L’Inquisizione, gli storici moderni smentiscono la leggenda nera

La leggenda nera della Santa Inquisizione. Il mito popolare prodotto dalla propaganda illuminista e protestante resiste ancora oggi. In questo dossier abbiamo raccolto le citazioni dei maggiori storici internazionali dell’Inquisizione spagnola, romana e medievale che smentiscono la leggenda nera.

 
 
 

La parola Santa Inquisizione evoca nell’immaginario collettivo truci e poco chiare scene di tortura, monaci sanguinari e roghi.

L’eminente storico Franco Cardini, professore ordinario presso l’Università di Firenze, definisce ciò «un oceano d’immonda, innominabile paccottiglia sotto forma cartacea, informatico-telematica, cinematografica»1Franco Cardini, prefazione di R. Camilleri, La vera storia dell’Inquisizione, Piemme 2001, p. 12.

Eppure, ha proseguito Cardini, esiste «un’ampia, recente ed attendibile letteratura scientifica», i cui protagonisti sono «studiosi di pur differente orientamento (e nessuno di essi sospettabile di filo-cattolicesimo) che hanno ribadito con varie e ben documentate argomentazioni come i tribunali inquisitoriali fossero ben lungi dall’essere quegli strumenti di cieco fanatismo e di feroce ottusità che la divulgazione storica fondata sulla pamphlettistica sette-ottocentesca si è ostinata -e, ohimè, si ostina- a presentare»2Franco Cardini, prefazione di R. Camilleri, La vera storia dell’Inquisizione, Piemme 2001, p. 8.

In questo dossier (in continuo aggiornamento), il primo di una lunga serie sull’argomento, abbiamo raccolto i giudizi conclusivi dei principali studiosi internazionali delle principali inquisizioni cattoliche (medievale, XII-XIV secolo, romana, 1542-1965 e spagnola, 1478-1834).

Dai loro studi emerge un ritratto di un’istituzione certamente severa e sinistra (senza creare una leggenda bianca!), ma ben lontana dagli stereotipi e dalle leggende nere nelle quali la propaganda l’ha avvolta.

 

 
 

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GLI STORICI CONTRO LA LEGGENDA NERA DELL’INQUISIZIONE

Qui di seguito una raccolta di citazioni di eminenti studiosi nei riguardi dell’Inquisizione e della leggenda nera creata dalla propaganda illuminista e protestante.

 

Agostino Borromeo, docente di Storia moderna presso l’Università La Sapienza di Roma:

«Verso il XVI secolo, per opera di circoli protestanti, si è diffusa in tutta Europa la falsa credenza che i tribunali dell’Inquisizione fossero spietati; eppure i ricorsi alla tortura e alla condanna alla pena di morte non furono così frequenti come per molto si è creduto. Quanto alle streghe fa riflettere la circostanza che i roghi furono un centinaio in Portogallo, Spagna e Italia a fronte delle cinquantamila vittime nel resto d’Europa, soprattutto in terra di Riforma»3Agostino Borromeo, in P. Mieli, Poche le streghe bruciate dall’Inquisizione, Corriere della Sera 28/06/04.


 

Adriano Prosperi, professore emerito di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa:

«Un’aura di mistero circonda l’istituzione dell’Inquisizione alimentando leggende di ogni genere. E’ stata usata nelle polemiche sugli stati di polizia, sui sistemi totalitari del nostro secolo, sullo sterminio degli ebrei e via dicendo. I romanzi storici dell’Ottocento in poi se ne sono alimentati di continuo […], demonizzata dalla polemica protestante, attaccata con determinazione dagli illuministi fino a disinnescare il legame con il “braccio secolare”».4Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi 1996 p. XIX, XVII. E ancora: «Quanto all’Inquisizione, la parola rischia di evocare l’alone cupo dell’immagine violenta e arbitraria di quel tribunale elaborata nei secoli moderni. In realtà, il tentativo di creare un tribunale attento alle regole e impegnato nella ricerca (inquisitio) della verità poteva significare perfino un progresso rispetto alla situazione precedente. Tra le regole, una in particolare limitava il ricorso alla tortura, ammessa per i casi di eresia da papa Innocenzo IV con la bolla Ad extirpanda (1252) ma solo in presenza di indizi importanti e a patto di limitarne la durata e di escluderne vecchi, malati, donne incinte e bambini»5Adriano Prosperi, Il seme dell’intolleranza. Ebrei, eretici, selvaggi: Granada 1492, Fondazione Carispe 2011, p. 39.


 

Peter Godman, docente di Storia medievale e del Rinascimento all’Università di Tubinga:

«L’Inquisizione romana esercita una profonda influenza sull’immaginazione popolare. Anche se, per gran parte della storia moderna d’Europa, i giudici secolari raramente si sono comportati meglio, e non di rado peggio, delle loro controparti dell’Inquisizione romana, i tutori dell’ortodossia cattolica, temuti o derisi che siano, sono ancor oggi condannati da coloro che, non conoscendo i fini e le pratiche del Sant’Uffizio, ne avvallano il mito e ne propagano la leggenda con tutte le sue fuorvianti generalizzazioni […]. Se le convinzioni degli inquisitori ci appaiono oggi quanto meno dubbie, dobbiamo riconoscere che stiamo esprimendo un giudizio morale, più che storico. Questo secondo tipo di giudizio acquista importanza quando è basato su prove. Le prove contenute negli archivi vaticani non consentono di fare un semplicistico paragone tra l’Inquisizione del XVI e XVII secolo e i sistemi totalitari del XX […]. L’oscuro segreto dell’Inquisizione romana era che non esistevano segreti. Nessuna sinistra trama di dominio, nessun grandioso progetto di repressione guidava l’azione di capi e funzionari del Sant’Uffizio. I sistemi politici totalitari a ci è stato paragonato questo organismo non presentano in realtà alcuna analogia con il bastione dell’ortodossia cattolica. La realtà quotidiana che avevano di fronte inquisitori e censori era al contempo più semplice e più complessa, e anche più sorprendente dei consunti stereotipi a cui le polemiche e le fosche leggende vorrebbero farci credere […]. Finto moralismo e autentica ignoranza si associano» agli stereotipi «per fornire la versione più convincente e commerciale dell’Inquisizione. Attirati dalla ripetizione di stereotipi familiari, i lettori sono invitati ad assistere allo spettacolo nel quale si confermano i loro pregiudizi, uno spettacolo che resta divertente e facile da mettere in scena perché non occorrono particolari conoscenze e ricerche. E’ sufficiente replicare per l’ennesima volta la scena delle condanne sostenute precariamente da prove fittizie, più facili da reperire rispetto alle fonti degli archivi»6Peter Godman, I segreti dell’Inquisizione, Baldini Castoldi Dalai 2004, pp. 13, 64, 301, 321.


 

Bartolomé Bennassar, professore emerito di Storia contemporanea all’Università di Toulouse:

«Un’analisi del linguaggio delle opinioni comuni sull’Inquisizione, condotta secondo i moderni metodi quantitativi, darebbe probabilmente il tasso di frequenza più elevato alle parole: Torquemada, intolleranza, fanatismo, tortura, rogo. L’Inquisizione fu però tutt’altra cosa, pur essendo anche questo nei primi trent’anni della sua storia […]. Dopo la diffusione della Leggenda Nera (l’ex segretario traditore di Filippo II, Antonio Perez, ne fu largamente responsabile) l’Inquisizione è di tutte le istituzioni spagnole quella che agli occhi dell’opinione illuminista costituisce il simbolo più perfetto del “fanatismo” spagnolo. Poco importa che questa opinione è contestabile»7Bartolomé Bennassar, Storia dell’Inquisizione spagnola, Bur 1994 pp. 7, 337.


 

Andrea Del Col, professore di Storia dell’età della Riforma e della Controriforma all’Università di Trieste:

«Per gli storici liberali dell’Ottocento tutti i perseguitati dall’Inquisizione divennero i martiri del protestantesimo o del libero pensiero […], durante il Settecento, l’Inquisizione divenne uno dei bersagli degli illuministi e assurse a simbolo dell’oscurantismo religioso […]. Il ritorno agli archivi e ai documenti portò alla scoperta che il Sant’Ufficio in Spagna non fu così sanguinario come si era creduto e che dopo i primi decenni del Seicento fu molto cauto nella persecuzione delle streghe»8Andrea Del Col, L’Inquisizione in Italia. Dal XI al XXI secolo, Mondadori 2021, p. 6-8. Rispetto all’Inquisizione romana, «risulta da questi studi che non fu sanguinaria come si credeva. Perché meravigliarsene? Le poche uccisioni di eretici, fatte in nome di Dio per motivi legati alla difesa della fede cristiana, anche se eseguite legalmente, noi le valutiamo aberranti, tanto che non si fanno più da due secoli e mezzo, e non vano cancellate dalla memoria, ma forse è proprio il funzionamento ordinario dell’istituzione, sostenuto da giudici-funzionari attenti a rispettare le norme canoniche, l’aspetto più importante e sensibile dell’Inquisizione cattolica […]. Le immagini di interrogatori, torture, autodafé e roghi sono in genere posteriori ai fatti e risultano spesso condizionate dalla leggenda nera»9Andrea Del Col, L’Inquisizione in Italia. Dal XI al XXI secolo, Mondadori 2021, p. 13, 14.


 

Jean Dumont, storico francese e specialista dell’Inquisizione spagnola:

«Vi sono ancora in circolazione libri che parlano di centinaia di migliaia di vittime dell’Inquisizione spagnola: libri scritti da persone che ricopiano fonti propagandistiche dell’Ottocento e che non sanno neppure che dagli archivi possono essere ottenute informazioni quasi complete. Uno specialista danese, Gustav Heningsen, ha completato lo spoglio di 50.000 processi che coprono l’arco di 150 anni e ha reperito circa 500 casi di condanne a morte eseguite, cioè l’1%. Altri studiosi hanno confermato questi dati. L’Inquisizione spagnola è figlia della sua epoca e va paragonata a fenomeni analoghi in altri paesi, per esempio alle decine di migliaia di morti della repressione anticattolica in Irlanda e Inghilterra. Quanto alla coscienza moderna, è poi così certa di essere più tollerante di ieri? La repressione ideologica, razziale, comunista o nazionalsocialista ha fatto milioni di morti, mille più volte dell’Inquisizione spagnola»10Jean Dumont, in Cristianità, n. 131, marzo 1986.


 

Thomas Madden, presidente del Dipartimento di Storia della Saint Louis University:

«Alla metà del XVI secolo la Spagna era il paese più ricco e potente d’Europa. Il re Filippo II vedeva se stesso e i suoi concittadini come fedeli difensori della Chiesa cattolica. Meno ricche e meno potenti erano le aree protestanti europee, compresi i Paesi Bassi, la Germania settentrionale e l’Inghilterra. Ma avevano una nuova potente arma: la stampa. Sebbene gli spagnoli avessero sconfitto i protestanti sul campo di battaglia, avrebbero perso la guerra di propaganda. Furono gli anni in cui venne forgiata la famosa “Leggenda Nera” spagnola. Innumerevoli libri e opuscoli uscirono dalla stampa nordica accusando l’impero spagnolo di disumana depravazione ed orribili atrocità nel Nuovo Mondo. L’opulenta Spagna venne considerata un luogo di oscurità, ignoranza e malvagità. Sebbene gli studiosi moderni abbiano da tempo scartato la Leggenda Nera, rimane ancora molto viva oggi. La propaganda protestante che prese di mira l’Inquisizione spagnola attinse liberamente dalla leggenda nera. Ma aveva anche altre fonti. Dall’inizio della Riforma, i protestanti ebbero difficoltà a spiegare il divario creatosi tra l’istituzione di Cristo della Sua chiesa e la fondazione delle chiese protestanti nel XV secolo. I cattolici naturalmente spiegarono questo problema accusando i protestanti di aver creato una nuova chiesa, separata da quella originaria di Cristo. I protestanti ribatterono che la loro era la chiesa creata da Cristo, ma che fu costretta alla clandestinità dalla Chiesa cattolica. Così, proprio come l’Impero Romano aveva perseguitato i cristiani, il suo successore, la Chiesa cattolica romana, continuò a perseguitarli per tutto il Medioevo. Sfortunatamente non c’erano protestanti nel Medioevo, tuttavia gli autori protestanti li trovarono comunque sotto le spoglie delle varie eresie medievali. In questa luce, l’Inquisizione medievale non era altro che un tentativo di distruggere la vera chiesa nascosta. L’Inquisizione spagnola, ancora attiva ed estremamente efficiente nel tenere i protestanti fuori dalla Spagna, era per gli scrittori protestanti solo l’ultima versione di questa persecuzione. Mescolate liberamente tutto ciò con la leggenda nera e avrete tutto quel di cui c’è bisogno per produrre volantini sull’orribile e crudele Inquisizione spagnola. E così venne fatto […] L’Inquisizione spagnola, già diffamata come strumento sanguinario di persecuzione religiosa, venne derisa dai pensatori illuministi come un’arma brutale di intolleranza e ignoranza. Era stata costruita una nuova, immaginaria Inquisizione spagnola, progettata dai nemici della Spagna e della Chiesa cattolica»11Thomas Madden, The Truth About the Spanish Inquisition, in Crisis, ottobre 2003.


 

Maria Elvira Roca Barea, già docente di Storia all’Università di Harvard e collabora con l’Higher Council for Scientific Research (CSIC):

«In Spagna la persecuzione delle streghe era qualcosa di molto insolito, soprattutto se si considerano le persecuzioni di massa dei protestanti, causa di migliaia di esecuzioni per stregoneria senza alcun processo legale. L’Inquisizione non perseguì solo la dissidenza cattolica ma anche crimini come lo sfruttamento della prostituzione, gli abusi sui minori, la contraffazione di valuta. Non si trattava solo di questioni di fede, ma si processavano anche persone che avevano commesso reati gravissimi. L’Inquisizione ha offerto maggiori garanzie agli accusati, in effetti il diritto processuale nel mondo cattolico deve molto all’Inquisizione perché ha istituito un sistema giudiziario con inchieste, giudici, difensori»12M.E. Roca Barea, Analfabetos ha habido siempre pero nunca habían salido de la universidad, El Mundo, 17/12/2016.


 

Anna Foa, docente di Storia moderna presso l’Università La Sapienza di Roma:

«L’immagine dell’Inquisizione romana come regno della tortura e del male vive ormai di vita propria, finendo per assomigliare a quelle fake news di cui oggi molto si parla. Nel corso dei due decenni precedenti si era già avuta una vasta rivisitazione storiografica in questo campo, che era però andata, più che nella direzione di una richiesta di perdono, nel senso di una revisione della cosiddetta immagine nera dell’Inquisizione, attraverso studi che, soprattutto nei riguardi dell’Inquisizione romana, avevano piuttosto messo in discussione il numero delle sue vittime e il suo ruolo nella persecuzione». La moderna storiografia, tuttavia, non ha influito sul «saper comune e nemmeno nell’attività di divulgazione dei media, volta più al sensazionalismo che all’accuratezza dei dati. Si è così ulteriormente accentuato il divario fra gli studi scientifici e il saper comune, e assai poco delle acquisizioni più recenti della storiografia era passato a far parte dell’immagine diffusa del terribile tribunale d’Inquisizione. Basta navigare in rete, leggere i titoli degli ultimi libri apparsi, per rendersene conto. La divaricazione tra il sapere razionale — frutto di riflessioni, di approcci storici, di analisi documentaria — e quello mitologico è ormai invalicabile. Si scrive e si afferma che l’Inquisizione ha fatto milioni di morti per stregoneria con la stessa sicumera con cui si afferma che i vaccini sono la causa dell’autismo. Ma avevamo davvero sperato che l’accesso agli archivi, il crescere dei materiali a disposizione degli studiosi, il loro sapere specialistico, le loro distinzioni, potessero incrinare il regno del mito, del non sapere, del pregiudizio? Ma perché avrebbe dovuto essere così? Gli ultimi vent’anni, che sono quelli passati dall’apertura degli archivi, sono anche quelli che hanno visto il crescere nella società tutta della fabbrica mitologica, l’affermarsi di strumenti molto più utili alla sua affermazione della carta e delle stesse immagini, l’abbattimento delle barriere fra il vero e il falso, fra il sapere e il non sapere, fra la realtà e la finzione. Passioni e pregiudizi prevalgono su sapere e conoscenza. Gridano più alto. Nessun archivio — dovremmo saperlo, dovremmo averlo imparato dagli eventi dei secoli passati — può avere la meglio su di essi, nessun documento può confutare un pregiudizio consolidato, mettere in crisi uno stereotipo»13Anna Foa, Nessun documento riesce a sconfiggere il pregiudizio, in Osservatore Romano, 17/05/18.


 

Henry Kamen, docente di Storia spagnola all’Università di Warwick:

«L’Inquisizione come un’onnipotente ente di tortura è un mito del 19° secolo, mentre si è trattata di un’istituzione sottodimensionata, i cui tribunali erano sparsi e avevano solo una portata limitata ed i cui metodi erano più umani rispetto a quelli della maggior parte dei tribunali secolari. La morte sul fuoco, inoltre, era l’eccezione, non la regola».14Herny Kamen, The Spanish Inquisition: A Historical Revision, Yale University Press 1999.


 

Christopher Black, professore emerito di Storia d’Italia all’Università di Glasgow:

«L’Inquisizione in Italia può sembrare un argomento oscuro e poco attraente, ma non si tratta di una storia così macabra come le leggende e i pregiudizi possono suggerire, né assomiglia alle immagini distorte che Francisco Goya ha dedicato alle ultime fasi dell’Inquisizione spagnola […]. Condivido le argomentazioni di Adriano Prosperi e Simon Ditchfield, secondo cui l’Inquisizione romana, nonostante il suo lato oscuro, è stata anche una forza creativa ed educativa, che ha contribuito a definire e influenzare la cultura italiana almeno fino al XIX secolo»15Christopher Black, Storia dell’Inquisizione in Italia, Carrocci Editore 2013, p. 23-25. «John Tedeschi – “il padrino dell’immagine corrente dell’Inquisizione” – ha sfatato in maniera energica e decisa la “leggenda nera” che avvolgeva, in passato, l’Inquisizione romana. Il modo in cui Tedeschi ha illustrato i tentativi degli inquisitori di giudicare con equità, di educare oltre che punire, ha avuto un forte impatto sul mio approccio interpretativo. Tedeschi ha messo in luce come l’Inquisizione romana non fosse “una caricatura di tribunale, un tunnel degli orrori, un labirinto giudiziario dal quale era impossibile uscire”, e Anne Jacobson ha motivatamente aggiunto che essa “ha offerto la migliore giustizia criminale possibile nell’Europa dell’età Moderna”»16Christopher Black, Storia dell’Inquisizione in Italia, Carrocci Editore 2013, p. 32. «Al contrario dei miti diffusi, l’Inquisizione romana emanò poche sentenze capitali (diversamente dai tribunali secolari). La condanna al carcere perpetuo significava di rado l’ergastolo, ma qualcosa fra i tre e gli otto anni di prigione (che spesso potevano diventare arresti domiciliari)»17Christopher Black, Storia dell’Inquisizione in Italia, Carrocci Editore 2013, p. 238.


 

Joseph Pérez, docente di Storia della civiltà spagnola e latino-americana all’Università di Bordeaux-III:

«Nell’Europa dei Lumi, e dell’Encyclopédie, dominata dal pensiero ironico e graffiante di Voltaire, la parola Inquisizione divenne sinonimo di fanatismo e oscurantismo. Per gli scrittori protestanti e per l’intelligencija antipapista dell’Europa centro-settentrionale, il tribunale ecclesiastico fu il simbolo dello spirito tirannico con cui la Chiesa romana cercò di impedire che la mente dei suoi fedeli fosse contaminata dai pericolosi germi del libero pensiero. Anche negli ultimi decenni gli storici e i letterati hanno contribuito a diffondere la convinzione che l’Inquisizione fosse l’arma della Chiesa contro il dissenso e per molti aspetti il modello storico dei servizi di sorveglianza ideologica con cui i totalitarismi del XX secolo perseguitarono i loro oppositori. Ma la realtà, nascosta sotto una fitta coltre di luoghi comuni e “idées regues”, è almeno in parte diversa»18Joseph Pérez, Breve storia dell’Inquisizione spagnola, Corbaccio 2006, p. 4.


 

Marina Montesano, professore ordinario di Storia medievale presso l’Università di Messina:

«La storia della stregoneria e della caccia alle streghe affascina e attrae numerosi lettori in Italia, pur non essendo molto praticata a livello scientifico nel nostro paese: nel mondo tedesco come in quello anglosassone le cose vanno diversamente e l’aggiornamento storiografico appare più avanzato. Da noi, per esempio, continua a circolare l’idea che la stregoneria sia un fenomeno scaturito dall’ignoranza dell’oscuro medioevo e non, com’è più corretto, dalla piena età moderna. Proprio durante il fiorire del Rinascimento si elaborarono idee e strumenti atti a perseguire le streghe, e fu in piena età moderna che si registrarono in Europa le condanne più gravi e numerose. Se è ovviamente impossibile una stima precisa del numero di vittime in Europa, ormai la storiografia è in grado di proporre dati probabili: nell’intero periodo tra metà Quattrocento e metà Settecento le condanne alla pena capitale oscillano tra le 40mila e le 60mila, nonostante la pubblicistica in materia dia spesso cifre palesamente assurde, che arrivano addirittura a parlare di milioni di vittime. Circa la metà delle condanne capitali europee furono comminate in Germania. Sono soprattutto due i fattori che pesarono maggiormente sulla storia della stregoneria nella Germania del Sacro Romano Impero: la Riforma – con il conseguente conflitto tra cattolici e protestanti – e l’estrema frammentazione del potere politico. Entrambe queste situazioni, seppur in modo diverso, finirono per incrementare e aggravare il fenomeno. Lutero e Calvino non sembrano aver dato molto peso alla stregoneria e nessuno dei due riformatori elaborò una forma di demonologia innovativa, ma il Diavolo esercitava a loro avviso un potere reale nel mondo. Il paragone tra la Germania e la Spagna è istruttivo: nella penisola iberica, vittima di una secolare “leggenda nera”, si ebbe in realtà un uso giudiziario della tortura assai moderato e un numero di vittime molto basso, se paragonato all’Europa centro-settentrionale; i tribunali della Suprema (il supremo concilio dell’Inquisizione, che dipendeva dalla Corona) erano infatti restii a comminare la pena capitale, preferendo generalmente condanne più blande. Inoltre, le accuse erano più simili a quelle tradizionali di magia, piuttosto che di stregoneria per così dire «moderna», cioè corredata di patti e omaggi demoniaci, volo magico, infanticidi e via dicendo. Quante furono le streghe condannate a morte in Spagna? Dovrebbero aggirarsi intorno alle 300».19Marina Montesano, Superstizioni dell’età moderna, Il Manifesto, 31/12/2011.


 

Rodney Stark, docente di Sociologia alla Baylor University ed editore-fondatore dell’Interdisciplinary Journal of Research on Religion:

«Si legge di uomini incappucciati in prigioni sotterranee illuminati solo da torce che usano strumenti di tortura sui corpi nudi di uomini e donne il cui unico crimine è di aver avuto qualche pensiero che la Chiesa considerava eretico. I torturatori sono assolutamente privi di pietà, e lavorano nella sicura convinzione che l’odore della carne bruciata degli esseri umani sia “piacevole alla Santa Trinità e alla Vergine”. La verità più scioccante sull’Inqusizione spagnola è che tutto ciò che viene raccontato è o una totale menzogna o una grossolana esagerazione! Il resoconto standard dell’Inquisizione spagnola fu inventato e diffuso da propagandisti inglesi e olandesi nel XVI secolo, durante le guerre contro la Spagna, e da quel momento fu ripetuto da storici in mala fede, fuorviati, ansiosi di sostenere un’immagine della Spagna come nazione di bigotti fanatici. Tali storici inglesi (ma anche disertori spagnoli) esprimevano anche apertamente il loro disprezzo e antagonismo nei confronti del cattolicesimo romano, atteggiamento che si rifletteva nel fatto che gli studenti cattolici non veniva ammessi a Oxford e Cambridge fino al 1871. Non stupisce che queste odiose accuse senza senso siano state sostenute durante la lunga epoca d’intenso anticattolicesimo che in Inghilterra (e negli Stati Uniti) è durata fino al XX secolo. Ma non ci sono scuse per quegli irresponsabili “studiosi” contemporanei che continuano a sostenere tali affermazioni, mentre ignorano o liquidano la notevole ricerca sull’Inquisizione che è stata condotta nelle ultime generazioni. Questi nuovi storici (molti dei quali non sono né spagnoli né cattolici) basano le loro concezioni critiche sui documenti degli archivi completi dell’Inquisizione sia di Aragona (Saragozza, Navarra, Barcellona, Valencia e Sicilia) che di Castiglia -che insieme costituirono l’Inquisizione spagnola- ai quali hanno avuto pieno accesso. Hanno rivelato che, a differenza delle corti secolari attive in tutte Europa, l’Inquisizione spagnola fu un’organizzazione coerente quanto a giustizia, detenzione, giusto processo e espiazione»20Rodney Stark, Il trionfo del cristianesimo, Lindau 2012, pp. 436, 437.


 

Nathan Johnstone, docente di Storia presso l’Università di Portsmouth e la Canterbury Christ Church University:

«Gli antireligiosi sembrano indifferenti a verificare se la loro comprensione è accurata. Nessuno fu accusato di essere posseduto diabolicamente per il semplice motivo che la possessione non era un crimine, ma una diagnosi. E solo nelle “super-cacce” che per qualche decennio afflissero una manciata di zone del Sacro Romano Impero, il sospetto può essersi tradotto in convinzione. Le Inquisizioni hanno ucciso pochissime streghe e nessuno storico serio ora crede che il numero di esecuzioni per stregoneria abbia superato le 50.000 in tutta Europa»21Nathan Johnstone, The New Atheism, Myth, and History: The Black Legends of Contemporary Anti-Religion, Palgrave Macmillan 2018, p. 21.


 

Helen Rawlings, docente di Spanish Studies presso l’University of Leicester:

«Con il termine “leggenda nera” ci si riferisce ad un atteggiamento prevalente nel nord Europa nella seconda metà del Cinquecento quando cominciarono a emergere le critiche verso l’Inquisizione nei paesi politicamente e ideologicamente contrari alla Spagna. Opuscoli protestanti nei Paesi Bassi, stati tedeschi, Inghilterra e Francia hanno promosso vigorosamente la reputazione selvaggia tramite la stampa. La leggenda, in parte generata da protestanti spagnoli esiliati, è stata progettata per promulgare i più neri fatti sulla Spagna e sui suoi governanti facendola diventare sinonimo di tutto ciò che è repressione, brutalità, intolleranza religiosa e politica, nonché arretratezza intellettuale e artistica. Tra i resoconti più critici dell’Inquisizione scritti fuori dalla Spagna è quello del protestante inglese John Foxe, il quale ha esagerato le pratiche repressive del Sant’Uffizio contribuendo a diffondere un’opinione anticattolica. Un testo che ha avuto maggiore influenza sulla propagazione della leggenda nera fu scritto da Reginaldus Gonsalvius Montanus (probabilmente uno spagnolo protestante), pubblicato a Heidelberg nel 1567 in latino e presto ristampato in diverse lingue […]. Ma la dettagliata ricerca effettuata dalla fine degli anni ’70 da una nuova generazione di studiosi internazionali ha fondamentalmente sfidato l’approccio tradizionale alla storia dell’Inquisizione e ha richiesto una profonda rivalutazione del suo ruolo […]. In primo luogo, l’Inquisizione non era neanche lontanamente vicina al sanguinario e repressivo strumento di controllo ideologico comunemente percepito. Le repressioni del 1480 furono di breve durata e per la maggior parte della sua storia, il tasso di esecuzione è rimasto inferiore al 2%, una media di cinque persone all’anno. Tortura e pena di morte furono applicate solo raramente, quasi esclusivamente durante i primi anni della sua esistenza e molto più su vecchi cristiani che sulle minoranze religiose dissidenti. Qualunque giudizio dell’istituzione deve quindi tener conto del periodo storico e del contesto in cui ha operato»22Helen Rawlings, The Spanish Inquisition, Wiley-Blackwell 2005 pp. 5, 8, 13.


 

Jennifer Kolpacoff Deane, docente di Storia presso l’University of Minnesota:

«A differenza delle immagini presentate nella cultura popolare, non esistette nessuna istituzione persecutoria organizzata ed efficiente. Solo nella polemica e nella finzione esisteva l’Inquisizione, un unico onnipotente, orribile corte i cui agenti lavoravano ovunque per contrastare le verità religiose, la libertà intellettuale e la libertà politica. Questo è il mito dell'”Inquisizione” emerso negli ultimi quattrocento anni, sia come risultato di profonde ostilità tra scrittori cattolici e protestanti che di macabre rappresentazioni cinematografiche di abiti scuri e spietati inquisitori che mandano innocenti a morire sul fuoco»23Jennifer Kolpacoff Deane, A History of Medieval Heresy and Inquisition, Rowman & Littlefield Publishers 2011, p. 88.


 

Dennj Solera, assegnista di ricerca in Storia moderna presso l’Università di Bologna:

«Molte ricostruzioni si discostano sensibilmente dalla realtà descritta nei documenti del tempo, fornendoci spesso un’idea fuorviante di cosa furono l’Inquisizione e i suoi rappresentanti. Sottrarre un qualsiasi oggetto storico al proprio contesto specifico significa esporlo alle più disparate interpretazioni, non di rado tendenti a forzature apologetiche […]. Il modello narrativo dell’inquisitore è venuto formandosi in un continuo intreccio fra opere di finzione artistico-letteraria, da una parte, e vaghi riferimenti alle fonti storiche dall’altra», come ad esempio fece Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, dove «l’immagine più nota dell’inquisitore» si modellò a partire «dall’avversione che lo scrittore nutrì nei confronti del clero e del cattolicesimo […]. I molti documenti pervenutici del tribunale ci permettono di comprendere quanto significativi siano i punti di discrepanza che emergono tra l’inquisitore letterario e l’inquisitore della storia […]. Essere un inquisitore non era un compito facile come potrebbe credere chi si limitasse alla leggenda nera del Sant’Uffizio, secondo la quale la corte di giustizia sarebbe stata retta solo da frati spietati, crudeli, sempre smaniosi di istruire processi e bruciare persone»24Dennj Solera, La società dell’Inquisizione, Carocci 2021, p. 15-18, 27-28.

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Madre Teresa di Calcutta, nessun lato oscuro: risposta alle falsità

Le critiche a Madre Teresa di Calcutta hanno un fondamento? Visse davvero una crisi spirituale? I suoi detrattori (come Christopher Hitchens) di cosa la accusano? A tutto questo risponderemo nel seguente dossier.

Madre Teresa è stata proclamata santa dalla Chiesa cattolica il 4 settembre 2016 ed il 27 ottobre 1979 le è stato assegnato il premio Nobel per la Pace, è un simbolo internazionale di dedizione per la dignità della persona e una delle donne più ammirate dei tempi moderni. Nata a Skopje, in Macedonia, nel 1910, nel 1949 ha fondato a Calcutta la congregazione delle Missionarie della Carità e nel 1952 ha creato la prima casa per moribondi. Molti saranno stupiti dal sapere che nemmeno lei è stata risparmiata, ha ricevuto diverse critiche, più o meno gravi, è ancora oggi profondamente odiata da alcune persone e, addirittura (come vedremo), è stata paragonata al criminale e genocida nazista Adolf Eichmann.

In questo dossier, il più completo di tutto il web a livello internazionale, ci siamo occupati di analizzare singolarmente tutto ciò che le viene contestato, valutandone l’eventuale corrispondenza alla verità dei fatti e, in caso contrario, offrendo una risposta documentata e, possibilmente, esauriente. Nonostante non sia stato possibile mantenere un punto di vista imparziale -nessuno lo ha, né i critici di Madre Teresa, né alcun lettore di questo dossier- abbiamo comunque cercato di analizzare seriamente i fatti e sempre ci siamo premurati di valutare l’affidabilità dei testimoni e di inserire fonti e bibliografia di tutto ciò che abbiamo scritto. Iniziamo con il mostrare chi sono i detrattori e cosa rivendicano in linea generale.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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1. CHI SONO I DETRATTORI?

CHRISTOPHER HITCHENS. Il più attivo detrattore di Madre Teresa è stato certamente lo scrittore Christopher Hitchens, noto per le sue poco moderate posizioni contro la religione e per gli scritti inneggianti alla guerra dopo l’11/9, purtroppo morto nel 2011 per cancro all’esofago a causa del massiccio uso di alcool. Il suo breve documentario Hell’s Angel and The Missionary Position è il più corposo atto di accusa e, assieme al suo libro “The Missionary Position: Mother Teresa in Theory and Practice” (Verso 1995, in italiano: La posizione della missionaria. Teoria e pratica di madre Teresa, Minimum Fax 2003), sono le fonti più citate da quotidiani, blog e siti web critici verso la suora albanese. La sintetica tesi sostenuta da Hitchens è che «molte più persone sono povere e malate a causa della vita di Madre Teresa: ma ci saranno ancora più poveri e malati se il suo esempio sarà seguito. Era una fanatica, una fondamentalista, e un’imbrogliona, e una chiesa che protegge ufficialmente coloro che violano gli innocenti ci offre un altro chiaro segno del dove si posiziona veramente nelle questioni morali ed etiche». La Santa Sede, durante il processo di beatificazione, ha tenuto molto in considerazione anche le testimonianze contrarie, tanto che lo stesso Hitchens venne chiamato nel giugno 2001 dall’arcidiocesi di Washington a rendere la sua deposizione contro la santità della suora albanese.

Il lavoro di Hitchens è stato a sua volta criticato duramente, una consistente risposta è arrivata ad esempio dal sociologo cattolico William A. Donohue, autore di “Unmasking Mother Teresa’s Critics” (Smascherando i critici di Madre Teresa, Sophia Institute Press 2016), con il quale ha «risposto punto per punto a tutte le sue pretese dei critici». «A differenza del libro di Hitchens», ha spiegato il ricercatore, «il mio libro contiene note e bibliografia, perché voglio che la gente possa controllare le mie fonti. Il denominatore comune dei critici di Madre Teresa è la politica, le caratteristiche salienti sono l’essere atei militanti e socialisti, i quali ritengono che il povero deve essere aiutato dallo Stato e vedono lo sforzo volontario come un ostacolo alle ambizioni statali». In un’altra occasione ha dichiarato: «Il messaggio sessuale implicito nel titolo del libro, dimostra che Hitchens non è mai uscito dall’adolescenza e, sia il libro che il film, sono stati progettati per portare il pubblico ad odiare Madre Teresa. Che cosa lei ha fatto con i soldi ottenuti dai diversi premi? Lui non lo sa, ma questo non gli impedisce di dire che “nessuno lo ha mai chiesto”. Non è vero, lui lo ha cercato, quindi perché non dice cosa ha trovato? Perché perderebbe il lavoro. Peggio ancora, avrebbe dovuto confrontarsi con la verità. Il suo libro è un saggio di 98 pagine, senza note, né fonti di citazioni di alcun tipo, il genere è quello del gossip di Vanity Fair». L’aver subito «un’accusa infondata dopo l’altra», è segno di ulteriore grandezza per il fatto che «a Madre Teresa non è stato risparmiato nulla, compresi i tratti irrazionali scritti da autori vendicativi». In occasione della morte di Hitches, Donohue lo ha ricordato con affetto rivelando anche alcune loro conversazioni: «Si è scusato con me due anni fa e ho accettato, perché questo è il modo in cui io sono. Christopher stava insultando nuovamente Madre Teresa, lui la chiamava “puttana”, ma io gli dissi: “tu lo sai che così ti stai spingendo oltre?”. Lo ha ammesso e mi ha detto di essere dispiaciuto».

L’analista Gëzim Alpion, docente di Sociologia all’Università di Birmingham, ha criticato l’opera di Hitchens in questo modo: «Le sue critiche sono seriamente indebolite dal fatto che non sempre poggiano su una ricerca imparziale. L’unica informazione “attendibile” che usa per screditarla proviene da In the Mother’s House, il manoscritto non pubblicato di Susan Shields, una ex appartenente delle Missionarie della Carità, che abbandonò l’ordine nel maggio 1989, quasi un decennio dopo avervi aderito. Per Hitchens, Madre Teresa rappresenta la personificazione del male, e chi non si allinea con la sua posizione è considerato o “stupido” o “malvagio” come lei» (G. Alpion, Madre Teresa Roma 2008 p. 38) Inoltre, il sociologo ha notato che per attaccare Madre Teresa, Hitchens utilizza il metodo di criticare «chiunque abbia aiutato la suora diventare una celebrità» scavando nella vita privata degli altri. Questi attacchi, però, «potrebbero essere interpretati come indizio della frustrazione dei suoi avversari per non essere riusciti a scoprire niente di imbarazzante e umiliante che la riguardasse» (pp. 47-48). Il giornalista William Doino ha scritto che Hitchens ha preteso «difendere i poveri contro il presunto sfruttamento di Madre Teresa, mentre in realtà non ne ha mai intervistato alcuno. Non una sola persona curata dalle Missionarie della carità ha parlato al suo microfono o è stato ripreso dalla sua cinepresa. Forse perché avevano un parere molto più elevato della suora albanese rispetto a quello che Hitchens avrebbe permesso nel suo film?». Hitchens ha «intrecciato una serie di attacchi ad hominem e accuse infondate, disinformati e crudeli, deridendo perfino la suora con definizioni del tipo “presunta vergine”», nonché con decine di insulti.

L’agnostico Gëzim Alpion, docente di Sociologia presso l’Università di Birmingham ed esperto della vita di Madre Teresa, avendo visitato per anni le sue strutture d’accoglienza, ha commentato: «Hitchens ha scarabocchiato nel 1995 un libretto volgarmente dannoso con fini sensazionalistici, a partire dal titolo. Venti anni dopo, alcuni giornalisti considerano ancora come verità evangelica il suo sfogo e la sua ricerca di seconda mano. Come dice un vecchio proverbio: “Adamo mangiò la mela ed i nostri denti ancora fanno male”».

 

EX VOLONTARIE. Nel corso degli anni sono emerse alcune ex volontarie delle Missionarie della Carità di Madre Teresa. Una di queste è Susan Shields, oggi atea, che dice di essere stata per 9 anni una delle missionarie nel Bronx, a Roma, e a San Francisco, fino al 1989. Una seconda si chiama Mary Loudon, ed è stata la fonte principale utilizzata da Hitchens nel suo lavoro di critica. La terza è Margaux B., anch’egli (sedicente) volontaria nel 2009, per un mese soltanto, in un ospedale delle Missionarie della Carità a Calcutta. Non ha voluto rendere pubblico il cognome. La quarta si chiama Sally Warner, ex volontaria nel 1997, autrice di libri contro Madre Teresa e blogger molto attiva su tematiche ateiste e anticlericali. Le quattro donne hanno in genere parlato di un servizio sanitario inadeguato e di metodi di cura antigienici, puntando molto al confronto «con gli standard di cura degli hospice occidentali», come è stato osservato. In più di un’occasione hanno citato il lavoro di Hitchens e non si sono risparmiate dal criticare la visione “ultra-convervatrice” sui temi etici (aborto, divorzio ecc.) delle missionarie di Calcutta. Entreremo nel merito delle loro accuse, sottolineiamo però che al momento della morte di Madre Teresa, le Missionarie della Carità erano oltre 4.000 sorelle e più di 100.000 volontari/e laici che operavano in 610 missioni in 123 paesi, nessuno di essi non solo non ha confermato o approfondito le critiche delle 4 donne, ma tanti -di varia estrazione sociale e religiosa (indù, agnostici ecc.)-, hanno fornito versioni opposte (alcuni sono citati in questo dossier).

 

STUDIO CANADESE. Una terza consistente critica è arrivata da uno studio pubblicato su Religieuses nel 2013, intitolato: “Il lato oscuro di Madre Teresa”. Gli autori sono tre ricercatori canadesi, Serge Larivee e Genevieve Chenard del dipartimento di Psicoeducazione della University of Montreal e Carole Senechal della Ottawa University. Non è stata una “indagine sul campo”, ma un’analisi di 287 documenti (libri, biografie ecc.) già pubblicati che, a loro dire, rappresenterebbero il 96% della letteratura esistente. I punti controversi che hanno verificato sono stati lo scarso utilizzo per i poveri delle consistenti donazioni ricevute, la cura delle malattie di Madre Teresa in moderni ospedali americani, il culto del dolore della suora albanese, il possedimento di conti bancari “segreti”, la coltivazione di rapporti finanziari discutibili e l’aver beneficiato di uno stratagemma mediatico che l’ha resa famosa (il colpevole sarebbe il regista Malcolm Muggeridge, che si è convertito grazie alla suora religiosa e alla sua opera e ne ha voluto girare un documentario). Infine, i ricercatori hanno criticato la suora anche per i suoi discorsi pubblici contro l’aborto, la contraccezione e il divorzio. Occorre comunque ricordare che gli autori hanno concluso la loro indagine riconoscendo qualche effetto positivo dell’opera di Madre Teresa: «Se l’immagine straordinaria trasmessa nell’immaginario collettivo ha incoraggiato iniziative umanitarie che sono genuinamente impegnate verso chi è schiacciato dalla povertà, non possiamo che gioire. E’ probabile che Madre Teresa abbia ispirato molti operatori umanitari le cui azioni hanno veramente alleviato le sofferenze dei poveri e hanno agito sulle cause della povertà e della solitudine. Tuttavia, la copertura mediatica su Madre Teresa avrebbe potuto essere più attenta».

Affronteremo nel dettaglio le accuse qui elencate, segnaliamo tuttavia che anche lo studio ha ricevuto a sua volte diverse critiche, sopratutto è stata messa in dubbio l’attendibilità e l’imparzialità etica dei ricercatori. Il giornalista scientifico Michel Alberganti ha scritto, ad esempio: «Che possa essere contestata la concezione di carità di Madre Teresa non è sorprendente. Lo è invece l’accusa dei ricercatori canadesi, che si basano solo su una analisi dei documenti disponibili. La gravità delle accuse su un personaggio così iconico meritava di essere sostenuta da una vera indagine. Quanti soldi l’organizzazione di Madre Teresa ha effettivamente raccolto? Come ha usato questi fondi? Dove sono i conti bancari segreti? Quali prove confermano i suoi metodi contro il dolore? Qual è stato l’effetto della copertura mediatica di Madre Teresa sul fundraising? Tante domande a cui potrebbe essere difficile rispondere. Ma quando si pretende di distruggere un mito, l’unico ricorso alla bibliografia appare come un metodo molto leggero». Dubbi sull’operato dei tre ricercatori sono apparsi invece su Outlook India, dove si legge: «A Calcutta, la città in cui la suora albanese venne nel 1929, è difficile trovare molte voci critiche contro di lei. Certamente non del tipo che sono state sollevate nello studio pubblicato in una rivista canadese. Nel tentativo di trovare conferme ai “risultati” degli studiosi canadesi, Outlook è inciampato su un gran numero di storie di persone che erano state “convertite”, non alla fede cristiana, ma da posizioni di estremo sospetto ad una sconfinata ammirazione per Madre Teresa. A differenza dei ricercatori canadesi, tutte queste persone erano entrate in contatto con la Madre».

