriggio dal comandante del campo: “Sai tu che giorno è oggi?”. “Il Venerdi Santo”. “Che cosa è accaduto quel giorno?”. “Hanno crocifisso Gesù Cristo”. “Ed è morto?”. “Morto”. “A che ora?”. “Alle tre”. “Sono appunto le tre e tu raggiungerai il tuo Cristo”. Il comandante estrasse la rivoltella e colpì al cuore il sacerdote»4citato in A. Riccardi, Il secolo del martirio, Mondadori 2000, p. 116-117

Un altro prete, don Roberto Angeli, ricorderà che durante la sua prigionia a Mauthausen «era proibito qualsiasi atto di culto, qualsiasi manifestazione di preghiera. Farsi sorprendere a pregare o, peggio ancora, farsi riconoscere per preti, poteva equivalere ad essere mandati a morire nella cava»5citato in A. Riccardi, Il secolo del martirio, Mondadori 2000, p. 128-129.

 

Questi e altri episodi sono una prova eloquente dell’anticristianesimo dei nazisti.

Un fatto questo che le gerarchie vaticane avevano già ben compreso ancora prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale.

Infatti nel ‘38, in occasione della visita di Hitler a Roma, il nunzio in Italia Borgongini Duca – a nome del papa – si lamentò con il Governo italiano per il fatto che «l’uomo al quale si preparano tanti festeggiamenti è oggi il più grande persecutore della Chiesa».

Mattia Ferrari

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«Noi donne pro-life rifiutiamo l’aborto come diritto»

Intervista a Maria Rachele Ruiu sulla volontà della Corte Suprema americana di annullare la legge sull’interruzione di gravidanza. Un dialogo sul “diritto all’aborto” e sulle donne pro-life, ignorate dai media per ridurre tutto ad uno scontro tra femministe e conservatori.

 
 
 

Abbiamo già dedicato due articoli alla notizia che la Corte Suprema sarebbe in procinto di annullare la storica sentenza che regolamenta l’interruzione di gravidanza negli Stati Uniti.

Per molti si tratta solo di una battaglia tra le donne da una parte e gli arcigni giudici conservatori dall’altra. Eppure, nelle piazze americane in questi giorni si sono radunate anche centinaia di donne e femministe pro-life in totale accordo con la Corte Suprema (e con il principale quotidiano americano).

Perché l’opinione pubblica ignora e trascura volutamente le donne pro-life?

 

Nella nostra odierna intervista del venerdì abbiamo rivolto questa ed altre domande a Maria Rachele Ruiu, giovane volto del mondo pro-life italiano, mamma, laureata in psicologia e membro del consiglio direttivo di Pro Vita & Famiglia.

 

L’aborto, la Corte USA e la manifestazione del 21 maggio.

 

DOMANDA –Cosa sta accadendo negli USA? Davvero la Corte Suprema vuole rendere illegale l’interruzione di gravidanza abolendo la famosa sentenza del 1973?

RISPOSTA – La sentenza che la Corte sta mettendo in discussione parla della possibilità di abortire fino a quando il bimbo non può sopravvivere autonomamente, rendendo tra l’altro “un diritto” l’aborto fino ad età gestazionali avanzatissime tramite pratiche agghiaccianti, come per esempio l’aborto a nascita parziale (e questo naturalmente non lo riporta nessuno).

Su questa sentenza si basa tutta la legislazione americana ma anche, per esempio, quella internazionale, fino alla legge 194 italiana.

Il primo dato, importantissimo, che rilevo è questo: nessuno sta raccontando che difendere Roe v Wade significa difendere l’aborto fino al secondo e terzo trimestre. Il secondo dato rilevante è chiarire che non esiste nessun fantomatico “diritto” all’aborto.

Parlare di diritto permette di parlare di conquista per la donna, quando invece è la più grande fregatura di questo secolo, che permette di abbandonare le donne alla solitudine di una scelta che non è mai libera, ma sempre condizionata: nessuna donna desidera abortire, lo fa perché pensa di non poter fare altrimenti. Rompere questo dogma del “diritto” è una svolta epocale.