 

ARTICOLO SU “THE LANCET”. Nel 1994 sulla rivista medica britannica The Lancet è apparso un resoconto critico sul livello di cura nelle strutture delle Missionarie della Carità. Nel 1991 Robin Fox ha fatto visita ad un hospice e ha osservato che le condizioni erano tutt’altro che ideali. Più in particolare, ha descritto la qualità delle cure fornite ai pazienti morenti come “fortuite”, comprese pratiche inaccettabili come il riutilizzo di aghi e l’ospitare malati di tubercolosi infettati con i non infettati, nonché la mancanza di moderne procedure di diagnosi. Lui stesso, tuttavia, ha ammesso (lo vedremo) che si è trattata di una «breve visita».

 

ALTRI ACCUSATORI. Il lavoro di Christopher Hitchens è ancora oggi la fonte principale per chi sul web sceglie di odiare e calunniare Madre Teresa. Citiamo anche questa categoria di “critici” come esempio delle conseguenze estreme a cui ha portato il lavoro dello scrittore inglese. Utilizzando come fonte principale il libro di Hitchens, lo scrittore ateo Kalavai Venkat è arrivato a paragonare Madre Teresa al criminale nazista Adolf Eichmann, braccio destro di Hitler, incriminato per genocidio e crimini contro l’umanità. Nell’articolo intitolato “Madre Teresa: la Eichmann di Calcutta, si legge: «Proprio come Eichmann realizzò l’olocausto, anche Madre Teresa volutamente uccise in mezzo a indicibili sofferenze molti poveri, sottraendo loro i fondi destinati per alleviare la sofferenza e negando crudelmente loro i farmaci necessari. Non li ha mai guardati come esseri umani e mai è stata empatica nei loro confronti. Proprio come Eichmann attendeva la gloria per le sue azioni, anche Madre Teresa desiderava diventare santa per aver portato terribili sofferenze a chi non ha voce. Come Eichmann, anche lei ha mai espresso il minimo rimorso per quello che aveva fatto alle sue vittime. Esattamente come lui, anche lei era convinta di aver contribuito a migliorare la loro situazione».

Sul principale forum americano di atei, The Thinking Atheist, la notizia della santificazione di Madre Teresa ha generato questo tipo di “reazioni” (ci scusiamo per aver riportato il linguaggio volgare utilizzato): «La troia è andata in India -il paese più sovrappopolato del mondo- ed ha parlato contro il controllo delle nascite. L’ingerente puttana avrebbe dovuto essere colpita a morte con il cadavere gonfio e decadente di un bambino morto di fame», si legge. E ancora: «Madre fottuta Teresa non ha restituito il denaro. E’ una fottuta criminale». «Ha goduto nel vedere le persone in condizioni di povertà. Era una sadica che ha prosperato sul controllo e l’accondiscendenza della gente sofferente», afferma un altro. Un altro riferisce: «Niente mi fa diventare più rabbioso di questa puttana. Peccato che non c’è un inferno altrimenti lei starebbe bruciando a fianco di Hitler per tutto il dolore che ha inflitto sugli esseri umani, che schifo di donna!». Come chiunque può osservare utilizzando i link forniti, gli autori di queste civili e rispettose posizioni sono accaniti lettori di Christopher Hitchens, a lui fanno continuamente riferimento, citando spesso parti del suo libro su Madre Teresa.

 

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2. QUALITA’ DELLE CURE E UTILIZZO DELLE DONAZIONI

La principale critica a Madre Teresa è di aver offerto una cura medica superficiale ai poveri e agli ammalati di Calcutta, nonostante le enormi somme di denaro che venivano donate per la sua opera.

 

ACCUSE

Susan Shields, una ex-collaboratrice delle Missionarie della Carità (ed ex-credente), dice di aver prestato servizio negli hospice occidentali della congregazione. Oltre ad avanzare critiche generali al credo cattolico a cui aderiva, la donna ha affermato che «la maggior parte delle donazioni rimaneva inutilizzata nei conti bancari. La Madre [Madre Teresa, nda] non chiedeva mai soldi, ma il flusso di donazioni era costante e massiccio, la maggior parte delle sorelle non aveva idea di quanto denaro la congregazione stava accumulando. Dopo tutto, ci hanno insegnato a non prelevare nulla. Le donazioni non hanno avuto alcun effetto sulla nostra vita ascetica e molto poco effetto sulla vita dei poveri che cercavamo di aiutare. Abbiamo vissuto una vita semplice, senza cose superflue. Avevamo tre set di vestiti che abbiamo riparato fino a quando il materiale era troppo marcio. Abbiamo lavato a mano i nostri vestiti, le lenzuola e gli asciugamani del ricovero notturno per i senzatetto. La Madre era molto preoccupata del fatto che noi preservassimo il nostro spirito di povertà» (articolo apparso nel 1998 su Free Inquiry Magazine).

Anche lo studio canadese ha basato su questo la sua accusa principale, rilevando che le missionarie avevano un «discutibile modo di curare i malati», utilizzando strutture mediche inadeguate. «Molti medici sono andati lì e hanno visto che le condizioni erano molto povere e le persone vivevano in cattive condizioni. Non hanno davvero curato i malati», ha riferito uno degli autori dello studio, Genevieve Chenard dell’Università di Montreal. «Avevano un sacco di soldi, ma solo 5-7% è andato in beneficenza per i farmaci, e cose del genere. Madre Teresa avrebbe potuto costruire l’ospedale tecnologicamente più moderno dell’India in quel momento, ma riteneva la sofferenza una buona cosa». Dopo che l’intervistatore gli ha fatto notare che la ricerca si è basata su pubblicazioni già note, alla domanda se si erano mai recati a Calcutta per verificare personalmente le accuse, la risposta del ricercatore è stata: «No. Ma mi piacerebbe andare a Calcutta». Anche la relazione di Robin Fox apparsa sulla rivista The Lancet ha parlato solo di tutto questo: «Ci sono medici che vengono di volta in volta, ma solitamente sono le sorelle e i volontari (alcuni dei quali hanno conoscenze mediche) a prendere decisioni come meglio possono. Ho visto un giovane che era stato accolto in cattive condizioni ed i farmaci prescritti erano stati tetraciclina e paracetamolo. Più tardi un medico gli ha diagnosticato una probabile malaria. Le regole di Madre Teresa hanno lo scopo di prevenire qualsiasi deriva verso il materialismo: le sorelle devono rimanere in condizioni di parità con i poveri. Ma come gestiscono il dolore? In una breve visita non ho potuto giudicare il potere dell’approccio spirituale, ma sono stato disturbato dall’apprendere che il formulario non includeva analgesici forti» (citato in C. Hitchens, The Missionary Position: Mother Teresa in Theory and Practice, Verso 1995).

Le stesse cose ha riferito tale Margaux B., sedicente volontaria per un mese (nel 2009), in un hospice delle Missionarie della Carità a Calcutta. «Mi hanno assegnato il Prem Dan, non il famoso Kalighat preso d’assalto dai volontari, i pazienti ricevevano poca o nessuna attenzione: il medico veniva una volta alla settimana e visitava tutti i pazienti, tra cui i malati di cancro che venivano trattati con aspirine e vitamine. L’igiene era tutt’altro che ottimale, anche se i lavoratori indiani lavavano con acqua una volta al giorno. Alcuni pazienti sono rimasti permanentemente sdraiati a letto, sviluppando piaghe da decubito. Le sorelle erano praticamente senza competenze mediche, così come i dipendenti indiani. L’unica cura era fornita dai volontari con formazione medica». La donna non ha conosciuto Madre Teresa, eppure più volte mette in dubbio la sua onestà citando il già citato studio canadese. Allo stesso modo sembra ben informata delle tesi di Christopher Hitchens, tenendo a ricordare i «dollari nascosti», il «conservatorismo fanatico» della suora e il troppo veloce, secondo lei, iter di canonizzazione. La testimonianza di questa “volontaria per un mese” ci è onestamente apparsa alquanto sospetta, non soltanto per la scelta di non rendere noto il suo cognome.

 

RISPOSTE

Il giornalista William Doino, collaboratore della rivista Inside the Vatican, ha studiato le 27 pagine dei ricercatori canadesi e ha intervistato diverse persone che hanno lavorato con la suora albanese o hanno avuto a che fare con la sua opera in India. Ha anche intervistato uno degli autori della ricerca canadese, Genevieve Chenard. «Le sue risposte alla mia serie di domande sono state sorprendenti e rivelatrici», ha spiegato Doino. «Ha confermato innanzitutto che il suo team accademico non ha mai parlato con un singolo paziente, un analista medico o un lavoratore-volontario di Madre Teresa prima di pubblicare lo studio contro di lei. Inoltre, non hanno mai esaminato come le sue finanze sono state spese, né hanno parlato con qualcuno in Vaticano coinvolto con la sua causa di santità. I ricercatori, incredibilmente, non erano nemmeno mai stati a Calcutta, mentre, almeno Hitchens lo aveva fatto». «Così si è scoperto», ha proseguito, «che questo “documento di ricerca” non era altro che una “revisione della letteratura”, un riconfezionamento di ciò che altri avevano già scritto, con l’aggiunta di una nota negativa finale da parte dei tre accademici. In altre parole, lo studio canadese è un atto d’accusa sulla base di nessuna ricerca originale, e l’autore più frequentemente citato, non a caso, è Christopher Hitchens. Eppure queste “scoperte” hanno prodotto titoli di giornale in tutto il mondo e sono state ripetute da molti senza obiezioni». «Le accuse di scorrettezza finanziaria sono infondate», ha precisato,«infatti la beata Teresa ha contribuito a raccogliere, e ha raccolto, enormi somme di denaro per i poveri e ha donato gran parte di questi fondi alla Santa Sede, che a sua volta li ha distribuiti agli ospedali cattolici e ad altre opere del genere».

Tutt’altra testimonianza, rispetto alle ex-volontarie, è stata quella di Susan Conroy, che ha lavorato con Madre Teresa di Calcutta per ben dieci anni. «Quando ho letto le critiche di come i pazienti sarebbero stati curati nelle Case per i morenti, continuavo a pensare alle mie esperienze personali lì», ha detto. «So quanta tenerezza e attenzione offrivamo a ciascuno degli indigenti, di come li abbiamo lavati, abbiamo pulito i loro letti, li abbiamo nutriti e curati. So come pulivamo regolarmente, da cima a fondo, la struttura che li ospitava, e ogni paziente veniva lavato con la frequenza necessaria, anche più volte al giorno. Erano considerati “intoccabili” della società indiana e tuttavia li toccavamo e ci prendevamo cura di loro come fossero dei principi. Ci siamo sentite veramente onorate di servirli nel miglior modo possibile, Madre Teresa ci ha insegnato a prenderci cura di ciascuno di essi con tutta l’umiltà, il rispetto, la tenerezza e l’amore con il quale avremmo servito Gesù Cristo stesso, ricordandoci che “tutto ciò che facciamo al più piccolo dei nostri fratelli”, lo facciamo a Lui».

Anche l’ex commissario elettorale principale dell’India, Navin Chawla, ha voluto replicare alle accuse contro Madre Teresa. Apprezzato in tutte le democrazie occidentali per l’imparzialità con cui si sono svolte le elezioni politiche sotto la sua supervisione, Chawla è di religione indù e tuttavia è stato amico di Madre Teresa e profondamente influenzato da lei tanto da essere diventato filantropo (continua infatti l’opera appresa dalla suora di Calcutta investendo in lebbrosari e centri per la cura dei bambini non-udenti). Nel 1992 ha scritto una sua biografia, diventata best-seller e tradotta in 14 lingue. «L’intenzione di Madre Teresa», ha spiegato, «era prendersi cura di coloro che erano caduti nel dimenticatoio. Persone che nessun ospedale o ospizio avrebbe accolto. In un tale enorme oceano di bontà è sempre facile trovare alcuni punti di critica». In un articolo su The Hindu ha scritto: «Nel 1948, i marciapiedi di Calcutta brulicavano di moribondi, vittime della grande carestia del Bengala del 1942-1943. Qui è intervenuta una suora di 38 anni: di fronte a malattia, miseria e morte tutto intorno a lei in un momento in cui non c’era quasi alcun servizio di assistenza sanitaria, ha fatto quello che divenne il suo segno distintivo. Ha trovato un moribondo per strada, lo ha portato in un ospedale pubblico dove è stato respinto poiché era sul punto di morire e non avrebbero sprecato un letto di ospedale per una vita che non potevano salvare. Così è iniziata la sua ricerca di un luogo dove poteva accogliere le persone che gli ospedali rifiutavano, offrendo loro conforto e dignità». Nel 2000 ha raccontato altri particolari: «Dieci anni fa ho diretto il Dipartimento di Salute dello stato di Delhi e ispezionai più volte un ospedale psichiatrico statale. I disabili mentali erano come detenuti di una prigione, due dozzine di uomini completamente nudi, accovacciati in un angolo della sala, i loro vestiti e le coperte erano strappati, i loro corpi non lavati da settimane. Più di ogni altra cosa mi ricordo la disperazione nei loro occhi. Quando visitai la casa di cura di Madre Teresa a Tengra, in cui venivano curati le persone con handicap mentale, ho notato che la costruzione era nuova, conteneva tre dormitori su ciascuno dei due piani. La qualità era quasi di lusso per il modo in cui tutto era stato organizzato: le camere erano luminose e ariose grazie ai ventilatori a soffitto, ogni letto aveva la sua zanzariera. La biancheria da letto colorata era tessuta dai malati di lebbra di Tirigarh. Non un chiodo sembrava fuori luogo e i volontari non erano retribuiti. Gli stessi pazienti sono stati incoraggiati a mantenere se stessi e il loro ambiente pulito, come una parte necessaria della terapia. Mentre passavo mi aspettavo di incontrare rabbia o ostilità nei gruppi di pazienti, invece mi hanno accolto con caldi benvenuti. Quando arrivarono qui, due anni fa, non sapevano vestirsi, né mangiare correttamente, si rannicchiavano impauriti in un angolo. Ora sono autonomi nella maggior parte delle cose che fanno, addirittura lavorano nel centro artigianale».

Il gesuita James Martin, redattore di America, ha pubblicato una risposta alla critica di Murray Kempton, secondo il quale Madre Teresa accelerava la morte dei poveri non fornendo loro cure mediche decenti. «Ma l’assistenza sanitaria primaria non era lo scopo dell’ordine che Madre Teresa aveva fondato. Esistono centinaia di altri ordini medici cattolici che generosamente soddisfano questa necessità (le Medical Missionaries of Mary e le Figlie della Carità, per citarne solo due). Piuttosto, il carisma delle Missionarie della Carità (con il quale ho lavorato io stesso) intende fornire conforto ai moltissimi e poverissimi pazienti che altrimenti morirebbero in solitudine. Certo, sarebbe bello se tutti coloro che vivono nei paesi in via di sviluppo avessero accesso alle cure mediche moderne. E anche se gli ordini religiosi e altri operatori sanitari dedicati, religiosi e laici, lottano da decenni per questo, ancora non è possibile. Ma sicuramente questo non è colpa di Madre Teresa. Molte persone povere muoiono ancora in condizioni miserabili, trascurate e sole. Di fronte ai “più poveri dei poveri” ci sono due scelte: o far andare la lingua sui motivi per cui queste persone non dovrebbero esistere, oppure agire per fornire loro conforto e sollievo. Kempton sceglie la prima, mentre Madre Teresa, con tutti i suoi difetti, ha scelto la seconda». Sull’Huffington Post ha pubblicato un interessante articolo in cui ha ricordato la sua esperienza come volontario a fianco delle Missionarie della Carità, raccontando come lui stesso aiutava i poveri nell’igiene personale e come distribuiva loro il cibo.

Nemmeno la parlamentare indù Meenakshi Lekh, portavoce del Bharatiya Janata Party (BJP) e, in quanto profondamente nazionalista, non proprio “favorevole” all’opera di Madre Teresa (poiché la considera pur sempre una missionaria appartenente ad un’altra religione), ha parlato dell’inadeguatezza delle cure sanitarie ma, al contrario, ha constatato l’opposto: «nessuno contesta il lavoro caritatevole di Madre Teresa, nessuno contesta che nella sua vita ha svolto un lavoro encomiabile in aiuto dei malati, anziani, orfani e delle famiglie, sono stata anche un’ammiratrice del suo lavoro. Ma non togliamole l’identità stessa: il suo lavoro era missionario, cioè qualcuno che portava il cristianesimo attraverso di esso».

Il prof. Antonio Menniti Ippolito, docente di Storia moderna presso l’Università degli studi di Cassino, ha scritto sull’enciclopedia Treccani: «Le Missionarie della carità non hanno un progetto sociale, non si sostituiscono alle autorità pubbliche, ma tentano di svolgere attività che neppure queste riescono a sostenere. Da qui il loro operare in favore di chi si trovi in situazioni estreme: i moribondi, i malati cronici, gli abbandonati senza speranza. Le suore condividono lo stile di vita e la sofferenza di chi si trova nelle loro mani, distribuiscono amore più che cure specifiche, assicurano calore più che interventi mirati. Per questo hanno ricevuto critiche, in parte giustificabili, ma la loro attività di assistenza, in luoghi estremi di ogni continente, resta eccezionale. Di fatto, detta attività è l’espressione più alta della loro vocazione, anzi la finalizzazione di questa stessa. Il duro lavoro che svolgono è parte della loro attività di preghiera».

Il giornalista ebreo (seppur laico) David Van Biema, autore della famosa inchiesta su Madre Teresa comparsa sul Time e intitolata “The Life and Works of a Modern Saint” (2010), ha replicato a sua volta all’accusa: «Alcuni hanno chiesto come mai lei non costruiva cliniche mediche moderne, nonostante ci fossero abbastanza soldi per farlo. Perché ha continuato con le sue consorelle a costruire hospice come aveva sempre fatto? La risposta è che le cliniche mediche sono la ciliegina sulla torta, se possono vi aiuteranno. Operano un triage [selezione, nda] e lei era contraria al triage». L’accusa è «molto discutibile se si guarda a quanto cibo è arrivato grazie al suo ministero e a quanti farmaci anti-lebbra ha distribuito. Ha sempre detto: “Noi non siamo assistenti sociali” e credo sia questo ciò che che intendeva dire: se stai cercando di fare il maggior bene possibile per il maggior numero possibile di persone, io non sono certo la tua santa. Ma quello che ha fatto è stato decisamente buono per le persone che erano in grandissima necessità. Ad un certo punto ha cessato di essere solo “della chiesa” ed è diventata “del mondo”, e in un modo strano. Ci saranno sempre persone che non amano gli aspetti di quello che stai facendo. Credo che se avesse continuato a fare l’incredibile bene che ha fatto a Calcutta probabilmente nessuno si sarebbe posto queste questioni».

Padre Peter Gumpel, funzionario presso la Congregazione per le Cause dei Santi, ha riferito di aver preso sul serio le accuse di questo tipo, rispondendo però: «Ci sono errori commessi anche nelle più moderne strutture mediche, tuttavia ogni volta che era necessaria una correzione, Madre Teresa e le Missionarie si sono mostrate vigili e aperte al cambiamento costruttivo e al miglioramento. Quello che molti non capiscono sono le condizioni disperate che Madre Teresa si trovava costantemente di fronte, e il suo carisma speciale era salvare coloro che non avevano alcuna possibilità di sopravvivenza e sarebbe altrimenti sono morti sulla strada». Ha ritenuto, inoltre, «assolutamente falso» l’affermazione che lei avrebbe respinto o trascurato il servizio di assistenza medica per chi era ancora curabile o per le cure palliative dei malati terminali. «Attenzione alle storie aneddotiche che circolano da parte di persone scontente o che hanno un intento ideologico anti-cattolico», ha avvertito.

Il dott. PN John, direttore dell’hospice psichiatrico delle Missionarie della Carità, ha sfidato chi critica le condizioni antigieniche: «perché non escono di casa e vengono a controllare loro stessi?»Sunita Kumar, amica di Madre Teresa per 36 anni, portavoce delle Missionarie della Carità e di religione sikh, ha replicato a sua volta: «Madre possedeva solo due sari. Ha vissuto una vita semplice e dormiva su un letto su cui non c’era nemmeno un ventilatore a soffitto. Che cosa avrebbe fatto con il denaro? Sì, era frugale per il bene dei poveri. Ma non li ha privati. Se poi si giudica con gli standard di comfort degli ospedali a cinque stelle allora, ovviamente, lei non era all’altezza. Ma non era il suo scopo. Non ha mai avuto un conto personale e i fondi sono andati alle Missionarie della Carità per quanto ne sono a conoscenza».

Molto interessante il punto di vista dell’agnostico Gëzim Alpion, docente di Sociologia presso l’Università di Birmingham ed esperto della vita di Madre Teresa (a cui ha dedicato due libri, tra cui una monografia), avendo visitato per anni le sue strutture d’accoglienza. «Non mi sorprende che Madre Teresa ha avuto la sua giusta quota di avversari», ha dichiarato. «Sarebbe strano se chiunque avesse soltanto lodi per questa suora. Eroi “senza macchia” oggi possiamo trovarli soltanto in Corea del Nord. Quello che trovo sconcertante nella critica al vetriolo contro Madre Teresa, è l’incapacità di notare ciò che è abbondantemente evidente. Come ogni ordine religioso, l’ordine di Madre Teresa -le Missionarie della Carità-, hanno il loro “carisma”, o ragion d’essere, che nel loro caso non è vivere in solitudine e nel comfort, o sviluppare scuole per bambini benestanti o offrire assistenza medica all’avanguardia. Madre Teresa ha spiegato molto chiaramente che lei e le sue sorelle si sarebbero prese in cura dei più poveri tra i poveri e che avrebbero dipeso esclusivamente dalla carità per la propria sopravvivenza.

Brian Kolodiejchuk, postulatore di Madre Teresa, ha spiegato: «Lei non lavorava per sradicare le strutture della povertà. La sua preoccupazione era di portare soccorso immediato ed efficace alle persone che avevano bisogno di aiuto e riparo». Un esempio di ciò è stato raccontato da Shirin Bazleh, un regista americano agnostico che si è recato a Calcutta nel 1996 per visitare l’opera di Madre Teresa. «Quello che ho visto personalmente è stato l’amore e la cura che viene data agli indigenti a prescindere dalla loro religione. Quando eravamo a Kalighat, abbiamo visto una donna che è stato portata dalla strada, era terribilmente malata e tremante, c’erano vermi che le uscivano dalle orecchie e insetti striscianti su tutto il viso. Dio solo sa cos’erano quelle creature aggrovigliate tra i capelli. Le sorelle l’hanno lavata, l’hanno pulita, le hanno tagliato i capelli e tolto gli insetti, le hanno rimosso i vermi dalle orecchie, l’hanno vestita e fatta curare da un medico. Le è stato quindi assegnato un letto pulito e le è stato dato da mangiare. Si è scoperto che era così debole a causa della malnutrizione, aveva perso i sensi in un vicolo ed era rimasta lì per giorni. Questi sono i tipi di lavoro che le Missionarie della Carità svolgono quotidianamente. Siete disposti a fare lo stesso? In caso contrario, non siete qualificati ad avere un parere negativo su di loro».

Sul magazine inglese The Week è comparso un articolo nel 2016 in cui si racconta come Madre Teresa faceva costruire gli ospedali vendendo auto di lusso che le venivano regalate e collaborando con specialisti di medicina, come il dott. Vijay Jacob. Tra essi c’è l’Antara Hospital, fondato da lei stessa e divenuto il più grande ospedale psichiatrico privato in India, dedicato proprio a Madre Teresa.

Celeste Owen-Jones, articolista dell’Huffington Post e conoscitrice diretta dell’opera della Missionarie della Carità, ha anche lei voluto replicare a questo tipo di accuse: «La maggior parte delle persone di cui le sorelle si prendono cura sono fisicamente e mentalmente handicappate, o molto vecchie e molto malate. Vivono in luoghi del mondo in cui è abbastanza difficile sopravvivere anche quando si è giovani e in buona salute. Ho visto le sorelle fare tutto il possibile per rendere la vita di queste persone il meglio possibile e ho visto il loro cuore squarciarsi quando una bambina è morta una mattina a Cuzco. Sì, forse se quella bambina fosse andata in un ospedale costoso in America avrebbe vissuto più a lungo. Ma il fatto è che lei non poteva andare in quell’ospedale, e, in fin dei conti, ha avuto una vita di gran lunga migliore di quella che avrebbe avuto se le sorelle l’avessero lasciata nella spazzatura in cui l’hanno trovata».

In ogni caso, anche i critici più impegnati come Aroup Chatterjee, hanno riconosciuto che dalla fine degli anni ’90 le case gestite dalle Missionarie della Carità hanno notevolmente migliorato lo status sanitario. Logopedisti e fisioterapisti sono stati regolarmente consultati per prendersi cura di pazienti con disabilità fisiche e mentali e i pazienti che necessitano di un intervento chirurgico e cure più complicate sono stati inviati agli ospedali vicini.

 

CONCLUSIONE

Come emerge in modo evidente, il problema nasce quando si intende valutare le Case dei moribondi di Madre Teresa, nate negli anni ’50 a Calcutta, con gli standard attuali della medicina occidentale. Inoltre, c’è un totale fraintendimento sul “carisma” delle Missionarie della Carità che è dichiaratamente ben diverso da quello di altri ordini religiosi, impegnati nel fornire il miglior servizio sanitario possibile. Uno dei recensori del libro di Hitchens, Amit Chaudhuri, si è lamentato del fatto che Madre Teresa avrebbe potuto creare una «multinazionale missionaria», ma ciò era profondamente differente dalle sue volontà: non intendeva curare i malati “semplici”, per quelli c’erano già gli ospedali statali. Ella intendeva vivere in povertà (“povera tra i poveri”) e dedicarsi ai morenti, agli agonizzanti, ai relitti umani abbandonati ai bordi delle strade, schiacciati dalla loro tragedia umana e in attesa della morte, alle persone in fin di vita scartate da tutti, compresi i servizi di cura indiani. Intendeva dare immediato soccorso e consolazione a chi l’ospedale nemmeno lo avrebbe mai raggiunto.

La qualità delle prestazioni sanitarie avrebbe potuto probabilmente essere stata più all’avanguardia, investendo più denaro di quanto è stato fatto, ma, a giudicare dall’enorme stima che il popolo indiano le riserva ancora oggi, evidentemente la sua opera superava già di gran lunga qualunque iniziativa medica, assistenziale e sociale presente in India fino agli anni ’90. Lo storico Menniti Ippolito ha infatti scritto: «In un recente autorevole sondaggio svoltosi in India, teso ad individuare l’indiano più illustre del XX secolo, la cattolica albanese Madre Teresa ha prevalso su tutti. Questo in un paese particolare, orgoglioso della propria specificità e pure interessato da un risveglio hindu che sta provocando moti di intolleranza religiosa. Il modello semplice, coerente, sofferto, che Madre Teresa ha offerto al mondo ha un valore universale».

Per quanto riguarda le numerose donazioni che ricevette si capisce comunque come vennero investite se si pensa che al momento della morte di Madre Teresa, le Missionarie della Carità operavano in 610 missioni di 123 paesi del mondo, dove avevano fondato hospice per moribondi, case per le persone affette da HIV / AIDS, tubercolosi e lebbra, mense per i poveri, programmi di consulenza familiare e assistenza personali, orfanotrofi, scuole ecc.

 

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3. SI CURAVA NEI MIGLIORI OSPEDALI?

Madre Teresa venne ricoverata la prima volta nel 1983, subì un infarto nel 1989 e le fu applicato un pacemaker. Si ammalò di polmonite nel 1991, nel 1992 ebbe nuovi problemi cardiaci e l’anno successivo contrasse la malaria stando in mezzo ai malati di Calcutta. Nell’aprile del 1996 si ruppe la clavicola e morì nel 1997.

 

ACCUSE

Sia Christopher Hitchens che il giornalista Murray Kempton, recensore del suo libro, hanno accusato Madre Teresa di essersi curata in ospedali di lusso durante le malattie, mentre avrebbe concesso minima assistenza sanitaria negli hospice da lei diretti. In varie occasioni, ha scritto lo scrittore ateo, «compariva nelle cliniche migliori e nei più costosi ospedali occidentali durante i suoi attacchi di cuore dovuti alla vecchiaia».

Amit Chaudhuri, recensore del libro di Hitchens, ha precisato: «La tesi di Hitchens è che le ambizioni di Madre Teresa non sono affatto materiali, “nel senso comune del termine” (non dice affatto che Madre Teresa ha utilizzato i soldi delle donazioni per il suo personale beneficio), ma che il suo scopo era quello di stabilire un culto dell’austerità e della sofferenza».

 

RISPOSTE

Si tratta di un’accusa sconcertante per Sunita Kumar, una delle figure sociali più influenti di Calcutta, che ha lavorato come volontaria a fianco di Madre Teresa per 36 anni, diventandone amica e confidente, nonché la portavoce delle Missionarie della Carità (e una dei 113 testimoni intervistati dalla Chiesa durante il processo), nonostante professi una religione induista (lo sikhismo). Ha in fatti dichiarato«Sono stata abbastanza pesantemente coinvolta nel momento in cui Madre Teresa era malata a Calcutta e alcuni medici da San Diego e da New York vennero a visitarla di loro spontanea volontà. Lei non aveva alcuna idea di chi veniva a visitarla ed è stato così difficile convincerla perfino di recarsi in ospedale». In un’altra intervista, la Kumar ha detto: «Ricordo che dopo aver vinto il premio Nobel, mi disse: “Io non so il motivo per cui tutte queste persone mi stanno prestando attenzione. Io ho fatto questo sempre, perché adesso?”. In tutto quello che ha fatto è stata motivata dal suo amore per Cristo, quando divenne troppo malata voleva comunque visitare la Casa per i moribondi per pulire i bagni, come prima cosa. Quella era la sua umiltà. La sua unica parola era “dignità”. Diceva: “non si perde nulla dando dignità e rispetto a qualcuno, non importa chi sono”». Quando si è ammalata, all’inizio degli anni Novanta, la priorità di chi le stava intorno era cercare di convincerla a rallentare il ritmo e non peggiorare la sua salute cagionevole. «Ha avuto il suo primo attacco di cuore a Roma, nel 1980, ma ha sempre rifiutato di cambiare il ritmo esigente della sua vita», ha raccontato Kumar. «Lei non ci avrebbe mai ascoltato, abbiamo dovuto fare di tutto -anche mentire, se era necessario- per convincerla a curarsi. Non voleva che il suo lavoro si fermasse». E’ morta nella sua stanza presso la Casa Madre di Calcutta il 5 settembre del 1997, dando precise istruzioni di non essere portata in ospedale. «Ma, naturalmente, nessuno aveva intenzione di ascoltarla», ha spiega Kumar. «Abbiamo tenuto una bombola di ossigeno nel caso ci fosse un’emergenza, pronti a trascinarla in ospedale. Ma la morte è arrivata così in fretta».

Anche l’ex commissario elettorale dell’India, Navin Chawla, ha confermato che Madre Teresa ha sempre avuto un’avversione per gli ospedali “dei ricchi”, tanto che -ha ricordato- è stato possibile ricoverarla soltanto quando perse i sensi mentre si trovava negli Stati Uniti. «Era così forte la sua avversione per gli ospedali costosi», ha dichiarato, «che cercò perfino di fuggire durante la notte. E’ completamente ingiusto» accusarla di tutto questo. In un articolo ha spiegato: «Nel 1994, Madre Teresa si è ammalata a Delhi, quando venne a ricevere un premio. Sviluppò una febbre alta e una gastroenterite così, contro la sua volontà (“Io sarò a posto per domani”, mi disse), mi sono precipitato in un grande ospedale pubblico, dove è stata ricoverata per più di una settimana nel reparto di cardiologia. In quei giorni il centralino dell’ospedale è stato ingolfato di chiamate arrivate dalla residenza ufficiale del Presidente dell’India, dalla presidenza del Consiglio dei Ministri, dalla Casa Bianca, dal Vaticano e dalle cancellerie di tutta Europa. Vari ambasciatori e il primo ministro Narasimha Rao hanno offerto un trattamento in qualsiasi parte del mondo. Tuttavia, seppur non avesse del tutto recuperato, a mio avviso, le sue consorelle l’hanno portata di nuovo nel loro hospice di Kolkata. Se solo il gruppo di ricerca canadese avesse conosciuto la realtà dei suoi ricoveri, forse non sarebbe stato così poco caritatevole».

Il gesuita James Martin ha pubblicato sul The New York Review of Books una risposta diretta a Murray Kempton, definendo l’accusa «ingiusta e ingiustificata». «Chiunque abbia familiarità con gli ordini religiosi», ha scritto, «sarà consapevole del fatto che quando un superiore si ammala, il più delle volte è sollecitato dai membri della sua comunità di curarsi molto meglio avrebbe fatto se fosse lasciato solo. Furono i subordinati di Madre Teresa a costringerla a prendersi più cura di se stessa, forse anche contro la sua stessa volontà. Si tratta di un peccato contro la povertà, un’ipocrisia, o, più probabilmente, una dimostrazione del profondo affetto delle Missionarie della Carità per la loro fondatrice?».

Una smentita diretta è arrivata anche dal cardiologo Tarun Praharaj, che ha curato Madre Teresa quando fu ricoverata in ospedale nel 1993 e nel 1996: «non è stata lei a scegliere una clinica di fascia alta, ma è stata la decisione dei suoi medici». Il fotografo Raghu Rai, che l’ha incontrata per decenni, ha dichiarato di aver sempre visto che a curarla è sempre stato lo stesso medico locale bengalese. In un articolo di giornale del 1989 si legge: «Madre Teresa ha lasciato l’ospedale di Calcutta cinque settimane dopo aver subito un attacco di cuore, dirigendosi alla sede delle sue Missionarie della Carità, nonostante il parere contrario dei medici».

Padre Leo Maasburg, un prete austriaco amico intimo di Madre Teresa, suo consigliere spirituale e autore di una sua biografia, ha spiegato che nonostante i suoi numerosi viaggi (intrapresi puramente per diffondere le sue attività caritative), Madre Teresa ha vissuto una vita estremamente modesta a Calcutta, e mai ha chiesto favori speciali o particolari cure per se stessa. Fatti confermati da altre persone a lei vicine, compresi i medici che l’hanno curata durante la sua ultima malattia.

 

CONCLUSIONE

Come spiegato da questi autorevoli testimoni oculari, molte malattie che contrasse Madre Teresa furono dovute al suo instancabile e quotidiano lavoro in mezzo ai malati morenti, agli infetti che soccorreva e ai sofferenti dei sobborghi di Calcutta, e il ricorso a cure mediche di alto livello è stato scelto spesso contro la sua stessa volontà. In ogni caso, anche se così non fosse stato, non avremmo rilevato alcuna contraddizione: la sua opera, come abbiamo mostrato nel capitolo dedicato, era rivolta non tanto ai “semplici” ammalati -come di fatto era lei-, i quali venivano già assistiti dagli ospedali statali, ma sopratutto ai moribondi, ai morenti, agli agonizzanti, alle persone in fin di vita scartate dalle strutture sanitarie di allora, che venivano raccolti dalle Missionarie della carità ai bordi delle strade, dove si erano accasciati attendendo la morte. Madre Teresa non era in tale condizione quando venne ricoverata per i suoi problemi cardiaci, lo era invece, evidentemente, negli ultimi giorni della sua vita. Ed infatti non morì in un lussuoso ospedale americano, ma –come è stato spiegato– nella casa madre delle Missionarie della Carità di Calcutta, dove per decenni aveva offerto ai moribondi delle strade di Calcutta la possibilità di morire con dignità, assistiti, puliti e amati per quel che erano.

 

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4. AMAVA LA POVERTA’ PIU’ DEI POVERI?

I sostenitori di questa accusa si concentrano sul concetto di “sofferenza” e “dolore” espresso più volte da Madre Teresa durante varie interviste pubbliche, sostenendo che la religiosa si limitava a glorificare la sofferenza in quanto legame della vittima con Dio, senza far nulla per alleviare la situazione del sofferente.

 

ACCUSE

Lo scrittore Cristopher Hitchens ha criticato la suora albanese anche per la sua presunta concezione della sofferenza e della morte. Ha infatti citato questa frase di Madre Teresa: «C’è qualcosa di bello nel vedere i poveri accettare il loro destino e la sofferenza come fece Cristo durante la sua Passione. Il mondo ha da imparare un sacco dalla sofferenza». Ha quindi commentato: «Non era un’amica dei poveri. Era amica della povertà, ha detto che la sofferenza è un dono di Dio».

Anche gli autori del già citato studio canadese hanno affermato che Madre Teresa considerasse “bello” vedere i poveri soffrire e preferisse glorificare il dolore dei malati anziché alleviarlo.

 

RISPOSTE

Come giustamente ha osservato padre Leo Maasburg, prete austriaco amico intimo di Madre Teresa, suo consigliere spirituale, si tratta di «una torsione diabolica» delle convinzioni della suora albanese, che erano massimamente rivolte «ad aiutare i poveri e alleviare loro la sofferenza».

I critici, infatti, hanno preso un enorme abbaglio semplicemente perché non conoscono la visione cattolica della sofferenza salvifica, che nasce dalla passione del Cristo ed è insegnata da secoli dalla Chiesa cattolica. La lettera apostolica Salvifici doloris di Giovanni Paolo II è sufficiente per apprendere come la visione di Madre Teresa sia interamente e umanamente cattolica. Scrive Papa Wojtyla: «nella sofferenza si nasconde una particolare forza che avvicina interiormente l’uomo a Cristo, una particolare grazia. Frutto di una tale conversione non è solo il fatto che l’uomo scopre il senso salvifico della sofferenza, ma soprattutto che nella sofferenza diventa un uomo completamente nuovo. Allorché questo corpo è profondamente malato, totalmente inabile e l’uomo è quasi incapace di vivere e di agire, tanto più si mettono in evidenza l’interiore maturità e grandezza spirituale, costituendo una commovente lezione per gli uomini sani e normali». La sofferenza può quindi essere per il malato un’occasione di rinascita, non una crudele sfortuna ma una possibilità di salvezza. Ha un senso, seppur misterioso.

Questo giustifica abbandonare il povero e il sofferente nella sua condizione? E’ sciocco solo pensarlo. «Al Vangelo della sofferenza», precisa infatti Giovanni Paolo II, «appartiene anche — ed in modo organico — la parabola del buon Samaritano. Essa indica quale debba essere il rapporto di ciascuno di noi verso il prossimo sofferente. Non ci è lecito “passare oltre” con indifferenza, ma dobbiamo “fermarci” accanto a lui. Buon Samaritano è ogni uomo, che si ferma accanto alla sofferenza di un altro uomo, qualunque essa sia. Quel fermarsi non significa curiosità, ma disponibilità», commuoversi «per la disgrazia del prossimo». Tuttavia, «il buon Samaritano della parabola di Cristo non si ferma alla sola commozione e compassione. Queste diventano per lui uno stimolo alle azioni che mirano a portare aiuto all’uomo ferito. Buon Samaritano è, dunque, in definitiva colui che porta aiuto nella sofferenza, di qualunque natura essa sia. Aiuto, in quanto possibile, efficace. In esso egli mette il suo cuore, ma non risparmia neanche i mezzi materiali». L’insegnamento cattolico secondo cui nemmeno la sofferenza umana è motivo di disperazione, ma una prova che porta ad una possibile redenzione personale, è rivolto ad aiutare il sofferente a trovare il senso di quanto gli è accaduto, a sentirsi comunque amato da Dio. Non giustifica affatto il voler rimanere in tale situazione, ma abbracciarla e tirarsene fuori («prenda la sua croce e mi segua» (Lc 9, 23); tanto meno indica di abbandonare il malato alla sua condizione. Anzi, proprio il contrario. Soltanto un approccio superficiale e fintamente ingenuo può travisare tutto ciò.

Andando oltre il chiarimento teologico della visione di Madre Teresa, perfettamente coincidente con l’insegnamento della Chiesa, osserviamo come i testimoni oculari dell’opera della suora descrivono l’enorme sforzo delle Missionarie della Carità nel combattere la povertà e l’indigenza delle persone che incontrano e incontravano.

 

Shirin Bazleh, ad esempio, è un regista americano agnostico che si è recato a Calcutta nel 1996 per visitare l’opera di Madre Teresa. «Penso che le persone che fanno queste dichiarazioni critiche probabilmente non sono mai state in uno di questi hospice», ha affermato. «Quello che ho visto personalmente è stato l’amore e la cura che viene data agli indigenti a prescindere dalla loro religione. Io non credo che nessuno, sotto l’ombrello di una religione, sta facendo lo stesso altrove. Quando eravamo alla Casa di Kalighat abbiamo visto una donna che è stato portata dalla strade. Sembrava terribilmente malata e tremante, c’erano vermi che le uscivano dalle orecchie e insetti striscianti su tutto il viso. Dio solo sa cosa’erano quelle creature in movimento aggrovigliate tra i capelli. Le sorelle l’hanno lavata, l’hanno pulita, le hanno tagliato i capelli e tolto gli insetti, le hanno rimosso i vermi dalle orecchie, l’hanno vestita e fatta curare da un medico. Le è stato quindi assegnato un letto pulito e le è stato dato da mangiare. Si è scoperto che era così debole a causa della malnutrizione, aveva perso i sensi in un vicolo ed era rimasta lì per giorni. Questi sono i tipi di lavoro che le Missionarie della Carità svolgono quotidianamente. Siete disposti a fare lo stesso? In caso contrario, non siete qualificati ad avere un parere negativo su di loro».

Importante, ancora una volta, la testimonianza del già citato funzionario indù, Navin Chawla, molto vicino alla suora albanese. L’incontro con Madre Teresa lo ha stimolato a creare lui stesso iniziative per contrastare la sofferenza e la povertà. Ella, ha spiegato Chawla, «è riuscita a trasformare me, che sono rimasto indù. Ha fatto di me una persona diversa. Ha creato un ponte tra me e la povertà. Mi ha spinto a mettermi in contatto con i poveri attorno a me. Ha dato un senso a questo collegamento con i poveri anche per la classe media. Non che nell’induismo manchi il senso di compassione. Ma mi ha insegnato a raccogliere un lebbroso da terra. Con l’esempio. Cos’ha spinto Navin Chawla, un burocrate che ha studiato nelle scuole giuste, a farsi carico di 18mila casi disperati nei lebbrosari di cui mi occupo? Madre Teresa è riuscita a toccare qualcosa in me. E lo ha fatto con altre centinaia di migliaia di persone. E come? Dando il buon esempio. Costruì un primo ospedale e fece così tanto per i poveri che in giro di non molto tempo la gente s’inchinava per toccarle i piedi, che è un gesto di rispetto, qui in India, verso le figure autorevoli. Dopo la sua morte, le missioni in India stanno crescendo, le sorelle dell’ordine sono sempre di più. I volontari non stanno diminuendo e nemmeno i finanziamenti». Come si evince, in Madre Teresa non c’era alcuna “glorificazione della povertà”, ma amore concreto ai poveri tanto da prendersi cura costantemente di loro e toglierli dalla situazione in cui versavano, arrivando a toccare il cuore di persone di diversa estrazione culturale e religiosa, lontane dalla fede cristiana.

Nel 2000 l’ex commissario Chawla ha raccontato altri particolari interessanti: «Dieci anni fa ho diretto il Dipartimento di Salute dello stato di Delhi e ispezionai più volte un ospedale psichiatrico statale. I disabili mentali erano come detenuti di una prigione, due dozzine di uomini completamente nudi, accovacciati in un angolo della sala, i loro vestiti e le coperte erano strappati, i loro corpi non lavati da settimane. Più di ogni altra cosa mi ricordo la disperazione nei loro occhi. Quando visitai la casa di cura di Madre Teresa a Tengra, in cui venivano curati le persone con handicap mentale, ho notato che la costruzione era nuova, conteneva tre dormitori su ciascuno dei due piani. La qualità era quasi di lusso per il modo in cui tutto era stato organizzato: le camere erano luminose e ariose grazie ai ventilatori a soffitto, ogni letto aveva la sua zanzariera. La biancheria da letto colorata era tessuta dai malati di lebbra di Tirigarh. Non un chiodo sembrava fuori luogo e i volontari non erano retribuiti. Gli stessi pazienti sono stati incoraggiati a mantenere se stessi e il loro ambiente pulito, come parte necessaria della terapia. Mentre passavo mi aspettavo di incontrare rabbia o ostilità nei gruppi di pazienti, invece mi hanno accolto con caldi benvenuti. Quando arrivarono qui, due anni fa, non sapevano vestirsi, né mangiare correttamente, si rannicchiavano impauriti in un angolo. Ora sono autonomi nella maggior parte delle cose che fanno, addirittura lavorano nel centro artigianale».

La parlamentare indù Meenakshi Lekh è portavoce del Bharatiya Janata Party (BJP) e, in quanto profondamente nazionalista, non proprio “favorevole” all’opera di Madre Teresa poiché la considera una missionaria appartenente ad un’altra religione. Tuttavia ha affermato: «nessuno contesta il lavoro caritatevole di Madre Teresa, nessuno contesta che nella sua vita ha svolto un lavoro encomiabile in aiuto dei malati, anziani, orfani e delle famiglie, sono stata anche un’ammiratrice del suo lavoro».

Il giornalista ebreo (seppur laico) David Van Biema, autore della famosa inchiesta su Madre Teresa comparsa sul Time e intitolata “The Life and Works of a Modern Saint” (2010), ha detto: «Un’altra critica dice che lei era più interessata alla sofferenza dei poveri, al mantenere quelle persone nella sofferenza. Ora io penso che sia molto discutibile se si guarda a quanto cibo è arrivato attraverso il suo ministero e a quanti farmaci anti-lebbra che sono stati distribuiti». E, ha aggiunto: «A Calcutta ha creato istituzioni, scuole per i bambini poveri, case per donne in gravidanza, rifugi per i senza tetto, per gli orfani e i lebbrosi, case per i morenti, che sono diventati un modello per i suoi ministeri di tutto il mondo. Sembra forse esagerato, ma Madre Teresa ha ridefinito il concetto di “lavorare con i poveri” dell’età moderna, l’ha sostituito con “più poveri tra i poveri”, una nuova categoria con un corrispondente imperativo morale. Ha tolto la parola “con” cancellando la linea di demarcazione tra il benefattore e il beneficiario, facendo precipitare le sue suore in povertà nei bassifondi della città».

Molto curioso l’aneddoto raccontato dal giornalista del Telegraph, Tarun Ganguly: si trovava a Calcutta durante la metà degli anni ’80, mentre rientrava a casa un autocarro carico di scatoloni pieni di farmaci ha speronato la sua nuova auto. «Mentre stavo rimproverando il conducente del veicolo», ha detto, «ho improvvisamente notato una vecchia e fragile donna seduta accanto a lui, era Madre Teresa». Anche se colto alla sprovvista per alcuni secondi, Ganguly ha tuttavia preso il numero di targa decidendo di presentare una denuncia alla stazione di polizia di Park Street. «Ma la polizia si è rifiutata», ricorda Ganguly. «Mi hanno detto: “Come possiamo? Dopo tutto, lei e la Madre”». Ganguly maturò perciò un giudizio negativo verso la religiosa, fino a quando cambiò radicalmente idea alcuni anni dopo. «Una dei nostri vicini di casa, un’anziana donna musulmana, era stata abbandonata dalla sua famiglia. Era malata e sola e sentivamo il suo pianto tutte le notti. Ci sentivamo impotenti e non sapevamo cosa fare per aiutarla. Un giorno abbiamo sentito che Madre Teresa era venuta a prenderla. Abbiamo poi chiesto e saputo che era morta felice, amata e circondata da altre persone nella sua stessa situazione».

Il magazine inglese Outlook India nel tentativo di verificare le accuse ricevute da Madre Teresa, si è imbattuto in tantissime persone di fede indù che hanno incontrato la suora religiosa e hanno mutato i loro sospettosi convincimenti in aperta ammirazione. Un esempio è l’ufficiale di polizia del Bengala, BD Sharma, che andò a visitare nella prima metà degli anni ’80 una casa di cura delle Missionarie della Carità per i pazienti ammalati di lebbra. Ecco il racconto: «Io non era particolarmente ansioso di tale incontro perché consideravo Madre Teresa estremamente sopravvalutata, non apprezzando l’opera di uno straniero che lavora per l’India. Ma ho completamente cambiato la mia idea quando la vidi abbracciare i lebbrosi, i quali mai mi sarei sognato di toccare, per quanto mi vergogno ad ammetterlo. Passava le dita sopra le loro ferite aperte per lenirle e pulirle dal sangue incrostato. Questa è stata una dimostrazione di vera compassione che non può essere falsificata. Se questa donna non è santa, io non so chi lo possa essere». Altra testimonianza significativa è quella del leader del Partito Comunista indiano, Mohammed Salim, il quale seppur non d’accordo con l’ideale di Madre Teresa non ha potuto negare il suo impegno: «Non intendo affatto sminuire gli sforzi di Madre Teresa per contribuire a ridurre la sofferenza dei miserabili, ma l’elemosina non è la soluzione».

Il sociologo cattolico William A. Donohue è entrato più nel merito dell’equivoco teologico sulla sofferenza: «Facciamo finta che io sia un ateo. L’idea della sofferenza redentrice, che chiede di unire le mie sofferenze a Gesù, è quello che lo storico James Hitchcock ha definito una delle più radicali idee della storia. Posso capire un ateo che dica: “Io non capisco. C’è sofferenza, ma l’idea di poter unire le mie sofferenze a Cristo non è qualcosa che posso comprendere”. Ci viene insegnato nella società americana di comprendere i popoli aborigeni, che possono avere usi e costumi che potrebbero sembrare bizzarri e strani per noi. Ma non quando si tratta dei cattolici. Hitchens e gli altri critici avrebbero dovuto fare un sincero tentativo di guardare il mondo attraverso gli occhi di un cattolico che crede nella sofferenza redentrice. Invece, nella loro arroganza dicono che è folle e borderline credere in un tale concetto».

 

CONCLUSIONE

Sembra davvero strano che persone colte e intelligenti possano davvero pensare che l’insegnamento di Madre Teresa e della Chiesa cattolica sia quello di glorificare e amare la sofferenza più dei sofferenti. E’ più probabile, a nostro avviso, che questi critici fingano di essere ingenui per disonestà intellettuale, permettendosi così di poter giocare sull’equivoco e riversare su Madre Teresa un’accusa insidiosa e viscida. Sanno bene, infatti, che per chiarire le cose occorre più fatica, spiegazioni ed impegno -come sono state date qui sopra- di quanto servano all’accusatore, a cui basta una citazione estrapolata di Madre Teresa e un’interpretazione volutamente errata delle parole.

 

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5. DONAZIONI DA PERSONAGGI DISCUTIBILI?

In mezzo a migliaia di piccoli e grandi ammiratori di Madre Teresa, ci sono anche stati tre personaggi moralmente discutibili che hanno anche loro donato del denaro per le opere create dalle Missionarie della Carità.

 

ACCUSE

Nel libro di Hitchens, La Posizione della Missionaria, la religiosa di Skopje viene accusata anche di aver ricevuto donazioni dal dittatore haitiano Jean-Claude Duvalier nel 1981, dal finanziere corrotto Charles Keating e dal parlamentare britannico Robert Maxwell.

 

RISPOSTE

Il finanziere Keating, al culmine del suo successo, fece una donazione a Madre Teresa e nel 1992 venne processato e condannato dopo un pesante crack finanziario. Durante lo svolgimento del processo, Madre Teresa scrisse al giudice Lance Ito: «Io non so nulla del lavoro di Charles Keating, della sua attività o delle questioni che sta trattando. So solo che è stato gentile e generoso con i poveri di Dio ed è stato pronto ad aiutarli ogni volta che c’era un bisogno. Ogni volta che qualcuno mi chiede di parlare con un giudice, dico sempre di pregare e guardare nel loro cuore e fare ciò che Gesù avrebbe fatto in quella circostanza. E questo è ciò che chiedo a voi, vostro Onore» (citata in C. Hitchens, The Missionary Position, Verso 1995, p. 67). Anche per quanto riguarda la donazione di Robert Maxwell, essa avvenne molto prima dell’accusa di appropriazione indebita dei fondi pensione della sua società di marketing.

Il già citato ex commissario elettorale dell’India, Navin Chawla, di fede indù, ha replicato a tali accuse: «Nel corso della ricerca per la mia biografia, le ho chiesto il motivo per cui accettò i soldi da personaggi loschi come Duvalier. La sua risposta è stata concisa: “Nella carità”, ha detto, “ognuno ha il diritto di dare”. Nel frattempo ho studiato la storia Duvalier. Madre Teresa aveva creato una piccola missione a Port-au-Prince, uno dei luoghi più disperatamente poveri del mondo. Il giorno dopo che Madre Teresa la visitò, la figlia di Duvalier si recò alla missione e donò 1000 dollari. Non si trattava, come è stato riferito, di un milione di dollari. Ma la risposta di Madre Teresa sarebbe stata comunque la stessa: se questo dà pace al donatore, così sia». In un’altra occasione ha aggiunto: «Supponiamo pure che Madre Teresa abbia ricevuto donazioni senza identificare da chi venivano. Anche fosse, sarebbe una cosa così insignificante nell’oceano di Bene che quella Santa ha fatto. È vero, non guardava in faccia a nessuno. Se pensava che avresti potuto aiutarla, veniva da te, ti spiegava cosa faceva e aspettava che offrissi qualcosa. Non chiedeva mai. E diceva che non le importava chi fosse a offrire denaro. Non faceva differenza: lei vedeva solo i poveri». Tali accuse arrivarono anche quando Madre Teresa era ancora viva, la sua risposta era semplice: «Ogni individuo ha il diritto di dare in beneficenza», ha spiegato ancora Chawla. Aggiungendo: «Le ho chiesto di questo una volta. Lei mi ha chiesto se mettevo in discussione tutte le migliaia di persone che nutrono i poveri nella nostra città ogni giorno. “Non sta a me giudicare le persone. Questo è il lavoro di Dio”, mi disse».

Lo scrittore Simon Leys, docente di Sinologia alla Australian National University, ha pubblicato sul The New York Review of Books una breve ma significativa risposta a tale accusa: «Madre Teresa ha accettato di tanto in tanto di ospitare truffatori, milionari e criminali? E’ difficile capire perché, da cristiana, avrebbe dovuto essere più esigente in questo senso del suo Maestro, le cui frequentazioni negative erano note e sconvolsero tutti gli Hitchens del suo tempo». Leys si rifà, ad esempio, ai pasti che Gesù condivideva con prostitute e pubblicani, nonché alla famosa visita a casa del ladrone Zaccheo, creando parecchio scandalo tra i farisei.

L’agnostico Gëzim Alpion, docente di Sociologia presso l’Università di Birmingham ed esperto della vita di Madre Teresa, ha commentato: «Naturalmente ci sono stati alcuni individui ricchi e potenti che hanno cercato di usare Madre Teresa per i loro scopi, alcuni ancora lo fanno. Eppure, questa suora non ha mai offerto l’assoluzione in cambio di “favori”. Solo quelli che non fanno nulla o sono riluttanti a vedere questo, non riescono a capire che le personalità religiose dovrebbero essere mediatori attivi con chi detiene il potere, nella speranza che questo vada a vantaggio dei meno fortunati».

 

CONCLUSIONE

Queste tre controverse donazioni ci sono effettivamente state tuttavia, in almeno due casi, Madre Teresa non conosceva, come abbiamo visto, il discutibile profilo morale del donatore. Molti si lamentano perciò del fatto che la suora albanese non abbia restituito la donazione nel momento in cui seppe di aver ricevuto soldi “sporchi”. Ci domandiamo come pensano che potesse farlo: inviando un assegno al giudice o al criminale? Togliendo quei soldi ai poveri di Calcutta o delle altre missioni a cui li aveva molto probabilmente destinati, per inviarli alle povere vittime americane o britanniche del donatore corrotto? Oltre a mancare di sano realismo, sorprende che i critici di Madre Teresa manchino di condannare moralmente anche Gesù Cristo che, scandalosamente, accolse i soldi “sporchi” del corrotto Zaccheo, quando quest’ultimo decise: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri» (Lc 19,1-10)

 

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6. BATTESIMI SEGRETI E CONVERSIONI FORZATE?

Alcuni critici accusano Madre Teresa e la Missionarie della Carità di aver battezzato in segreto i bambini orfani che trovavano e usato la conversione come ricatto per aiutare i moribondi e le persone in fin di vita. Questa è anche l’unica accusa condivisa (o meglio, i critici occidentali hanno condiviso tale accusa) da qualche esponente della società indiana e orientale, generalmente nazionalisti indù.

 

ACCUSE

Christopher Hitchens ha accusato Madre Teresa di aver battezzato segretamente i morenti: «Nelle case per i moribondi, Madre Teresa ha insegnato alle sorelle come battezzare di nascosto coloro che stavano morendo. Le sorelle dovevano chiedere ad ogni persona in pericolo di morte se voleva un “biglietto per il paradiso.” Una risposta affermativa significava il consenso al battesimo. La sorella poi faceva finta di raffreddare la testa del paziente con un panno umido, mentre in realtà lo stava battezzando, dicendo sottovoce le parole necessarie. La segretezza era importante in modo che nessuno avrebbe saputo che le sorelle di Madre Teresa battezzavano indù e musulmani» (C. Hitchens, The Missionary Position: Mother Teresa in Theory and Practice, Verso 1995).

La parlamentare indù Meenakshi Lekh, portavoce del Bharatiya Janata Party (BJP), ha a sua volta detto«Una persona inviata in una missione religiosa è inviata per promuovere il cristianesimo in un paese straniero e svolge un lavoro religioso (come ad esempio convincere la gente ad unirsi a una religione o aiutare le persone che sono malate, povere, etc.), Madre Teresa stessa ha detto di essere una missionaria, l’organizzazione stessa dai fondata è chiamata “Missionarie della Carità”. Vorrei però meglio precisare: nessuno contesta il lavoro caritatevole di Madre Teresa, nessuno contesta che nella sua vita ha svolto un lavoro encomiabile in aiuto dei malati, anziani, orfani e delle famiglie, sono stata anche un’ammiratrice del suo lavoro. Ma non togliamole l’identità stessa: il suo lavoro era missionario, cioè qualcuno che portava il cristianesimo attraverso di esso. Non togliamo da quella nobile donna ciò che è stato il cuore della sua identità e del suo lavoro, la promozione del cristianesimo e ciò che è evidente nel nome della stessa organizzazione. Tuttavia, Madre Teresa ha avuto il coraggio della convinzione e l’onestà di intenti e non ha mai evitato le attività missionarie, a differenza delle organizzazioni che lo fanno sotto vesti ingannevoli».

Anche i fondamentalisti indù dell’ente paramilitare RSS e del partito politico nazionalista BJP hanno accusato la suora albanese di avere forzatamente convertito molti poveri al cristianesimo quando erano malati, in punto di morte o orfani da adottare. Mohan Madhukar Bhagawat, capo dell’RSS, ha affermato: «è un’ottima cosa lavorare per una causa con intenzioni altruistiche. Ma il lavoro di Madre Teresa aveva un secondo fine, quello di convertire la persona che stava accudendo al cristianesimo».

 

RISPOSTE

Immediata è arrivata la replica del primo ministro di Delhi, Arvind Kejriwal, che avendo lavorato a fianco di Madre Teresa, l’ha definita un’«anima nobile» e ha esortato il vertici del RSS a risparmiarle tali osservazioni. Kejriwal è di religione induista. Anche il giornalista indiano e induista Rajeev Shukla ha preso le difese della suora religiosa, sollevando addirittura la questione in Parlamento.

La testimonianza più importante è stata, ancora una volta, quella di Navin Chawla, ex commissario elettorale indiano, amico di Madre Teresa e, tuttavia, rimasto sempre di fede induista: «Non esiste neanche una testimonianza che confermi queste invenzioni. Non aveva alcun bisogno di convertire», ha replicato. «Perché, per lei, il bambino povero abbandonato per strada era Gesù. Il lebbroso era Gesù. Il moribondo era Gesù. Non c’era alcun bisogno di convertire qualcuno che era già Dio». In un’altra occasione ha aggiunto: «Anche se fermamente e devotamente cattolica, tese la mano a persone di tutte le denominazioni, indipendentemente dalla loro fede o non fede. Non credeva che la conversione era il suo lavoro, quello era opera di Dio, diceva. Così, mentre sollevava il neonato abbandonato, non lo avrebbe mai tentato di convertire perché sarebbe probabilmente stato adottato da una famiglia hindu. Per questo la gente di tutte le fedi era così entusiasta di questa suora cattolica. Nei miei 23 anni di stretta collaborazione con lei, mai una volta sussurrò che forse la sua religione era superiore alla mia, o attraverso di essa si trovava su un percorso più vicino al Divino».

Il sociologo agnostico Gëzim Alpion, docente presso l’Università di Birmingham ed esperto della vita di Madre Teresa, ha risposto così a tale accusa: «Nella mia ricerca, scrivo cose che sono in grado di corroborare e faccio sempre riferimento a citazione da fonti affidabili. Ho visitato la sede delle Missionarie di Calcutta e la Casa dei moribondi a Kalighat. In tutte le case dell’Ordine, i centri e le mense in cui sono stato, in Asia, in Africa, in Europa e in Australia, ho visto le suore di Madre Teresa, i fratelli e i volontari, devotamente al servizio dei bisognosi. Da quello che io stesso ho osservato durante tali visite e dalle interviste che ho condotto ai membri dell’ordine e a coloro che beneficiano della loro assistenza, ho motivo di ritenere che l’aiuto era offerto senza precondizioni».

La scrittrice Kathryn Spink, biografa autorizzata di Madre Teresa di Calcutta e attivista per i diritti umani delle donne sudafricane, ha spiegato che le persone ricoverate negli hospice di Madre Teresa «hanno ricevuto cure mediche dalle Missionarie della Carità e hanno avuto la possibilità di morire con dignità, secondo i riti della loro fede. Ai musulmani è stato letto il Corano, gli indù hanno ricevuto l’acqua del Gange e i cattolici hanno ricevuto l’estrema unzione. Hanno ricevuto una bella morte, le persone che hanno vissuto come animali sono morte come angeli, amate e volute» (K. Spink, Mother Teresa: A Complete Authorized Biography, HarperCollins 1998, p. 55)

Il prof. Antonio Menniti Ippolito, docente di Storia moderna presso l’Università degli studi di Cassino, ha scritto sull’enciclopedia Treccani: «Le suore non convertono, non impongono modelli, non cercano di convincere. Gli assistiti che muoiono nelle loro case vengono destinati alle comunità religiose di appartenenza e in India, quando vi è un dubbio, i cadaveri vengono destinati alla cremazione secondo lo stile hindu. Neppure i bambini ospiti dello Shishu Bhavan di Calcutta, almeno quelli in condizione d’essere dati in adozione, vengono battezzati. Il modello di vita e di impegno offerto da Madre Teresa e dalle sue Missionarie della carità è tanto originale quanto straordinario: un vero modello di fratellanza, non ideologico, che si propone con l’esempio».

Lo scrittore Simon Leys, prestigioso docente di Sinologia alla Australian National University, ha pubblicato sul The New York Review of Books una breve ma significativa risposta a tale accusa: «Madre Teresa battezza in segreto i moribondi? L’atto materiale del battesimo consiste nel mettere alcune gocce di acqua sulla testa di una persona, mormorando una dozzina di semplici parole rituali. O si crede nell’effetto sovrannaturale di questo gesto, e allora si dovrebbe desiderarlo. Oppure non si crede in esso, e il gesto è un atto innocente, senza significato e innocuo, come scacciare una mosca con un gesto della mano. Se un cannibale ti si presenta davanti con amore e vorrebbe consegnarti un dente magico di coccodrillo come protezione perenne, lo scacci indignato e respingi l’offerta come primitiva e superstiziosa, oppure accetti in segno di gratitudine, ritenendo un segno generoso di sincera preoccupazione e affetto?».

Shirin Bazleh, un regista americano agnostico che si è recato a Calcutta nel 1996 per visitare l’opera di Madre Teresa, ha più volte precisato: «La casa dei moribondi di Kalighat si trova accanto a un tempio indù, e i malati, indipendentemente dalla loro religione, vengono portati dentro e ci si prende cura di essi. Io non sono una persona religiosa e trascorrere del tempo con Madre Teresa non ha cambiato le mie opinioni sulla religione in sé, ma ha aumentato il mio apprezzamento per coloro la cui fede è guida per portare più bene all’umanità. Se la religione e la fede aiutano a portare il meglio dalle persone, penso che siano una grande cosa. Non mi interessa ciò che la religione è e non credo che nemmeno Madre Teresa si preoccupa di questo. Lo vediamo nel suo lavoro: nel suo servizio e nelle sue azioni non favorisce una religione rispetto ad un’altra. Ha detto più volte che “io amo tutte le religioni, ma sono innamorata del cristianesimo”. La ammiro totalmente per quello che è e per quello che fa».

Sunita Kumar, portavoce dell’organizzazione fondata da Madre Teresa, ha replicato alle accuse dei nazionalisti indù: «Sono male informati. Deve essere assolutamente chiaro che i tentativi di proselitismo non avvenivano quando c’era la Madre, né avvengono oggi. L’intero movente è quello di servire i poveri disinteressatamente, portare gioia e dignità nella loro vita. Non ho mai visto nulla di simile, un musulmano è trattato come un musulmano e un indù è trattato come un indù. Io stessa sono una sikh e questo non è mai stato di ostacolo al mio rapporto con le Missionarie della Carità».

Il vaticanista Henri Tincq ha commentato: «L’accusa di aver cercato di convertire al cristianesimo gli indù sofferenti è falsa, ancora utilizzata quotidianamente dai fondamentalisti indiani per perseguitare la minoranza cristiana in questo paese (il 3% della popolazione). La migliore risposta a questa accusa è il ricordo del funerale di stato decretato il 9 settembre 1997 dal governo indiano. Come inviato speciale per il funerale, mi ha colpito la presenza e l’omaggio di decine di migliaia di indiani (e indù) nella processione che ha seguito il feretro di Madre Teresa nelle strade della capitale del Bengala. Quasi venti anni dopo il giorno della sua canonizzazione, i membri e i funzionari del governo indiani ancora si recano in viaggio a Roma. Il 28 agosto, il primo ministro Narendra Modi del partito nazionalista indù, famoso per la poca tolleranza verso i cristiani, ha invitato il suo paese ad onorare la nuova santa con queste parole: “Madre Teresa ha dedicato tutta la sua vita al servizio dei poveri e degli svantaggiati in India. Quando a una persona viene dato il titolo di santo, è naturale che tutti gli indiani si sentono orgogliosi”».

 

CONCLUSIONE

Il problema principale dei critici di Madre Teresa è che non sono mai stati testimoni oculari dei fatti. Al contrario, chi ha avuto l’onore di starle affianco -cattolico, ebreo, laico o induista- ha testimoniato l’assenza di qualunque proselitismo e, tanto meno, di conversioni “segrete”, “forzate” o sotto “ricatto”. Ovviamente Madre Teresa era una consapevole testimone del cristianesimo, l’annuncio cristiano di salvezza è il compito di tutti coloro che scelgono di abbracciare il messaggio evangelico, ma la testimonianza -come insegnano Benedetto XVI e Francesco- non avviene tramite i discorsi o il proselitismo, ma con l’attrazione, cioè attraverso le proprie opere e l’esempio di vita, felice e santa, che il cristiano porta nel mondo. Fin nei sobborghi di Calcutta. Ma anche se non fosse così, rimane più che valida l’osservazione che Gëzim Alpion, docente di Sociologia all’Università di Birmingham, ha rivolto ai critici di Madre Teresa: «Se dovessi scegliere tra chi aiuta i poveri per precisi fini religiosi e chi limita il proprio contributo a favore dei “relitti” umani alla pubblicazione di qualche discutibile articolo o libretto, teso a svilire il lavoro di questi altruisti “assistenti sociali” religiosi, non avrei dubbi da che parte stare» (G. Alpion, Madre Teresa, Roma 2008, pp. 110-115).

 

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7. DUBBI SULLA FEDE

Molti quotidiani hanno riportato alcune frasi scritte da Madre Teresa, raccolte in particolare nel libro di lettere private Come Be My Light (Doubleday 2009), conservate contro la sua stessa volontà da parte del suo direttore spirituale, padre Van Exem: «se le lettere diventeranno pubbliche la gente penserà più a me e meno a Gesù», scrisse (Lettera a Picachy, aprile 1959). Si tratta di scambi epistolari che ebbe con i suoi direttori spirituali (padre Van Exem, il card. Picachy e padre Neuner) e con l’arcivescovo di Calcutta, mons Périer, per circa sessant’anni, e alcuni di essi hanno rivelato per la prima volta un rapporto complesso con la fede, sofferto e a volte dubbioso, nato proprio quando ha iniziato la sua attività a Calcutta.

 

ACCUSE

Diversi autori non hanno mancato di deriderla per queste difficoltà apprese nelle sue lettere (definendola “la santa atea”, “una vecchia signora confusa”, “la patrona degli scettici” ecc.), mentre i suoi detrattori ufficiali hanno rimarcato questo aspetto per darle dell’“impostora”, criticato la scelta della santificazione da parte della Chiesa cattolica. I ricercatori canadesi hanno parlato di “instabilità psicologica”. Non riteniamo lecito che i dissacratori di Madre Teresa entrino anche nel campo della fede privata, non hanno l’esperienza né la preparazione adeguata per dare giudizi o misurare l’esperienza spirituale altrui. In ogni caso, anche tali accuse meritano una risposta.

 

RISPOSTE

Innanzitutto va detto che l’autore del libro che ha rivelato tutto ciò è padre Brian Kolodiejchuk, postulatore della causa di beatificazione di Madre Teresa. Ovvero, colui che ha reso pubblici tali scritti non solo non ha rilevato problemi o contraddizioni, ma addirittura è stato il postulatore della sua beatificazione, incaricato proprio dalla Congregazione per i Santi di studiare tali documenti e ascoltare i testimoni. Egli ha visto nella religiosa albanese la dote della perseveranza, un atto spiritualmente eroico e ha suggerito espresso il suo parere sulla “prova di fede” toccata a Madre Teresa: «era una personalità molto amata, molto forte. E una forte personalità ha bisogno di una forte purificazione» come antidoto all’orgoglio. Egli cita a dimostrazione un commento scritto dalla suora nel 1960, dopo aver ricevuto un importante premio nelle Filippine: «Questo non significa niente per me, perché io non ho Lui» (citata in B. Kolodiejchuk, Sii la mia luce, Bur 2009).

Commentando il momento di crisi di Madre Teresa, padre Peter Gumpel della Congregazione per le Cause dei Santi, ha replicato alle sottolineature “teologiche” dei critici e dei ricercatori dello studio canadese, anche loro impegnati a tratteggiare negativamente il profilo spirituale della suora albanese. «Questi ricercatori non conoscono che i periodi di dubbio, e anche gravi prove di fede, hanno colpito alcuni dei più grandi santi della Chiesa, come san Giovanni della Croce, santa Teresa di Lisieux ecc., e che l’animo perseverante e il superamento di essi è considerato uno dei grandi segni di santità». Altri santi che hanno sperimentato questa esperienza sono Giovanna Francesca Frémiot de Chantal e Teresa d’Avila. Madre Teresa è decisamente in “buona compagnia”.

Osserviamo anche che se si leggono tutti gli scritti si capisce che l’aridità spirituale vissuta dalla religiosa in realtà è spesso stimolo di una più profonda ricerca e unione con Dio. Lo si capisce da alcuni scritti in particolare (citati in B. Kolodiejchuk, Sii la mia luce, Bur 2009): «Gesù, ascolta la mia preghiera, se ciò Ti è gradito. Se il mio dolore e la mia sofferenza, la mia oscurità e la mia separazione Ti danno una goccia di consolazione, fa’ di me quello che vuoi, per tutto il tempo che desideri. Sono tua. Imprimi nella mia anima e nella mia vita le sofferenze del Tuo Cuore. Non guardare i miei sentimenti, non guardare neanche il mio dolore». In un’altra occasione scrisse: «Se la mia separazione da Te permette che altri si avvicinino a Te e Tu trovi gioia e diletto nel loro amore e compagnia, voglio di tutto cuore soffrire ciò che soffro, non solo adesso, ma per l’eternità, se fosse possibile».

Respingiamo inoltre chi scorge nell’oscurità di fede di Madre Teresa un dubbio filosofico o teologico dell’esistenza di Dio. Non è così, basta conoscere la vita dei santi più devoti per scorgere anche in loro l’esperienza della “notte oscura”, così definita da San Giovanni della Croce. Anche Benedetto XVI ha sperimentato qualcosa di simile: «Esperienze così forti no. Forse non sono abbastanza santo per finire in quell’oscurità. Però talvolta alle persone attorno a noi accadono cose che ci spingono a chiederci come il buon Dio possa permetterlo. In certe situazioni il rapporto con Dio diventa difficile: sono i momenti in cui mi chiedo perché c’è tanto male al mondo e come tutto questo male si possa conciliare con l’onnipotenza e la bontà del Signore» (in P. Seewald, Ultime conversazioni, Garzanti 2016, p.24). E’ ciò che accadde, sopra a tutti, a Gesù stesso, che mise in dubbio la vicinanza del Padre -non la sua esistenza- poco prima di morire in croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). Si pensi a questo mentre si leggono alcune frasi della religiosa albanese: «Signore mio Dio, chi sono io perché Tu mi abbandoni? […]. Chiamo, mi aggrappo, amo però nessuno mi risponde, nessuno a cui afferrarmi, no, nessuno. Sola, dov’è la mia fede? Persino nel più profondo non c’è nulla, eccetto vuoto e oscurità, mio Dio». E ancora: «C’è tanta contraddizione nella mia anima: un profondo anelito verso Dio, così profondo da far male, e una sofferenza continua, e con essa la sensazione di non essere amata da Dio, di essere rifiutata, vuota, senza fede, senza amore, senza zelo». Per anni visse una costante “oscurità”, sentendosi abbandonata da Dio, ma decisa ad «amarLo come non era mai stato amato prima» (citata in B. Kolodiejchuk, Sii la mia luce, Bur 2009).

Inoltre, tutto questo non le impedì di continuare a testimoniare l’amore di Dio alle persone a lei vicine: «Mie care figlie», scrisse ad esempio alle consorelle, «senza sofferenza il nostro lavoro sarebbe solo lavoro sociale, molto buono ed utile, ma non sarebbe l’opera di Gesù Cristo, non parteciperebbe alla redenzione. Gesù desiderava aiutarci condividendo la nostra vita, la nostra solitudine, la nostra agonia e morte. Tutto questo Egli lo prese su Se Stesso, e lo portò nella notte più scura. Solo essendo uno di noi ci poteva redimere. A noi è permesso fare lo stesso: tutta la desolazione dei poveri, non solo la loro povertà materiale ma anche la loro profonda miseria spirituale devono essere redente e dobbiamo condividerle. Quando vi risulti difficile, pregate così: “Voglio vivere in questo mondo che è lontano da Dio, che si è allontanato tanto dalla luce di Gesù, per aiutarLo, per caricare su di me una parte della Sua sofferenza”».

Infine, occorre dire che i “lamenti” di Madre Teresa cessarono da un certo momento in poi, sopratutto dopo l’incontro nel 1961 con il reverendo e teologo Joseph Neuner. Padre Kolodiejchuk ha spiegato che nel 1958 Madre Teresa «ha chiesto un segno a Gesù se era soddisfatto del lavoro delle Missionarie della Carità. E in quel momento, l’oscurità venne sollevata». Proprio a padre Neuner confidò di essersi accorta che quella che viveva era un’ulteriore prova datale da Dio, con uno scopo seppur misterioso: «Ho iniziato ad amare la mia oscurità, perché adesso credo che essa sia una parte, una piccolissima parte, dell’oscurità e della sofferenza in cui Gesù visse sulla Terra. Oggi sperimento una profonda gioia perché Gesù non può più passare attraverso l’agonia, ma vuole passare attraverso di essa, in me» (lettera a Neuner, citata in B. Kolodiejchuk, Sii la mia luce, Bur 2009). Lo stesso padre Neuner ha commentato: «E’ stata l’esperienza salvifica della sua vita, quando si rese conto che la notte del suo cuore era la “golden share” nella passione di Gesù». In forza di tale convinzione, Madre Teresa è arrivata infatti a scrivere a Gesù stesso: «Se questo Vi porta gloria, se le anime sono portate a Voi, con gioia accetto tutto fino alla fine della mia vita. Io sono disposta a soffrire per tutta l’eternità, se questo è necessario». E ancora: «Se vorrò che Dio mi santifichi, voglio essere santa dell’oscurità e chiederà al cielo di essere la luce per coloro che vivono nelle tenebre sulla terra» (citata in B. Kolodiejchuk, Sii la mia luce, Bur 2009).

Significativo il commento di Marina Ricci, vaticanista del Tg5 che si è recata più volte a Calcutta per raccontare il lavoro di Madre Teresa: «Da pochi anni sappiamo che anche lei fece a pugni con Dio. Nelle carte del processo di beatifi’cazione c’è la narrazione della notte oscura, quando cercò di allontanare il calice. Accade a tutti. È accaduto anche a Gesù. La misericordia di Dio riesce a
diradare le ombre, ma a condizione di amare anche quella oscurità. Solo così possiamo accorgersi dell’amore di Dio, questo ci insegna Madre Teresa»
. E in un’altra occasione: «Lei che aveva obbedito alla voce di Gesù che le chiedeva di essere povera tra i poveri, di abbracciare la miseria materiale, il disprezzo, l’abbandono e l’angoscia di chi non ha nulla, aveva stretto tra le braccia troppo forte quella Croce. E i segni di quell’abbraccio avevano passato il corpo fino ad arrivare all’anima, trasformandola in un orto del Getsemani e costringendola a urlare: “Dio, Padre, dove sei?”. Ebbene sì, aveva dubitato. E così facendo aveva ridato carne alla santità, riportandola vicina agli uomini fino a renderla un’occasione per tutti. Lei aveva tracciato la strada e dimostrato che anche il buio si può attraversare restando abbracciati alla Croce di Cristo».

Il reverendo James Martin, redattore della rivista dei gesuiti America, è anche autore del libro My Life with the Saints (Loyola Press 2007) in cui si è occupato dei “dubbi” di Madre Teresa. Ha scritto che quello della suora albanese è anche «un ministero per le persone che hanno sperimentato qualche dubbio, qualche assenza di Dio nella loro vita. E sapete chi sono? Tutti. Atei, scettici, agnostici, credenti. Tutti». E ancora: «E’ come innamorarsi e sposarsi con una persona che, Dio non voglia, ha un incidente ed entra in coma. Così smetti sperimentare il suo amore e per 50 anni la ami e ti prendi cura di lei, andando talvolta a lamentarti dal tuo direttore spirituale. Ma sai, ad un livello più profondo, che lei ti ama, anche se è silenziosa e capisci che quello che stai facendo ha un senso. Madre Teresa sapeva che quello che stava facendo aveva un senso». In un’altra occasione ha scritto: «Madre Teresa ha lottato intensamente con la sua vita spirituale. Il suo ministero era basato su un incontro singolarmente intimo con Gesù che a poco a poco è svanito nel silenzio, è una notevole testimonianza di fedeltà del più grande genere. Niente più di questo mi lega a Madre Teresa, e ho scoperto che niente come ciò genera apprezzamento verso la sua santità quando racconto questa storia agli altri, sia in articoli che in omelie o durante i ritiri spirituali».

Come è stato giustamente scritto dalla comunità delle suore “Siervas del Hogar de la Madre”, «la sua fede eroica e salda, la sua fedeltà, il coraggio e la gioia durante questo doloroso e prolungato periodo di prova, fanno risaltare ancor più la sua santità e costituiscono un esempio per tutti noi». E ancora: «Tutto questo ci porta ad una profonda ammirazione per la fede e per le opere di questa minuta religiosa, di questa santa che non sente, ma sa del profondo Amore di Dio, ed agisce come se lo sentisse, amando con tutto il suo cuore e facendo il bene dovunque passa, senza pensare neanche per un momento a se stessa».

Il giornalista ebreo (seppur laico) David Van Biema, a conclusione della sua famosa inchiesta sul Time intitolata “The Life and Works of a Modern Saint” (2010), ha scritto: «Madre Teresa ha considerato l’assenza percepita di Dio nella sua vita come il suo più vergognoso segreto, ma alla fine ha imparato che poteva essere un favorevole dono alla sua vocazione. Se avesse saputo che le sue difficoltà avrebbero facilitato la vita spirituale di migliaia di compagni di fede, non ne avrebbe provato alcuna vergogna». Ha comunque precisato: «Anche se ci sono lettere che suggeriscono esserci stati momenti in cui ha avuto dubbi, questi sono la minoranza – 3-4% delle lettere-. Per la maggior parte gli scritti parlano di quanto sia triste essere descritti come eroi».

 

CONCLUSIONE

Non possiamo che osservare quanta profondità vi sia nella prova di fede vissuta da Madre Teresa, a cui è stato chiesto da Dio un ulteriore percorso di purificazione, di mortificazione personale in contrapposizione all’esaltazione offertale del mondo. Una oscurità che la santa albanese ha saputo accettare e amare proprio intuendo la volontà di Dio e che, incredibilmente, ha aiutato molte persone a capire che la santità è alla portata degli uomini, nonostante i loro dubbi e incertezze. Inoltre, il modo in cui Madre Teresa ha vissuto questa difficoltà, l’ha resa agli occhi dei moderni non segno di contraddizione ma motivo ancora più meritevole di stima e di lode.

E’ anche incredibile come, nonostante l’esperienza dell'”oscurità” della fede, Madre Teresa abbia comunque saputo convertire migliaia di persone attraverso la sua testimonianza cristiana, fatta di opere più che di parole. Un esempio è il giornalista inglese Malcolm Muggeridge, agnostico dichiarato e nichilista, che ha incontrato la suora albanese dopo essere partito per Calcutta con una troupe cinematografica. Ne è nata un’amicizia e uno scambio di lettere, in cui Madre Teresa gli scrisse: «Il tuo desiderio di Dio è così profondo e tuttavia Egli mantiene se stesso lontano da te. Ma Lui sta forzando la Sua natura perché Egli ti ama così tanto e l’amore personale di Cristo per te è infinito, mentre la difficoltà che tu hai verso la Sua chiesa è finita. Supera il finito con l’infinito» (Lettera a Muggeridge, 1968). Muggeridge a quanto pare lo ha fatto, convertendosi ufficialmente al cattolicesimo nel 1982 e diventando un apologeta cristiano. Nel 1969, poco dopo aver incontrato Madre Teresa, ha pubblicato il suo primo libro religioso: Jesus Rediscovered. E’ stato regista del film Something Beautiful for God, pubblicando il libro omonimo nel 1971 e dedicandolo alla suora albanese, musa ispiratrice della sua conversione.

 

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8. CONCLUSIONI GENERALI

Abbiamo analizzato e risposto dettagliatamente tutte le principali accuse che sono state avanzate contro la santità di Madre Teresa, ignorando volontariamente chi la critica per la sua posizione contraria all’aborto e al divorzio, espressa a livello internazionale perfino durante il discorso alla consegna del premio Nobel. Queste coraggiose posizioni sono chiaramente uno dei tanti meriti della fondatrice delle Missionarie della Carità.

I suoi detrattori principali sono uomini borghesi occidentali, che mai si sono distinti per particolari opere di sincera carità. A Calcutta, invece, i giornalisti di Outlook India hanno rilevato che «nella città in cui la suora albanese venne nel 1929, è difficile trovare molte voci critiche contro di lei. Certamente non del tipo che sono state sollevate» recentemente in Occidente. Celeste Owen-Jones, articolista dell’Huffington Post, ha scritto: «chi siamo noi, seduti nel nostro ufficio o nel comfort della nostra casa nel nostro comodo mondo, nascondendoci dietro a libri e computer, per criticare una donna che ha abbandonato tutto per trascorrere la sua vita portando attenzione ai dimenticati di questo mondo? Il giorno in cui qualcuno condurrà una vita simile a Madre Teresa e ancora vorrà criticare il modo in cui ha agito, solo allora meriterà rispetto per la sua opinione. Ma quel giorno non è ancora arrivato».