I movimenti pro-life, che in America sono ben nutriti, piano piano, falsificando tutte le bugie, hanno aperto la strada a questa sentenza storica! Questo dà carica anche al nostro impegno.

Sono ancora più onorata di poter essere portavoce, insieme a Massimo Gandolfini, della grande manifestazione nazionale che si svolgerà a Roma il 21 maggio e che raccoglie più di 100 associazioni italiane! Sarà una festa che testimonierà che non solo è urgente, ma anche conveniente ripartire dalla Vita, senza sconti, dalla più piccola, da quella minuscola nel grembo della mamma, fino a quella più saggia, dei nonni!

 

DOMANDA –Che idea ti sei fatta rispetto alla fuga di notizie sulla decisione della Corte Suprema? Davvero può indurre i giudici a fare marcia indietro come sperava chi ha fatto trapelare la bozza del giudice Alito?

RISPOSTA – Certamente lo scopo di questa fuga è quello di creare una pressione mediatica tale da far tornare la corte sui propri passi.

Il giro di soldi intorno all’aborto, soprattutto in America, è inimmaginabile. E’ un’industria che muove cifre da capogiro, superiori al miliardo di dollari. Basti solo pensare che gli aborti, ogni anno, negli Usa sono oltre 1 milione (la sola Planned Parenthood ne “vanta” oltre 330mila), che costano tra i 200 e 500$, a cui vanno aggiunte le donazioni dei “filantropi”, i contributi pubblici ecc.

Sta tremando chi guadagna soldi, grazie al sangue delle donne e dei loro figli.

 

E’ discriminatorio negare alle donne un diritto all’aborto?

 

DOMANDA Hai citato il “diritto all’aborto”. Secondo i giudici della Corte Suprema non esiste questo diritto nella Costituzione americana…ritieni sia offensivo e discriminante per una donna?

RISPOSTA – Noi siamo per i diritti di tutte le donne, anche quelle dentro il grembo della mamma: riteniamo offensivo e discriminante dichiarare che tutte le vite vanno protette e custodite, tranne alcune.

Il dogma dell’aborto sopravvive mettendo in competizione due diritti: quello del bambino e quello della madre, fingendo che si debba per forza scegliere uno dei due. Invece è possibile custodire entrambi e rispettare la libertà a 360°, cioè quella che si prende cura di tutti senza scartare nessuno.

Come ho già detto, il “diritto” all’aborto è una fregatura: abbandona le donne ad una fantomatica scelta troppo spesso non sapendo quello a cui vanno incontro. Pensano di poter spingere il tasto rewind, invece puoi solo decidere se essere madre di un figlio vivo o morto.

Al netto di quello che si racconta per fare politica sulla loro pelle, le donne sanno nella loro carne che l’aborto è sempre una sconfitta. Ce lo raccontiamo: l’aborto è sempre una sconfitta.

Il vero diritto delle donne è quello di non essere abbandonate nelle difficoltà, è ricevere soluzioni concrete per superare le difficoltà in cui si trovano (economiche e sociali); il vero diritto è che sia loro raccontato davvero cosa è interrompere una gravidanza: perché se una donna vuole abortire si fa di tutto per non far ascoltare il battito del cuore del figlio.

Perché non le si fa vedere l’ecografia, se davvero è una libera scelta? Che scelta è se ti si impedisce di sapere cosa stai facendo? Di riconoscere che quello è tuo figlio? Le donne abortiscono in un momento molto fragile e dovrebbero essere accompagnare alla consapevolezza, non immerse nelle bugie del “grumo di cellule” e del “puoi tornare indietro”.

Il vero diritto è conoscere quali sono le conseguenze fisiche e psicologiche, è essere affiancate e, quando anche fosse davvero impossibile crescere il proprio figlio, poter avere la possibilità di custodirlo fino alla nascita, senza che questo possa significare per lei un sacrificio da accollarsi in solitudine.