Rimane il sospetto che i suoi detrattori siano stati molto più disturbati dall’immensa ammirazione del mondo verso una religiosa cattolica, con tutte le sue “scomode” idee etiche e morali, piuttosto che per il contenuto stesso delle critiche. L’agnostico Gëzim Alpion, docente di Sociologia presso l’Università di Birmingham ed esperto della vita di Madre Teresa, ha infatti spiegato: «gli irriducibili critici di Madre Teresa, tra cui alcuni detrattori professionisti come Christopher Hitchens, Richard Dawkins e Germaine Greer, trovano l’ortodossia cattolica di Madre Teresa problematica, in quanto incompatibile con il loro ateismo altrettanto ortodosso. Madre Teresa credeva nella santità della dignità umana. Questo è un messaggio che pochissime persone nella seconda metà del XX secolo sono state in grado di inviare con sincerità, in modo convincente ed efficace come ha fatto Madre Teresa per quasi cinquanta anni al timone del suo ordine. I motivi principali per cui Madre Teresa è riuscita dove altri hanno fallito parzialmente o completamente è perché praticava con l’esempio personale quel che predicava».

Non c’è dubbio, tuttavia, che anche lei commise diversi errori (gran parte dei quali, probabilmente, nemmeno conosceremo mai) e altrettanto sicuramente, le critiche che ha ricevuto possono contenere una parte di verità. Il giornalista John L. Allen ha però precisato giustamente che «dichiarare qualcuno santo non significa che non ha mai commesso sbagli. Significa invece che, nonostante tutti gli errori o i limiti che possono aver segnato la sua vita, lui o lei ha cercato, per quanto possibile, di vivere una vita cristiana e fedele al Vangelo». La stessa Madre Teresa, inoltre, è sempre stata la prima a riconoscere le sue imperfezioni, come ha raccontato il suo consigliere spirituale, che ha citato anche un suo insegnamento: «Se qualcuno ti critica, in primo luogo chiediti: è giusto? Se ha ragione, chiedi scusa e cambia, e il problema è risolto. Se lui non dice il giusto, chiarisci e correggilo, e se non dovesse servire accogli le ingiuste accuse con entrambe le mani e offrile a Gesù in unione con la sua sofferenza, perché lui stesso è stato calunniato da ogni parte».

Abbiamo comunque ritenuto questo dossier necessario perché le accuse, seppur false, sono riuscite ad ingannare un certo numero di persone. L’arcivescovo New York, Fulton Sheen, ha detto una volta: «Negli Stati Uniti ci sono un centinaio di persone che odiano la Chiesa cattolica, e ci sono milioni di persone che odiano ciò che erroneamente credono di sapere della Chiesa cattolica. Vorrei applicare questo commento a livello globale, e in particolare ai restanti critici di Madre Teresa». Lo scrittore Francesco Agnoli ha cercato di capire i motivi di questo odio gratuito verso Madre Teresa, concludendo: «Anzitutto, per odio, probabilmente, verso un simbolo contemporaneo della moralità. Lei dimostra che l’uomo è capace di sconfiggere ogni giorno il suo egoismo animale, i “geni egoisti”, è incarnazione vivente di quel famoso altruismo che manda in palla la sociobiologia materialista. In secondo luogo, la calunnia verso una religiosa molto famosa serve all’opera di screditamento di coloro che credono in generale, e contribuisce a rafforzare la tesi per cui gli atei sono sempre e immancabilmente migliori» (F. Agnoli, Perché non possiamo essere atei, Piemme 2009, p. 240).

«Se la sua chiesa o la sua fede hanno avviato un processo di canonizzazione, allora io non sono nessuno per commentare ciò», ha dichiarato l’ex commissario indù Navin Chawla. «Per me e per milioni di altre persone era già una santa quando era in vita. E questo è tutto». E ancora«Se ci fosse modo d’incontrare papa Francesco mi piacerebbe tanto stringergli la mano e dirgli: grazie d’avere dichiarato santa Madre Teresa! Ma gli direi anche che per tutti noi lo era già. L’eredità di Madre Teresa va oltre l’India. Appartiene al mondo. È un esempio universale».

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Fede e Storia

Qual è stato l’impatto del cristianesimo nella storia dell’umanità?

La storia stessa è divisa tra un “prima” e un “dopo Cristo“, come sappiamo, e il filosofo e storico laico Benedetto Croce espresse il suo giudizio affermando: «Non possiamo non dirci cristiani».

È possibile non essere credenti, ma è inevitabile riconoscere i numerosi frutti del cristianesimo, come l’origine della civiltà umana, del concetto di persona, dei valori e dei diritti fondamentali dell’uomo, della sua unicità e irripetibilità.

Tuttavia, non tutto è stato positivo. Dalla storia emergono anche molti eventi controversi causati da individui cristiani che hanno danneggiato l’immagine del cristianesimo e della Chiesa. Su questo argomento, la pubblicistica anticlericale (a partire dall’Illuminismo) ha scritto abbondantemente, spesso strumentalizzando, estrapolando e manipolando la verità storica.

Indubbiamente, sono state commesse ingiustizie indicibili anche in nome della Chiesa. Spesso coloro che le hanno perpetrate volevano il bene, ma hanno compiuto il male, tradendo così il messaggio stesso di Cristo e l’insegnamento della Chiesa. Questo è stato sottolineato anche da Giovanni Paolo II durante il Giubileo del 2000, quando guidò l’intera Chiesa cattolica in un grande atto di pentimento per le colpe commesse nei due millenni trascorsi.

Riconoscere ciò non implica che dobbiamo minimizzare le accuse o credere a leggende nere. Anzi, proprio il contrario è ciò che abbiamo fatto nei seguenti dossier:

 

Ecco i nostri dossier:

 
 

L’Inquisizione e la leggenda nera smentita dagli storici moderni

Una raccolta di citazioni dei principali specialisti internazionali dell’Inquisizione contro la leggenda nera che impedisce ai risultati della storiografia moderna di uscire dalle università e raggiungere il pubblico generale. Il mito popolare di un’istituzione brutale e sanguinaria, prodotto dalla propaganda illuminista e protestante.

 
 
 

Madre Teresa di Calcutta, nessun lato oscuro: risposta alle falsità.

Nemmeno la famosa missionaria, simbolo internazionale di dedizione agli altri, è stata risparmiata da feroci critiche, paragonata addirittura al criminale nazista Adolf Eichmann. Abbiamo perciò analizzato tutte le accuse e, grazie allo studio delle fonti storiche e biografiche, dato opportuna risposta ad esse, citando anche i tanti intellettuali non credenti che si sono accostati a Madre Teresa e che oggi sono i suoi primi difensori.

 

La scienza nasce nel Medioevo cristiano: analisi storica.

Gli storici moderni da anni hanno ormai certificato l’origine della scienza moderna e del metodo scientifico nel Medioevo cristiano, sotto l’ala della Chiesa cattolica. Fu proprio la teologia cristiana, ben differente da quella pagana, orientale ed islamica, a spronare lo studio della natura così da poter maggiormente conoscere il suo Autore. Non a caso i principali scienziati della storia sono tutti stati cristiani convinti, spesso più interessati alla teologia che alla scienza.

 

Colonialismo e Chiesa cattolica: sfatiamo la leggenda nera.

Quale ruolo ebbero i pontefici e l’istituzione ecclesiastica nel colonialismo? Grazie al contributo di numerosi storici e specialisti del tema, ricostruiamo dettagliatamente l’epoca colonialista affrontando le polemiche moderne sulle presunte evangelizzazioni forzate, sulla difesa degli indios, sul ruolo dei missionari che viaggiarono assieme ai colonizzatori.

 

Emanuela Orlandi: analisi dettagliata di tutte le piste investigative.

La ricostruzione dettagliata della vicenda riguardante la giovane cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno 1983 e la valutazione della fondatezza o meno delle teorie emerse finora per spiegare l’accaduto. Il dossier è costantemente aggiornato in quanto ogni mese emergono nuove (e presunte) rivelazioni o vicende comunque collegate al caso.

 

Il cristianesimo ha dato dignità alla donna e ai bambini.

Attraverso gli scritti e i pensieri di numerosi storici, donne e femministe, spesso ben lontani dal percorso cristiano, illustriamo quanto la civiltà cristiana ha fatto per modificare radicalmente la concezione della donna e dei bambini nel corso della storia umana.

 

Cristianesimo e schiavitù: l’abolizione iniziò nel Medioevo.

In che rapporti il primo cristianesimo si pose nei confronti degli schiavi? Grazie al contributo di numerosi storici abbiamo mostrato come, grazie all’affermarsi della cristianità, lo schiavismo passò da una pratica moralmente accettata all’essere moralmente riprovevole.

 

Il falso mito di Ipazia di Alessandria: la morte ed il vescovo Cirillo.

Davvero fu uccisa dal vescovo Cirillo e dai cristiani? Fu una filosofa pericolosa per il cristianesimo? Una proto-femminista? Analizzando le fonti storiche e gli studi di storici accreditati sulla tragica morte ne emerge uno scenario ben differente da quello presentato dalle pubblicazioni anticlericali.

 

Sant’Agostino e le false citazioni sulle donne e la terra piatta.

Esistono un florilegio di citazioni attribuite ai Padri e Dottori della Chiesa, alcune volte inventate di sana pianta e molto spesso estrapolate da veri testi ed opportunamente alterate, così da poter mettere in bocca ai vari autori ciò che si vuole loro far dire. L’accanimento su Sant’Agostino è particolarmente evidente e questo dossier dimostra la falsità delle citazioni a lui attribuite.

 

pensiero di san tommaso

Il vero pensiero di Tommaso d’Aquino sulle donne e sull’aborto.

Anche secondo molti cattolici, Tommaso d’Aquino disapproverebbe l’attuale insegnamento del Magistero della Chiesa Cattolica sull’aborto. Inoltre, anche a lui vengono falsamente attribuite opinioni contro le donne che invece non rispecchiano il suo reale pensiero. Questo dossier analizza entrambe le questioni.

 

Maciel Degollado ed il Vaticano: connivenza? La verità sui Legionari di Cristo.

Il Vaticano sapeva della doppia vita di Maciel Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo? Cosa fecero realmente Giovanni Paolo II e Benedetto XVI? A queste e altre domande rispondiamo in questo dossier, presentando anche una cronologia della vicenda.

 

Le Case Magdalene e la falsa storia di cui è accusata la Chiesa.

Dopo il film “Magdalene” (2002) di Peter Mullan è esplosa la polemica delle case religiose irlandesi in cui finirono diverse donne orfani, prostitute o meritevoli di “correzione” secondo la mentalità dell’epoca. In questa ricostruzione dello scrittore Francesco Agnoli osserviamo e rispondiamo alle accuse rivolte alla Chiesa cattolica.

 

Emanuela Orlandi: tutte le news e la cronologia dei fatti.

La ricostruzione dettagliata della vicenda riguardante la giovane cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno 1983, la cui vicenda è diventata un cold case italiano. Il dossier è costantemente aggiornato in quanto ogni mese emergono nuove (e presunte) rivelazioni o vicende comunque collegate al caso.

 

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Emanuela Orlandi, analisi di tutte le piste investigative

Emanuela Orlandi viva analisi di tutte le piste investigative

Emanuela Orlandi è viva? E’ stata rapita dalla Banda della Magliana? Il Vaticano sa qualcosa? La pista sessuale, Sabrina Minardi, De Pedis, Marco Accetti, i Lupi Grigi e Acga. Sulla sparizione della cittadina vaticana sono moltissime le piste investigative emerse negli anni, ognuna con i suoi punti forti e deboli. In questo dossier analizziamo tutte le ipotesi sul caso Orlandi, arrivando a indicare la più promettente a nostro avviso.

[Pagina aggiornata a agosto 2023].

 
 

Il caso di Emanuela Orlandi è uno dei più grandi misteri italiani.

La cittadina vaticana scomparve il 22 giugno 1983, una delle tante sparizioni che avvengono ogni anno, ma presto diventò l’unico caso caratterizzato da una fitta rete di rivendicazioni di presunti rapitori attraverso telefonate e comunicazioni anonime, ritrovamenti di oggetti ed effetti personali.

Eppure mai una prova certa e indubitabile della sua presenza in vita, soltanto minacce incrociate tra diversi autori delle missive, richieste assurde ma, allo stesso tempo, anche dettagli effettivamente precisi sulla ragazza. Il tutto in mezzo a chiari depistaggi, altre ragazze morte o scomparse in circostanze misteriose nello stesso arco temporale, sciacalli in cerca di vantaggi personali (visibilità mediatica, vendita libri ecc.) e fantomatici super testimoni.

Un “grande teatro” ai danni della famiglia che prosegue senza soluzione di continuità da oltre trent’anni e che ogni volta si dice sia “ad un passo dalla svolta”. Parallelo al caso Orlandi è da sempre inserita anche la sparizione di Mirella Gregori, un caso analogo svoltosi in territorio italiano.

Due volte archiviata dalla Procura (1997 e 2015), la vicenda è stata riaperta dai magistrati romani e vaticani nel 2023.

In questo dossier, continuamente aggiornato, analizziamo ogni pista investigativa e tutte ipotesi principali emerse finora, indagando per ognuna i punti forti e quelli deboli.

Daremo per assunta la cronologia della vicenda, chi volesse approfondire può leggere il nostro dossier precedente.

 

Indice

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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1. GLI ASPETTI CONTROVERSI DEL CASO ORLANDI.

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Come prima cosa è opportuno riportare integralmente il testo che il pubblico ministero, Giovanni Malerba, utilizzò nella sua requisitoria del 1997 per ricostruire il momento della scomparsa di Emanuela Orlandi:

«Alle ore 16,30 circa del giorno 22 giugno 1983 la quindicenne Orlandi Emanuela, cittadina dello Stato del Vaticano, figlia del commesso del palazzo apostolico Orlandi Ercole, usciva dalla sua abitazione sita in via di Sant’Egidio all’interno della città del Vaticano e si recava presso l’istituto “Ludovico Da Victoria”, ubicato in piazza Sant’Apollinare, ove frequentava un corso di flauto. Raggiungeva la scuola e dopo le lezioni se ne usciva verso le ore 19. Telefonando a casa riferiva alla sorella Federica di essere stata avvicinata da un uomo il quale le aveva proposto di partecipare al defilè che l’atelier Fontana avrebbe tenuto a Palazzo Borromini per ivi distribuire materiale propagandistico della ditta Avon dietro compenso di lire 375.000. La circostanza veniva poi confermata da Monti Raffaella, amica della Orlandi, che dichiarava di essersi brevemente intrattenuta con Emanuela all’uscita dalla scuola verso le ore 19,20, di avere appreso della proposta di lavoro ricevuta dall’amica e di aver salutato la stessa Emanuela alla fermata dell’autobus 70. Successivamente, alle ore 19,20 del 22 giugno, si perdeva ogni traccia della Orlandi che non faceva rientro nella propria abitazione e non forniva più alcuna notizia di sé»1citato in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 5 2sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 2,3.

 

 

1.1 Le amiche e compagne di Emanuela Orlandi

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Nelle vicende di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori compaiono varie amiche e amici sulle quali non si è mai riuscita a fare vera luce.

Nel 2013 Marco Accetti, reo-confesso di aver orchestrato la sparizione di Emanuela, disse a Pietro Orlandi: «Le amiche più coinvolte sono state almeno due, una compagna di scuola (non di classe) del Convitto nazionale e una di musica. Poi c’era una ragazza di una associazione cattolica, in Vaticano, che anche voi familiari conoscevate e noi usavamo come tramite»3in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 23.


 

Raffaella Monzi, Laura Casagrande e Maria Grazia Casini.

Dalla sentenza istruttoria del giudice Adele Rando del 12/12/1997, nella deposizione di Natalina Orlandi del 23/6/83 e dalla testimonianza di Raffaella Monzi, sappiamo che il 22/6/83 quest’ultima, finita la lezione di musica all’Istituto da Victoria, alle 19:20 è salita sull’autobus 70 vedendo Emanuela avvicinata da una ragazza dai capelli ricci, a lei sconosciuta4G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 2.

Raffaella Monzi, nell’interrogatorio del 9/07/83 affermò che Emanuela le disse che non poteva prendere l’autobus perché «ho un appuntamento per lavoro, devo incontrare una persona […] [E’] un lavoro da fare solo dalle 16 alle ore 18:30 e per una volta». A quel punto sarebbe sopraggiunta un’altra loro amica e compagna, Maria Grazia Casini, con la quale aveva preso l’autobus n° 70, salutando Emanuela.

Il 28/07/83 davanti al pubblico ministero Domenico Sica, la Monzi ha affermato di essere uscita dalla scuola assieme ad Emanuela:

«Ricordo che Emanuela corse per le scale mentre io mi trattenni a parlare con altre compagne. Ritrovai poi Emanuela e parlammo un po’. La ragazza mi disse (aveva visto giungere l’autobus 26): “che faccio, lo prendo o no?”. Ciò in riferimento al fatto che avrebbe dovuto percorrere solo una fermata, per andare a prendere l’autobus 64 diretto al Vaticano. Le risposi: “fai un po’ te!”. Allora Emanuela aggiunse: “Sai, perché ho trovato un lavoro”, e poi di seguito: “Si tratta di distribuire volantini dell’Avon (società di vendita di cosmetici) per due ore».

 

Raffaella Monzi aggiunse che a Emanuela «l’offerta di lavoro per la Avon le era stata fatta mentre era in compagnia di un’amica».

In un’intervista del 1993, dieci anni dopo, fornì questa versione:

«La lezione era finita, ci incamminammo in gruppo verso l’uscita della scuola. Per raggiungere la fermata dell’autobus si doveva fare un pezzetto a piedi. Non so come, quel tratto di strada mi ritrovai a percorrerlo assieme con Emanuela. Sono passati dieci anni e non so più bene di cosa parlammo lungo il cammino. Stranamente, rammento ancora perfettamente come era vestita Emanuela: una maglietta bianca, i jeans e sulle spalle aveva uno zaino di cuoio. Dentro c’era il flauto. Emanuela mentre aspettavamo il bus mi fece quello strano discorso su cui poi tanto ha insistito la polizia. Mi disse, cioè, che poche ore prima mentre veniva a scuola, era stata avvicinata da un tale, un uomo, il quale le aveva offerto un lavoro. Le avrebbero dato 375mila lire al mese, per distribuire volantini o qualcosa del genere. Insomma, mi chiedeva un consiglio. Non sapeva se accettare, era in dubbio […]. Dopo un po’, poiché l’autobus 70 non arrivava, Emanuela disse: “Che dici? Vado in largo Argentina a prendere il 64?” […]. Poi, il 70 è arrivò. Ma era strapieno. Salii sul predellino. Sentii Emanuela, dietro di me, dire: “Aspetto il prossimo”».

 

Qui sotto un’intervista a Raffaella Monzi risalente agli anni Novanta

 

Nel febbraio 2016 abbiamo intervistato Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, ecco cosa ci disse:

«Raffaella Monzi non fu sempre molto chiara. Alla Monzi, Emanuela disse che era indecisa se aspettare, non l’autobus, ma l’uomo dell’Avon per dargli una risposta visto che lui le aveva detto che l’avrebbe aspettata all’uscita per sapere quale era stata la risposta dei genitori nell’accettare o meno il lavoro. Emanuela arrivò alla fermata non per prendere l’autobus (quella è ormai una delle tante leggende un questa vicenda), ma perché lì avvenne l’incontro con l’uomo e lei tornò li perché, forse, non vedendolo fuori dalla scuola pensò di recarsi nel posto dove l’aveva incontrato».

 

Il 13/07/83 e il 28/07/83 ci furono due testimonianze di Maria Grazia Casini, un’altra studentessa della scuola, la quale (il 13/07) riferì la presenza di una ragazza bassina, con i capelli corti e ricci, vicino ad Emanuela alla fermata dell’autobus:

«L’ultima volta che ho visto Emanuela è stata il 22 giugno alle ore 19 all’uscita dalla scuola Ludovico da Victoria. Emanuela era ferma con una sua amica ad una fermata dell’autobus 70. Quando è arrivato il 70 io sono salita mentre Emanuela e l’amica sono rimaste ferme dove si trovavano […]. Sembrava che le due ragazze fossero in attesa di qualcuno, l’atteggiamento di Emanuela era molto teso»5M.G. Casini, testimonianza al Reparto operativo dei carabinieri di Roma, 13/07/1983.

 

L’amica anonima citata, dai capelli corti e ricci, non era certamente la Monzi perché le due si conoscevano.

Nell’interrogatorio del 28/07/83 la Casini riferì infatti di essere uscita dalla scuola assieme ai compagni Tina Vasaduro e Maurizio Cappellari, ai quali si aggiunse proprio Raffaella Monzi. Ai magistrati disse che di questa ragazza non ricordava il nome, ma che «frequentava la scuola di musica, ha circa quindici anni, è poco più bassa di Emanuela, con i capelli corti, ricci e di colore nero […]. Emanuela era impaziente, in attesa dell’arrivo di una persona o di un mezzo pubblico, tanto che rispose distrattamente al saluto»6M.G. Casini, testimonianza al Reparto operativo dei carabinieri di Roma, 13/07/1983.

La sera stessa della scomparsa, Federica Orlandi, sorella di Emanuela, parlò al telefono con Maria Grazia Casini, la quale le confermò che Emanuela era con una ragazza al momento in cui si erano salutate7testimonianza di Federica Orlandi al Reparto operativo dei carabinieri di Roma, 29/07/1983.

 

Sintetizziamo le testimonianze delle due amiche:

  • Raffaella Monzi saluta Emanuela alla fermata dell’autobus 708G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 2, vi sale assieme a Maria Grazia Casini9verbale del 09/07/83, vede Emanuela avvicinata da una ragazza sconosciuta dai capelli ricci10G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 2
  • Maria Grazia Casini vede Emanuela ferma alla fermata dell’autobus 70 insieme a un’amica11verbale del 13/07/83, che frequentava la scuola di musica12verbale del 28/07/83, bassa e con i capelli neri13verbale del 13/07/83 e ricci14verbale del 28/07/83.

 

Entrambe rilevano la presenza di una ragazza riccia vicino a Emanuela.

La notte della sparizione, suor Dolores, direttrice dell’istituto, venne avvisata da Ercole Orlandi e telefonò a tutte le allieve. La religiosa apprese la presenza di un’altra ragazza e la riconobbe in Laura Casagrande, la quale negò di essere stata presente.

La Casagrande e la Orlandi, nel pomeriggio della sparizione, si sarebbero tuttavia scambiate il numero di telefono perché il 29/6 avrebbero dovuto partecipare assieme ad un concerto. L’8/07/1983 i presunti rapitori di Emanuela telefoneranno a casa di Casagrande dicendo di aver avuto il numero da Emanuela. Né lei né Raffaella Monzi, dopo quel giorno, frequentarono più la scuola di musica.

Raffaella Monzi raccontò di aver ricevuto strani messaggi e telefonate minatorie: «Cominciarono le telefonate anonime. Ne arrivarono tante, tantissime, a casa. Ero terrorizzata. Più di una volta, un uomo al telefono disse: “Raffaella farà la fine di Emanuela, e anche una bella ragazza”».

Nel 2023 il giornalista Fabrizio Peronaci ha confermato che Raffella Monzi, 60enne, non si sarebbe più ripresa ed è in cura in una struttura psichiatrica a Subiaco (RM).

La madre di Raffaella Monzi ha dichiarato:

«Da quel giorno del 1983 la vita di Raffaella non è stata più la stessa. Eravamo tanto esasperati e spaventati che decidemmo di andare via da Roma e di trasferirci a Bolzano, ma c’erano persone che hanno continuato a controllarci. Raffaella fu seguita da un giovane biondino. Ogni volta ce lo trovavamo davanti e un giorno le disse: “Vieni via con me, lascia i tuoi genitori…”. Fu un episodio che ci colpì anche se decidemmo di non darci peso, pensando che fosse uno spasimante. Tornati a Roma, Raffaella mi raccontò che una persona la fotografava per strada. E un giorno ricevetti una telefonata: “Ho visto tua figlia sul treno: è bellissima. La voglio sposare”. Non ho mai saputo chi fosse e come avesse il nostro numero di telefono. Di certo era una persona che la controllava. Per mia figlia è stato un incubo dal quale non si è più ripresa».

 

Se il racconto della madre della Monzi è vero, la persona descritta ha alcuni punti in comune con Marco Accetti, l’uomo che si è accusato di aver orchestrato il sequestro Orlandi-Gregori. Di professione fotografo, gli Atti hanno rilevato l’abitudine a fermare e incontrare giovani adolescenti con lo scopo di fotografarle15G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 48. Lui stesso, inoltre, ha ricordato di essersi innamorato di una ragazza giovanissima (la figlia di Magdalene Chindris) e di aver desiderato sposarla. La stessa frase riportata dalla signora Monzi.

Pietro Orlandi rispose a queste dichiarazioni scrivendo che «la Monzi, poveraccia, vive con la madre, non sta in una clinica privata»16P. Orlandi, commento scritto su Facebook, 15/07/2023.


 

Sabrina Calitti e Silvia Vetere.

Le indagini di polizia all’epoca individuarono anche Sabrina Calitti, alla quale Emanuela disse dell’offerta lavorativa ricevuta17R. Pera, Emanuela Orlandi – E questo è solo l’inizio, Giustizia, 18/07/23 e di voler uscire prima da lezione, avvenuta infatti alle ore 1818G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3.

Un altro compagno di classe di Emanuela, M.D.L. sostenne invece che quel giorno le lezioni terminarono per tutti in anticipo di 15 minuti, alle 18.45 circa, questo «perché il maestro, che è un sacerdote, Mons. Valentino Miserachs, doveva celebrare la messa, all’interno della scuola, per le nozze d’argento dei miei genitori»19citato in R. Pera, Emanuela Orlandi – E questo è solo l’inizio, Giustizia, 18/07/23.

Le lezioni terminarono alle 18 o alle 18.45? Nemmeno su questo si è giunti a una certezza storica.

Un’altra compagna che ha testimoniato è Silvia Vetere, in classe con Emanuela al liceo scientifico del Convitto nazionale: «Emanuela aveva intenzione di trovarsi un lavoro. Non aveva voglia di studiare e faceva sega a scuola»20verbale di Silvia Vetere del 22/07/1983 21verbale di Silvia Vetere del 11/11/2008. Nel 1983 la Vetere riferì che Emanuela si sarebbe confidata con lei pochi giorni pima della sparizione dicendole: «Non mi vedrete per un po’».

In una deposizione del 2008, Vetere riferì confermò la testimonianza del 1983, sostenendo che Emanuela era svogliata e andava male a scuola (fu effettivamente rimandata in due materie, latino e francese), voleva trovarsi un lavoro. L’ex compagna ricordò che Emanuela saltava spesso scuola, firmando da sola le giustificazioni ma non rammentò se le assenze si intensificarono nel periodo precedente alla sua scomparsa. Disse comunque di non vederla mai truccata, né noto alcun cambiamento negli ultimi anni22P. Nicotri, Emanuela Orlandi, 34 anni fa, una pista affiora dalle carte giudiziarie ma ormai, BlitzQuotidiano, 22/06/2017.

Nel 2014 la donna fu cercata dal giornalista Tommaso Nelli: «Fra il maggio e l’ottobre 2014 avevo cercato Silvia Vetere. Prima all’abitazione del 1983 e poi tramite la sorella, che però mi spiegò come fosse impossibilitata a parlare, perché affetta da seri problemi di salute»23T. Nelli, Atto di dolore,‎ 2016.

Nel 2023 Massimo Festa, cugino di Silvia Vetere, ha dichiarato:

«Silvia è stata vittima di un ulteriore sequestro, è stata portata in strutture psichiatriche per impedirle di ripetere quel che sapeva su Emanuela Orlandi. Quel che le era stato confidato era scomodo. Per questo è stata prelevata a più riprese, bombardata di farmaci, narcotizzata, annichilita nel corpo e nella psiche, in una struttura per tossicodipendenti, nella fascia a nord di Roma, e in centri specializzati per pazienti psichiatrici. Quel 13 luglio 1983, tramite l’articolo su L’Unità, cominciò a emergere che era in possesso di informazioni delicate, e successivamente, negli interrogatori, potrebbe essere stata intimidita. Fatto è che non si è mai più ripresa. Anche grazie al ruolo avuto da una nostra parente, non ho più avuto modo di incontrare Silvia da molti anni. Ora potrebbe anche essere morta».

 

A tale dichiarazione ha risposto Pietro Orlandi, scrivendo all’intervistatore di Festa, Fabrizio Peronaci, che non sarebbe vero nulla:

«Fatti dire dalle compagne di classe chi era la Vetere. In Procura hanno capito la personalità e l’hanno lasciata perdere per le falsità dette. Mi hanno già scritto alcune compagne di classe che conoscevano Emanuela e la Vetere, dicendomi: “La Vetere? In classe la conoscevamo tutti che soggetto era“. Il trattamento farmacologico, ma per altri motivi, lo faceva già prima della scomparsa di Emanuela. Le compagne e i compagni di Emanuela quando ci parlai mi assicurarono che la Vetere e Emanuela non le hanno mai viste parlare, né si sono frequentate e a malapena si conoscevano»24P. Orlandi, commento scritto su Facebook, 15/07/2023


 

Pierluigi Magnesio.

Un altro compagno di Emanuela era Pierluigi Magnesio, allora cittadino vaticano e figlio di un elettricista in servizio presso la Santa Sede. Il nome “Pierluigi” è lo stesso del primo telefonista che chiamò a casa Orlandi tre giorni dopo la sparizione.

Il 12/08/1983 nel verbale dell’interrogatorio di Pierluigi Magnesio presso la Procura di Roma si legge: «In merito alla giornata del 22 giugno (giorno della scomparsa) dichiara di aver visto Emanuela “nel primo pomeriggio del 22 giugno. Veniva da casa per recarsi alla scuola di S.Apollinare. Parlò per qualche minuto con me e con gli amici miei e decidemmo di rivederci dopo la scuola, alle ore 19,30, dietro la mola Adriana”».

Nell’agosto 1987 il sostituto procuratore generale Giovanni Malerba chiuse la prima inchiesta scrivendo: «Non sembra azzardata l’ipotesi che il ‘Pierluigi’ delle prime tre telefonate possa identificarsi nel predetto Magnesio Pierluigi; l’età del giovane al momento del fatto induce senz’altro a escludere il suo consapevole e volontario coinvolgimento nel sequestro; e tuttavia, ove il ‘telefonista’ Pierluigi si identificasse nel Magnesio, dovrebbe inferirsi che questi fosse stato contattato dai sequestratori e indotto, verosimilmente con minacce, a effettuare le prime telefonate in funzione di depistaggio. Ove così fosse, ancora oggi il Magnesio potrebbe fornire utilissimi elementi per l’identificazione dei sequestratori. Appare pertanto utile, se non necessario, approfondire l’indagine sul punto».

Il 27 ottobre 1987 la trasmissione Telefono giallo si occupò del caso Orlandi e ricevette questa telefonata: «Buona sera, sono Pierluigi. Se parlo, mi ammazzano». Secondo i successivi approfondimenti della Procura di Roma si sarebbe trattato proprio di Pierluigi Magnesio, il quale si sarebbe trasferito all’estero in un paese non rivelato.


 

Fabiana Valsecchi.

Il giudice Fernando Imposimato, da sempre convinto che il doppio rapimento fosse opera premeditata della Stasi, sostenne che una ragazza coinvolta sarebbe stata Fabiana Valsecchi: «Ho svolto indagini serie, che lasciano pochi margini di dubbio»25F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 111.

Il giornalista Fabrizio Peronaci ha riferito il nome della Valsecchi a Marco Accetti, mentre quest’ultimo raccontava lo svolgimento dei fatti di fronte al Senato. L’uomo, colto di sorpresa, avrebbe risposto: «Da chi l’hai saputo? Chi te l’ha detto?»26F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 111.

Nell’atto di opposizione all’archiviazione del 2015, la famiglia Orlandi chiese inutilmente al pubblico ministero di effettuare un’audizione a Fabiana Valsecchi «sui suoi rapporti con Emanuela Orlandi»27G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 57.

 

 

1.2 Le amiche di Mirella Gregori

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Anche nel caso di Mirella Gregori vi è almeno un’amica il cui profilo è sempre stato piuttosto controverso.


 

Sonia De Vito.

Al centro della sparizione di Mirella c’è Sonia De Vito, vicina di casa e figlia dei proprietari del bar sotto casa dei Gregori.

Proprio il 7 maggio 1983, giorno della sparizione, Mirella fu vista nel locale dei De Vito dove si chiuse in bagno assieme a Sonia per almeno un quarto d’ora. Interrogata dagli inquirenti, disse che Mirella era andata con degli amici a suonare la chitarra a Villa Torlonia.

 

Nel seguente video, la ricostruzione dei primi momenti dopo la sparizione e la reticenza di Sonia De Vito:

 

Quattro mesi dopo, nel settembre 1983, i sedicenti sequestratori telefonarono al bar del padre di Mirella descrivendo minuziosamente gli indumenti che la ragazza indossava il giorno della sparizione, compresa la marca della biancheria intima.

L’avvocato degli Orlandi (ed in seguito dei Gregori), Gennaro Egidio (morto nel 2005), era convinto della reticenza di Sonia De Vito:

«Sapeva molto bene quello che aveva indosso la Mirella. Perché in effetti le scarpe sapeva che le aveva comprate lei in quel negozio, il maglione glielo aveva prestato lei. La Sonia è stata sempre un elemento molto difficile, i carabinieri ci hanno provato in tutti i modi, la polizia anche. L’hanno interrogata, stra-interrogata fino al punto che diviene poi maggiorenne, non c’era più nulla da fare. La Sonia era quella che le cose… la confidente della Mirella. Ed è strano che la Sonia… Ecco, la Sonia ha avuto sempre paura di parlare».

 

In molti sospettarono che Mirella, nel bagno con lei, le avesse rivelato dove si stava effettivamente recando (sempre che Sonia non ne fosse già a conoscenza). Sonia De Vito venne inizialmente accusata di falsa testimonianza e reticenza, accusa poi archiviata.

Maria Antonietta Gregori, sorella di Mirella ha affermato a proposito di Sonia De Vito: «Da quel maledetto giorno non si è mai più fatta viva con noi, proprio lei che mia madre trattava come un’altra figlia. Mai una telefonata, una visita. E per la mia famiglia è stato un grande dolore: lei e Mirella erano sempre insieme. Questo comportamento ci è sempre sembrato strano».

Il giornalista Fabrizio Peronaci ha scritto che il fatto che «Sonia De Vito abbia tenuto per sé molti segreti è una possibilità concreta: fu indagata a lungo e minaccia da sempre denunce contro chi tenti di avvicinarla»28F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

Nell’atto di opposizione all’archiviazione del 2015, la famiglia Orlandi chiese al pubblico ministero di effettuare un’audizione a Sonia De Vito «sulla provenienza delle ingenti risorse di cui disponeva la sua famiglia»29G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 57.

 

Nel seguente video (2013), il reo-confesso Marco Accetti segnala la complicità al finto sequestro di un’altra amica di Mirella:

 

 

1.3 I testimoni oculari

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Se Emanuela fosse stata davvero rapita è difficile pensare che sia stata fatta salire a forza su un’auto davanti a Palazzo Madama, una scena simile non sarebbe passata inosservata.

Uscita da scuola, la giovane aveva appuntamento con la sorella Cristina vicino alla sede del Tribunale della Cassazione (7 minuti a piedi da piazza Sant’Apollinare) la quale, però, non l’ha mai vista arrivare.

Le ultime ad averla vista sono le sue amiche e compagne alla fermata dell’autobus e certamente ha telefonato a casa dicendo di aver incontrato qualcuno che le avrebbe proposto di promuovere prodotti cosmetici Avon, per una somma (spropositata) di 350.00 lire, durante una sfilata di moda nell’atelier delle Sorelle Fontana (lo stesso ha testimoniato l’amica Monzi).

Le Sorelle Fontana hanno smentito la notizia della sfilata di moda riferendo però a Giulio Gangi, il primo a intraprendere le indagini, che «altre ragazze si erano rivolte a loro perché un uomo sulla trentina le aveva fermate per strada con una proposta simile a quella usata per adescare la Orlandi».

Esistono però due presunti testimoni oculari di quanto sarebbe accaduto prima dell’entrata nella scuola di musica, i quali riferiscono un incontro tra Emanuela e un uomo che guidava una BMW (sembra di colore verde), il quale le avrebbe mostrato qualcosa (sembra dei cosmetici) da qualche contenitore (una borsa, un cofanetto o un tascapane militare) con sopra una scritta (“Avon” o solo la lettera iniziale).


 

Il vigile Alfredo Sambuco.

Il primo di essi è stato il vigile Alfredo Sambuco, deceduto dopo il 2002, in servizio in Piazza Madama con turno 14-2130G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3.

Poche ore dopo la sparizione di Emanuela, il vigile venne interrogato da Pietro Orlandi a cui riferì per la prima volta che la giovane sarebbe stata avvicinata da un uomo con una Bmw.

La testimonianza di Sambuco è importante in quanto conferma in maniera indipendente il racconto che Emanuela fece al telefono con la sorella Federica (era stata avvicinata da un uomo), prima ne parlasse qualunque organo di informazione e prima che la polizia indagasse.

Ancora oggi Pietro Orlandi avvalora tali informazioni: «Reputo attendibile e genuino quello che mi disse il vigile per il semplice fatto che ci descrisse le cose che effettivamente aveva detto Emanuela al telefono. Se lui ci avesse raccontato una storia diversa diversa non gli avrei creduto visto che sarebbe stata poi smentita da quanto detto da Emanuela».

Il 25/06/1983 il vigile Sambuco fu interrogato anche da Giulio Gangi, amico di famiglia degli Orlandi nonché agente del SISDE, al quale disse (con davanti la foto di Emanuela) di averla vista attorno alle 17 parlare con un uomo sui 40-45 anni, carnagione scura, capelli castani e radi nella parte anteriore del capo, in prossimità di una Bmw vecchio tipo di colore verde.

L’uomo le aveva mostrato una borsa con la scritta “Avon” contenente cosmetici. All’invito del vigile a spostare l’auto, l’uomo avrebbe risposto “Vado via subito”. Dopo un’ora uno sconosciuto avrebbe domandato al vigile dove si trovasse la Sala Borromini, ma Sambuco non ricordava se si trattava dello stesso uomo della Bmw31dialoghi riportati nella sentenza istruttoria del giudice Adele Rando, 19/12/97 32dialoghi riportati G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3.

Nella deposizione ufficiale di Sambuco, datata 02/07/1983, la scena si sarebbe svolta davanti al civico 57, la Orlandi andava in direzione opposta rispetto alla scuola e interloquiva con un uomo sceso da una Bmw verde metallizzato attorno alle 17.

 

Qui sotto il confronto tra l’identikit fornito da Alfredo Sambuco e Enrico De Pedis:

 

Il 27/07/1983 il vigile Sambuco fu convocato dal sostituto procuratore Domenico Sica ma non si presentò.

 

Nel seguente video, un’intervista al vigile Alfredo Sambuco risalente agli anni Novanta:

 

Nel dicembre 1993, intervistato da Telefono Giallo, il vigile disse che la scena si svolse alle 19 (salvo correggersi pochi giorni dopo in un’intervista su L’Indipendente) e che si avvicinò all’uomo poiché l’auto era in divieto di sosta, venendo rassicurato che l’avrebbe spostata subito. In quel momento la ragazza gli avrebbe domandato dove fosse la sala Borromini. Una versione diversa da quella rilasciata dieci anni prima.

Nel 2002, una volta in pensione, intervistato dal giornalista Pino Nicotri, Alfredo Sambuco aggiunse che Emanuela «la vedevo passare tutti i giorni», una volta la avrebbe anche accompagnata alla Tappezzeria del Moro per far riparare la custodia del flauto. Aggiunse inoltre: «Io non ho mai parlato di “Avon” o di scritte “Avon”, né di borse con la scritta “Avon”…forse da qualche parte ho ancora la copia del verbale della mia dichiarazione ai carabinieri di via Selci, ma mi ricordo benissimo che non ho mai parlato di “Avon” né con loro né con il magistrato Domenico Sica quando mi ha interrogato»33citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, pp. 23, 29.

Il padre di Emanuela, Ercole Orlandi, smentì le parole di Sambuco dicendo che Emanuela si recava alla scuola di musica solo tre giorni a settimana: «Se Sambuco dice che conosceva Emanuela, o mente o dice una cosa nuova. La faccenda della riparazione del flauto è un’invenzione: ce l’abbiamo portata noi»34citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 31. Di fronte a queste diverse versioni, il vigile Sambuco dirà in seguito: «Sa, quella gente era così giù di corda che non me la sono sentita di non dargli nessuna speranza»35citato in P. Nicotri, Emanuela Orlandi, la verità, Baldini Castoldi Dalai 2008, pp. 38, 39.

Gli inquirenti verificarono anche che la presenza di una BMW color blu nei pressi della scuola di Piazza Sant’Apollinare non aveva nulla a che vedere con la vicenda36G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3.

Due responsabili della Avon di Roma precisarono che le rappresentati erano soltanto donne e nessuna con BMW o borse recanti il marchio37G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3. Inoltre, all’agente Gangi dichiararono che non avevano rapporti con l’atelier delle Sorelle Fontana. Le telecamere del Senato invece non erano in funzione38Rapporto di polizia, luglio 1983, allegato agli atti d’inchiesta del giudice Rando.

Nel 2008 il giornalista Max Parisi si recò in Procura per segnalare la presenza in un parcheggio sotterraneo di Villa Borghese di una BMW intestata a Flavio Carboni, faccendiere di molti misteri italiani. Interrogato dai magistrati nel 2010, Carboni non fornì alcun elemento utile: ne confermò la proprietà ma disse di non averla più utilizzata dal 1982, quando fu arrestato. Secondo il gestore del garage l’auto sarebbe stata parcheggiata nel 1995 o 199639G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 53.

Nel 2023 Marco Accetti ha sostenuto che l’identikit e la descrizione effettuata dai due testimoni oculari ritraggono un soggetto con il viso allungato e leggera stempiatura: «Tutto ciò corrisponde alla mia persona e faccio presente di aver chiesto più volte un confronto con il testimone Bosco, il funzionario di polizia che mi vide al Senato. Ma i magistrati non lo hanno concesso»40M. Accetti, Dichairazione su Facebook, 13/07/2023.

Tornando alla testimonianza del vigile Sambuco, a nostro avviso rimane da considerare attendibile soltanto la prima versione, quella rilasciata ai famigliari poche ore dopo la scomparsa. Tutto il resto sembra contraddittorio e inficiato nella sua attendibilità.


 

Il poliziotto Bruno Bosco.

Un secondo testimone oculare sarebbe stato il poliziotto Bruno Bosco, anch’egli in servizio davanti al Senato il giorno della sparizione di Emanuela.

Il 25/6/83, interrogato da Giulio Gangi, affermò di aver visto Emanuela assieme ad un uomo, ricordando anche la scritta a grandi caratteri sul cofanetto mostrato dall’uomo alla giovane, con solo la lettera “A”41R. di Giovacchino, Storie di alti prelati e gangster romani, p. 21.