 

I grandi media nascondono le donne pro-life.

 

DOMANDA – I media non sembrano accorgersi delle donne che dicono le tue stesse cose, in queste ore negli USA si stanno facendo sentire tante rappresentanti del mondo prolife che da donne contrastano l’aborto e difendono il diritto alla vita. Ad esempio, Kristan Hawkins, Lynn Fitch e le giovanissime Julie Slama ed Allie Beth Stuckey. Come ti senti di fronte a questa totale disattenzione nei tuoi confronti e verso le tue opinioni?

RISPOSTA – La donna non è vista, è strumentalizzata.

Per dare la misura di quanto mi permetto di raccontare una mia esperienza. Quest’estate ho dovuto lottare per poter seppellire mia figlia Sara, morta nel mio grembo a 12 settimane. Sono stata davvero trattata con sufficienza dagli uffici preposti anche se poi ho ottenuto quello che volevo, avendo la fortuna di conoscere la legge.

Molte mie amiche invece no, oggi non hanno un posto dove piangere il proprio figlio perché più forte del loro dolore è stata l’arroganza ideologica del dogma abortista. Sara, mia figlia, doveva essere considerata solo un grumo di cellule.

Che ideologia terribile e crudele soffocare il dolore di una mamma per far sopravvivere le proprie bugie, così cinica da asfaltare il dolore più intimo e acuto di una mamma. Dov’è la donna in tutto questo? Dov’è il vantaggio per la donna in tutto questo?

 

La sede di ProVita vandalizzata dalle femministe.

 

DOMANDA – A proposito di violenza, nel marzo scorso la sede romana di Pro Vita & Famiglia è stata vandalizzata dopo i vostri manifesti in cui si legge: “Potere alle donne? Facciamole nascere”. Cosa intendevate comunicare con quei manifesti? Avete subito altre intimidazioni?

RISPOSTA – Impressionante, vero? La nostra campagna per l’8 marzo era un invito a far nascere una bimba ma è stato denunciato e censurato perché violento. Hanno censurato l’immagine di una bimba, al calduccio, nella pancia della propria mamma.

Da che cosa sono stati scatenati gli istinti autoritari che hanno censurato questa campagna? Dal fatto che ci siamo permessi di esprimere un’opinione sull’aborto contraria a quella “riconosciuta valida”. E questo non è tollerato dai democratici.

Quel manifesto voleva denunciare chi tollera in silenzio lo sterminio di milioni di donne tramite gli aborti selettivi o chi le abbandona alla disperazione ed alla solitudine quando scoprono di essere incinte e non hanno mezzi per portare avanti la gravidanza, o peggio contro chi le incoraggia ad abortire tacendo i traumi fisici e psicologici dell’aborto. Le donne meritano di più.

Gravissimo in quell’occasione che ci fu un “mandante politico”, cioè l’assessore del comune di Roma che, dopo aver disposto la censura, con le sue parole ha scatenato i pruriti dei collettivi femministi che hanno imbrattato manifesti e la nostre sede. Naturalmente abbiamo proceduto per vie legali contro i responsabili e porteremo il Comune in tribunale per difendere la nostra libertà di opinione.

 

Tre leggi per sostenere la natalità.

 

DOMANDA – Se avessi la possibilità di decidere 3 leggi da approvare immediatamente per supportare la natalità e le donne incinte, quali sceglieresti?

RISPOSTA – Non posso scegliere leggi da abrogare?

Da approvare immediatamente:
– Aumento del periodo di maternità obbligatoria almeno fino al primo anno di vita e sgravi fiscali ai datori di lavoro che permettano alle mamme che lo desiderano flessibilità (part-time, smart working);

Quoziente familiare per la tassazione e per eventuali benefit;

– Che ad ogni donna che si trovi di fronte ad una gravidanza inaspettata siano proposte tutte le soluzioni per superare realmente le difficoltà in cui si trova (economiche e sociali), che le venga raccontato davvero cosa è l’aborto e quali le conseguenze fisiche e psicologiche, che le vengano prospettate tutte le alternative possibili quando fosse davvero per lei impossibile crescerlo.

 
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Leggi le altre interviste del venerdì.

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Ligabue e quella malinconia così ostinatamente cristiana

Le parole del noto cantautore italiano Luciano Ligabue per l’uscita dell’autobiografia intitolata “Una storia”. Il racconto di una malinconia presente nella sua vita e che forse non sa decifrare ma che lo accomuna a tutti gli uomini che sanno riflettere. Come Leopardi e don Giussani.

 
 
 

Luciano Ligabue si confessa al Corriere in occasione dell’uscita della sua biografia Una storia (Mondadori 2022).

Il noto cantautore di Correggio affronta tanti argomenti, tra gli altri anche il dramma di un figlio nato morto e sepolto nel Cimitero degli angeli.

Ligabue parla anche della fede, perché «non può non esistere una linea di giustizia che regola il mondo».

 

Ligabue salvato da una suora: «La malinconia nella vita».

Nell’intervista racconta anche quando rischiò anche di morire, aveva cinque anni e subì un’operazione sbagliata alle tonsille.

Si salvò solo grazie ad una suora«Mi scossero e vomitai tutto il sangue che stavo ingurgitando», ricorda. «Mancava il plasma del mio gruppo, me lo donò una suora. Forse il senso di colpa viene anche da lì, dal sangue della suora».

Il tema più interessante è effettivamente legato a questa malinconia che Ligabue dice di provare. «C’è nella mia vita. E nelle mie canzoni», spiega. «Mi porto dentro da sempre un senso di colpa, un pensiero di troppo. Sarà il retaggio catto-comunista».

Più avanti spiega che uno dei suoi maggiori successi, Certe notti, nasce «dall’inquietudine, dall’irrequietezza. Sono le notti in cui devi uscire perché non sei in pace con te stesso, cerchi di risolvere qualcosa».

E ancora: «Anche quella è una canzone fraintesa. Quasi tutte nascono da un disagio personale che mi consente di far arrivare agli altri quel che provo».

 

Quella malinconia vissuta e descritta da Leopardi.

Ligabue, senza accorgersene, è in celebre compagnia.

Non c’è nessun altro italiano al di fuori di Giacomo Leopardi che ha saputo esprimere al meglio questa nota onnipresente nella vita dell’uomo non superficiale, dell’uomo che riflette seriamente sul senso delle cose e della propria vita.

La malinconia di Leopardi, troppo spesso scambiata per depressione, è il riconoscimento ed il desiderio di un bene assente, una sproporzione tra il desiderio di infinito e l’apparente assenza di una risposta nella realtà.

«Natura umana, or come, se frale in tutto e vile, se polve ed ombra sei, tant’alto senti1G. Leopardi, Sopra il ritratto di una bella donna.

Nel Canto notturno esplode la malinconia di Leopardi: «E quando miro in cielo arder le stelle, dico fra me pensando: a che tante facelle? Che fa l’aria infinita e quel profondo Infinito seren? Che vuol dire queste solitudine immensa? Ed io, che sono?»2G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.

 

Don Giussani e la malinconia come richiamo di Dio.

Effettivamente “malinconia” (come anche “tristezza”) è uno dei termini più cari al cristianesimo.

E’ molto interessante la lettura del teologo italiano Luigi Giussani quando scrive che si tratta di «una nota inevitabile e significativa della vita, perché nella vita, in ogni suo momento tu hai la percezione di qualcosa che ancora ti manca; la tristezza è un’assenza sofferta»3L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli 2007, p. 338.

Ligabue riconosce che quel “tarlo” che si ritrova dentro deriva dalla sua educazione cattolica ed effettivamente nel cristianesimo viene valorizzata la tristezza come percezione naturale di “qualcosa che manca”. Qualunque successo si raggiunga…manca sempre qualcosa.