Il 28/6/83 mise a verbale il suo racconto: l’uomo era alto 1,80mt., capelli castano chiari, corti, camicia e pantaloni chiari, mostrava un tascapane di colore militare con la scritta “Avon”, la scena avveniva davanti al civico n° 3 di piazza Madama, la ragazza aveva uno zainetto sulle spalle.

Rispetto allo zainetto, il fratello Pietro riferisce che Emanuela indossava «una cartelletta con gli spartiti» e «il flauto traverso nello zainetto»42P. Orlandi Mia sorella Emanuela, pp. 13 e 45.

Nel 2002 lo scrittore Pino Nicotri cercò di intervistare Bruno ma, alla sola evocazione del cognome Orlandi, l’uomo avrebbe reagito minacciando querele43P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 30.


 

Conclusioni sulle testimonianze oculari.

Le versioni dei due presunti testimoni oculari, Sambuco e Bosco, collimano in alcune parti mentre si contraddicono in altre.

Questo porta necessariamente alla conclusione che entrambi videro effettivamente Emanuela Orlandi, pur contraddicendosi su elementi secondari. Ciò è motivato da tre argomenti:

  1. Se avessero inventato la scena non avrebbero potuto fornire elementi in comune così specifici;
  2. Se si fossero accordati tra loro non avrebbero prodotto due versioni in contraddizione su alcuni elementi, pur secondari;
  3. La descrizione coincide, a loro insaputa, con il racconto telefonico fatto da Emanuela stessa alla sorella Federica;

 

Sintetizzando le due testimonianze, emerge tale scenario: davanti a una abitazione in piazza Madama (civico 57 per Sambuco, civico 3 per Bosco) un uomo è assieme Emanuela e le mostra un oggetto (una borsa con cosmetici per Sambuco, un tascapane di color militare per Bosco) con scritto “Avon” (nel 2022 Sambuco dirà di non aver mai parlato né di borse, né di scritte).

Nel 2013, Margherita Gerunda, il pm che indagò nelle prime ore che seguirono la sparizione, sorprendentemente negò l’attendibilità dei testimoni:

«Non credo che quel giorno Emanuela Orlandi sia andata alla scuola di musica passando per corso del Rinascimento, dove si usa credere che sia stata vista da un vigile e da un poliziotto. Ho maturato la convinzione che i testimoni si siano prestati a dire o a confermare cose che permettevano loro di andare sui giornali, dare interviste, insomma avere il loro piccolo momento di fama se non di gloria. Per uscire almeno una volta nella vita dall’anonimato e sentirsi protagonisti, alla ribalta, partecipi di una storia che interessa molta gente».

 

Quelle di Gerunda sono affermazioni controverse e prive di logica, desta stupore che tale persona avesse la responsabilità delle indagini allora. Com’è possibile sostenere che entrambi i pubblici ufficiali, per “fame di notorietà” possano aver creato una testimonianza indipendente ma sostanzialmente simile a poche ore dalla sparizione, quando di questa oltretutto non se ne stava ancora occupando nessuno, né la polizia, né i media?

Nel 2014 Marco Accetti, reo-confesso di aver inscenato la sparizione, rispose opportunamente agli scettici sull’attendibilità dei due testimoni:

«Un vigile urbano ed un poliziotto riprenderebbero la bugia della Orlandi e la farebbero propria? Quindi due pubblici ufficiali mentono agli investigatori ed ai giudici senza nulla averne in cambio. Se tra l’altro riferiscono più o meno la stessa circostanza, se ne deduce che si saranno concordati su quanto falsamente raccontare. Per cui ben due pubblici ufficiali si accordano tra loro per mentire riguardo alla grave scomparsa di una minorenne, rischiando di avere conseguenze giudiziarie e di essere espulsi dai rispettivi corpi, perdendo il lavoro. Tutto questo lo avrebbero fatto solo per apparire, senza neanche dover scrivere tre libri sul caso». Eppure, dalle deposizioni, sappiamo che «non vi è stato accordo tra loro, altrimenti avrebbero prodotto versioni omologhe», tuttavia vi è una somiglianza «con gli aspetti fondamentali di quel che si racconta. Infatti ambedue testimoniano che un uomo mostrava del materiale ad una ragazza, la quale corrispondeva alle fattezze dell’Emanuela».

 

Concordiamo pienamente con questa osservazione e riteniamo attendibili, in linea generale, le prime testimonianze dei due agenti.

Riportiamo infine una riflessione altrettanto opportuna di Giulio Gangi: «Tutto fa pensare che l’uomo della BMW voleva essere notato: dal colore squillante della sua auto al fatto che avesse parcheggiato la vettura in direzione contraria al senso di marcia, al posto prescelto, cioè proprio di fronte all’ingresso del Senato»44citato in R. di Giovacchino, Storie di alti prelati e gangster romani, p. 22.

 

1.4 Il ruolo di Giulio Gangi e del SISDE

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Abbiamo già citato Giulio Gangi, l’amico di famiglia arrivato a casa Orlandi il giorno dopo la scomparsa di Emanuela, il 24/6/83. Era un agente del SISDE.

Affermò di essersi interessato «inizialmente a titolo personale e in quanto legato da un pregresso rapporto di amicizia con Monica Meneguzzi, cugina di Emanuela»45sentenza istruttoria Adele Rando, p. 82, dicendo di avere il sospetto di sequestro per prostituzione.

Gangi ha sostenuto di aver conosciuto gli Orlandi a Torano dove lui e la famiglia di Emanuela si recavano in villeggiatura (luogo confermato da Pietro Orlandi46P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 59. Ercole Orlandi, padre di Emanuela, tuttavia ha sempre sostenuto che Gangi era per lui uno sconosciuto, anzi venne colpito dal fatto che a un certo punto disse che usava trascorrere le vacanze estive a Torano, proprio dove si recavano gli Orlandi.

Gangi era o non era un estraneo? Aveva o no conosciuto gli Orlandi in vacanza? Pino Nicotri ha rivolto queste domande a Ercole Orlandi e sostiene di averlo messo in imbarazzo: il papà di Emanuela rispose di aver capito che Gangi e Meneguzzi si conoscevano da come si erano salutati47P. Nicotri, Emanuela Orlandi, la verità, p. 52.

La vicenda rimane controversa e non è secondario identificare bene i rapporti tra Gangi e gli Orlandi in quanto le prime indagini, le più importanti, vennero svolte proprio dall’agente del Sisde.

Un altro particolare strano è che la magistratura venne a conoscenza dell’esistenza e del ruolo di Ganci soltanto nel 1993-1994, dieci anni dopo la sparizione48Il Corriere della Sera, 08/02/1994. La famiglia non disse mai nulla delle prime ricerche svolte da lui?

Nell’autunno 2005, Giulio Gangi, chiarì più dettagliatamente il suo ruolo:

«Bisogna che io sfati una leggenda inventata da voi giornalisti. Cominciamo col dire che io conoscevo gli Orlandi da prima della scomparsa di Emanuela: ero giovane, avevo poco più di vent’anni. Mario Meneguzzi, lo zio della Orlandi, aveva una figlia e proprio di questa ragazza mi innamorai. Mi piaceva tantissimo, era riservata, educata, elegante nel comportamento. Una brava ragazza che conobbi perché l’estate dell’82 andai con un amico a fare una gita fuori porta nel paesino dove gli Orlandi avevano una casetta di villeggiatura (Torano). Fu così che la vidi per la prima volta. Quindi non è vero che il Sisde mi ordinò di infiltrarmi nella famiglia Orlandi per chissà quale scopo. Ad ogni modo, non mi fidanzai mai con la ragazza in questione, ci conoscemmo e diventammo amici. Ci frequentammo tra il 1982 e il 1983 perché le facevo la corte. La sera che scomparve Emanuela lei mi telefonò e mi diede la notizia. Poi mi richiamò due giorni dopo -il 25 giugno 1983- e mi chiese se potevo dare una mano a cercarla perché le avevo detto che ero della polizia, non del Sisde. La sera del 25 andai a casa Orlandi, in Vaticano. Mi accompagnò il collega amico col quale quella volta andai a fare la gita, lui rimase in strada io salii a casa loro e parli coi genitori e lo zio. In quel momento al Sisde non importava un accidenti di Emanuela Orlandi»49citato in O. Lupacchini, M. Parisi, Dodici donne un solo assassino?, Koiné 2006, pp. 184, 185.

 

Il 01/11/2008 Giuglio Gangi precisò ancora una volta: «Fu una mia iniziativa perché ero molto amico dei cugini, conoscevo anche il fratello. Fui io a presentarmi a casa degli Orlandi, la sera dopo, insieme ad un amico comune, Marino Vulpiani, che è medico e dunque fa tutt’altro mestiere. Anche lui era preoccupatissimo perché viveva a Torano, lo stesso paese della famiglia. L’unico agente del SISDE a occuparsi della vicenda, fin dai primi giorni, sono stato io»50R. di Giovacchino, Storie di alti prelati e gangster romani, p. 23.

Pietro Orlandi ha riferito che quando iniziarono a comparire i primi comunicati, fu Giulio Gangi a comunicargli che dietro a “Phoenix”, una delle sigle di presunti rapitori comparse dopo la sparizione di Emanuela, ci sarebbero stati proprio i servizi segreti italiani51P. Orlandi, Mia sorella Emanuela.

Il 30/05/2013, Pino Nicotri ha scritto di aver ricevuto questa risposta da Giulio Gangi in merito alla rivelazione fatta da Pietro Orlandi: «Mi sono limitato a dire: “Boh, forse sono i nostri che cercano di muovere le acque” quando si seppe della prima lettera firmata Phoenix. Oltretutto, io al Sisde ero già stato allontanato dalle ricerche riguardanti Emanuela».

Il 14/11/2013 anche Marco Accetti ha ricondotto “Phoenix” ad alcuni membri del Servizio di Informazioni della Sicurezza Democratica (Sisde).

Oltre a avviare le prime indagini su Emanuela, intervistando i presunti testimoni Sambuco e Bosco, recandosi dalle Sorelle Fontana e contattando la Avon, Gangi cercò anche la BMW verde tundra52citato in F. Peronaci, Emanuela Orlandi, morto Giulio Gangi, l’agente Sisde che partecipò alle prime indagini (e fu poi epurato), Il Corriere della Sera 03/11/2022 descritta dal vigile Alfredo Sambuco trovandola in un’officina di Roma.

Era stata portata con un vetro rotto da una donna che alloggiava al residence Mallia. Gangi si recò ad incontrarla (ha smentito che fosse Sabrina Minardi) venendo accolto con arroganza. Una volta rientrato in ufficio, raccontò, venne sgridato dal suo capo: «La donna doveva avere contatti diretti: prese il numero di targa e in pochi minuti riuscì a farsi sentire. Pensai che fosse l’amante di qualche pezzo grosso, uno dei nostri papaveri».

 

Giulio Gangi ha chiarito più volte e in maniera coerente nel tempo il motivo per cui si trovò a casa Orlandi e come conobbe la famiglia. Rimane controverso il motivo per cui risultava un estraneo agli occhi di Ercole Orlandi. Nella requisitoria del 1997, il giudice Giovanni Malerba stigmatizzerà invece il «non lineare comportamento» di Gangi53citato in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, pp. 124, 143.

Ci sarebbe anche da chiarire il motivo per cui, rivelato sempre dal padre di Emanuela, il SISDE si sarebbe occupato di pagare le spese dell’avv. Egidio, da loro stessi suggerito, senza dire nulla alla famiglia54P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 69.

Un ulteriore punto di attenzione risale all’agosto 1983, quando la famiglia, su suggerimento degli agenti del SISDE, inviò una domanda al “Fronte Turkesh”, una delle sigle di presunti rapitori che inviarono messaggi sul caso Orlandi, per metterli alla prova sulla reale conoscenza dei fatti: dove cenò Emanuela il 20 giugno (3 giorni prima della sparizione)? La risposta fu corretta: con “parenti molto stretti”.

Pietro Orlandi ha spiegato che questo dettaglio era conosciuto soltanto in famiglia55P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 106, oltre chiaramente agli agenti del SISDE che suggerirono la domanda.

Nella sentenza di proscioglimento del 1997 si evidenziò che con la comparsa di varie sigle dopo il 20/07/83, tra cui il “Fronte Turkesh”, terminò il primo periodo di autenticità del caso (cioè quello dei tre telefonisti).

Giulio Gangi è morto il 02/11/2022 nella sua abitazione, probabilmente per ictus. Le sue ultime indagini erano orientate verso Marco Accetti56F. Peronaci, Caso Orlandi, la vita spericolata dell’ex agente Gangi e la sua ultima pista, Corriere della Sera, 04/09/2022.


 

Conclusioni su Giulio Gangi e il Sisde.

Se la posizione di Giulio Gangi nel caso Orlandi risulta chiarita, molto meno lo è quella del SISDE.

Perché fin dai primi mesi vollero intervenire i servizi segreti, quando già stava indagando il loro agente Gangi, pur in forma privata, e la polizia? All’epoca si pensava fosse un comune caso di allontanamento volontario o di un rapimento a scopo sessuale, i servizi non si occupavano di queste cose. Ebbero informazioni diverse? Che ruolo si ritagliarono nella vicenda e quali piste seguirono?

Difficile pensare che furono loro dietro al “Fronte Turkesh”, i cui membri oltre a comunicati deliranti fornirono anche riscontri concreti e attendibili, noti solo alla famiglia (lo vediamo più sotto). Ma gli stessi Orlandi non furono messi a conoscenza di ciò. Quindi il SISDE ingannò anche la famiglia e il loro agente Giulio Gangi? Oppure a operare furono soltanto alcuni membri deviati, come ritiene Marco Accetti?

 

 

1.5 L’avvocato Gennaro Egidio

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Un altro aspetto controverso della vicenda è come l’avv. Gennaro Egidio, morto nel 2005, sia arrivato a difendere legalmente la famiglia Orlandi. E’ un piccolo dettaglio che però sarebbe bene chiarire.

Il 22/07/1983 durante una conferenza stampa, Mario Meneguzzi, zio di Emanuela, annunciò la nomina di Egidio.

Il 12/7/1993 Ercole Orlandi, padre di Emanuela, sostenne che la scelta di questo legale era stata “suggerita” loro dal funzionario del Sisde Gianfranco Gramendola, il quale aveva provveduto anche a presentarglielo57P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 69. Gramendola tuttavia smentirà la circostanza.

Gramendola si recò anche lui a casa Orlandi, accompagnando Gangi e presentandosi come “Leone”. Giulio Gangi più avanti dirà che si trattava del suo capo sotto falso nome58citato in P. Nicotri, Emanuela Orlandi, la verità, p. 67 e sospetterà fortemente del suo operato domandandosi: «E se fosse stato un complice del rapimento?»59citato in O. Lupacchini, M. Parisi, Dodici donne un solo assassino?, Koiné 2006, p. 54.

Nel 2002 Ercole Orlandi affermò: «Noi a Egidio non abbiamo mai pagato neppure una lira, la questione economica era già stata sistemata prima che mi facessero firmare il documento preparato dal Sisde per la nomina del legale. Per giunta solo dopo vari anni mi hanno comunicato che con quella firma avevo nominato un altro avvocato, Massimo Krogh, come sostituto di Egidio in caso di suo impedimento»60citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 69.

Massimo Krogh è stato legale di Pietro Orlandi almeno fino al 2015.

Nel 2013 Pietro Orlandi ha confermato che «fu Gianfranco Gramendola, carabiniere del Sisde, nome in codice Leone a presentarcelo esclamando: “Tranquilli, quest’avvocato è la mano di Dio!”. Poi fu lo stesso Egidio a dirci che si era occupato dei Rothschild e, mi pare, del caso Calvi. Era sempre lui, l’avvocato, ad andare a parlare con il cardinal Giovanni Battista Re, allora assessore della Segreteria di Stato».

Infatti, l’avv. Egidio fu anche legale della famiglia della baronessa Jeanette de Rothschild, sparita a Sarnano (Marche) il 29/11/1980 e il cui scheletro (oltre a quello della sua segretaria Gabriella Guerin) fu ritrovato il 27/01/1982 sui monti del maceratese (a 15km di distanza). Un caso apparentemente legato alla Orlandi, ne parliamo più sotto.

Nel 2013 Marco Accetti inserì il caso della baronessa nell’ambito della guerra tra fazioni vaticane e riferì che nel “ganglio” opposto al suo ci sarebbero stati esponenti del Sisde: «Alcuni membri della parte a noi avversa credettero di ravvisare in noi i responsabili della morte della baronessa Rothschild, per cui nel 1983, dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, suggerirono alle famiglie delle ragazze la nomina legale dell’avvocato Gennaro Egidio, già legale della famiglia Rothschild in ordine alla scomparsa della baronessa».

In realtà per la famiglia Gregori sembra sia andata diversamente: il padre della ragazza dichiarò allora che soltanto a seguito del primo comunicato del gruppo “Turkesh”, in cui si fece il nome di Mirella per la prima volta, venne deciso di rivolgersi allo stesso avvocato della Orlandi.

 

Nel video qui sotto, Maria Antonietta Gregori riferisce una terza versione: fu l’avv. Egidio a proporsi alla famiglia Gregori dopo il primo comunicato del “Fronte Turkesh”

 

Nel gennaio 2016 abbiamo intervistato Marco Accetti, il quale ci ha detto:

«Il “Fronte Turkesh” era qualcuno dei servizi segreti, o l’altra parte o l’avv. Egidio, che poi è la stessa cosa. Egidio era un ruolo un po’ dell’altra parte, faceva capo ai vertici dello IOR per cui sapevamo che era persona dell’altra parte. Tutte le telefonate a lui non significavano nulla, era solo affinché le riferisse poi ai giornalisti. Non avevamo niente da chiedere all’avv. Egidio e lui niente da darci».

 

Un ultimo aspetto “controverso” sull’avv. Egidio fu la sua idea, esposta nel 2002 al giornalista Pino Nicotri, che la soluzione del caso Orlandi si trattasse di una spiegazione “più semplice”, una pista che portava a Torano, alla zia Anna Orlandi e al suo amante. Ne parliamo nella prossima sezione, dedicata proprio alla zia Anna.

Quelli dell’avv. Egidio (pagato dal Sisde) erano convinzioni e dubbi autentici oppure stava indirizzando un giornalista molto informato e attivo sul caso verso una pista falsa, lontana da quella reale? Ritorna poi il paese di Torano, luogo di incontro tra Giulio Gangi (Sisde) e la famiglia Orlandi.


 

Conclusioni sull’avv. Egidio.

Rimane misterioso il motivo per cui i servizi segreti consigliarono proprio l’avv. Gennaro Egidio e, soprattutto, perché lo pagarono loro.

Ci sono persone che potrebbero aiutare a fare luce su questo, ad esempio l’avv. Massimo Krogh, che venne nominato allora come sostituto (a insaputa della famiglia) e fino a qualche anno fa era difensore di Pietro Orlandi.

Non risulta infine che la famiglia Orlandi abbia mai commentato la convinzione del proprio legale, Gennaro Egidio, sul fatto che la sparizione di Emanuela fosse legata al paese di Torano e alla zia Anna Orlandi.

 

 

1.6 La zia Anna Orlandi

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La zia di Emanuela, Anna Orlandi, è stata coinvolta più volte nella vicenda.

Come già detto nella sezione precedente, il primo a parlarne fu l’avv. Gennaro Egidio, legale degli Orlandi e dei Gregori, nel maggio 2002, dialogando con Pino Nicotri.

Emanuela potrebbe essersi allontanata di sua iniziativa? «Tutto è possibile», rispose l’avvocato, collegando subito a questa risposta una vicenda inedita:

«C’è tutta la questione dove loro passavano le vacanze, nel paesino, lì a Torano. Tutta gente che era intorno alla zia dell’Emanuela, Anna mi pare che si chiami. Questa donna che veniva seguita addirittura e nonostante la sua età, e non vorrei aggiungere altro. Che è una santa donna, una bravissima donna. E perché c’era una persona che era diventato un amico addirittura dell’Anna e compagnia bella, e lei quindi parlava liberamente, perché parlava sempre molto bene, con orgoglio dei della nipote e degli altri. E quindi non si è mai capito questo tizio chi fosse, come mai poi dopo alla fine è scomparso proprio dopo che Emanuela era scomparsa […]. Lui dette un nome falso all’Anna. Questo è il punto. Questo tizio magari successivamente potrebbe avere a che fare, per l’amor del cielo […] Questo qui accompagnava e conosceva molto bene l’Anna, che l’aveva conosciuto se ricordo bene in via Cola di Rienzo, c’era quest’uomo, mentre lei era in un negozio, che poi lei conobbe. E poi questo cominciò a conoscerla, a seguirla, a frequentarla… e delle volte uscivano anche con l’Emanuela insieme […] Ci sono state tante di quelle persone che volevano seguire questa storia che veniva adoperata per altri fini, per altre questioni». Nicotri afferma: «E anche gli Orlandi credo non sapessero in realtà chi era e che faceva la figlia», risposta: «Sono pienamente d’accordo con lei».

 

La zia Anna, morta nel novembre 2011 all’età di 80 anni, ha sempre abitato in casa Orlandi, crescendo Pietro, Emanuela e gli altri figli assieme a Maria e Ercole Orlandi. Dopo la scomparsa di Emanuela, la donna smise di abitare in Vaticano per trasferirsi nel paesino di Torano.

E’ comprensibile a questo riguardo la perplessità di Pino Nicotri sul fatto che nessuno della famiglia abbia mai parlato di lei nelle varie interviste e libri (neanche in quello di Pietro Orlandi, Mia sorella Emanuela), tanto che ha scritto di averne «scoperto l’esistenza solo parlando con l’avvocato Egidio, nel corso di una telefonata. Secondo il cronista che vi scrive e segue il caso Orlandi da dieci anni, la rilettura di vecchi appunti in effetti fa apparire la zia Anna come un personaggio che potrebbe diventare centrale».

La vicenda della zia Anna Orlandi porta direttamente ad una delle piste minoritarie del caso, proposta dalla fotografa Roberta Hidalgo (ne parliamo più sotto). La Hidalgo, dopo essersi procurata del materiale biologico di vari esponenti della famiglia Orlandi, sostenne che Emanuela Orlandi sarebbe in realtà figlia di Anna Orlandi (cioè, quella che è la zia) e Paul Marcinkus, cardinale e allora capo dello Ior. Emanuela vivrebbe con il fratello Pietro a Roma, mentre la vera moglie di Pietro, Patrizia Marianucci, vivrebbe in campagna. Una tesi decisamente estrema, come vedremo.

Restando sulla zia Anna, Roberta Hidalgo sostenne anche che avrebbe avuto una relazione con un uomo sposato di nome Giuliani, il quale avrebbe abitato con la propria moglie nel paesino di Torano, dove gli Orlandi andavano a passare le vacanze. La relazione adulterina tra Anna e Giuliani sarebbe stata ben nota in paese.

Poco dopo la scomparsa di Emanuela, Anna Orlandi smise di abitare in casa dagli Orlandi per ritirarsi a Torano, dove avrebbe accolto in casa e curato Giuliani quando questi rimase paralizzato. L’uomo avrebbe vissuto con lei fino alla morte. Da allora Anna Orlandi si sarebbe fatta chiamare Giuliana Giuliani, cognome al quale avrebbe anche intestato il telefono di casa.

Soffermiamoci un attimo sul nome Giuliani.

Il telefonista “Pierluigi”, che chiamò casa Orlandi subito dopo la scomparsa di Emanuela, disse di averla vista (chiamandola “Barbarella”) mentre vendeva collanine in piazza Campo de Fiori e voleva degli occhiali Ray Ban. Ercole Orlandi ricordò che due estati prima, a Torano, Emanuela e alcune amiche avevano venduto ad un banchetto di strada delle collanine e ricordò un discorso proprio sui Ray Ban nell’estate precedente, sempre a Torano, tra la mamma di Emanuela, Emanuela e una sua amica, Ines Giuliani, «figlia non ricordo se di un vigile urbano o di un poliziotto che comunque si chiamava Nicola e abitava a Roma in via Portinari»61citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 33.

E’ curioso che il cognome dell’amica di Emanuela fosse Giuliani, lo stesso che secondo Roberta Hidalgo sarebbe appartenuto all’uomo con cui la zia Anna Orlandi avrebbe avuto una relazione adulterina a Torano. Una coincidenza?. Da dove prese questo cognome la Hidalgo?

Intervistata da Pino Nicotri, la zia Anna Orlandi rispose confermando parte della storia, cioè che l’uomo le aveva dato un nome falso (confermato anche da Ercole Orlandi) e che quando lei scoprì che era sposato decise di non vederlo più. Lo stesso disse anche ai magistrati, che non riuscirono a rintracciare quest’uomo né ad interrogarlo.


 

Conclusioni sulla zia Anna Orlandi.

L’avv. Egidio, Roberta Hidalgo e la zia Anna Orlandi hanno confermato la presenza di un uomo nella vita di quest’ultima, che lei avrebbe conosciuto con un nome falso. L’avvocato di famiglia, Egidio, e Hidalgo sostengono anche una relazione (Egidio) adulterina (Hidalgo). Mentre Hidalgo localizza questa relazione a Torano, paese di villeggiatura degli Orlandi (chiamando l’uomo “Giuliani”), Egidio sembra localizzarla a Roma (in via Cola di Rienzo) anche se inizia il discorso fortemente allusivo con queste parole: «C’è tutta la questione dove loro passavano le vacanze, nel paesino, lì a Torano. Tutta gente che era intorno alla zia dell’Emanuela, Anna mi pare che si chiami».

Mentre Hidalgo è convinta che la zia Anna avesse anche avuto una relazione con mons. Marcinkus da cui sarebbe nata Emanuela, l’avv. Egidio sospettò un coinvolgimento di Emanuela nella relazione tra la zia Anna e l’uomo misterioso («e delle volte uscivano anche con l’Emanuela insieme»), elemento che alcune persone avrebbero voluto usare per «altri fini».

Non ci risulta che gli Orlandi abbiano mai chiarito definitivamente questa vicenda della zia, rispondendo ai dubbi dell’avv. Egidio o al libro della Hidalgo. La ritengono comprensibilmente una vicenda offensiva, che tocca vicende private di una loro intima parente, tuttavia mettere luce su tutto ciò aiuterebbe a togliere ogni minimo sospetto.

Anche la fotografa Hidalgo dovrebbe chiarire le fonti delle sue affermazioni e, soprattutto, da dove abbia reperito che il cognome dell’uomo che avrebbe avuto una relazione con Anna Orlandi fosse Giuliani.

 

 

1.7 I paesi di Torano e Bolzano

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Nella vicenda Orlandi compaiono frequentemente due paesi italiani, Torano e Bolzano.

Nel corso degli anni sono emersi più volte, intrecciati ad alcune piste investigative che non sembrano avere alcun collegamento tra loro.


 

Bolzano.

La prima volta che appare Bolzano, capoluogo di provincia del Trentino-Alto Adige, nel caso Orlandi è legato alla (controversa) compagna di Emanuela, Raffaella Monzi.

Come abbiamo visto in una sezione precedente, la Monzi fu una delle ultime persone a vederla prima della sparizione. Negli anni successivi raccontò di aver ricevuto tantissimi messaggi e telefonate minatorie che la costrinsero a trasferirsi a Bolzano, sua città d’origine.

La madre di Raffaella ha confermato che dal 1983 la vita di Raffaella cambiò radicalmente e «decidemmo di andare via da Roma e di trasferirci a Bolzano, ma c’erano persone che hanno continuato a controllarci. Raffaella fu seguita da un giovane biondino. Ogni volta ce lo trovavamo davanti e un giorno le disse: “Vieni via con me, lascia i tuoi genitori…”. Fu un episodio che ci colpì anche se decidemmo di non darci peso, pensando che fosse uno spasimante».

Un’altra vicenda che si svolge in quest’area geografia iniziò il 04/03/1985, quando Josephine Hofer Spitaler, abitante di Terlano (15 minuti da Bolzano), dichiarò ai carabinieri che il 15/8/83 vide arrivare presso la casa in cui abitava un’auto targata Roma, da cui scesero un uomo e una ragazza barcollante che riconobbe essere Emanuela Orlandi (avrebbe indossato un girocollo in materiale non metallico dai colori sbiaditi, mentre Emanuela indossava una fascetta gialla e rossa, come si vede nella famosa foto che fu appesa a Roma62P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 178).

L’appartamento in cui fu fatta entrare la ragazza era abitato da Kay Springorum e Francesca di Teuffenbach. Dopo tre giorni, il 19/8/83 sarebbero arrivati Rudolf di Teuffenbach, cognato di Kay Springorum, sua moglie e un’altra donna. La ragazza con la fascetta sarebbe stata portata in Germania63P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, pp. 179-191.

La Hofer confermò il racconto di fronte al giudice istruttore e ai sospettati i quali, però, si ritennero estranei ai fatti sostenendo di aver ospitato quel giorno altre persone64Atti del processo, 05/08/97. Il giudice Adele Rando verificò che Rudolf di Teuffenbach (l’uomo che avrebbe prelevato Emanuela da casa dei coniugi) appartenere al Sismi, con funzioni di capocentro della sede di Monaco di Baviera (la Hofer, pur non essendo a conoscenza di questo, riferì di aver sentito che la ragazza sarebbe stata portata in Germania)65A. Rando, Atti del 19/12/97, p. 28.

Il giornalista Tommaso Nelli ha rintracciato molteplici aspetti non chiari nella testimonianza della Hofer.

Oltre ad alcune contraddizioni nelle varie deposizioni e alla sorprendente decisione di presentarsi in caserma dopo così tanto tempo, nel 1985 il figlio Norbert Spitaler smentì che la donna avesse parlato in casa della vicenda, come invece da lei sostenuto. Josephine Hofer indicò inoltre altri colori (verde-grigio) relativi alla fascetta indossata dalla ragazza e emersero attriti tra lei e gli Springorum (l’avevano licenziata nell’ottobre 1983). Infine, non vi fu alcun riferimento a Emanuela Orlandi nelle telefonate degli Springorum e dei Teuffenbach, intercettate per tre mesi.

Nel 1997 la sentenza conclusiva assolse gli indiziati soprattutto perché si dimostrò con ragionevole certezza che, il 19/08/1983, Rudolf di Teuffenbach non era a Terlano bensì a Monaco di Baviera. Pietro Orlandi, per nulla soddisfatto, scrisse: «Le indagini in quella direzione si sono fermate proprio per la presenza di un funzionario dei nostri servizi segreti militari»66P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 186).

All’incirca nello stesso periodo di tempo in cui sarebbero avvenuti i fatti di Terlano raccontati da Josephine Hofer Spitaler, a pochi chilometri di distanza nella città di Bolzano, l’insegnante di musica Johanna Blum avrebbe ricevuto una telefonata tra la mezzanotte e l’una.

Recatasi ai carabinieri della città (in data non chiara), la Blum riferì che «tra fine di luglio e inizio agosto del 1983, in casa mia squillò il telefono. Risposi. Una giovane, parlando rapidamente, disse: “Sono Emanuela Orlandi, mi trovo a Bolzano, informi la polizia”. Poi attaccò». Subito dopo, avrebbe ricevuto «un’altra telefonata. Una voce maschile mi ordinò: “Dimentichi quello che ha sentito, capito?” Poi interruppe la comunicazione. Spaventata, chiamai il 113: mi dissero di chiudermi in casa»67citata in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 182.

La donna disse di essere stata più volte a Roma, di aver distribuito a colleghi o allievi i propri biglietti da visita e di conoscere la scuola di musica di Emanuela “per la sua notorietà” ma di non avere avuto contatti specifici68citata in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 182.

Rimane controverso il fatto che anche lei, come la Hofer, abbia denunciato i fatti a così tanto tempo di distanza e soltanto dopo la denunica di Josephina Hofer.


 

Torano.

Il paesino di Torano, al confine tra Lazio e Abruzzo, era il luogo di villeggiatura degli Orlandi.

Entrò nella vicenda con il primo telefonista che chiamò casa Orlandi dopo la sua sparizione: “Pierluigi” disse di aver visto Emanuela (chiamandola “Barbarella”) mentre vendeva collanine in piazza Campo de Fiori e voleva degli occhiali Ray Ban.

Il padre Ercole si ricordò che effettivamente due estati prima, proprio a Torano, Emanuela e alcune amiche avevano venduto ad un banchetto di strada delle collanine. Inoltre, durante l’estate precedente, sempre a Torano, si affrontò un discorso sui Ray Ban tra la mamma di Emanuela, Emanuela e una sua amica, Ines Giuliani, «figlia non ricordo se di un vigile urbano o di un poliziotto che comunque si chiamava Nicola e abitava a Roma in via Portinari»69citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 33.

Come abbiamo visto nella sezione a lui dedicata, l’agente del Sisde Giulio Gangi -che da subito aiutò la famiglia Orlandi nella ricerca di Emanuela- conobbe gli Orlandi diverso tempo prima del 1983. Si innamorò della cugina di Emanuela, figlia dello zio Mario Meneguzzi e fu lei a coinvolgerlo il giorno della sparizione70O. Lupacchini, M. Parisi, Dodici donne un solo assassino?, Koiné 2006, pp. 184, 185.

Infine, nella precedente sezione abbiamo indicato che sempre nel paesino di Torano si dipanerebbe il caso della zia Anna Orlandi.

L’avvocato di famiglia, Gennaro Egidio, e la fotografa Roberta Hidalgo, sostennero che la donna frequentasse un uomo conosciuto sotto falso nome. La zia Anna confermò di aver conosciuto un uomo sotto falso nome ma che si sarebbe allontanato appena saputo che era spostato.

Hidalgo parlò invece di una relazione adulterina che sarebbe divenuta stabile dopo la sparizione di Emanuela, quando Anna Orlandi si trasferì definitivamente a Torano. L’avv. Egidio legò la sparizione di Emanuela a una «questione dove loro passavano le vacanze, nel paesino, lì a Torano. Tutta gente che era intorno alla zia dell’Emanuela, Anna mi pare che si chiami». Aggiungendo che la zia e quest’uomo misterioso «delle volte uscivano anche con l’Emanuela insieme», elemento che alcune persone avrebbero voluto usare per «altri fini».


 

Conclusioni su Torano e Bolzano.

Dagli elementi emersi finora non sembra vi siano collegamenti importanti tra il caso Orlandi e questi Paesi.

E’ pur vero che vi sono coincidenze a dir poco singolari che si potrebbe ulteriormente verificare, come quelle esposte finora. Ma al momento sembrano per l’appunto soltanto mere casualità.

 

 

1.8 I telefonisti Mario, Pierluigi e l’Amerikano

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Con i telefonisti ci riferiamo a coloro che chiamarono casa Orlandi (e non solo) già pochi giorni dopo la sparizione di Emanuela: “Pierluigi” e “Mario” e, qualche giorno dopo, l’Amerikano.

Si citarono a vicenda e produssero elementi in comune, dimostrando un collegamento tra loro.

Mentre i primi due sostennero che Emanuela si fosse allontanata volontariamente, il terzo introdusse il tema della contrattazione tra Emanuela e la liberazione di Alì Agca.


 

Il telefonista “Pierluigi”.

Il nome “Pierluigi” compare più volte nel caso Orlandi.

Innanzitutto fu il primo telefonista che chiamerà a casa Orlandi il 25 giugno 1983, due giorni dopo la sparizione di Emanuela, senza che il telefono fosse ancora dotato di registratore71G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 3, 4.

“Pierluigi” disse di avere 17 anni e di essere stato spinto a chiamare dalla sua fidanzata. Quest’ultima avrebbe visto le foto di Emanuela sui giornali riconoscendo la ragazza che avrebbe incontrato il 23/06 (giorno della scomparsa) in Campo de Fiori mentre vendeva piccole mercanzie e prodotti della Avon72G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3. Disse che Emanuela portava capelli tagliati di recente a caschetto, diceva di chiamarsi Barbarella, era assieme ad un’amica più grande e aveva con sé un flauto riposto in una custodia nera73citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, pp. 31, 32.

Il telefonista aggiunse che Emanuela avrebbe rifiutato la proposta della sua ragazza di suonare il flauto in piazza Navona in quanto «per leggere avrebbe dovuto mettersi un paio di occhiali con la montatura bianca che la imbruttivano», preferendo la marca Ray Ban, la stessa che indossava la fidanzata di Pierluigi. L’uomo riferì inoltre che Emanuela soffriva di astigmatismo ad un occhio74G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 3 .

Il fatto sorprendente è che ancora nessuno aveva rivelato pubblicamente che Emanuela, prima di sparire, aveva telefonato a casa parlando proprio di un lavoro offerto per distribuire volantini per la Avon. Inoltre, come già osservato in una sezione precedente, il padre Ercole Orlandi ricordò che due estati prima, a Torano, Emanuela e alcune amiche avevano venduto ad un banchetto di strada delle collanine, nonché ricordò un dialogo sui Ray Ban, sempre a Torano, tra la mamma di Emanuela, Emanuela e una sua amica, Ines Giuliani75P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 33.

“Pierluigi” telefonò anche il giorno successivo (26/06/1983) dicendo di essere in un ristorante al mare con i genitori (con tanto di rumori di piatti in sottofondo). Aggiunse poi che Emanuela avrebbe dovuto suonare all’ormai prossimo matrimonio della sorella.

Nella sentenza del 2015 si confermò che i dettagli forniti dal telefonista corrispondevano tutti alla verità dei fatti e convinsero gli inquirenti all’autenticità del telefonista76G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3.

 

Qui sotto la ricostruzione della telefonata di “Pierluigi”:

 

Per quanto riguarda il ristorante in località marina citata da “Pierluigi”, ricordiamo che il 19/09/83 in una lettera firmata “Gruppo Phoenix”, una delle sigle che comparve dopo la sparizione di Emanuela, si minacciò il primo telefonista: «“Pierluigi” è assai pericoloso stare in quella trattoria con le spalle verso la porta perché ci sono troppe “correnti d’aria”: un nostro vecchio “amico” ha fatto una brutta fine davanti ad un piatto di spaghetti».

Chi era “Pierluigi”? Come poteva conoscere dettagli veri e così personali su Emanuela, quando ancora nessuno stava indagando sulla sua scomparsa?

Nel 2013, Marco Accetti, reo-confesso di aver orchestrato l’allontanamento di Emanuela, ha fornito la sua versione dicendo che scelsero il nome “Pierluigi” per alludere a mons. Pierluigi Celata, che affermò essere acerrimo nemico di Marcinkus, nonché riferimento della fazione di cui faceva parte (senza che il prelato fosse coinvolto con le loro attività). Mons. Celata sarebbe stato anche il suo confessore durante la frequentazione del collegio San Giuseppe De Merode.

Pietro Orlandi ha ricordato anche che l’arcivescovo Pierluigi Celata all’epoca della scomparsa di Emanuela era il segretario del Segretario di Stato, Agostino Casaroli, il quale avrebbe ricevuto le telefonate dell'”Amerikano” sulla linea codificata 158.

Per quanto riguarda il rumore di sottofondo di un ristorante, Accetti scrisse:

«Costui dice di chiamare da un ristorante (il noto ristorante di Torvaianica frequentato da vari protagonisti di questi fatti [gli uomini di De Pedis, NDA]). Fui io personalmente a registrare il rumore di sottofondo al ristorante “Pippo l’Abruzzese” di Tor Vaianica […]. Nel caso la telefonata potesse essere registrata e sottoposta al giudizio di un esperto, le caratteristiche specifiche di alcuni rumori potevano far risalire proprio a quell’ambiente»77M. Accetti,Memoriale, 16/04/2014.

 

Le altre indicazioni (o codici) presenti nella telefonata le descrisse così78M. Accetti,Memoriale, 16/04/2014:

  • “Pierluigi” dice che deve compiere 17 anni ➡ Codice delle apparizioni di Fatima, cioè 13-5-17 (da associare all’età di “Mario”, il secondo telefonista, che dirà di avere 35 anni79G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3);
  • Emanuela si fa chiamare Barbarella ➡ Codice di Chiesa Santa Barbara de’ Librari presso Campo de Fiori, piazza in cui aveva il negozio Domenico Balducci nel quale riciclava denaro di Pippo Calò (alias Mario Aglialoro) e che fu ucciso nel 1981 da De Pedis per aver trattenuto denaro di Calò;
  • Emanuela è in compagnia di un’altra ragazza ➡ Codice della compagna del Convitto, complice nel giorno della sparizione di Emanuela;
  • Emanuela deve suonare al matrimonio della sorella a settembre ➡ Codice che indicava che sarebbe rientrata entro settembre se si fosse accettata la trattativa;

 

Secondo la testimonianza dei familiari della Orlandi, la voce di “Pierluigi” risultò essere posata, senza inflessioni. Fu da loro ribattezzato per questo “il pariolino”.

Marco Accetti ha affermato invece che “Pierluigi” sarebbe stata una ragazza: «Pierluigi era una mia amica, certo: valutammo che la sua voce si avvicinasse di più a quella di un diciassettenne e funzionò»80citato in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014. Aggiunse: «Era una mia consuetudine, nei miei vari lavori cinematografici, usare delle ragazze per prestar la voce a personaggi di adolescenti maschili»81M. Accetti,Memoriale, 16/04/2014.

 

“Pierluigi” non è solo il nome del primo telefonista ma anche quello di un compagno di classe di Emanuela Orlandi, Pierluigi Magnesio. Anch’egli cittadino vaticano, figlio di un elettricista in servizio presso la Santa Sede. Fu la prima persona a cui pensarono gli investigatori dopo la comparsa del primo telefonista.

Il sostituto procuratore generale Giovanni Malerba, nella sua requisitoria dell’agosto 1997, ipotizzò addirittura che fosse stato proprio lui, sotto pressione o minaccia, a telefonare:

«Non sembra azzardata l’ipotesi che il ‘Pierluigi’ delle prime tre telefonate possa identificarsi nel predetto Magnesio Pierluigi; l’età del giovane al momento del fatto induce senz’altro a escludere il suo consapevole e volontario coinvolgimento nel sequestro; e tuttavia, ove il ‘telefonista’ Pierluigi si identificasse nel Magnesio, dovrebbe inferirsi che questi fosse stato contattato dai sequestratori e indotto, verosimilmente con minacce, a effettuare le prime telefonate in funzione di depistaggio. Ove così fosse, ancora oggi il Magnesio potrebbe fornire utilissimi elementi per l’identificazione dei sequestratori. Appare pertanto utile, se non necessario, approfondire l’indagine sul punto».

 

Il 27/10/1987 mentre la trasmissione Telefono Giallo si stava occupando del caso Orlandi, ricevettero questa telefonata in diretta: «Buonasera, sono Pierluigi. Se parlo, mi ammazzano». Secondo gli approfondimenti della Procura di Roma si trattò proprio di Magnesio, l’amico di Emanuela. Questa vicenda emerse per la prima volta nella richiesta di archiviazione del 2013.

Magnesio vivrebbe all’estero, in un Paese non rivelato.