La malinconia, per questo, può essere vista come un’ancora di salvezza, un richiamo costante posto da Dio nell’uomo perché non si illuda mai di potersi accontentare, di essere autosufficiente, non rischi di allontanarsi troppo da Lui.

«Che la vita sia triste», continua don Giussani, «è l’argomento più affascinante per farci capire che il nostro destino è qualcosa di più grande. E quando questo mistero ci viene incontro diventando un uomo, allora questo fascino diventa cento volte più grande»4L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli 2007, p. 338.

 

Nei giorni precedenti alla Pasqua del 2020, Donatella Puliga, docente di Mitologia classica all’Università di Siena, ha espresso a suo modo tutto ciò in una bellissima riflessione:

«Verso cosa tendiamo, e quale “tu” attendiamo? Ora che tutto indietreggia nelle nostre vite e qualcosa di nuovo si fa strada verso di noi, gustare un diverso sapore del mondo acquista, nel tempo pasquale, una valenza in più e ci fa sperimentare l’inatteso e l’oltre, così radicalmente inscritti nell’orizzonte della nostra finitudine».

La redazione

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Il Vaticano salva l’ospedale Fatebenefratelli di Roma

Con un blitz da 100 milioni di euro il salvataggio del Fatebenefratelli, ospedale d’eccellenza. Grazie all’Aspa e alla Fondazione del Vecchio, Papa Francesco è riuscito nell’impresa. Una lunga storia quella degli ospedali, che trovano la loro origine proprio nell’alveo del cristianesimo.

 
 
 

Il Fatebenefratelli di Roma è un’eccellenza nell’ostetricia di terzo livello, con 3.500 parti all’anno.

Eppure è sull’orlo del fallimento, i debiti nei confronti delle banche sono elevatissimi e questo ha portato al concordato gestito dal tribunale per evitare il tracollo. Il quale, però, appare imminente, salvo un miracolo.

Proprio quel miracolo è arrivato dal Vaticano che da alcuni mesi ha avviato con successo un’iniziativa filantropica per salvare l’ospedale, voluta direttamente da Papa Francesco.

 

Il blitz del Vaticano per salvare il Fatebenefratelli di Roma.

Assieme ad Aspa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica) e alla Fondazione Del Vecchio, infatti, è avvenuto un accordo economico con le banche creditrici che permetterà anche un rilancio importante dello storico nosocomio dell’Isola Tiberina che potrà tornare ad ambire vette d’eccellenza.

Si parla di un’iniezione di 100 milioni di euro, in gran parte garantita da Aspa attraverso la Fondazione Sanità Cattolica. E’ probabile che il Policlinico Gemelli possa entrare anche a far parte della gestione dell’ospedale cattolico, migliorandone ulteriormente il prestigio.

A fare da regista di questa operazione, per volontà del Papa, è stata Mariella Enoc, presidente dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù.

Finalmente un investimento economico degno di nota, passato in gran parte sotto traccia (fanno comprensibilmente molto più notizia operazioni spericolate come quelle del palazzo di Londra, una spy story sulla quale c’è un processo ancora in corso nel tribunale della Santa Sede).

 

La storia degli ospedali, un’invenzione cristiana.

Il legame tra cristianesimo e medicina è veramente molto antico, gli stessi ospedali moderni sono un’invenzione cristiana come riportavamo nel 2012.

Il maggior storico della medicina italiano, Giorgio Cosmacini, ha descritto dettagliatamente l’origine degli ospedali.

Mentre alcuni riferiscono del contributo degli arabi, Cosmacini precisa che «in accordo con buona parte della storiografia -anche successiva – della medicina araba, il principale, se non unico, merito è quello di aver trasmesso la medicina antica e bizantina»1G. Cosmacini, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza 2001, p. 144, ed infatti, prosegue, «bastano le dita di una mano per numerare i maggiori protagonisti della medicina araba»2G. Cosmacini, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza 2001, p. 147.