 

Il telefonista “Mario”.

Il 28/06/83, a cinque giorni dalla scomparsa di Emanuela e dopo due giorni dall’ultima telefonata di “Pierluigi”, comparve “Mario”, il secondo telefonista.

La telefonata venne registrata ed è possibile ascoltarne una parte nell’audio qui sotto (qui la trascrizione integrale).

 

“Mario” disse di avere 35 anni e di voler scagionare un suo amico che lavora per la Avon, aggiungendo che con quest’ultimo lavorano solo due ragazze, di cui una si chiama “Barbarella” (lo stesso nome usato da “Pierluigi”), la quale sarebbe rientrata a casa a settembre per il matrimonio della sorella (altro indizio usato già dal primo telefonista)82G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3.

Con spiccato accento romano, “Mario” disse che tale “Barbarella” avrebbe i capelli tagliati a caschetto (altro indizio fornito da “Pierluigi”) e verrebbe da Venezia. Si sarebbe allontanata da casa perché «c’ho ‘na vita piatta, una vita troppo comune».

Nella lunga e confusa telefonata, “Mario” descrisse così “Barbara”: «Capelli corti, scuri, alta, alta più de me perché so’ un po’ bassetto». Lo zio Meneguzzi domandò maggior precisione sull’altezza della ragazza e l’uomo rispose: «Un metro e cinquanta, sessanta?». Il telefonista apparve titubante, tanto che nell’audio si sente una seconda voce che gli suggerisce: «No de più, de più».

 

Qui sotto una parte della telefonata originale di “Mario”:

 

Il 19/09/83 nella già citata lettera del “Gruppo Phoenix”, oltre a “Pierluigi” si minacciò anche “Mario”: «Vogliamo generosamente ricordare a Mario che nella pineta c’è tanto posto per aumentare la vegetazione. La persona amica che ha tradito può assolvere le proprie colpe perché è meglio una confessione oggi che la morte domani, a tutti gli elementi implicati giova ricordare che sono ovunque raggiungibili. Order N.Y. A.D.C.».

Nel suo Memoriale, Marco Accetti diede la sua versione rispetto al secondo telefonista:

«In seguito chiamerà un certo “Mario” (sapevamo dell’esistenza di un latitante appartenente alla criminalità di origine mafiosa, e identificabile con lo pseudonimo di “Mario Aglialoro” [si riferisce a Pippo Calò, NDA]. Di costui si vociferava potesse essere il mandante dell’omicidio del presidente del Banco Ambrosiano, dottor Calvi. Questo riferimento avrebbe dovuto contribuire ulteriormente ad allarmare le persone vicine a monsignor Marcinkus. Essendo il riferimento, in senso lato, quello di un “malavitoso”, il parlare dovrà apparire ‘sporco’ e illetterato. Costui dichiara di essere proprietario di un bar, riferimento al bar Gregori, che colloca accanto a ponte Vittorio Emanuele II, nei cui pressi si trova il negozio del padre di Stefano Coccia. Per cui Mario, nella stessa telefonata, cita la Orlandi, la Gregori e Stefano. Dichiara altresì di avere 35 anni, e questa età posta assieme all’età dichiarata dal sedicente Pierluigi, ricompone ulteriormente la nota data di Fatima, 13-5-17».

 

Accetti si riferisce a Stefano Coccia, un giovane che fu da lui effettivamente fermato verso fine novembre 1983. Determinante sarebbe stato il numero civico del negozio del padre, 351, che avrebbe richiamato l’apparizione di Fatima. Coccia confermò che venne avvicinato da Accetti e da una donna nei pressi della gioielleria del padre con la scusa di una fotografia83G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 46, 48. Ne parliamo in una successiva sezione.

Ecco i codici schematizzati presenti nella telefonata di “Mario”, secondo il racconto di Accetti84M. Accetti, Memoriale, 2014:

  • Il nome “Mario” ➡ Codice di Mario Aglialoro, cioè Pippo Calò, mandante dell’omicidio Calvi;
  • Proprietario di un bar ➡ Codice di Mirella Gregori, i cui genitori possedevano un bar;
  • Un bar accanto a ponte Vittorio Emanuele II ➡ Codice del negozio del padre dove verrà fermato Stefano Coccia;
  • “Mario” ha 35 anni ➡ Codice delle apparizioni di Fatima (13-5-17), va unito ai 17 anni di “Pierluigi”;
  • “Mario” parla di una “ragazza francese”, amica di un qualcuno vicino piazza Navona ➡ Codice dei servizi segreti francesi in rapporto con Francesco Pazienza, abitante vicino a piazza Navona;
  • “Mario” cita il quartiere Monteverde ➡ Codice di Villa Stricht, residenza di molti prelati statunitensi tra cui mons. Bruno e mons. Marcinkus;
  • “Mario” accenna ad altre ragazze ➡ Codice, già usato da “Pierluigi”, per indicare le tesstimoni che confermeranno le “accuse” della Orlandi verso Marcinkus una volta rientrata a casa;

 

Nel febbraio 2006 Antonio Mancini, uno dei boss della banda della Magliana e collaboratore di giustizia, affermò di aver riconosciuto nella voce di “Mario” uno dei killer della Magliana, col soprannome di Rufetto, ovvero Libero Giulioli85G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 11. Per Mancini costui era «alle dipendenze unicamente di De Pedis, era il suo sicario personale e già all’epoca possedeva un ristorante a Trastevere»86citato in O. Lupacchini, M. Parisi, Dodici donne un solo assassino?, Koiné 2006, pp. 48, 49. Il confronto della voce tra Mario e Libero Giuliani, realizzato dalla polizia, diede esito negativo87G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 12.

Nel 2008 la voce di “Mario” risultò avere un “elevato grado di similitudine” con quella dell’uomo che telefonò a “Chi l’ha visto?” nel 2005, aprendo di fatto le indagini sul collegamento tra il caso Orlandi e la Banda della Magliana88G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 26.

Sempre nel 2008 i periti della Procura di Roma hanno ritenuto somigliante la voce di “Mario” a quella di Giuseppe De Tomasi, membro della Banda della Magliana. Un abbaglio in quanto la sentenza di ordinanza del giudice istruttore Otello Lupacchini, datata 13 agosto 1994, riferiva che De Tomasi era in carcere dal 21/06/83.

Nell’estate 2013, il giornalista Fabrizio Peronaci assistette all’imitazione di Marco Accetti della voce del telefonista “Mario”, descrivendola così:

«Quel giorno in terrazza, mi chiese di posare il telefonino a terra, per essere certo che non registrassi, tirò il fiato più volte, allargò il diaframma, si sfregò il naso soffiando, chiuse gli occhi per concentrarsi e cominciò a parlare velocemente. “Allora, signor Orlandi, me stai a sentì?… Tu fija ha detto che se chiama Barbarella, che è stufa de ’sta vita piatta, che vole annassene pe’ conto suo pe’ quarche tempo”. Impressionante. Stesso timbro. Identico intercalare del sedicente Mario, la cui voce registrata ho ascoltato più di una volta»89F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

 

Nel 2013 furono gli inquirenti a comparare la voce di Marco Accetti a quella di “Mario”, concludendo l’impossibilità ad «effettuare alcuna analisi di tipo strumentale» a causa della notevole distanza temporale, rilevando però similitudini soggettive tra le cadenze linguistiche tra Accetti, l'”Amerikano”, “Mario” e “Phoenix”90G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 49.

Nel gennaio 2016 abbiamo intervistato Marco Accetti, il quale ha confermato di essere stato il telefonista “Mario”, usando appositamente un accento romanesco: «L’ha capito anche Egidio che fece fare delle perizie assieme a Nicola Cavaliere, allora capo della Mobile, e hanno capito che era la stessa persona». Intendeva dire che l'”Amerikano” e “Mario” erano la stessa persona, cioè Accetti stesso.

 

Nel 2018 abbiamo realizzato una comparazione di voci tra Marco Accetti e il telefonista “Mario”, questo è il risultato:

 

Nelle conclusioni della Procura sull’attendibilità di Marco Accetti, i magistrati hanno usato proprio la telefonata di “Mario” come esempio per dimostrare che l’uomo conoscerebbe bene gli elementi oggetto dei vari processi ma risulterebbe vago e poco circostanziato sugli elementi mai pubblicati.

Ecco cosa scrissero gli inquirenti:

«Esemplificativa è stata l’analisi effettuata nel corso della deposizione del 18 aprile 2013 del testo della telefonata di “Mario” della quale sono stati riportati negli anni solo piccoli brani e che non è stata oggetto di stampa nemmeno processuale. Rispetto a tale telefonata, Accetti non conosce né durata, né contenuto, salvo poi darne un’interpretazione in chiave di “codici” presenti all’interno della stessa e dichiarare di essere stato presente quando venne effettuata escludendo tuttavia che si sia trattata di una telefonata unica»91G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 50, 51.


 

Il telefonista “l’Amerikano”.

L’entrata in scena del terzo telefonista, l'”Amerikano” (o “Amerikano”), il 5/7/83 (due giorni dopo il primo appello di Papa Wojtyla), segnerà la svolta nella vicenda. Fu soprannominato dall’avv. Egidio l'”Amerikano” perché perché parlava (o, meglio, simulava) un accento italo-americano.

Alle 12:50 telefonò prima alla Santa Sede e, dopo un’ora, a casa Orlandi.

Alla famiglia disse che “Pierluigi” e “Mario” erano membri dell’organizzazione, rivendicò di essere il rapitore e collegò il rapimento di Emanuela alla liberazione del terrorista turco Alì Agca, attentatore di Giovanni Paolo II in piazza San Pietro il 13 maggio 1981. Diede come codice per i successivi contatti il numero 158 e comunicò l’ultimatum per la liberazione di Agca il 20 luglio 198392G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 4.

 

Qui sotto la ricostruzione dell’entrata in scena dell'”Amerikano“:

 

Vi furono diversi contatti telefonici tra lui e l’avv. Gennaro Egidio, legale degli Orlandi, la maggior parte dei quali registrati.

C’è una prova indubitabile che “Mario” e l'”Amerikano” fossero in contatto tra loro (o addirittura la stessa persona?).

Nella trascrizione integrale della telefonata di “Mario”, infatti, emerge che nella prima parte il telefonista fece ascoltare una voce femminile registrata, presumibilmente di Emanuela Orlandi, la quale ripeteva: «Devo fare il terzo liceo st’altr’anno, scientifico….a gennaio saranno sedici….mi verranno ad accompagnà st’altr’anno….un paesino sperduto…per Santa Marinella…convitto nazionale»93Trascrizione della telefonata di “Mario”, pp. 2-5.

 

La stessa registrazione (una versione più breve) fu fatta ascoltare anche dall’“Amerikano”, qui sotto l’audio:

 

Vincenzo Parisi, direttore del Sisde, fece un’identikit dell'”Amerikano” (rimasto riservato fino al 1995), osservando che sarebbe stato un profondo conoscitore della lingua latina, addirittura uno straniero che avrebbe acquisito prima il latino dell’italiano. Lo giustificò dicendo che un italiano «non utilizzerebbe mai il verbo “translare” al posto di “trasferire”, “novello” al posto di “nuovo”».

Il 10/04/94 il padre di Emanuela, Ercole Orlandi, dichiarò: «Siamo vittime di un’oscura ragion di stato. […] Quel personaggio con l’accento americano, sapendo che il nostro apparecchio era sotto controllo, non faceva durare la telefonata più di sei minuti. Doveva avere un timer. Spaccava il secondo e agganciava».

Quanto alle telefonate, Ercole Orlandi ricordò anche che l’“Amerikano” gli aveva detto che era inutile tentare di registrarle perché avrebbe potuto far apparire le chiamate in quindici posti diversi.

Una volta gli investigatori riuscirono ad isolare le prime quattro cifre delle telefonate, che risultarono essere partite dall’Ambasciata Americana di via Veneto. La polizia scoprì in seguito che le telefonate partivano da una cabina della stazione Termini, ma una volta messa sotto controllo si scoprì che mentre le chiamate risultavano effettivamente in partenza dall’apparecchio pubblico, dentro la cabina non c’era nessuno94da L’ombra del Sisde nel rapimento, Il Corriere della Sera, 08/02/1994.

L’Amerikano aveva effettivamente un apparecchio per la triangolazione delle telefonate, capace di far rimbalzare su un’altra utenza la chiamata iniziale proteggendo il numero di partenza?

Nel 2013 Marco Accetti si è auto-accusato di aver ideato l’allontanamento di Emanuela e Mirella, dichiarando di essere stato anche il principale telefonista, cioè l'”Amerikano“, la cui voce doveva ispirarsi a Thomas Macioce95M. Accetti, Memoriale, 2014, a suo dire vero responsabile della politica dello Ior.

In una telefonata del 07/07/83, l’Amerikano affermò che Emanuela non era nata in Vaticano. Si è sempre ritenuto essere un errore, che avrebbe dimostrato che l’uomo non avesse avuto i dettagli della giovane da lei stessa. Tuttavia emerse che effettivamente Emanuela divenne cittadina vaticana solo nel 1981, come confermato dal fratello Pietro96P. Orlandi, commento su Facebook, 14/07/2023.

In una nostra intervista a Marco Accetti, l’uomo ha sostenuto che l'”Amerikano” sarebbe stato interpretato anche da una donna:

«Molte volte noi volevamo passare per balordi davanti all’opinione pubblica, le telefonate dell’Amerikano servivano solo per i giornali, per fare cassa di risonanza, pressione. Per esempio, c’è un nastro registrato in cui c’è anche l’Amerikana, non solo l’Amerikano. Ho detto a Capaldo: “Lei lo vuole il nome e cognome di questa ragazza? Lei la può chiamare e questa le conferma”. Mi ha risposto: “Ah no, non voglio sapere niente, per carità”. C’è una ragazza che ha fatto l’Amerikana: in questo nastro, in cui finge di essere americana, pronuncia male la parola “States” dicendo letteralmente “States”. Ma quando mai un’americana sbaglierebbe così? Io so chi è questa persona, una ragazza romana di estrema sinistra. Nessuno mi ha mai chiesto nulla».

 

Più volte Marco Accetti ha chiesto di confrontare la sua voce con quella del principale telefonista.

Un confronto venne fatto dalla Procura nel 2013, comparando la voce dell’“Amerikano” con quella di Marco Accetti, previa acquisizione di un saggio fonico, concludendo l’impossibilità ad «effettuare alcuna analisi di tipo strumentale» a causa della notevole distanza temporale, rilevando però similitudini soggettive tra le cadenze linguistiche tra Accetti, l'”Amerikano”, “Mario” e “Phoenix”97G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 49.

 

Nel 2018 abbiamo realizzato anche noi un confronto tra le voci di Accetti e l’Amerikano, qui sotto il risultato:

 

 

Nel 1983 l’agenzia Ansa rilevò un’assonanza tra il comunicato del 20/7/83 dell'”Amerikano” e il linguaggio dei brigatisti che sequestrarono Aldo Moro: «Il gerundio usato nella seconda parte del messaggio (“pervenendo alla soppressione del 20 luglio”) è significativo e ha un precedente nel comunicato n. 9 delle Brigate rosse (“eseguendo la sentenza”), diffuso durante il sequestro Moro»98F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, spunta il caso Moro: la nonna di Katy Skerl fu testimone in via Fani, Corriere della Sera, 03/07/2023.


 

Conclusioni sui telefonisti.

A prescindere dalle dichiarazioni di Accetti, il ruolo dei telefonisti rimane controverso: mitomani? Reali rapitori? Depistaggio? Ebbero a che fare con Emanuela? Perseguivano interessi loro approfittando della sparizione della ragazza?

Non si può negare che, seppur non diedero mai prova indubitabile di aver rapito Emanuela e di tenerla in ostaggio (sarebbe bastata una sua fotografia con un quotidiano a fianco, come fecero i rapitori di Aldo Moro), rivelarono particolari precisi della ragazza e fecero ritrovare (l’Amerikano) documenti da lei posseduti il giorno della sparizione (seppur in fotocopia), spartiti musicali con scritte di Emanuela, uno scritto della ragazza (riconosciuto dai familiari) nonché inviarono alcune sue parole registrate sulla scuola frequentata.

Rispetto alla voce di Emanuela in cui riferisce la scuola da lei frequentata, alcuni sostengono che poteva essere stata carpita prima della sparizione. Sarebbe strano che avesse rilasciato un’intervista senza dirlo alla famiglia, inoltre se venne fatta a scuola perché nessuno ne parlò quando emerse l’audio dopo la sua scomparsa? Avrebbe mai potuto essere fatta solo a lei e non agli altri compagni?

Si sostiene anche che i telefonisti avrebbero ottenuto i dati privati di Emanuela da amiche, compagne o familiari.

Non è un’obiezione pertinente: come possono delle amiche o dei familiari rivelare dettagli privati di Emanuela ad un estraneo, venire poi a conoscenza della sparizione di Emanuela e leggere quei particolari sui giornali, forniti come prove dai rapitori, senza collegare le cose? Avrebbero subito informato la polizia di aver riferito loro quei dettagli. A meno che fossero in complicità con i telefonisti.

O i telefonisti ebbero realmente a che fare direttamente con Emanuela, oppure hanno avuto a che fare con suoi amici e/o parenti, e questo comporta o la loro complicità (volontaria o involontaria) nella sparizione oppure l’aver subito delle minacce.

Nelle conclusioni della Commissione parlamentare Mitrokhin, si legge:

«E’ certo che i telefonisti, gli autori dei messaggi o i loro ispiratori avessero, o avessero avuto, contatti con Emanuela, con la famiglia o con conoscenti di Emanuela o della famiglia». Questo lo «conferma una valutazione in audizione del dottor Imposimato, che pure ha idee molto nette in proposito, avendo seguito il caso per conto dei familiari di Emanuela, allorché dichiara che “le lettere sono, almeno in parte, una prova dei collegamenti tra chi le scriveva e la ragazza scomparsa”, come riconosciuto anche dai magistrati, che però non hanno ritenuto provato che costoro effettivamente avessero rapito la ragazza – e la tenessero segregata – – al momento in cui recapitavano, per un ampio lasso di tempo, i messaggi».

 

Nella requisitoria del Procuratore generale della Corte di Appello, Giovanni Malerba, si legge invece:

«Né si dica che i primi “telefonisti” fossero persone non soltanto estranee al progetto criminoso, ma altresì all’oscuro di esso; nei successivi messaggi del gruppo che rivendicava il sequestro, più di una volta è dato rinvenire riferimenti ai “nostri elementi Pierluigi e Mario”; e per di più il Pierluigi, nei colloqui telefonici, si mostrava al corrente di particolari rivelatisi esatti (flauto, occhiali con montatura bianca non graditi alla giovane, astigmatismo ad un occhio, imminente matrimonio della sorella ecc.). Tutto questo dimostra lo stretto collegamento tra Pierluigi e Mario e coloro che rivendicavano il sequestro»99requisitoria del pm Malerba, 6/08/97.

 

Nella sentenza di archiviazione del 2015 firmata da Giovanni Giorgianni si riporta la ricostruzione eseguita dagli inquirenti nel 1997, concludendo che dopo i primi telefonisti, che apparvero «connotati di autenticità», il quadro si frantumò in una «pluralità spesso contraddittoria di voci riconducibili a gruppi eterogenei dai fini indecifrabili la cui connotazione comune è probabilmente costituita dall’uso strumentale delle notizie divulgate dagli organi di informazione»100G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 5.

 

 

1.9 I vari comunicati e le sigle (“Phoenix”, “Turkesh” ecc.)

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Dopo il 20/07/1983, scaduto l’ultimatum dato dall’“Amerikano” per la liberazione di Agca in cambio di Emanuela Orlandi, sulla scena comparvero una serie di sigle dai nomi più improbabili che a loro volta, spesso tramite sconclusionati comunicati, rivendicarono la responsabilità del sequestro.


 

“Fronte Turkesh”.

Il 4/08/83 la prima sigla a comparire fu il Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh, evidente richiamo al colonnello nazionalista turco Arsaplan Turkesh, l’ideologo dei “Lupi Grigi” e di Alì Agca.

Con i loro “Komunicati”, i componenti di tale sigla vollero accreditarsi come amici e solidali di Alì Agca, tentando di portare l’attenzione sugli idealisti turchi e sui “Lupi Grigi”. Diverse volte le loro lettere partivano da Ancona, si sospettò che a imbucarle sarebbe stato un marittimo turco.

Inoltre, nel loro primo komunicato, per la prima volta il caso di Mirella Gregori fu collegato a quello di Emanuela Orlandi («Mirella Gregori? Vogliamo informazioni»). Da quel momento infatti le due famiglie furono tutelate dallo stesso avvocato, Gennaro Egidio.

 

Qui sotto uno dei comuicati del “Fronte Turkesh“:

 

Ma davvero i membri del “Fronte Turkesh” pensavano di poter essere creduti? Già all’epoca si sottolineò che «è ben lungi dall’ideologia dei movimenti estremisti turchi denominarsi “anticristiani”». A nostro avviso fu un’operazione (volutamente?) controproducente.

Tra l’altro, gli autori dei comunicati apparvero in contrasto con il comportamento dello stesso Agca il quale dal giugno 1983 produsse infinite dichiarazioni deliranti per inficiare le acquisizioni sul “livello” turco delle indagini.

Il “Fronte Turkesh” voleva portare l’attenzione sui turchi e Alì Agca voleva toglierla.

Data l’assurdità di molti komunicati anche il tentativo di renderli appositamente controproducenti risuta piuttosto ovvio e banale. Se non fosse stato per i dettagli biografici e le fotocopie dei documenti che fornirono riguardanti Emanuela, oltre alle telefonate ad amiche e compagne per dettare i loro messaggi, nessuno li avrebbe mai presi sul serio.

Nell’agosto 1983, ad esempio, su suggerimento degli agenti del SISDE, la famiglia Orlandi inviò una domanda al “Fronte Turkesh”, mettendoli alla prova sulla reale conoscenza dei fatti. Chiesero dove cenò Emanuela il 20 giugno (3 giorni prima della sparizione) e la risposta fu con “parenti molto stretti”. Era vero.

Pietro Orlandi ha spiegato che questo dettaglio era conosciuto soltanto in famiglia101P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 106, oltre chiaramente agli agenti del SISDE che suggerirono la domanda.

In un altro caso, a distanza di mesi dissero che il 22/04/1983 Emanuela “era stata in Chiesa”. La famiglia inizialmente negò ma gli inquirenti riscontrarono effettivamente che la giovane partecipò nel coro a una commemorazione presso la chiesa di Sant’Apollinare per l’anniversario di morte di un cardinale.

Il 05/09/83 arrivò una telefonata dal “Turkesh” alla redazione dell’Ansa di Milano, l’interlocutore disse di chiamarsi “Aliz”.

Nel settembre 1983 l'”Amerikano” screditò l’attendibilità del “Fronte Turkesh”: dopo l’apparizione dei primi komunicati, infatti, il telefonista fece ritrovare un’audiocassetta (oltre alla fotocopia dello spartito di musica con autografi attribuiti a Emanuela) in cui escluse la validità dei comunicati pervenuti dopo il 20/7/83102G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 5 dicendo: «Turkesh non esiste, è un’invenzione degli italiani o del Vaticano per coprire la verità».

Secondo il reo-confesso Marco Accetti, auto-accusatosi di aver inscenato il finto sequestro della Orlandi e di essere stato i telefonisti “Mario” e l'”Amerikano”, dietro al gruppo “Turkesh” ci sarebbe stata la fazione vaticana opposta alla sua con l’aiuto del SISMI (servizi segreti italiani)103M. Accetti, Memoriale, 2014.

Nel 2016, da noi intervistato, Marco Accetti, ci ha confermato che «il “Fronte Turkesh” era qualcuno dei servizi segreti» o comunque qualcuno affiliato alla fazione vaticana avversa alla sua.

Riguardo al fatto che nel primo komunicato si parlò per la prima volta della Gregori, Accetti ha sostenuto che «la nostra controparte, che si era finta gruppo Turkesh ed era a conoscenza del prelevamento di Mirella, tirandola in ballo ci mandava a dire: smettetela con la Orlandi, che crea troppo subbuglio in Vaticano, ora parliamo dell’altra ragazza… Ci invitavano ad abbassare il livello di scontro»104in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 139.

Nel 2023 il giornalista Fabrizio Peronaci ha ricordato una vecchia pista d’indagine che ravvisava analogie tra i messaggi dell'”Amerikano”, del “Fronte Turkesh” e quelli dei brigatisti che rapirono Aldo Moro (1978). In particolare, un certo uso del gerundio, il ritmo sincopato, alcune locuzioni105F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, spunta il caso Moro: la nonna di Katy Skerl fu testimone in via Fani, Corriere della Sera, 03/07/2023.

Fu notato già nel 1983 dall’agenzia Ansa quando si rilevò l’utilizzo di una locuzione famosa ai tempi del sequestro Moro: «La nota personalità». Frase utilizzata anche nelle rivendicazioni firmate “Fronte Turkesh”106Komunicato XXX, 27/11/1985 107Messaggio del 3/12/1985.

Infine, ricordiamo che nel comunicato del 22/11/84 del “Fronte Turkesh” si inserì la frase “Via Frattina 1982”108P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, pp. 122, 123. Secondo Marco Accetti si tratterebbe di un riferimento alla camicetta bianca con cui fu vestita la salma di Katy Skerl (“Frattina 1982”).


 

“Phoenix”.

Il 22 settembre 1983 comparve anche una seconda sigla, il “Phoenix”.

Non è noto il motivo di questo nome, Phoenix è la capitale dello stato americano dell’Arizona ma anche il nome di un parco di Dublino (Irlanda) dove Giovanni Paolo II si recò in visita esattamente quattro anni prima.

La caratteristica peculiare di questa sigla furono le minacce rivolte ai sequestratori della Orlandi, quindi presumibilmente al “Fronte Turkesh” e ai tre telefonisti.

Il una lettera del 19/09/83 (documento fatto ritrovare però il 24/09/83) il “Phoenix” disse di aver individuato tramite loro “operatori” «cinque componenti tra cui “P e M”. Uno di loro ha commesso lo sbaglio di “vantarsi” di aver preso parte al prelevamento che è stato molto semplice e rapido con l’uso di una persona “amica”».

Rivolgendosi direttamente ai telefonisti, la sigla li minacciò. A “Pierluigi” fu detto: «E’ assai pericoloso stare in quella trattoria con le spalle verso la porta perché ci sono troppe “correnti d’aria”: un nostro vecchio “amico” ha fatto una brutta fine davanti ad un piatto di spaghetti», riferendosi al fatto che il telefonista disse di chiamare da un ristornate sul litorale romano.

Al secondo telefonista, invece, dissero: «Vogliamo generosamente ricordare a Mario che nella pineta c’è tanto posto per aumentare la vegetazione. La persona amica che ha tradito può assolvere le proprie colpe perché è meglio una confessione oggi che la morte domani, a tutti gli elementi implicati giova ricordare che sono ovunque raggiungibili. Order N.Y. A.D.C.».

In particolare il riferimento alla “pineta” appare piuttosto singolare e specifico come minaccia, un luogo mai citato da “Mario” nella sua telefonata (al contrario del “ristorante” citato da “Pierluigi”). Il reo-confesso Marco Accetti ha sostenuto: «Se io devo fare una minaccia di morte posso dire: ti strozzo, ti accoltello, ti sparo, ti infilo in un pilone di cemento..ma nella pineta mai, non ci penso proprio!»109in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 156.

Per questo l’uomo ritiene che la minaccia della “pineta” sarebbe legata all’omicidio di José Garramon avvenuto esattamente tre mesi dopo (20/09/83) proprio nella pineta di Castel Porziano, dove Accetti investì in circostanze misteriose il giovane.

Minacce al “Fronte Turkesh” comparvero nel messaggio del 27/09/83, quando scrissero di aver deciso di «porre termine, con i mezzi a nostra disposizione, a questa “bravata” farsa turca codice 158 durata troppo tempo». Fu concessa «agli elementi implicati nel prelevamento di Emanuela Orlandi la scelta della propria sorte, se risponderanno esattamente alla richiesta del 6-9-83». In caso contrario «la “sentenza” sarà irrevocabile».

Il 09/10/83, nel loro terzo comunicato il “Phoenix” minacciò nuovamente i sequestratori parlando di un «nostro personale avvertimento al diretti responsabili affinché riportino immediatamente le condizioni naturali di libertà della minore Emanuela Orlandi», altrimenti «estirperemo alla radice questa pseudo organizzazione che, oltre ad essere colpevole di altre situazioni, è causa di spiacevoli inconvenienti».

Pietro Orlandi ha riferito che quando iniziarono a comparire i primi comunicati, fu Giulio Gangi a comunicargli che dietro a “Phoenix”, una delle sigle di presunti rapitori comparse dopo la sparizione di Emanuela, ci sarebbero stati proprio i servizi segreti italiani110P. Orlandi, Mia sorella Emanuela.

Il 30/05/2013, Pino Nicotri ha scritto di aver ricevuto questa risposta da Giulio Gangi in merito alla rivelazione fatta da Pietro Orlandi: «Mi sono limitato a dire: “Boh, forse sono i nostri che cercano di muovere le acque” quando si seppe della prima lettera firmata Phoenix. Oltretutto, io al Sisde ero già stato allontanato dalle ricerche riguardanti Emanuela».

Il 14/11/2013 anche Marco Accetti ha ricondotto “Phoenix” ad alcuni membri del Servizio di Informazioni della Sicurezza Democratica (Sisde).

Non si può escludere che l’interesse fosse solo depistare gli inquirenti e la stampa, usandoli per tenere il caso sotto i riflettori e inviando a presunti interlocutori messaggi o codici da interpretare e decifrare. Le minacce del gruppo Phoenix ad altre sigle e ai primi telefonisti sembra dimostrare l’inserimento nel caso di gruppi con obbiettivi opposti o l’azione dei servizi segreti italiani.


 

“Nomlac”.

Il 03/09/84 apparve anche il Nomlac, cioè la “Nuova organizzazione musulmana per la lotta anticristiana”.

Gli autori della lettera ribadirono le condizioni per il rilascio di Alì Agca avanzate in una lettera giunta tredici giorni prima, sostenendo inoltre che Emanuela Orlandi «non è prigioniera del Fronte di liberazione turco anticristiano» (cioè il “Fronte Turkesh”) e che si troverebbe in Europa. Se le condizioni non saranno rispettate, aggiunsero, la giovane verrà uccisa e ci sarebbero anche stati attentati contro il Vaticano.

Gli autori chiesero in cambio anche una notevole somma di denaro.

Anche in questo caso, come per le precedenti sigle, nessuno credette all’autenticità delle rivendicazioni e l’avvocato degli Orlandi, Gennaro Egidio, replicò dicendo: «Finché non sarà fornita la certezza dell’esistenza in vita di Emanuela, messaggi come questi non dovrebbero meritare molta credibilità». Per il legale si sarebbe trattata della «stessa mente coordinatrice» degli altri comunicati.


 

Fu la Stasi a scrivere i comunicati?

L’ex colonnello della Stasi, Gunther Bohnsack, riferì che furono loro gli autori dietro la sigla “Fronte Turkesh”111F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 17 di questi messaggi e di quelli firmati “Phoenix”: «Ci divertivamo a scriverli in un italiano molto scorretto. Cercavamo così di aiutare i bulgari assurdamente accusati per l’attentato di Agca». E ancora: «Si, li facevamo noi, insieme a colleghi dei servizi segreti bulgari che incontravamo qui a Berlino»112citato in P. Nicotri, Emanuela Orlandi: la verità, p. 109.

Bohnsack confermò in un’altra intervista: «Chiedevamo la liberazione di Ali Agca, l’attentatore del Papa. E uno scambio con la ragazza. Volevamo far credere di essere dei nazionalisti turchi, interessati alla sorte del loro compagno. Ma lo scopo vero era naturalmente quello di stornare l’attenzione dalla Bulgaria». Avrebbero usato il “caso Orlandi” anche per minacciare il giudice Ilario Martella, allora istruttore sull’attentato a Wojtyla e sul rapimento della Orlandi113F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 19.

Secondo Bohnsack, a richiederlo sarebbero stati i servizi segreti bulgari nelle vesti di Jordan Ormankov e Markov Petkov114F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 19 e le lettere non sarebbero partite dalla Germania dell’Est ma da loro referenti di Francoforte e degli Stati Uniti, «il tedesco era scritto con errori per dare l’impressione che si trattasse dei Lupi Grigi»115citato da F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 19.

Le affermazioni di Bohnsack sembrano smentite direttamente da Markus Wolf, capo della Stasi, quando spiegò che nei loro interessi non rientrava Alì Agca, «in quel momento avevamo altri interessi, la Nato, la Germania Ovest, non il Papa». In Vaticano era difficile piazzare spie, un agente infiltrato era il benedettino Eugen Brammertz, utile «per sapere come intendesse muoversi la Curia. Ma più in là non andammo».

Wolf ha rivelato inoltre che nella Stasi c’era la XXesima divisione che lavorava sulla Chiesa, «ma poiché questo ufficio non dava i risultati sperati, lo chiudemmo».

Oltre a queste parole di Wolf, quanto disse Bohnsack è piuttosto controverse.

Al di là dell’italiano scorretto per simulare di essere nazionalisti turchi, perché rendere i comunicati così farneticanti?

Nessuno infatti li prese mai sul serio, né li attribuì ai nazionalisti turchi. Davvero la Stasi pensava di poter passare per fondamentalisti islamici usando il nome “Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh” e “Nuova organizzazione musulmana per la lotta anticristiana”? Davvero non capirono che era un’azione controproducente, che portava l’attenzione proprio laddove tale gruppo cercava di allontanarla, cioè sui bulgari e sull’Est?

La presunta strategia della Stasi, oltretutto, sarebbe stata in contrasto con il comportamento dello stesso Agca il quale, dal momento della scomparsa di Emanuela produsse infinite dichiarazioni deliranti «con l’effetto chiaro di inficiare le acquisizioni sul “livello” turco delle indagini»116richiesta di archiviazione, 2015.

Va considerato inoltre che tali comunicati erano sì sconclusionati, ma contenevano qualche informazione specifica che l’ex colonnello Bohnsack non ha mai spiegato come li avessero ottenuti.

In uno dei komunicati, ad esempio, fu scritto che «Emanuela formulò una frase che rese di ghiaccio suo padre»117Komunicato 22/11/83, episodio -pur abbastanza vago- confermato dal padre Ercole: «Si, mia figlia reagì in modo inconsueto, con una frase pesante nei miei riguardi poco prima della scomparsa».

Inoltre, in che modo i servizi segreti tedeschi sarebbero venuti in possesso della fotocopia della tessera scolastica con la foto di Emanuela e la ricevuta di versamento, allegati ad un comunicato di “Phoenix” del 13/11/83? E’ vero che furono già stati fatti ritrovare il 6/7/83 dall'”Amerikano, ma non era certo materiale reso pubblico e disponibile dalla polizia italiana.

Come mai i servizi segreti italiani (Sisde) non fecero mai riferimento all’inserimento della Stasi? Anzi, in una loro relazione scrissero che i «quattro comunicati del Turkesh e gli altrettanti di Phoenix, infatti, portano ad acclarare l’ipotesi che gli estensori siano a conoscenza di fatti inerenti a Emanuela Orlandi o relativi alla sua vicenda, sconosciuta sia agli organi di stampa che agli stessi presunti rapitori».

Nella requisitoria del Procuratore generale della Corte di Appello, Giovanni Malerba, si legge:

«Alcuni dei comunicati del Fronte Turkesh evidenziano rilevanti connotazioni di autenticità e genuinità in quanto accompagnati da prove foniche e documentali riferibili a Emanuela Orlandi -registrazione di frasi pronunciata dalla giovane, fotocopia di documenti quali la tessera scolastica di Emanuela e lo spartito di esercizi per il flauto, fotocopia di parole e frasi vergate di pugno della medesima ed altresì a Mirella- descrizione dell’abbigliamento anche intimo, della giovane, con dettagli estremamente precisi, noti solamente a chi avesse avuto contatto con costei. Questi i dati certi che andavano al di là della varietà delle sigle di rivendicazione, il cui unico scopo era di sviare le indagini sulla pista fascista e sulla CIA». E’ sorprendente che «le “prove documentali” della disponibilità dell’ostaggio (messaggi autografi, tessera di iscrizione scolastica) fossero in possesso non soltanto di taluno dei gruppi che ne rivendicavano il sequestro, ma anche del contrapposto gruppo Phoenix […]. Tuttavia, al di là delle incoerenze e dei contrasti apparenti, dall’analisi dei messaggi provenienti da coloro che fornivano le più convincenti prove, foniche e documentali, di effettiva disponibilità dell’ostaggio (segnatamente del messaggio recuperato in un furgone RAI in Castelgandolfo), con buona pace dei Lupi Grigi e affini, il contenuto di tali messaggi denota un livello di cultura, di conoscenze, di capacità valutativa di situazioni politiche, diplomatiche e giuridiche italiane e vaticane, per un verso decisamente fuori dalla portata intellettuale delle formazioni che pur si contendevano la rivendicazione dei sequestri e per l’altro riconducibile ad ambiente italiano, o meglio romano»118requisitoria del pm Malerba, 6/08/97.

 

Nel 2014 anche Marco Accetti commentò le parole dell’ex colonnello Bohnsack, scrivendo che nessun documento o testimonianza ha mai confermato tali dichiarazioni, inoltre, pur volendo a suo dire allontanare sospetti dai bulgari,«coloro che si presentavano come gruppo “Phoenix”, si qualificavano come una certa entità mafiosa che minacciava i sequestratori della Orlandi e li esortava a liberarla. E di ciò la “Stasi” non ne aveva chiaramente alcun interesse, in quanto l’unica loro motivazione era accusare i terroristi turchi di aver compiuto l’attentato al Pontefice».

E’ pur vero che il giudice Rosario Priore, che interrogò a lungo Bohnsack, lo ritenne sincero quando gli parlò dell’attività di disinformazione da parte della Stasi per allontanare i sospetti dai bulgari relativamente all’attentato al Papa («per difendere il buon nome dello Stato bulgaro»)119Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, pp. 20,21, tuttavia non c’è mai stata una prova oggettiva di questo né, tanto meno, del fatto che la Stasi intervenne anche nel caso Orlandi.


 

Conclusioni sui comunicati e le varie sigle.

Nella sentenza di proscioglimento del 1997 si evidenziò che con la comparsa di varie sigle dopo il 20/07/83, tra cui il “Fronte Turkesh”, terminò il primo periodo di autenticità del caso (cioè quello dei tre telefonisti).

Se i telefonisti e le varie sigle (“Phoenix”, “Turkesh”, “Nomlac”, “Tukum” ecc.) che rivendicarono il rapimento di Emanuela avessero davvero voluto ottenere il ritiro delle accuse di Agca verso i paesi dell’Est, la sua liberazione e il recupero dei soldi spariti con il crack del Banco Ambrosiano, perché non dimostrarono in maniera certa di aver sequestrato la Orlandi?

Certo, come abbiamo visto si sforzarono di produrre dettagli biografici piuttosto precisi di Emanuela, come diverse fotocopie di tessere e iscrizioni alla scuola di musica e una fotocopia del frontespizio di un album con gli spartiti alla giovane.

Molto più semplicemente sarebbe bastata una fotografia di Emanuela con a fianco un quotidiano che mostrasse la data, il classico metodo utilizzato da tutti i gruppi terroristici per stabilire una prova di vita degli ostaggi e negoziare con le autorità per le loro richieste.

I casi sono tre:

1) I presunti sequestratori (telefonisti e autori dei comunicati) avevano solo carpito in qualche modo oggetti e informazioni dettagliate sulla Orlandi senza aver nulla a che vedere con la sua sparizione;

2) I presunti sequestratori (telefonisti e autori dei comunicati) erano entrati in contatto con chi aveva sequestrato Emanuela Orlandi per motivi estranei al ricatto internazionale (nella sentenza di proscioglimento del 1997 si sospettò infatti che ci potesse essere stato «un contatto con il gruppo che per primo aveva ottenuto e utilizzato le informazioni su Emanuela, per appropriarsene e riciclarle a sua volta»120G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 5);

3) I presunti sequestratori (telefonisti e autori dei comunicati) effettivamente erano tali ma non avevano interesse ad un ricatto pubblico con i loro interlocutori e usarono i media soltanto per lanciare allusioni ricattatorie (messaggi, codici ecc.), mentre la vera trattativa sarebbe avvenuta sotto traccia. D’altra parte Agca ritirò le sue accuse due giorni dopo la sparizione della Orlandi, leggendovi un messaggio nei suoi confronti per motivi inspiegabili all’opinione pubblica ma nonostante ciò la Orlandi non fu rilasciata e pochi anni dopo il turco tornò ad accusare i servizi bulgari.

 

 

1.10 Il progetto di sequestro di altri cittadine vaticane

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Il 24/07/1984, un anno dopo la sparizione di Emanuela (e Mirella) avvenne la deposizione ai carabinieri di Raffaella Gugel, figlia di Angelo Gugel, aiutante di camera del Papa.

Ecco la testimonianza di Raffaella Gugel:

«Dopo alcuni giorni che il Santo Padre fu attentato dal terrorista turco, mio padre mi disse di stare attenta per la strada perché per la città del Vaticano erano circolate voci di un possibile rapimento di un cittadino vaticano in cambio del terrorista turco Alì Agca […]. In quel periodo io andavo a scuola in Corso Vittorio Emanuele II, istituto tecnico commerciale “Vincenzo Gioberti”, e ogni mattina alle ore 8,15 prendevo l’autobus 64 dal capolinea, ubicato nella piazza quasi di fronte all’ingresso di Porta Sant’Anna. Alla fermata successiva al capolinea saliva a bordo un uomo sui 28-30 anni, in giacca e pantaloni sportivi, il quale prendeva posto a sedere e notavo che mi osservava ripetutamente. Questo episodio si è verificato quasi ogni mattina. Preciso che nell’arco di una settimana succedeva tre giorni di fila, poi vi era una pausa di un giorno. E successivamente, gli altri 2, 3 giorni, rincontravo quest’uomo. Fin dai primi “incontri” con questo uomo sull’autobus riferii l’episodio a mio padre. Questi incontri durarono due o tre settimane, ma alla fine non lo vidi più. Posso riferire i dati somatici di quest’uomo. Era alto un metro e 80, corporatura snella, carnagione scura, tipo nazionalità turca, capelli scuri ricci con occhi scuri»121citata in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 6.

 

Quando il padre Angelo Gugel venne a sapere dei pedinamenti a sua figlia, interruppe la frequentazione della scuola delle figlie.

Interrogato nel 1995, Ercole Orlandi spiegò di essersi dato inizialmente come motivazione del sequestro di Emanuela una confusione con la figlia di Gugel, dovuta al fatto che lui e il padre della ragazza si somigliavano notevolmente122R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 140.