Il merito della cultura cristiana è aver “vagliato tutto e trattenuto il valore”, secondo il celebre insegnamento paolino: assimilò così le (poche) conoscenze mediche arabe ma soprattutto quelle greche e bizantine, e -anche a causa della diffusione della lebbra nell’Alto medioevo- fondò i lebbrosari, ovvero «un aspetto dell’esordio generale dell’assistenza ospedaliera»3G. Cosmacini, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza 2001, p. 113.

Così, sottolinea l’eminente storico italiano, «è dal Medioevo non pagano, ma cristiano, che vennero emergendo concetti e valori di grande rilevanza per la medicina»4G. Cosmacini, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza 2001, p. 117, in particolare per quanto riguarda l’innovativo valore dell’accoglienza, dell’assistenza, dell’ospitalità (“ospedale”).

Mentre il concetto di ospedale «era noto solo marginalmente nel mondo classico», conclude Cosmacini, «fu il Medioevo cristiano a dare fondamento etico alla hospitalitas»5G. Cosmacini, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza 2001, p. 117, da cui appunto presero il nome gli ospedali moderni.

Inizialmente si chiamavano “case ospitali” o “domus episcopi” poiché «sorgevano accanto alle residenze vescovili, erano gli archetipi delle istituzioni ospitaliere»6G. Cosmacini, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza 2001, p. 118

Fu solo dal XII secolo che gli ospedali iniziarono a distaccarsi dall’esclusiva correlazione ai conventi e alle fondazioni ecclesiastiche.

La redazione

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Esorcismi, gli psichiatri: «Ci sono fenomeni inspiegabili»

Gli esorcismi alla luce della scienza e della psichiatria. Tra esorcisti e psichiatri c’è una stretta collaborazione e alcuni assistono anche ai riti di liberazione testimoniando eventi non spiegabili (o difficilmente) dalla medicina.

 
 
 

Dal 16 al 21 maggio si svolgerà a Roma la XVI edizione del Corso di esorcismo e preghiera di liberazione organizzato dall’Istituto Sacerdos dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.

Nella settimana di confronto tra esorcisti sarà presentata una ricerca scientifica, realizzata in collaborazione con l’Università di Bologna e l’antropologo di fama mondiale Thomas Csordas.

Il rapporto tra esorcisti e psichiatri non deve stupire, da decenni c’è stretta collaborazione in ambito cattolico, ben oltre l’immaginazione di molti.

Gli esorcisti sono i primi a sapere che delle 100mila persone che si rivolgono a loro in un anno soltanto poche hanno davvero bisogno di un intervento di liberazione dal maligno.

«Spesso il nostro compito è ascoltare e supportare con la preghiera chi è fragile, in rari casi serve un vero esorcismo», ha spiegato ad esempio don Gianluca Gerbino, segretario del Collegio degli esorcisti di Brescia. «Chi dice di essere indemoniato non è detto che lo sia e viceversa non c’è peggior soluzione di credere indemoniato chi invece non lo è».

 

Gli esorcisti in Italia e chi assistono.

Secondo i dati raccolti da un recente studio, le poche persone che hanno realmente necessità di un esorcismo sono quelle che hanno frequentato in passato sette sataniche o hanno percorso strade esoteriche.

Ad esempio, prosegue il segretario don Gerbino, «chi cerca un messaggio dall’aldilà con lo spiritismo. Si creano forti suggestioni, non sempre sane e si può solleticare inconsapevolmente la presenza di chi non ci vuole bene».

Gli esorcisti sottolineano anche di non avere ovviamente alcun potere particolare, «solo il mago disonesto fa credere di avere poteri extra naturali che ovviamente non ha», dice Giuseppe Ferrari, presidente dell’Associazione internazionale degli esorcisti (Gris). Tutto sta nella personale predisposizione del sacerdote, autorizzato esplicitamente dal vescovo.

Per questo ai loro corsi partecipano psichiatri, poliziotti, magistrati, avvocati: tutte le figure che collaborano abitualmente con gli esorcisti per evitare truffe, maghi e fattucchieri.

 

Gli esorcismi e la scienza, parola agli psichiatri.