 

Nel seguente video si sospetta che i sequestratori possano aver sbagliato persona, tra la Orlandi e la Gugel, condizionati dalla forte somiglianza dei rispettivi padri:

 

Il magistrato Ferdinando Imposimato riferì anche che secondo i rapporti dei Carabinieri, vi furono pedinamenti non soltanto di Raffaella Gugel ma anche della sorella Flaviana Gugel e della figlia del Capo della sicurezza del Vaticano, Camillo Cibin. Fu testimoniato anche da un dipendente della polizia vaticana123F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 6.

Secondo Marco Accetti, reo-confesso di aver orchestrato l’allontanamento di Emanuela, questi pedinamenti così “appariscenti” sarebbero iniziati dal 1981 per evitare la collaborazione tra Alì Agca e gli inquirenti, rassicurando l’attentatore e facendogli credere che si stava organizzando un sequestro di cittadini vaticani da contraccambiare con la sua scarcerazione124M. Accetti, Memoriale, 2014.

A pedinare la Gugel, sostenne Marco Accetti, sarebbe stato lo stesso uomo che verrà fatto incontrare sia a Mirella che Emanuela il giorno della loro sparizione: «Si trattava di un estremista islamico tra i tanti rifugiati in Europa, ce n’erano in Germania, Svizzera, Francia, che aveva orientamento diverso, rispetto ai vari Agca o Celebi si poteva considerare di sinistra. Fecero da tramite i nostri referenti della nunziatura in Turchia e il sindacato di polizia Pol-Der, lo stesso che aveva intercettato le voci di attentato»125in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 102.


 

Conclusioni sui pedinamenti ad altre cittadine vaticane.

La grande domanda è perché di questi pedinamenti non fu avvertita anche la famiglia Orlandi. Avrebbe dovuto farlo la Gendarmeria, ma anche gli stessi Gugel e Cibin non avvisarono Ercole Orlandi, nonostante abitassero nella stessa palazzina. Come mai?

I Carabinieri che accolsero le deposizioni e tutti i giornalisti che si sono occupati del caso non hanno mai indagato in merito in tutti questi anni?

 

 

1.11 Gli appelli di Giovanni Paolo II

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Dieci giorni dopo la sparizione di Emanuela Orlandi, il 03/07/83, Giovanni Paolo II lanciò, in modo sorprendente, un appello pubblico perché Emanuela potesse tornare «non perdendo la speranza nel senso di umanità di chi abbia responsabilità in questo caso».

Fu un chiaro accenno al rapimento, anche se fino ad allora le autorità ritenevano si trattasse di una scappatella volontaria. Erano infatti giunte solo le telefonate di “Pierluigi” e “Mario”, mentre quella dell”Amerikano” arrivò due giorni dopo l’appello papale, a suggello della pista del rapimento a scopo ricattatorio.

Seguirono altri 7 appelli che portarono inevitabilmente l’attivazione della magistratura, dei servizi segreti e il caso Orlandi divenne noto in tutto il mondo.

 

Qui sotto la voce di Giovanni Paolo II nel primo appello sul caso Orlandi:

 

Per lo scrittore Pino Nicotri l’intervento di Papa Wojtyla e il successivo dell’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini, furono fatali in quanto avrebbero fatto capire a tutti, soprattutto ai comunisti sovietici e alla Stasi, un punto debole di cui approfittarsi.

Nicotri lo definì un ingenuo passo falso, di fatto una “condanna a morte” per Emanuela. Ha tuttavia sospettato che il Pontefice sapesse già della morte di Emanuela e quindi non avesse timore di aggravare la situazione con i suoi appelli. Quest’ultima, in particolare, è un’affermazione priva di alcuna prova o dimostrazione.

Nel 2023 Nicotri ha precisato meglio riconoscendo che «quegli appelli il Papa li fece per generosità»126P. Nicotri, in Caso Orlandi, «la pista amical-parentale è la più credibile», La NBQ, 14/07/2023.

Il fratello Pietro Orlandi ha sempre apprezzato l’intervento di Wojtyla: «Si rivolse a chi aveva “responsabilità in questo caso”, quando le autorità italiane non si erano praticamente mosse». Il Papa, scrive Pietro, doveva avere buoni motivi per esporre la Chiesa a un prezzo tanto alto: assedio mediatico sulla “ragazzina cara al pontefice”, l’oscuramento dei suoi successi come capo di Stato, subbuglio internazionale e dei servizi di sicurezza127P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 87.

Sempre Pietro Orlandi ha raccontato che il 27/07/83 Giovanni Paolo II convocò i genitori e, in lacrime, parlò per la prima volta di “un`organizzazione terroristica”. Altrettanto fece il 24/12/83 quando visitò gli Orlandi per gli auguri natalizi: «Cari Orlandi, voi sapete che esistono due tipi di terrorismo, uno nazionale e uno internazionale. La vostra vicenda è un caso di terrorismo internazionale».

Il reo-confesso Marco Accetti ha sostenuto invece che il Papa non sarebbe stato informato correttamente e chi preparò l’appello del 3 luglio lo avrebbe portato su piste confondenti volendo «sottrarsi alla nostra minaccia di rivelare pubblicamente la “realtà” relativa al “sequestro”, rendendolo a loro volta pubblico. Ci anticipano nella nostra intenzione, sia pur virtuale, rendendolo di pubblico dominio. Dichiarano in questo modo che trattasi di un qualcosa di “esterno”, un rapimento qualunque, cosicché la Città del Vaticano risulta esserne estranea, senza responsabilità alcuna. È anche un modo di dichiarare che non accettano le nostre istanze»128M. Accetti, Memoriale, 2014.

Il magistrato Ferdinando Imposimato, al contrario, riferì dei suoi incontri con Giovanni Paolo II:

«La sua convinzione era che Emanuela Orlandi fosse stata vittima di un complotto internazionale. So che lui ha avuto un grande trauma per il sequestro di Emanuela Orlandi, perché capiva che, pur non essendo colpevole del sequestro – ci mancherebbe altro – questo era comunque collegato all’attentato, era un fatto commesso contro di lui. Quindi lui era la causa del sequestro, anche se ovviamente non ne era responsabile. Lui mi ha sempre manifestato, anche indirettamente attraverso i suoi collaboratori, apprezzamento per quello che stavo facendo nella ricerca della verità»129F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 20.


 

Conclusioni sugli appelli di Giovanni Paolo II.

Come si è visto vi sono state diverse reazioni agli appelli del Papa, dal definirli un passo falso al vederli come atti di coraggiosa generosità e preoccupazione.

Conoscendo l’estrema prudenza della Santa Sede nell’intervenire su specifici casi riteniamo che tali appelli fossero motivati da elementi di urgente necessità, dovuta a indagini interne o a informazioni carpite da fonti affidabili che convinsero le autorità vaticane a orientarsi in direzione del sequestro prima di chiunque altro.

Non è pensabile altrimenti l’aver corso il rischio di una figuraccia internazionale per una tale esposizione papale se non si fosse stati in qualche modo sicuri che non si trattava di una semplice scappatella.

E’ anche possibile la lettura fatta da Marco Accetti, cioè un modo di rendere pubblica una vicenda per sottrarsi a una trattativa che avrebbe avvantaggiato i malintenzionati se fosse rimasta sotterranea.

Tra tutte le ipotesi, queste due paiono le più verosimili.

 

 

1.12 Il ruolo del Vaticano

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Il periodo in cui avvenne la sparizione di Emanuela Orlandi fu decisivo per l’Europa, la quale viaggiava verso la caduta del muro di Berlino e la posizione del Vaticano era (e fu) determinante in tutto questo.

La Chiesa cattolica in quel periodo era impegnata fortemente nel sostenere e finanziare la nascita e la resistenza pacifica del sindacato polacco di Solidarnosc, universalmente riconosciuto per essere stato l’artefice della democrazia in Polonia e del crollo del regime comunista in tutti i Paesi del Patto di Varsavia. Il leader del sindacato, Lech Walesa, fu insignito del Premio Nobel per la Pace.

Nello Stato Pontificio vi furono tuttavia due linee guida opposte, una guidata dal card. Agostino Casaroli, segretario di Stato, propenso al dialogare con il comunismo, l’altra, guidata dal polacco Papa Wojtyla, orientata alla contrapposizione aperta. La storia ha decretato che l’orientamento di Giovanni Paolo II fu vincente e determinante per l’implosione (misteriosamente) non violenta dell’Unione Sovietica.

E’ in questo contesto che molti hanno collocato la sparizione di una cittadina vaticana, evento mai avvenuto né prima, né dopo. Non si può trascurare il fatto che il giorno della scomparsa di Emanuela, il 22 giugno 1983, Giovanni Paolo II si trovasse proprio in Polonia.


 

Mancata collaborazione del Vaticano?

Una tradizione instancabilmente ripetuta da decenni vuole che il Vaticano abbia scarsamente collaborato con le autorità italiane nel caso Orlandi. La famiglia, alcuni magistrati e molti giornalisti lamentano costantemente l’eccessiva prudenza e gli eccessivi silenzi delle autorità vaticane.

Tra i più autorevoli esponenti di queste lamentele vi fu il giudice istruttore Adele Rando quando scrisse che «l’apporto istruttorio delle rogatorie introdotte davanti all’Autorità Giudiziaria della citta del Vaticano, lungi dal soddisfare i quesiti per i quali le stesse erano state proposte, si traduce nella conferma di alcuni interrogativi che hanno imposto la scelta processuale dello stralcio».

Più recentemente anche l’ex procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Capaldo, si è unito al coro di proteste per «la scarsa anzi nulla collaborazione da parte del Vaticano»130G. Capaldo, intervista al programma Atlantide di La7, 21/06/23.

Adele Rando e Giancarlo Capaldo, proprio i giudici responsabili delle due archiviazioni sul caso Orlandi a causa delle loro inconcludenti indagini.

Le parole di Adele Rando furono smentite dal collega Rosario Priore, titolare dell’inchiesta sull’attentato al Papa del 1985, il quale si confrontò a lungo con il card. Silvio Oddi, allora prefetto della Congregazione per il clero. Interrogato nel 2005, Priore ricordò che Oddi «fu di una gentilezza assoluta perché ci aiutò nella ricostruzione del sequestro Orlandi (lo interrogai insieme alla collega titolare di quel procedimento, il giudice Rando)»131Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, p. 12.

Inoltre, è noto che le indagini di Adele Rando (assieme al’ex prefetto Vincenzo Parisi, capo della Polizia dal 1987 al 1994) sul caso Orlandi non portarono ad alcuna certezza nonostante la stretta vicinanza temporale ai fatti, trascurando diverse piste investigative (quella di Bolzano si interruppe non appena emerse la presenza di un funzionario del SISMI, servizi segreti italiani132S. Petrone, Rispoli: Orlandi, indagare sulla pista di Terlano, Alto Adige, 13/05/2011) ed acquisendo tre faldoni top secret, sempre del SISMI, sulla Orlandi senza mai consegnarli agli atti d’indagine e alla famiglia, tanto che ancora oggi risultano scomparsi133Emanuela Orlandi, scomparsi tre fascicoli raccolti dal Sismi, Repubblica, 01/11/2021.

Per quanto riguarda Giancarlo Capaldo, le responsabilità furono ancora maggiori in quanto la sostanziale inattività investigativa costrinse l’allora procuratore Giuseppe Pignatone ad avocare a sé l’indagine per decretarne l’archiviazione. Gli accertamenti di Capaldo nei confronti di Marco Accetti, ad esempio, furono assolutamente minimali e insufficienti, arrivando ad esempio a liquidare un’intercettazione telefonica altamente compromettente tra l’uomo e la sua ex moglie solamente perché il primo definì “pazza” la donna mentre lo minacciava di rivelare alla polizia il suo coinvolgimento nel caso Orlandi se non avesse accettato i termini di affidamento della figlia.

Tra le enormi mancanze dell’ex magistrato Capaldo vi fu anche l’aver costantemente ignorato gli esposti in Procura dell’avvocato di Accetti riguardo al trafugamento della bara di Katy Skerl dal Cimitero del Verano, verità accertata soltanto nel 2022, ben 7 anni dopo.

Questi ex magistrati sembrano aver voluto scaricare sul Vaticano le responsabilità della non risoluzione del caso Orlandi, al posto di riconoscere la forte lacunosità delle loro indagini investigative.

Nel 2008 il magistrato Gianluigi Marrone, giudice unico della Città del Vaticano dal 1991 al 2009, parlò di «false polemiche» legate alla collaborazione vaticana, assicurando personalmente «che il Vaticano non ha mai risposto negativamente a una richiesta di rogatoria». Sul caso Orlandi «sono stato coinvolto spesso nella preparazione di queste rogatorie e, per quel che mi compete, le assicuro che tutte hanno avuto regolare risposta. Altro è, naturalmente, se la risposta viene ritenuta soddisfacente o no. Non si può dire che il Vaticano non ha collaborato o, peggio ancora, continuare a dire che non c’è mai stata collaborazione con la magistratura italiana»134G. Marrone, Tre piccoli furti e rogatorie internazionali, L’Osservatore Romano, 06/07/2008.

Al di là di questo, certamente il Vaticano non ha mai avuto un ruolo attivo nelle indagini, al contrario di quanto avvenuto nel 2023 con l’apertura di un’inchiesta guidata dal promotore di giustizia Alessandro Diddi. L’annuncio del Vaticano di intraprendere le indagini risale al 9/01/2023, dieci giorni dopo la morte di Joseph Ratzinger (ma annunciate pubblicamente nell’aprile 2023)135F. Pinotti, G. Capaldo, La ragazza che sapeva troppo, Solferino 2023, p. 13 136F. Pinotti, Sul caso Orlandi il Papa vuole piena verità. Il mondo ci guarda: non nasconderemo nulla, Corriere della Sera, 10/04/2023.

Uno dei principali esperti del caso Orlandi, il giornalista Pino Nicotri ha tuttavia sostenuto che lo scambio epistolare tra il card. Casaroli e il padre spirituale di Natalina Orlandi riguardante gli abusi subiti da quest’ultima da parte dello zio Meneguzzi «consente di scoprire che il Vaticano, perennemente accusato da tutti di reticenza, in realtà ha trasmesso i documenti – compresa l’informativa relativa a quest’episodio del 1978 – alle autorità italiane»137P. Nicotri, in Caso Orlandi, «la pista amical-parentale è la più credibile», La NBQ, 14/07/2023.

Inoltre, ha proseguito Nicotri, «sappiamo che il Vaticano all’epoca delle indagini permise ai servizi segreti italiani di controllare le telefonate sul proprio territorio. Sarebbe interessante sapere che fine hanno fatto le relazioni degli agenti italiani su quanto ascoltato nelle intercettazioni ai centralini vaticani. Si può dire che il Vaticano ha collaborato oltre il proprio dovere»138P. Nicotri, in Caso Orlandi, «la pista amical-parentale è la più credibile», La NBQ, 14/07/2023.

Va sempre tenuto presente che i “segreti di Stato” esistono da sempre per qualunque nazione, Italia compresa, e da un certo punto di vista è anche giusta una simile tutela interna. Inoltre, come ricordato dal giudice Rosario Priore, non esiste alcun trattato di assistenza giudiziaria fra lo Stato italiano e la Santa Sede139R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 28/09/2005, p. 18, al di là di norme di cortesia.

La collaborazione tra Stati non è mai semplice, a volte addirittura conflittuale. La Francia, ad esempio, nascose addirittura Oral Celik ben sapendo chi fosse e che era ricercato dall’Italia per l’attentato a Giovanni Paolo II140F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 12 141A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 31/05/2005, p. 9.


 

L’indagine interna di padre Federico Lombardi.

Nel febbraio 2012 nell’ambito di Vatileaks, emerse un appunto riservato scritto da padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede e probabilmente destinato a mons. Georg, segretario di Ratzinger.

In esso si avanzarono alcune perplessità sulla scarsa collaborazione con le autorità italiane (almeno in alcune delle forme richieste – rogatorie, deposizione Bonarelli), domandandosi se «fosse una normale e giustificata affermazione di sovranità vaticana, o se effettivamente si fossero mantenute riservate delle circostanze che avrebbero potuto aiutare a chiarire qualcosa».

In seguito, padre Lombardi svolse una personale indagine interna per sincerarsi dell’esistenza o meno di documenti o testimoni, pubblicando i risultati il 4/04/2012.

Il portavoce dalla Santa Sede ricordò l’interessamento di Giovanni Paolo II e del card. Agostino Casaroli, segretario di Stato, tanto da mettere a disposizione per i contatti con i rapitori con una linea telefonica particolare. Dalla sua verifica appurò che «non solo la segreteria di Stato stessa, ma anche il Governatorato furono impegnati nel fare tutto il possibile» per collaborare con gli inquirenti, «a cui spettava evidentemente la competenza e la responsabilità delle indagini, essendo il sequestro avvenuto in Italia. La piena disponibilità alla collaborazione da parte delle personalità vaticane che a quel tempo occupavano posizioni di responsabilità, risulta da fatti e circostanze».

Padre Lombardi scrisse che «tutte le lettere e le segnalazioni pervenute in Vaticano furono prontamente girate al Dott. Domenico Sica e all’Ispettorato di P.S. presso il Vaticano, si presume che siano custodite presso i competenti uffici giudiziari italiani». Rispetto alle tre rogatorie indirizzate alle autorità vaticane nella seconda fase dell’inchiesta (una nel 1994 e due nel 1995), esse «trovarono risposta (note verbali della segreteria di Stato N. 346.491, del 3 maggio 1994; N. 369.354, del 27 aprile 1995; N. 372.117, del 21 giugno 1995)».

Il tribunale vaticano ascoltò inoltre i soggetti indicati dalla magistratura italiana (Ercole Orlandi, Camillo Cibin, card. Agostino Casaroli, mons. Eduardo Martinez Somalo, mons. Giovanni Battista Re, mons. Dino Monduzzi, mons. Claudio Maria Celli) e le loro deposizioni vennero inviate alle autorità richiedenti e «i relativi fascicoli esistono tuttora e continuano a essere a disposizione degli inquirenti». Padre Lombardi ricordò infine la concessione vaticana alla autorità italiane di accedere al centralino e porre sotto controllo i telefoni di cittadini vaticani «senza alcuna mediazione» di funzionari vaticani.

La dettagliata nota del portavoce vaticano si concluse respingendo le ingiuste accuse di mancata collaborazione, riportando la sensazione che «non si ebbe in Vaticano alcun elemento concreto utile per la soluzione del caso da fornire agli inquirenti». L’opinione prevalente delle autorità vaticane fu che il sequestro fosse utilizzato «da una oscura organizzazione criminale per inviare messaggi od operare pressioni in rapporto alla carcerazione di Alì Agca e agli interrogatori dell’attentatore del papa. Non si ebbe alcun motivo per pensare ad altri possibili moventi del sequestro».

Infine, padre Lombardi lamentò che «l’attribuzione di conoscenza di segreti attinenti al sequestro stesso da parte di persone appartenenti alle istituzioni vaticane, senza indicare alcun nominativo, non corrisponde quindi ad alcuna informazione attendibile o fondata; a volte sembra quasi un alibi di fronte allo sconforto e alla frustrazione per il non riuscire a trovare la verità».

A conferma di ciò, il capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, mostrò apprezzamento per la nota vaticana con queste parole: «Accolgo con soddisfazione le dichiarazioni di padre Lombardi».


 

Esiste un dossier Orlandi all’interno del Vaticano?

Certamente non è mai stato chiarito se le autorità vaticane abbiano creato o meno un dossier Orlandi, contenente elementi d’indagine interna.

Alla rogatoria del marzo 1995, ad esempio, le autorità vaticane risposero di non avere mai avuto registrazioni o trascrizioni delle telefonate provenienti dall’”Amerikano”, ma agli atti dell’archiviazione del 1997 è presente la testimonianza di mons. Francesco Salerno, consulente legale presso la Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede, il quale «in ordine alle telefonate pervenute sull’utenza riservata (al caso Orlandi, ndr) nonché agli inutili tentativi di identificare gli sconosciuti interlocutori, riteneva che proprio quest’ultima circostanza provasse l’esistenza di qualche informatore interno alla Segreteria di Stato».

Lo stesso mons. Salerno «esprimeva la personale convinzione che negli archivi della stessa segreteria fossero custoditi documenti inerenti al caso»142sentenza di archiviazione del giudice ispettore Adele Rando 1997, p. 85.

Nella richiesta di archiviazione del 2015 della Procura di Roma si legge «l’esistenza o meno di un fascicolo vaticano relativo ad Emanuela Orlandi risulta smentita dalle indagini per altro verso svolte», riferendosi alle dichiarazioni del 2005 di mons. Bruno Bertagna che, «in qualità di addetto presso la Segreteria di Stato prima e di Segretario Generale del Governatorato poi, escluse l’espletamento di indagini sulla vicenda all’interno della Città del Vaticano»143G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015.

Nel 2023 l’arcivescovo Georg Gaenswein, ex segretario di Benedetto XVI, ha ricordato di aver parlato a lungo con Pietro Orlandi e aver fatto fare in Vaticano «un promemoria su quale fosse la situazione allora riguardo a Emanuela Orlandi». Fu realizzato «un appunto, si vedeva che non c’era niente di nuovo. Poi lo stesso Orlandi ha detto in un’intervista che io avrei un dossier. Non è vero, non ho alcun dossier. Se lui pensa a questo appunto, che poi ho dato a Papa Benedetto, di questo si tratta»144Don Georg chiarisce: non esiste un dossier vaticano su Emanuela Orlandi, feci redigere un appunto per Papa Ratzinger su tutte le cose note, Il Faro di Roma, 17/04/2023.

Queste affermazioni non sembrano coerenti con le parole del promotore di giustizia vaticana Alessandro Diddi, il quale ha invece basato la sua inchiesta su documenti e carte vaticane, «tante, tantissime, ho avuto modo di leggerle e analizzarle. Ci sono state anche acquisizioni interne di carte vecchie, vecchissime, impolverate. E altre ne sto cercando ancora»145citato in F. Pinotti, Sul caso Orlandi il Papa vuole piena verità. Il mondo ci guarda: non nasconderemo nulla, Corriere della Sera, 10/04/2023.


 

Conclusioni sul ruolo del Vaticano.

Le opinioni sulla collaborazione o meno del Vaticano alle indagini della magistratura italiana nel caso Orlandi sono varie e contrastanti tra loro.

Dall’accusa di scarsa o nulla collaborazione lamentata da alcuni magistrati e dai famigliari alla difesa delle autorità vaticane e all’attestazione di «collaborazione oltre il proprio dovere»146P. Nicotri, in Caso Orlandi, «la pista amical-parentale è la più credibile», La NBQ, 14/07/2023 sottolineata da Pino Nicotri.

Da quanto emerso si può riassumere così l’intervento del Vaticano:

  • Proclamazione di otto appelli pubblici ai sequestratori da parte di Giovanni Paolo II per la liberazione di Emanuela (1983-1984);
  • Concessione alle autorità e ai servizi segreti italiani di accedere liberamente al centralino e porre sotto controllo i telefoni di cittadini vaticani (1983-1984);
  • Concessione alla creazione immediata di una linea diretta tra la Segreteria di Stato e i presunti sequestratori (1983);
  • Risposta alle tre rogatorie italiane (1994 e 1995);
  • Escussione di diversi cittadini vaticani su richiesta delle autorità italiane (Ercole Orlandi, Camillo Cibin, card. Agostino Casaroli, mons. Eduardo Martinez Somalo, mons. Giovanni Battista Re, mons. Dino Monduzzi, mons. Claudio Maria Celli) e relativo invio delle deposizioni alle autorità richiedenti;
  • Indagine interna da parte di padre Federico Lombardi (2012);
  • Creazione di un appunto sulla documentazione relativa alla Orlandi fatto realizzare da mons. Georg Gaenswein e consegnato a Benedetto XVI;
  • Apertura di un’inchiesta ufficiale voluta da Papa Francesco e guidata dal promotore di giustizia Alessandro Diddi (2023);

 

Riteniamo che padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, abbia risposto in modo documentato, completo e credibile a tutti i sospetti sul ruolo del Vaticano in questo drammatico caso.

Sottolineiamo infine che Pino Nicotri, storico giornalista del caso Orlandi e autore di almeno 3 libri sulla scomparsa di Emanuela, si è convinto nel corso degli anni della non responsabilità del Vaticano. Replicando a coloro che accusano (senza prove) Giovanni Paolo II e Benedetto XVI di qualche responsabilità, ha affermato: «Io che sono sempre stato piuttosto anticlericale, o comunque un non filo clericale, a fronte di tante idiozie contro gli ultimi tre papi e il Vaticano in generale non vorrei dover diventare un filo clericale accanito»147P. Nicotri, Messaggio su Facebook, 02/08/2023.

 

 

1.13 I genitori di Emanuela e la Sala Borromini

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Un ennesimo aspetto controverso della vicenda Orlandi è dove fossero realmente i genitori di Emanuela il giorno della scomparsa. Nei verbali si legge che riferirono che quel giorno rientrarono a casa dopo le 19. Ma prima dove si trovarono?

Al centro di questo equivoco c’è il giornalista Gian Paolo Pelizzaro, storica firma de L’Indipendente che si occupò del caso Orlandi dagli anni Novanta. E’ lui che ha raccontato la vicenda148G.P. Pelizzaro, Dichiarazione su Facebook, 15/05/2023.

Nel dicembre 1993 oltre a intervistare il vigile Alfredo Sambuco, raccolse varie informazioni sulla Orlandi scoprendo che quando Emanuela telefonò a casa, poco prima della scomparsa, «non riuscì a parlare con la madre poiché era andata a seguire un saggio di danza della sorella piccola, Cristina, alla sala Borromini».

Un dettaglio oggi sorprendente, che contrasta con quanto si è sempre saputo.

Nel 1994, Pelizzaro fu invitato a casa degli Orlandi dopo aver diffuso il rapporto del SISDE (datato 14/11/1983) che identificava l'”Amerikano” in un alto prelato. Ripercorrendo la giornata della scomparsa di Emanuela, la madre disse: «Lasciammo Emanuela a casa. Noi dovevamo andare a Fiumicino. Sapeva che saremmo tornati nel tardo pomeriggio. In casa era rimasta la sorella maggiore Federica».

Essendo in contraddizione con quanto raccolto dalle sue fonti, cioè che si sarebbero recati al saggio di danza di Cristina alla sala Borromini, il giornalista chiese un chiarimento ed Ercole Orlandi rispose che qualcuno si era sbagliato perché loro due, quel giorno, andarono a Fiumicino ad aiutare Eugenio, il fratello di Ercole, per fare dei lavori.

Nel 2011 Pietro Orlandi, nel suo libro Mia sorella Emanuela, riportò una terza versione, non necessariamente incompatibile: sua mamma, subito dopo pranzo, avrebbe iniziato a preparare l’impasto per la pizza da mangiare a cena, poi i genitori sarebbero usciti149P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, EdizioniAnordes 2011, pp. 43-48.

Pelizzaro riferisce che la notizia sul saggio di Cristina Orlandi alla sala Borromini fu ripresa anni dopo da Repubblica, l’8/10/1997, nell’articolo intitolato: “Orlandi, ultimo colpo di scena”: «La madre non è in casa, ma si trovava alla sala Borromini per seguire un saggio di danza della sorella più piccola, Cristina. Emanuela parla con la sorella maggiore, Federica. Sono le sue ultime parole, dopo quella conversazione la ragazza scompare».

Il giornalista de L’Indipendente respinse l’idea che l’autore stesse attingendo al suo articolo, in quanto scriveva in ambito giudiziario-investigativo: «L’articolo, corredato da un ampio box, riguardava la requisitoria dell’allora sostituto procuratore generale Giovanni Malerba, con la richiesta di archiviazione dell’inchiesta indirizzata dal giudice istruttore Rando».

Dove si trovavano davvero i genitori nel pomeriggio del 22/06/1983? A Fiumicino o al saggio di Cristina alla Sala Borromini, luogo citato nella telefonata di Emanuela e distante solo 300 metri dal luogo in cui la giovane scomparve?

E se Cristina Orlandi era al saggio di danza, come poteva essere davanti al Palazzaccio alle 19 con alcuni amici, in attesa di Emanuela, come si è sempre detto? Raggiunse il luogo una volta finita l’esibizione?

Il reo-confesso Marco Accetti ha riferito che il codice relativo alla Sala Borromini usato da Emanuela nella telefonata avrebbe indicato la figura di Francesco Pazienza, agente SISMI, all’epoca residente nel centro di Roma vicino alla Sala Borromini, appunto. Inoltre, il vigile urbano Alfredo Sambuco raccontò di aver riconosciuto Emanuela nella giovane che quel pomeriggio del 22 giugno gli chiese dove si trovasse la Sara Borromini.

 
 

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2. EMANUELA ORLANDI E LA PISTA SESSUALE.

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La prima pista investigativa da analizzare è quella più antica, la cosiddetta pista sessuale.

Nessuno ha mai sostenuto l’ipotesi di un rapimento violento di Emanuela e Mirella, soprattutto perché entrambe scomparvero in orario diurno e in zone molto trafficate (il bar dei De Vito, per Mirella, e la fermata dell’autobus, per Emanuela). Un sequestro contro la loro volontà avrebbe avuto quantomeno dei testimoni oculari.

L’ipotesi è che entrambe si sarebbero allontanate volontariamente per vari motivi e avrebbero trovato la morte dopo essere finite in giri pericolosi a sfondo sessuale. Successivamente, gli stessi criminali avrebbero usato la scomparsa per operare ricatti e perseguire altri tipi di obbiettivi.

Nel 2012 Nicotri riportò testimonianze (anonime) sulle frequentazioni di Emanuela e sul suo uso di droghe, all’interno di circuiti sessuali (la morte sarebbe causata da un’overdose all’interno di un festino). A parlare di “comitive di amici” frequentate con fin troppa libertà da Emanuela sarebbe stato anche l’avv. Gennaro Egidio, legale degli Orlandi, nelle telefonate con lui. Lo stesso sarebbe avvenuto a Mirella Gregori150P. Nicotri, Emanuela Orlandi: drogata e morta in mano a pedofili di rango molto alto?, BlitzQuotidiano, 14/06/2012.

Nel 2017 il giornalista sostenne che Emanuela potrebbe essere stata fermata per strada il giorno della sparizione da qualcuno che conosceva di vista, con la falsa promessa di un provino. Inoltre avvalorò le parole espresse da Silia Vetere, compagna di classe di Emanuela, nella deposizione ai carabinieri del 2008151P. Nicotri, Emanuela Orlandi, 34 anni fa, una pista affiora dalle carte giudiziarie ma ormai, BlitzQuotidiano, 22/06/2017.

La Vetere riferì infatti che Emanuela era svogliata e andava male a scuola (fu effettivamente rimandata in due materie, latino e francese), voleva trovarsi un lavoro. L’ex compagna confermò così la sua testimonianza del 1983, ricordando che Emanuela saltava spesso scuola nel periodo precedente alla sparizione, firmando da sola le giustificazioni. Non ricordò però se le assenze si intensificarono nel periodo precedente alla sua scomparsa e disse comunque di non vederla mai truccata né noto alcun cambiamento negli ultimi anni152P. Nicotri, Emanuela Orlandi, 34 anni fa, una pista affiora dalle carte giudiziarie ma ormai, BlitzQuotidiano, 22/06/2017.

Nicotri si stupì che di questi comportamenti di Emanuela, testimoniati dalla compagna di classe, non abbiano mai parlato i famigliari, pur avendo sicuramente letto gli atti giudiziari.

Un altro elemento a supporto di questa pista è il documento del SISDE (servizi segreti) del luglio 1983 in cui si parlò dei fatti avvenuti nell’inverno del 1983, quando «Emanuela Orlandi e le sue più strette amiche del quartiere, a casa di una di loro e in almeno due occasioni, erano entrate in contatto con alcuni ragazzi più grandi in quel momento a Roma perché impegnati nel servizio di leva. Questi ventenni godevano però di cattiva reputazione in quanto dediti ad abbordare ragazze nella zona di piazza San Pietro, a consumare stupefacenti e, in almeno un caso, a prostituirsi»153citato in T. Nelli, Atto di dolore, 2016.

Nel 2012 l’esorcista padre Gabriele Amorth sostenne questa tesi, affermando:

Come dichiarato anche da monsignor Simeone Duca, archivista vaticano, venivano organizzati festini nei quali era coinvolto come “reclutatore di ragazze” anche un gendarme della Santa Sede. Ritengo che Emanuela sia finita vittima di quel giro. Non ho mai creduto alla pista internazionale, ho motivo di credere che si sia trattato di un caso di sfruttamento sessuale con conseguente omicidio poco dopo la scomparsa e occultamento del cadavere. Nel giro era coinvolto anche personale diplomatico di un’ambasciata straniera presso la Santa Sede»154citato in G. Galeazzi, Padre Amorth: “Orlandi, fu un delitto a sfondo sessuale”, La Stampa, 22/05/2012.

 

La strumentalizzazione successiva potrebbe anche essere stata architettata da gruppi estranei al crimine sessuale che, una volta appresa la notizia della scomparsa, avrebbero deciso di innestarsi usandola per i propri interessi.

Schematizzando, l’ipotesi è la seguente:

  • Emanuela e Mirella si sarebbero allontanate da casa per ingenuità e/o libertinismo, rimanendo poi coinvolte in un giro pericoloso (a), oppure si sarebbero fidate di persone sbagliate, legandosi ad esempio a strane amicizie (b);
  • Indipendentemente da a) o b), dopo la morte/allontanamento gli stessi autori del crimine, o persone a loro contigue ma estranee all’uccisione si sarebbero inserite nella vicenda/e facendo credere di esserne i responsabili per perseguire loro interessi/ricatti;

 

 

2.1 La pista della RAI

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All’interno della pista sessuale abbiamo inserito un filone di indagine ancora totalmente inesplorato dagli inquirenti che farebbe ricadere la responsabilità della scomparsa di Emanuela in qualcuno interno alla RAI, la televisione di Stato.

Questa ipotesi è stata teorizzata nel corso degli anni dallo storico giornalista Pino Nicotri.

La tesi della RAI nacque nel 2005 quando il programma Chi l’ha visto? recuperò la puntata di Tandem alla quale Emanuela Orlandi partecipò con la sua classe il 20/05/1983, un mese prima di scomparire. Si trattò di una trasmissione RAI andata in onda dal 1982 al 1985.

 

Nel video qui sotto alcune immagini della puntata di Tandem, l’unica volta in cui Emanuela compare in video

 

Come si vede, Emanuela è a fianco della presentatrice ed è una figura molto appariscente, inquadrata più volte dalle telecamere. Non risulta però che durante quella puntata abbia mai preso la parola, al contrario di alcuni suoi compagni.

Nicotri fece notare uno stano comportamento («una strada reticenza») da parte di famigliari in quanto non avrebbero mai fatto sapere ai magistrati dell’esistenza di quella puntata e relativa registrazione (della quale erano sempre stati a conoscenza, come si evince da questo fotogramma incorniciato), nella quale Emanuela potrebbe aver parlato e la sua voce avrebbe potuto essere confrontata con l’audio fatto ritrovare dall'”Amerikano”155P. Nicotri, Emanuela Orlandi, due misteri: lei a Tandem nel 1983 e la telefonata anonima, BlitzQuotidiano, 26/06/2015.

Nel 2023 lo stesso giornalista approfondì la tesi osservando nel video della puntata di Tandem «Emanuela viene ripresa e messa in risalto con maggiore evidenza rispetto agli altri studenti partecipanti. E si nota che Emanuela ne ha piacere, è molto a suo agio»156P. Nicotri, Emanuela Orlandi vittima di un uomo Rai? Nicotri: telefonò a Chi l’ha visto da un interno, voce da prova audio, BlitzQuotidiano, 02/07/2023.

Considerando il sogno della giovane a entrare nel mondo dello spettacolo, Nicotri ipotizzò che qualcuno della RAI, in occasione di Tandem, avrebbe potuto proporle un aiuto in tal senso. La stessa persona potrebbe averla fermata il giorno della scomparsa, un mese dopo la trasmissione, fuori dalla scuola157P. Nicotri, Emanuela Orlandi vittima di un uomo Rai? Nicotri: telefonò a Chi l’ha visto da un interno, voce da prova audio, BlitzQuotidiano, 02/07/2023.

Ad avvalorare i sospetti sulla RAI vi sarebbe anche il fatto che la famosa telefonata anonima trasmessa da “Chi l’ha visto?” nel settembre 2005, la quale invitava a cercare un legame con De Pedis, sepolto nella basilica di Sant’Apollinare, non sarebbe partita dall’esterno della Rai158P. Nicotri, Emanuela Orlandi vittima di un uomo Rai? Nicotri: telefonò a Chi l’ha visto da un interno, voce da prova audio, BlitzQuotidiano, 02/07/2023.

In realtà nella sentenza di archiviazione del 2005 si riferisce che la telefonata arrivò invece al centralino della trasmissione televisiva159G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 27.

Certamente la pista (inconcludente) su De Pedis e Sant’Apollinare apparve come un depistaggio, con il doppio risultato di aver regalato moltissima pubblicità alla trasmissione RAI.

Un secondo elemento sarebbero le telefonate anonime che il 7/09/1983 arrivarono all’avv. Egidio, intercettate dai carabinieri.

Nella prima telefonata una donna disse ad Egidio: «Faccia trovare Emanuela Castel Sant’Angelo, nel nome del Signore glielo chiedo». Poco dopo, la stessa donna richiamò: «Avvocato, ho l’impressione che non mi ha compreso, in Nome del Signore cercate Emanuela a Castel S. Angelo». Verso sera arrivò la terza telefonata, quella di un uomo che chiese di «cercare “la ragazza” a Castel S. Angelo, a destra, scendere tre scalini di legno,, c’è delle terra battuta, ancora avanti un altro gradino e si entra dentro un “tunnel”, lì si trova! Sotto di loro c’è un tubo di eternit. Sotto dov’è la ragazza…. “Loro” si trovano sopra”». L’avvocato chiese ”loro” chi?” Lo sconosciuto rispose: «Sono in quattro: la ragazza e tre. Sono in quattro e stanno li sotto; uno di colore, uno biondo e una ragazza con vestito lungo. Parlo in Nome del Signore»160P. Nicotri, Emanuela Orlandi e altri sepolti nei sotterranei di Castel Sant’Angelo? Il mistero di una telefonata da una utenza Rai, BlitzQuotidiano, 15/06/2023.

Si riuscì a risalire al numero solo di quest’ultima chiamata, proveniente dall’utenza n° 3611058 (RISERVATA = intestata a Rai via del Babuino 9)161Rapporto dei carabinieri, 07/09/1983.

La tesi di Castel Sant’Angelo sarebbe ulteriormente confermata dall’ex carabiniere Antonio Goglia, il quale darebbe ampio valore al forte interesse di Marco Accetti al film “Nell’anno del Signore” del regista Luigi Magni (1969)162testimonianza rilasciata a P. Nicotri, Emanuela Orlandi. Flauto di Marco Fassoni Accetti dai resti di studio cine Roma?, BlitzQuotidiano, 12/06/2014, il quale si svolge nel mausoleo circolare Adriano di Castel Sant’Angelo e inizia con molteplici fermo immagine sull’angelo che sormonta il mausoleo e che guarda verso il basso.

A questo farebbe riferimento una lettera ricevuta da Pietro Orlandi in cui si suggeriva di cercare Emanuela presso il Camposanto Teutonico,. «dove guarda l’angelo».

Si può infine ricordare l’incredibile, quanto sospetta, campagna di fango di Chi l’ha visto? contro Marco Accetti dopo la sua comparsa. L’uomo ha sostenuto che la violenta reazione della trasmissione RAI (con plateali accuse di pedofilia) avrebbe reso vano per sempre il suo tentativo di chiamare i suoi complici a costituirsi.


 

Analisi e verifiche della “pista della RAI”.

Pur appoggiandosi ad alcune coincidenze non trascurabili, l’impianto della tesi non si basa su alcuna prova.

La responsabilità “della RAI” andrebbe ricondotta a quante persone? Certamente non un semplice operatore tecnico, per ricevere la fiducia di Emanuela, tanto da convincerla a seguirlo il giorno della scomparsa, sarebbe dovuto essere perlomeno un dirigente. Il quale avrebbe dovuto avere almeno una complice donna, cioè la voce della telefonista anonima che chiamò l’avv. Egidio indicando Castel Sant’Angelo.

L’aspetto più controverso sono proprio queste telefonate: non si capisce perché un mese dopo aver rapito e ucciso Emanuela per una mera “questione sessuale”, il dirigente RAI e la sua complice avrebbero dovuto telefonare al legale degli Orlandi, correndo il rischio di essere registrati (e quindi più facilmente smascherati) e facendo rintracciare il numero dell’azienda, portando l’attenzione più vicina a loro.

Così com’è esposta la pista non ha alcun senso logico. Quelle telefonate sembrano piuttosto un depistaggio.

 

 

2.2 I punti forti della pista sessuale

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a) Tesi sostenuta dai primi esperti del caso.

Verso la pista sessuale si sono orientate le prime persone che hanno indagato seriamente il caso.

Parliamo di Gennaro Egidio, avvocato degli Orlandi e dei Gregori, il magistrato Margherita Gerunda e il giornalista Pino Nicotri.

Nicotri è stato, fra tutti, il principale sostenitore di questo scenario. Nel 2013 scrisse: «L’unica pista che oggi è rimasta in piedi e che all’epoca era comunque la più ragionevole: la pista del sequestro a fini di libidine o vendetta personale […]. Decenni e decenni di cronaca nera dimostrano che la pista del sequestro a fini di libidine o di vendetta personale non ha molto a che fare con i “maniaci sessuali”, ma ha invece moltissimo a che fare con i vicini di casa, i parenti, gli amici dei parenti e quelli di famiglia».

Verso questa spiegazione è sembrato orientarsi anche l’avv. Egidio, legale degli Orlandi e dei Gregori, nelle telefonate (una e due) avute con lo stesso Nicotri.

Il primo legale degli Orlandi affermò addirittura: «Ma no, non è stato un rapimento. La verità è molto più semplice e banale, la fine di Emanuela è più banale. La ragazza godeva di molta più libertà di quanto è stato fatto credere». Nella prima telefonata con Nicotri, il giornalista sottolinea che gli Orlandi non conoscerebbero davvero la figlia, trovando il pieno consenso di Egidio.

Nella seconda telefonata, Nicotri sostenne che gli Orlandi non sapessero in realtà «chi era e che faceva la figlia», trovando pieno consenso nell’avv. Egidio:

«Sono pienamente d’accordo con lei. Io propendo più per cose semplici, normali […]. Quello che rimane forse potrebbe essere quello che appare così semplice, potrebbe essere la verità. E cioè un caso molto semplice che però strumentalizzato, adoperato dagli altri per altri motivi, successivamente […]. I genitori anche se a volte si trovano di fronte all’evidenza, sono capaci di andare oltre la realtà perché loro credono nei loro figli. O magari vi è un senso di ritegno. Ritengono di voler salvare la dignità e il nome della famiglia. Ma i figli, come lei ben diceva prima, ma chi li conosce? A quell’età poi…».