Tante pellicole dell’orrore (a partire da L’esorcista, 1973) hanno fissato nella mente di molti scene apocalittiche e totalmente inventate, lontanissime dalla realtà, con il danno di aver prodotto un pregiudizio sugli esorcismi come una pratica sopravvissuta da un passato superstizioso.

A distruggere questo mito sono tanti psicologi e psichiatri che operano, come detto, al fianco dei sacerdoti esorcisti.

Ne ha parlato, ad esempio, Massimo Giannantonio, ordinario di Psichiatria all’Università di Chieti e Pescara e dell’International School of Medicine dell’Ospedale San Camillo di Roma.

«Essendo un medico mi astengo da commenti meta psicologi» sull’esistenza del diavolo ed i tentativi esorcistici di liberazione, dice giustamente. «Posso solo dire che la dimensione sovrannaturale è meritevole di approfondimenti perché ci sono tanti fenomeni inspiegabili. Quindi non sono in grado né di confermare l’esistenza di una dimensione sovrannaturale né di negarla con certezza».

Forse lo psichiatra più esperto di esorcismi in Italia è Luigi Janiri, ordinario di psichiatria all’Università Lumsa di Roma e responsabile delle attività ambulatoriali del Policlinico Gemelli. Autorità in campo di dipendenze e relativi danni cerebrali, ha studiato da vicino anche tanti casi di possessione demoniaca.

«I fenomeni scarsamente spiegabili dalla scienza psichiatrica e che si ritrovano nei casi di possessione cosiddetta demoniaca dovrebbero essere proprio quegli aspetti diagnostici che discriminano tra le condizioni francamente psicopatologiche (soprattutto isteria e disturbi dissociativi) e quelle appunto di possessione», ha spiegato nel 2017.

Avendo partecipato a numerosi esorcismi, Janiri elenca alcuni fenomeni di cui è stato testimone: cambi improvvisi di voce (ragazze che assumono voci maschili), improvvisi sanguinamenti, capacità di forza improvvisa (panche delle chiese scaraventate in aria), soggetti che parlano idiomi sconosciuti (in Messico un uomo ha usato un vocabolario pre-colombiano, lo si è scoperto in seguito).

Lo psicoanalista Giorgio Codarini, a sua volta, pur non potendo dimostrare per chiari limiti epistemologici una realtà sovrannaturale, nelle persone indemoniate sostiene di percepire «qualcosa di anomalo del ritmo del parlare, nella tipologia di linguaggio adottato e nel discorso nel suo insieme. Il mondo esterno è come se non esistesse, e c’è un godimento lontano da esso. La volontà di queste persone si piega, viene meno. L’io non è più padrone in casa propria».

 

Celebre psichiatra americano testimone delle possessioni.

Anche all’estero permane questa collaborazione tra scienza e fede.

Lo psichiatra statunitense Richard Gallagher, docente presso il prestigioso New York Medical College e alla Columbia University, ha a sua volta studiato e partecipato a diversi esorcismi raccogliendo le sue osservazioni e giudizi nel libro Demonic Foes: A Psychiatrist Investigates Demonic Possession in the Modern United States (Harper Collins 2019).

Negli ultimi 10 anni ha partecipato a 100 fenomeni di possessione demoniaca, ritenuti inspiegabili dalla scienza. E’ stato «spettrale ed inquietante», ha riferito.

Tra non molto recensiremo dettagliatamente il suo libro che risulta effettivamente un documento incredibile.

Il suo lavoro, non a caso, è supportato anche dal prof. Joseph English, docente di Psichiatria (ed ex presidente di dipartimento) del New York Medical College (anche lui testimone durante un esorcismo).

«Contrariamente ad un’impressione diffusa», ha detto English in un’intervista, «tali fenomeni non solo continuano ad essere riportati nel mondo di oggi, ma sfidano ancora la facile spiegazione di chi pensa siano meri disturbi medici o psichiatrici concepiti in modo semplicistico».

La redazione

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