 

Per quanto riguarda Mirella Gregori, Gennaro Egidio sembrò considerare l’ipotesi della prostituzione, pur senza affermarlo direttamente. Lo avrebbe intuito dalla frase che la giovane disse alla madre poco prima della scomaprsa: «Mamma, tu dici che hai difficoltà, enormi difficoltà, che non si può acquistare una casa. Non ti preoccupare, ai soldi penso io».

L’avvocato Egidio disse di essere rimasto colpito dalla frase, esattamente come lo fu la madre:

«Penserei che il caso della Gregori potrebbe essere sempre un caso che rientra in quello che era magari un traffico…e allora quindi caduta nell’inganno e avrà ripetuto dentro di sé quello che le avevano promesso, per ingannarla. E quindi avrebbe avuto chi potesse magari un giorno avere denaro e aiutare quindi la mamma e la famiglia. E invece magari cadde in un inganno. Successivamente, cioè altri che avevano chissà quali altri interessi, per pressioni magari nelle sedi al di là del Tevere o anche qui in Italia […], quando vi è stato l’interesse per il caso Gregori, che fu poi collegato al caso Orlandi, […] questa gente quando hanno visto che appariva sui giornali a questo punto si sono innestati nella storia dicendo…».

 

Anche il primo magistrato che si occupò della vicenda, Margherita Gerunda, disse: «Mi feci subito l’idea, come del resto tutti gli investigatori, che la ragazza fosse stata attirata in un agguato, violentata e uccisa, comunque morta in seguito alle violenze».

Gerunda fu sostituita dopo poco da Domenico Sica, «interpretai il mio essere tolta dal caso Orlandi come la precisa volontà di assecondare i clamori e sposare in pieno la pista del rapimento politico per lo scambio con Agca».

 

Qui sotto le parole del magistrato Margherita Gerunda:


 

b) Nessuna prova certa della detenzione di Emanuela.

La pista sessuale risolve agilmente il grande mistero per cui i sedicenti rapitori inseritisi successivamente non hanno mai saputo (o voluto) dare prova certa di avere Emanuela e Mirella.

Sarebbe bastata una foto con a fianco un quotidiano, come chiese la famiglia Orlandi. Si limitarono invece a fornire dettagli (pur abbastanza precisi) della biografia di Emanuela, fotocopie di alcuni suoi effetti personali e la registrazione di alcune sue parole ripetute più volte sul nastro. Piccole prove, mai davvero decisive o soddisfacenti.

Queste persone non potevano (o non volevano?) realmente dare prova di avere le ragazze perché, secondo la pista che stiamo indagando, erano già morte.


 

c) Scarso collegamento tra Emanuela e Mirella.

Gli autori di un sequestro sessuale non sono interessati a cercare elementi in comune tra le loro vittime.

Effettivamente Emanuela e Mirella condividevano pochissimo, a parte la stessa età. A collegare i due casi non furono i primi telefonisti che chiamarono a casa Orlandi, né qualche investigatore o le rispettive famiglie.

Il primo collegamento avvenne soltanto due mesi dopo la sparizione di Emanuela, il 4/8/1983, quando il “Komunicato 1” del “Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh” citò Mirella chiedendo informazioni. Della giovane, tra l’altro, si parlò pochi giorni prima in un’inchiesta della rivista Panorama163P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 75.

Un altro piccolo collegamento tra le due scomparse è che Mirella lavorò per la Avon (confermato dalla sorella Antonietta Gregori) ed Emanuela sarebbe stata avvicinata da un uomo che le avrebbe parlato della Avon164deposizione dell’amica Raffaella Monzi. Non è però un elemento determinante, tantissime ragazze ebbero a che fare con la Avon.


 

d) Sentenza di archiviazione del 1997.

Nella sentenza di archiviazione del giudice ispettore Adele Rando del 1997, si concluse rilevando effettivamente che quello della Orlandi non fu un rapimento ma una messa in scena depistatrice.

Inoltre, negli Atti si legge l’esistenza di una «strumentale connessione della scomparsa di Mirella con il caso di Emanuela, probabilmente allo scopo di accrescere la complessità del quadro investigativo di quest’ultima vicenda, rendendolo, se possibile, ancora più inestricabile».


 

e) Testimoni oculari.

Il ruolo delle testimonianze del vigile Sambuco e del poliziotto Bosco le abbiamo analizzate in una sezione pecedente.

A poche ore dalla scomparsa di Emanuela, Alfredo Sambuco e Bruno Bosco in servizio davanti al Senato riferirono ai familiari di averla vista parlare con un uomo mentre le veniva mostravo del materiale. Uno scenario compatibile con il racconto che Emanuela fece alla sorella prima della scomparsa, telefonata di cui ancora nessuno era al corrente.

E’ molto difficile sostenere che si misero d’accordo tra loro, non si sarebbero altrimenti contraddetti su alcuni dettagli: la presenza di un BMW fu riferita solo da Sambuco, il quale parlò di un numero civico diverso da Bosco e accennò prima ad un catalogo “Avon”, poi smentì di averne parlato. Al contrario, Bosco citò un tascapane militare con la lettera “A”.

O testimoniarono una scena realmente osservata ma confondendo Emanuela con un’altra ragazza, oppure il loro racconto coincide con quello che disse Emanuela al telefono con la sorella poco prima di sparire.

Fu ingannata da quell’uomo e attratta in un pericoloso giro sessuale?


 

f) Il profilo inedito di Emanuela.

Emanuela è sempre stata presentata dalla stampa e dai famigliari come una ragazza modello (“casa e chiesa”).

Eppure la testimonianza della compagna di classe, Silvia Vetere, e l’informativa del SISDE mettono in crisi quest’immagine e rivelano aspetti inediti della giovane. Tra i quali il fatto che saltasse scuola con una certa frequenza (autofirmandosi le giustificazioni) e la frequentazione di amici più grandi poco raccomandabili, dediti a consumo di stupefacenti.

 

 

2.3 I punti deboli della pista sessuale

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a) Tesi sempre respinta dalla famiglia.

Nonostante il legale degli Orlandi e dei Gregori sembrasse optare per la pista sessuale con l’iniziale complicità di Emanuela e Mirella, le famiglie l’hanno sempre radicalmente respinta.

Sono le persone che hanno cresciuto le due giovani e che le conoscono meglio di tutti, mentre i sostenitori di questa ipotesi non le hanno mai conosciute nella realtà.

«Mia sorella non si è allontanata spontaneamente, su questo non deve esistere il minimo dubbio. La sua scomparsa, direttamente o indirettamente, ha attivato forze occulte su scala internazionale e noi siamo capitati in mezzo a questo casino!», ha scritto Pietro Orlandi165P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 85.

Anche Nicola Cavaliere, della squadra mobile di Roma all’epoca dei fatti, ha affermato: «Non credo proprio che sia fuggita volontariamente e non esiste alcuna prova certa della sua esistenza in vita fin dal primo momento successivo alla scomparsa, così come, d’altra parte, non esiste alcuna prova certa della sua morte»166citato in R. di Giovacchino, Storie di alti prelati e gangster romani p 24.


 

b) Le prove fornite dai telefonisti.

Una forte prova contro la tesi dell’allontanamento volontario e della pista sessuale sono i dettagli forniti dai telefonisti che chiamarono casa Orlandi nei giorni immediatamente successivi alla sparizione.

Nei “punti forti” abbiamo osservato che effettivamente non diedero mai una prova certa del loro coinvolgimento con il rapimento, tuttavia fornirono informazioni piuttosto precise e rivelatesi vere. Non possono essere liquidati come “colpi di fortuna”.

«Gli autori dei messaggi», ha dichiarato il magistrato Ferdinando Imposimato, «indicavano con la massima precisione caratteristiche fisiche della ragazza e inviavano messaggi scritti e fonici della ragazza, cioè registrazioni della sua voce. Li ho sentiti, li ho letti; ci sono copie dei verbali. Ma gli autori dei messaggi mandavano anche copia dei documenti di cui era in possesso Emanuela Orlandi al momento della sua scomparsa»167F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 9.

Dopo tre giorni dalla sparizione di Emanuela, infatti, quando ancora nessuno a parte la famiglia la stava cercando o parlava di rapimento, “Pierluigi” telefonò fornendo alcuni elementi riconosciuti come veri dalla famiglia168requisitoria del pm Malerba, 6/08/97 169P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 32.

Ecco sintetizzati i dettagli forniti da “Pierluigi”:

  • Emanuela vendeva collane in piazza Campo de Fiori (attività svolta dalla giovane due estati prima a Torano);
  • Aveva un flauto riposto in una custodia nera (non sappiamo se i giornali locali ne avessero parlato);
  • Accennò alla marca “Ray Ban” (l’estate precedente Emanuela fu coinvolta in una discussione su questa marca di occhiali con la madre e un’amica);
  • Emanuela era astigmatica ad un occhio;
  • Accennò alla marca “Avon”;
  • Il matrimonio della sorella era previsto per settembre;
  • La sorella la maggiore portò gli occhiali per un certo periodo.

 

Quale testimone disinteressato avrebbe mai fornito questi dettagli? L’uomo volle evidentemente accreditarsi come persona informata dei fatti sostenendo, però, che si fosse trattata di una scappatella volontaria. Stesso copione per “Mario”, il secondo telefonista, il quale citerà molti di questi dettagli facendo intendere di avere un legame con “Pierluigi”.

Poi arrivò l’“Amerikano”, che fornì a sua volta altri elementi biografici:

  • Il sacerdote che avrebbe celebrato il matrimonio della sorella era un amico di famiglia;
  • Il cantante preferito da Emanuela era Claudio Baglioni;
  • Emanuela era innamorata di Alberto, in quel periodo a militare;

 

Ma soprattutto, l’“Amerikano”, oltre a far ascoltare un audio di Emanuela mentre ripete più volte il nome della classe e della scuola frequentata, fece ritrovare:

  • La fotocopia (con foto) della tessera d’iscrizione di Emanuela alla scuola di musica;
  • La fotocopia della ricevuta del versamento della rata scolastica per la scuola di musica da 5000 lire, datata 6/5/83 (poche settimane prima della scomparsa);
  • La fotocopia del retro della tessera della scuola di musica;
  • La fotocopia del frontespizio di un album con gli spartiti per flauto del compositore Hugues, con scritti nomi e numeri di telefono di alcune compagne di corso, che Emanuela aveva con sé il giorno del rapimento.

 

Nell’immagine qui sotto la fotocopia degli spartiti fatta ritrovare dal telefonista:

Gli spartiti di Emanuela Orlandi e l'

 

Da dove recuperò tutti questi documenti? Molto probabilmente dalla borsa di Emanuela.

In caso contrario si dovrebbe sostenere che dopo la sparizione, qualcuno della scuola di musica (dirigenti? Compagni? Docenti?) avesse fornito a degli estranei gli elementi elencati. Potrebbero averli rubati dalla scuola? E nessuno se n’è accorto o ha mai verificato?

Sull’istituto Da Victoria caddero inevitabilmente molti sospetti, Pietro Orlandi ricordò però che sia polizia che i servizi segreti si presentarono dalla direttrice suor Dolores chiedendo la lista completa delle allieve, come la religiosa raccontò in questura170P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 94. Anche ammesso di sospettare di polizia o servizi segreti, come avrebbero fatto a sapere cosa aveva con sé Emanuela quel giorno, quali documenti e spartiti rubare?

Va inoltre considerato che gli spartiti di Hugues erano segnati da scritte di Emanuela, numeri di telefono e nomi delle sue amiche (usati dai telefonisti per chiamarle e dettare loro i comunicati). Era quindi un oggetto strettamente personale della giovane che non si trovava tra i documenti della scuola.

 

Nell’immagine qui sotto i vari testi di Emanuela fatti ritrovare in momenti diversi dall’“Amerikano”:

 

Il “Fronte Turkesh”, una delle sigle comparse dopo i telefonisti, rispose correttamente ad una domanda loro rivolta sul luogo della cena di Emanuela tre giorni prima della sparizione (risposta: con “parenti molto stretti”). Pietro Orlandi spiegò che tale dettaglio era noto solo in famiglia171P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 106.

Un telefonista anonimo chiamò anche al bar dei Gregori elencando nel dettaglio le marche dei vestiti che indossava Mirella il giorno della sparizione.

I telefonisti potrebbero aver carpito, tramite ricatti e minacce, le informazioni biografiche dalle amiche delle due scomparse? Effettivamente sia Raffaella Monzi che Sonia De Vito risultarono reticenti agli occhi degli inquirenti, la prima subì anche diverse minacce nel corso degli anni.

Se furono minacciate oltre 30 anni fa, difficile credere però lo siano ancora oggi e sarebbero sufficientemente protette se venissero allo scoperto, anche grazie al rilievo mediatico della vicenda. Inoltre, le amiche di Emanuela non avrebbero certo potuto consegnare le fotocopie di tessere, iscrizioni, ricevute e il frontespizio dell’album con gli spartiti presente nello zaino della giovane il giorno della sparizione.

Nelle conclusioni della Commissione parlamentare Mitrokhin si legge: «E’ certo che i telefonisti, gli autori dei messaggi o i loro ispiratori avessero, o avessero avuto, contatti con Emanuela, con la famiglia o con conoscenti di Emanuela o della famiglia».

Nella requisitoria del Procuratore generale della Corte di Appello, Giovanni Malerba, si legge:

«Né si dica che i primi “telefonisti” fossero persone non soltanto estranee al progetto criminoso, ma altresì all’oscuro di esso; nei successivi messaggi del gruppo che rivendicava il sequestro, più di una volta è dato rinvenire riferimenti ai “nostri elementi Pierluigi e Mario”; e per di più il Pierluigi, nei colloqui telefonici, si mostrava al corrente di particolari rivelatisi esatti (flauto, occhiali con montatura bianca non graditi alla giovane, astigmatismo ad un occhio, imminente matrimonio della sorella ecc.). Tutto questo dimostra lo stretto collegamento tra Pierluigi e Mario e coloro che rivendicavano il sequestro»172requisitoria del pm Malerba, 6/08/97.

 

L’ex magistrato Ferdinando Imposimato, giudice istruttore del processo per l’attentato a Giovanni Paolo II del 1981, avendo seguito il caso per conto dei familiari di Emanuela, riferì che «le lettere sono, almeno in parte, una prova dei collegamenti tra chi le scriveva e la ragazza scomparsa, come riconosciuto anche dai magistrati, che però non hanno ritenuto provato che costoro effettivamente avessero rapito la ragazza – e la tenessero segregata – al momento in cui recapitavano, per un ampio lasso di tempo, i messaggi».

Non si trattò di mitomani e non furono estranei ai fatti. O ebbero a che fare direttamente con Emanuela e Mirella, oppure ebbero contatti diretti con chi aveva avuto a che fare con loro.

Questo dimostra che il sequestro di Emanuela e Mirella (pur se convinte ad allontanarsi con l’inganno e la loro complicità) non fu finalizzato alla mera violenza sessuale, in quanto si può ipotizzare che fossero proprio le due ragazze (in particolare Emanuela) la fonte degli elementi biografici citati dai telefonisti.


 

c) Comunicati con elementi attendibili.

Legato al punto precedente, oltre ai telefonisti bisogna porre attenzione anche ai comunicati apparentemente deliranti del “Fronte Turkesh”.

L’ex colonnello della Stasi, Gunther Bohnsack, riferì che furono loro gli autori dietro la sigla “Fronte Turkesh”173F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 17 di questi messaggi e di quelli firmati “Phoenix”: «Ci divertivamo a scriverli in un italiano molto scorretto. Cercavamo così di aiutare i bulgari assurdamente accusati per l’attentato di Agca». E ancora: «Si, li facevamo noi, insieme a colleghi dei servizi segreti bulgari che incontravamo qui a Berlino»174citato in P. Nicotri, Emanuela Orlandi: la verità, p. 109.

Abbiamo già spiegato i motivi per cui le affermazioni di Bohsack non risultano convincenti, tanto che il Procuratore generale Giovanni Malerba ricordò che «alcuni dei comunicati del Fronte Turkesh evidenziano rilevanti connotazioni di autenticità e genuinità in quanto accompagnati da prove foniche e documentali riferibili a Emanuela Orlandi»175requisitoria del pm Malerba, 6/08/97.

In uno dei komunicati, ad esempio, fu scritto che «Emanuela formulò una frase che rese di ghiaccio suo padre»176Komunicato 22/11/83, episodio -pur abbastanza vago- confermato dal padre Ercole: «Si, mia figlia reagì in modo inconsueto, con una frase pesante nei miei riguardi poco prima della scomparsa».

Nel comunicato di “Phoenix” del 13/11/83 si fece rinvenire la fotocopia della tessera scolastica con la foto di Emanuela e la ricevuta di versamento. E’ vero che furono già stati fatti ritrovare il 6/7/83 dall'”Amerikano, ma non era certo materiale reso pubblico e disponibile dalla polizia italiana.


 

d) Scuse complesse e non necessarie.

I sostenitori dell’ipotesi di una strumentalizzazione secondaria preceduta da un allontanamento volontario (pur sotto inganno) dovrebbero anche spiegare perché Emanuela Orlandi telefonò alla sorella prima di sparire raccontando la complessa storia del lavoro offertole a 375mila lire.

Pino Nicotri, sostenitore di questa pista, la ritiene una «scusa ingenua di una ragazzina che vuole poter stare fuori casa per un po’ per i fatti suoi»177P. Nicotri, Triplo inganno, p. 53.

Riteniamo più che opportuna la risposta di Marco Accetti:

«Quindi una quindicenne per restare un po’ fuori casa, non solo inventa che un uomo l’ha fermata e le ha proposto un lavoro, ma specializza la bugia coinvolgendo la maison delle sorelle Fontana, ed elaborando ulteriormente ambienta il luogo dove si terrà la sfilata, nella sala Borromini. Addirittura stabilisce la cifra esatta pattuita. Ed una scusa del genere tanto sofisticata, il giornalista la definisce “ingenua”, attribuendola oltretutto ad una semplice quindicenne. Se così fosse questa ragazzina sarebbe più che smaliziata, quasi diabolica».

 

Anche ammettendo l’estrema ingenuità della 15enne Emanuela, possibile che un predatore sessuale abbia bisogno di ingannare una ragazza tramite un complesso e assurdo racconto (375mila lire erano un’esagerazione per chiunque), con il rischio di venire scoperto dopo un’eventuale telefonata della giovane alla famiglia?

La storia raccontata da Emanuela motiva contro l’idea di un suo allontanamento ingenuo per finire nella trappola di uno stupratore.


 

e) Requisitoria di Giovanni Malerba.

La sentenza di archiviazione di Adele Rando del 1997 respinse l’idea di un rapimento parlando di «una messa in scena depistatrice».

Essa tuttavia contrastò con la requisitoria del procuratore Giovanni Malerba del 5/8/1997:

«Pur in assenza di prove sicure della vita o della morte, non vi è motivo di revocare in dubbio che le stesse siano state realmente private della libertà personale; la prolungata assenza, ormai protraentesi da oltre quattordici anni, valutata unitamente ai messaggi scritti e telefonici pervenuti ed alle prove foniche e documentali concernenti Emanuela Orlandi, rendono più che evidente che le due giovani, pur inizialmente seguendo spontaneamente i sequestratori in quanto verosimilmente tratte in inganno (un duplice sequestro attuato in pieno giorno sulla pubblica via con violenza o minaccia sarebbe stato in ogni caso notato e riferito da più persone), siano state in seguito trattenute contro la loro volontà».

 

Commentando le conclusioni di Malerba, il magistrato Ferdinando Imposimato elogiò l’acume del procuratore in quanto «in poche pagine egli indica tutta una serie di ragioni obiettive per ritenere che la tesi, secondo la quale si siano inseriti personaggi esterni in questa vicenda per strumentalizzarla senza poter essere parti di questo complotto, è una tesi che non sta né in cielo, né in terra perché così non è»178F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 9.


 

f) Altre cittadine vaticane pedinate.

Nella sezione precedente abbiamo già osservato la deposizione rilasciata ai carabinieri nel luglio 1984 di Raffaella Gugel, figlia dell’aiutante di camera del Papa, Angelo Gugel.

La giovane riferì che subito dopo l’attentato al Papa, nel maggio 1981, suo padre la avvisò di voci giunte in Vaticano su possibili sequestri di cittadine.

La Gugel raccontò anche di aver subito un perdimento per due settimane da parte di un uomo di nazionalità turca e, a seguito delle indagini di polizia, si scoprì che altre cittadine vaticane erano state seguite, in particolare la sorella Flaviana e la figlia di Camillo Cibin, capo della sicurezza del Vaticano179F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 6.

Questi elementi chiaramente giocano a sfavore dell’idea di una pista sessuale.

 

 

2.4 Conclusioni sulla pista sessuale

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L’ipotesi della pista sessuale con una successiva strumentalizzazione del caso non regge all’analisi degli elementi conosciuti. Gli argomenti contrari, soprattutto quelli riguardanti i telefonisti, i comunicati e le voci su sequestri di cittadine vaticane prima della scomparsa di Emanuela, sembrano decisivi.

Ci sarebbe anche da considerare il riconoscimento di alcuni uomini legati alla malavita romana da parte di alcuni amici di Emanuela che avrebbero pedinato la giovane nei giorni antecedenti alla sparizione (ne parleremo più sotto).

Se è da escludere che l’obbiettivo dei sequestratori fu il mero scopo libidinoso, conclusosi con la morte delle giovani, è invece verosimile che Emanuela e Mirella si possano essere allontanate volontariamente, tramite l’inganno o sotto ricatto/minaccia. Non è da escludere che gli autori del sequestro abusarono sessualmente delle giovani ma lo scopo delle loro azioni non fu soltanto questo.

 
 

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3. EMANUELA ORLANDI E LA PISTA INTERNAZIONALE.

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La pista internazionale è quella più accreditata sui media, sempre a caccia di scandali politici.

La tesi più classica è che il rapimento sarebbe servito per allontanare i sospetti dell’attentato a Giovanni Paolo II dai “Lupi Grigi” e da i bulgari, chiamati in causa da Alì Agca.

I rapitori delle ragazze, infatti, attraverso la loro azione avrebbero cercato di ricattare e/o condizionare il terrorista turco portandolo a ritrattare le sue accuse e a interrompere la collaborazione con gli inquirenti.

Per dirla con le parole del magistrato Ferdinando Imposimato, principale sostenitore di questa tesi, Orlandi e Gregori furono vittime del terrorismo di Stato, prede dei terroristi turchi al servizio dei bulgari, della STASI e del KGB, vittime del complotto ideato da Mosca fin dall’ottobre 1978, sfociato nell’attentato al Papa e proseguito nel sequestro di due ignare e sfortunate fanciulle.

Tutti i comunicati relativi alla sorte delle ragazze sarebbero stati ideati dai Servizi segreti di Berlino Est per aiutare i bulgari, ormai in affanno processuale, perché tutta l’opinione pubblica italiana e mondiale era convinta che con quelle prove il bulgaro Serghei Antonov (morto nel 2007) sarebbe stato condannato180F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 18.

Una variante della tesi è che i sequestratori avrebbero invece cercato di ricattare direttamente i capi di Stato vaticano e italiano inducendo il primo, Giovanni Paolo II, a “perdonare” Agca e il secondo, Sandro Pertini, a concedergli la grazia presidenziale. E’ quello che vollero (almeno apparentemente) anche i telefonisti e le varie sigle comparse dopo la sparizione.

E’ stata l’ipotesi più valutata dalla prima indagine sul caso, che si è conclusa con l’archiviazione del 1997. La tesi è sostenuta ancora oggi da tanti autorevoli protagonisti della vicenda ma osteggiata da diversi altri.

Analizziamo i punti di forza e quelli di debolezza.

 

 

3.1 I punti forti della pista internazionale.

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a) Il comportamento di Alì Agca.

Il principale argomento a sostegno della pista internazionale è l’effettivo e sorprendente comportamento del terrorista turco Alì Agca, autore dell’attentato a Papa Giovanni Paolo II nel 1981.

Le cronache dell’epoca riportano che dal dicembre 1981 fino al 22 giugno 1983, data della sparizione di Emanuela, l’idealista turco collaborò attivamente con il giudice istruttore, Ilario Martella, indicando come mandante dell’attentato la famosa “pista bulgara” su ordini del KGB. Agca sostenne la corresponsabilità del bulgaro Sergei Antonov, il quale gli avrebbe fornito l’arma, e dei servizi segreti bulgari.

Il 28/06/1983, sei giorni dopo la sparizione di Emanuela Orlandi, Agca modificò radicalmente il suo atteggiamento e, fingendo di impazzire, rovinerà il processo. Disse di non aver mai visto l’abitazione di Antonov, di non aver mai conosciuto la moglie Rosizca, di non aver saputo (prima del riconoscimento fotografico) dell’attività di Antonov come caposcalo della Balkan Air, di non essere mai stato nemmeno nella sede della compagnia aerea. Tutte informazioni, queste, fornite in precedenza con dovizia di particolari.

Il pm Antonio Marini spiegò a chiare lettere che il fallimento del processo fu determinato «dal comportamento di Agca, che ha inventato questa follia simulata, veramente devastante per il processo»181A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 31/05/2005, p. 7.

Nel giugno 1984, Antonio Albano, pm dell’inchiesta sull’attentato al Papa, completò la requisitoria contro Agca ed Antonov e, citando l’interrogatorio ad Agca del 28 giugno, scrisse: «A coincidenza vuole che proprio in quei giorni scompare la giovane Emanuela Orlandi».

Lo stesso Agca, riporta l’Unità del 05/07/1983, Agca affermò che appena seppe della sparizione della Orlandi interpretò il fatto come un segnale dei suoi complici: «Ho pensato, la potrebbero uccidere, appesantirebbero la mia posizione, c’è una posizione morale, mi spiace se la uccidono».

Una nota di attenzione: Agca parlerà sempre e solo di Emanuela Orlandi, mai di Mirella Gregori.

Nel 1985 Agca tornò ad accusare i bulgari dicendo di essere stato condizionato dal caso Orlandi: «Ho dato tante versioni contraddittorie, ho parlato di Pazienza che non c’entra, perché “Lupi grigi” e bulgari hanno rapito la ragazza, perché io ritrattassi e confondessi e screditassi la stampa che aveva parlato di Urss e Bulgaria. Ho visto dai giornali gli ultimi messaggi dei rapitori di Emanuela Orlandi e ho riconosciuto la calligrafia di Oral Celik».

Nel 1997 l’attentatore turco modificò la versione sostenendo che alla base delle sue ritrattazioni vi sarebbero state le minacce ricevute il 28/06/83 dai magistrati bulgari Ormankov e Pertkov (funzionari dei servizi segreti) in visita a Rebibbia, approfittando dell’assenza del giudice Ilario Martella182Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 15/03/2006, p. 262, Agca disse al giudice Priore che tale minaccia consisteva nell’uccisione della Orlandi se non avesse ritrattato le accuse ai bulgari183R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 28/09/2005, p. 6.

In un’altra occasione dirà di essere stato minacciato dai servizi occidentali che lo avevano visitato in prigione, in particolare Francesco Pazienza e Aldrich Ames. Il primo lo ha querelato, il secondo si è appurato che non si trovasse in Italia in quel periodo, «né che si sia mai incontrato con Agca».

I giudici verificarono che non vi fu alcuna minaccia da parte di Servizi italiani e di Pazienza nei confronti di Agca184A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 31/05/2005, p. 11. Tuttavia il giudice Rosario Priore ha rivelato che in molti Paesi d’Europa c’erano Servizi che offrivano denaro ad Agca perché sostenesse la pista bulgara, «lo hanno fatto i tedeschi, lo hanno fatto gli svizzeri»185R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 28/09/2005, p. 12.

Il giudice istruttore Ilario Martella ha ricordato che Agca, tre giorni dopo la condanna, rinunciò formalmente a proporre appello:

«Un fatto incredibile: una persona che è stata condannata all’ergastolo rinuncia all’appello, e non perché ha fatto scadere i termini per la sua presentazione ma per sua espressa decisione. Gli chiesi quale ne era il motivo e mi rispose che era sicuro di essere liberato con una azione di forza o eventualmente con un sequestro di persona. Mi ha raccontato questo molto prima del sequestro della Orlandi. Non si è mai pensato, neanche per un solo momento, che Agca fosse un cretino autolesionista. Se una persona rinuncia all’appello, significa che deve nutrire una fiducia illimitata sul fatto che prima o poi qualcuno lo libererà, o che comunque esiste la possibilità di avviare un negozio con lo Stato per arrivare ad una soluzione»186I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 18.

 

Stupore condiviso anche dal pm Antonio Marini, il quale dopo aver ricordato che Agca era già stato fatto fuggire dal carcere di Kartal Maltepe dopo aver ucciso un noto giornalista turco e mentre stava per fare rivelazioni importanti, ha dichiarato:

«Si pensava che aspettasse che qualcuno lo facesse fuggire, per cui doveva avere un interlocutore, a parte il mandante o i mandanti. Doveva per forza avere un interlocutore, tanto è vero che interpretavamo le sue elucubrazioni, per capire se fossero o meno messaggi. C’è stato il processo relativo ad Emanuela Orlandi. Si era anche detto che il sequestro della giovane poteva in qualche modo avere a che fare con l’attentato al Papa, perché era stata promessa ad Agca la fuga attraverso il rapimento di una persona del Vaticano. Di tutto si è parlato»187A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 14/06/2005, p. 32.

 

Al di là delle vere motivazioni, l’unico dato oggettivo è che Alì Agca decise improvvisamente di rendersi totalmente e per sempre inaffidabile esattamente 6 giorni dopo la sparizione della Orlandi (e il giorno dopo le presunte minacce ricevute dai bulgari).


 

b) Tesi sostenuta da persone autorevoli.

La tesi internazionale è stata sostenuta da diversi inquirenti e magistrati e questo non è un dato da trascurare.

Uno dei sostenitori è l’ex magistrato Ilario Martella, giudice istruttore dell’inchiesta sull’attentato a Giovanni Paolo II, il quale ha affermato:

«Mi sono occupato della scomparsa delle ragazze [Emanuela e Mirella] nella fase iniziale. Ritengo si possa con certezza affermare che ambedue i delitti siano stati ideati da una ben ramificata organizzazione criminale, che più volte ha dato notizia di sé con messaggi e comunicati volti a richiedere in ogni sede (tra cui Vaticano e presidenza della Repubblica italiana) lo scambio della libertà di Emanuela con quella di Agca e talora dei suoi amici Bagci e Celebi […]. Mi giunsero messaggi di intimidazione che minacciavano me e i miei familiari della stessa sorte di Emanuela. Chiusa l’istruttoria, a fine 1984, cessarono […]. Agca aveva dietro di sé una organizzazione potentissima che forse va al di là dell’attentato al Papa. E` una ipotesi che chiama in causa anche la scomparsa di Emanuela Orlandi. Basti pensare che, all’epoca della scomparsa della giovane, i suoi rapitori provocatoriamente lasciavano i messaggi nei posti dove facevo i sopralluoghi. Lo hanno fatto più volte e, purtroppo, gli autori non sono mai stati individuati»188I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 18.

 

Il 20/10/1983, ad esempio, Martella, allora responsabile dell’inchiesta sull’attentato a Giovanni Paolo II, ordinò riscontri sul racconto fattogli da Alì Agca in due punti precisi di Roma, l’ambasciata canadese di via della Conciliazione 30 e un bar vicino in via Traspontina 9. Qualche ora dopo, proprio nelle stesse vie, verranno fatti trovare due messaggi riguardanti il rapimento di Emanuela Orlandi, in cui si chiedeva la liberazione di Agca in cambio della ragazza.

Inoltre, aggiunse Martella, pur non avendo elementi concreti per stabilire un legame, riferì che «Emanuela Orlandi viene rapita proprio nel periodo più caldo della mia istruttoria. Anzi, ricordo che all’epoca mi trovavo in Bulgaria. Per quanto si sia cercato di trovare soluzioni diverse da queste, devo dire che non sono state trovate»189I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 19.

 

Anche il secondo legale degli Orlandi, Massimo Krogh, ha affermato: «Noi come difesa abbiamo sempre pensato che fosse stata rapita per uno scambio con Agca».

 

A sostegno della pista internazionale, come già detto, è stato Ferdinando Imposimato, giudice istruttore del caso dell’attentato al Papa, istruttore del processo alla Banda della Magliana e poi legale della famiglia Orlandi.

Imposimato scrisse che il rapimento di Emanuela Orlandi (e di Mirella Gregori) fu l’epilogo di un vasto complotto tra servizi segreti di vari Paesi, definito “Operation Papstâ” dalla Stasi ed elaborato prima del 13 maggio 1981, giorno dell’attentato a Giovanni Paolo II. Fallito l’attentato seguì il modus operandi della lotta politica del Kgb e dei bulgari: sequestrare cittadini vaticani in età adolescenziale facendo passare il messaggio che «quegli ostaggi erano vittime innocenti della sua politica temeraria verso i paesi socialisti».

Per Imposimato, lo scopo del sequestro della Orlandi fu duplice: colpire il Papa e conquistare la fiducia di Ali Agca, inducendolo a rovinare il processo contro i bulgari ed i lupi grigi in cambio della sua liberazione. Sarebbe avvenuto grazie ad agenti infiltrati, come il monaco benedettino Eugen Brammertz (agente della Stasi), il capitano delle guardie svizzere Alois Estermann (presunto agente della Stasi e uno dei tre morti in un misterioso omicidio avvenuto in Vaticano il 4/5/1998), due agenti del Kgb infiltrati nell’entourage del cardinale Agostino Casaroli (il nipote Marco Torretta e la moglie Irene Trollerova, di origine ceca, entrambi denunziati dai servizi cechi dopo la caduta del muro di Berlino), e due giornalisti dell’Osservatore Romano appartenenti anch’essi alla Stasi190F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 12.

Il giudice Imposimato aggiunse che anche Markus Wolf, capo della Stasi, sostenne che il monaco Brammertz e la guardia svizzera Estermann fossero al servizio di Berlino Est, ma nel 2005 Wolf negò l’arruolamento di Estermann191P. Brogi, Basta illazioni su Estermann, non era una spia della Stasi, Corriere della Sera, 09/05/1998.

Infine, Imposimato si convinse di poter «trarre conclusioni incontestabili sulla matrice delle due scomparse, che furono manifestazioni del terrorismo di Stato. In esse una funzione centrale venne svolta da agenti segreti della Bulgaria, della STASI e del KGB con l’appoggio di terroristi mediorientali, il tutto con una formidabile azione di disinformazione diretta a seminare tracce di reato su Servizi segreti e gruppi eversivi ricollegabili ai nazifascisti»192F. Imposimato, Vaticano, un affare di Stato, Koiné 2022, p. 14.

Seppur la ricostruzione di Imposimato appaia verosimile e offra un racconto organico e piuttosto esplicativo, manca totalmente di dimostrazioni oggettive e corroborazioni. Inoltre, soffre di diversi punti deboli che analizziamo più in basso. Ricordiamo che l’attendibilità dell’ex giudice Imposimato è apparsa inficiata quando ha sostenuto che Emanuela si sarebbe convertita all’islam e integrata in una comunità musulmana193citato in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 24.

 

Anche il Vaticano e Giovanni Paolo II ricondussero sempre la vicenda ad un “complotto internazionale”.

Papa Wojtyla, dopo un silenzio di 25 anni, prima di morire si confidò con Vittorio Messori dicendo che gli autori dell’attentato nei suoi confronti e del sequestro delle due ragazze erano i sovietici e il KGB194citato in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 19 195citato in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 9. Il magistrato Imposimato ha riferito di aver incontrato più volte il Papa polacco, il quale condivise le sue tesi196F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 20.

Nel 2012 padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, effettuò un’indagine interna al Vaticano concludendo che si ritenne «che il sequestro fosse utilizzato da una oscura organizzazione criminale» che voleva fare pressioni in favore di Alì Agca, e «non si ebbe alcun motivo per pensare ad altri possibili moventi del sequestro».


 

c) Tecnologia utilizzata.

Un altro argomento a favore è l’alta tecnologia che si sospetta utilizzarono i telefonisti per evitare di essere rintracciati dagli inquirenti.

Il padre di Emanuela, Ercole Orlandi, ricordò che l’”Amerikano” gli disse che era inutile tentare di registrare le telefonate perché poteva farle partire da quindici posti diversi.

Effettivamente una cabina della stazione Termini venne messa sotto controllo scoprendo che, mentre le chiamate risultavano in partenza dall’apparecchio pubblico della stazione, dentro la cabina non c’era nessuno. Gli inquirenti conclusero che il telefonista si serviva di un apparecchio per la triangolazione delle telefonate: un piccolo gioiello dell’elettronica capace di far rimbalzare su un’altra utenza la chiamata iniziale proteggendo il numero di partenza.

Ammesso che venisse realmente utilizzato era uno strumento difficilmente alla portata di criminali locali e sembra confermare l’interessamento dei servizi segreti.


 

d) Il contesto temporale.

Non si può ignorare che la sparizione delle due ragazze avvenga esattamente due anni dopo l’attentato a Giovanni Paolo II da parte di Alì Agca, il finanziamento a Solidarnosc (il sindacato cattolico polacco e anticomunista), un anno dopo il fallimento del Banco Ambrosiano (da cui probabilmente partirono alcuni dei finanziamenti vaticani verso Solidarnosc) e l’omicidio-suicidio del suo presidente, Roberto Calvi.

E’ anche innegabile che la sparizione di Emanuela avvenne nel giorno in cui Giovanni Paolo II si trovava a visitare proprio la Polonia.

Schematizziamo quanto avvenne prima della sparizione della cittadina vaticana:

  • 13/05/1981 attentato a Giovanni Paolo II da parte di Alì Agca;
  • 18/06/1982 omicidio-suicidio di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano;
  • 06/08/1982 liquidazione del Banco Ambrosiano;
  • 23/06/1983 sparizione di Emanuela Orlandi;
  • 25/06/1983 Alì Agca smette di collaborare con gli inquirenti e ritira le accuse verso i servizi segreti bulgari;

 

Nel video qui sotto, il giudice Rosario Priore spiegò i motivi della sua convinzione verso questa pista:

 

Il contesto temporale è un forte argomento a favore di molteplici interessi a livello internazionale.


 

e) Interesse reale dei presunti sequestratori all’inchiesta su Agca.

Gli autori dei vari comunicati apparsi dopo la sparizione di Emanuela erano effettivamente interessati alle indagini su Alì Agca.

Lo dimostrerebbe un episodio accaduto il 20 ottobre 1983: il giudice Ilario Martella, responsabile dell’inchiesta sull’attentato a Giovanni Paolo II, ordinò riscontri sul racconto fattogli da Alì Agca in due punti precisi di Roma, l’ambasciata canadese di via della Conciliazione 30 e un bar vicino in via Traspontina 9. Qualche ora dopo, proprio nelle stesse vie, verranno fatti trovare due messaggi riguardanti il rapimento di Emanuela Orlandi, in cui si chiedeva la liberazione di Agca in cambio della ragazza.

«Singolare coincidenza!», disse Martella nel 2011, «me ne accorsi quando mi venne affidata anche l’indagine sulla Orlandi. C’è quell’ispezione, alla presenza di magistrati italiani e bulgari, della polizia e dello stesso Agca e poco dopo, negli stessi luoghi, si trovano volantini sul caso Orlandi…»197Il Corriere della Sera, 14/05/2011.

Un secondo esempio: il 12/06/84 all’ANSA arrivò una lettera da Francoforte con scritto: «Non avete adempiuto alla nostra richiesta di liberare subito Agca, Celebi e gli altri nostri amici. Emanuela Orlandi non è tornata». Pochi giornali ripresero la notizia, nessuno citò la parte finale, dove i misteriosi mittenti minacciarono i familiari del giudice Ilario Martella, al quale spettò la decisione di liberare o meno il bulgaro Serghej Antonov.

La cosa singolare è che la moglie ed i figli del magistrato erano rientrati a Roma proprio in quei giorni, pur vivendo abitualmente all’estero. Chi ha scritto la lettera sapeva anche questo?

Rispetto a questo specifico messaggio di minacce a Martella, il magistrato Ferdinando Imposimato si recò a interrogare Gunther Bohnsack, funzionario della Stasi, il quale ne attribuì la paternità al suo gruppo. «Gunther Bohnsack ha fatto questa dichiarazione alla quale si può credere o no», ha affermato Imposimato, «io ho ritenuto di poterla acquisire»198F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 19.

Sempre relativamente a Bohnsack, prendendo sul serio le sue dichiarazioni pur con tutte le riserve già esposte in precedenza, c’è una lettera datata 26/08/1982 inviata da Jurj Andropov, segretario generale dell’URSS al Ministro dell’interno della Germania Est, Erich Mielke, legata all’operazione “Papst” (“Papa”). Tale operazione, spiegò Bohnsack a Imposimato, sarebbe nata la sera dell’attentato al Papa quando da Mosca arrivò una telefonata alla Stasi in cui si avvertiva che bisognava compiere ogni tipo di azione per contrastare un’eventuale inchiesta che potesse accusare l’Unione Sovietica o dei Paesi dell’Est.

Andropov chiedeva di fare «tutto ciò che è necessario per dimostrare lo zampino della CIA e per distruggere le prove. Tutti i mezzi sono consentiti. Bisogna seminare tracce contro la CIA con disinformazione, aggressione, terrore, sequestri, omicidi»199Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 3.

Il magistrato Imposimato sottolineò comunque che «non ci sono riscontri obiettivi. Ecco perché ho alcuni dubbi in merito»200F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 28.

Questa versione è stata smentita da Markus Wolf, capo della Stasi, quando spiegò che nei loro interessi non rientrava Alì Agca, «in quel momento avevamo altri interessi, la Nato, la Germania Ovest, non il Papa». L’unica attività in Vaticano fu capire gli orientamenti della Curia, «ma più in là non andammo».

Questo effettivo interesse a Ilario Martella e al processo sull’attentato al Papa è ravvisabile anche nel comportamento di Marco Accetti, auto-accusatosi di essere stato il regista dell’allontanamento di Emanuela e Mirella, nonché uno dei telefonisti principali.

Oltre ad aver avvalorato la pista internazionale, sostenendo che l’intento era (anche) indurre Agca a ritrattare le accuse ai bulgari, ha lasciato emergere un pregresso rancore nei confronti dell’ex magistrato Ilario Martella, istruttore del processo sull’attentato di Giovanni Paolo II.

Lo si nota durante un confronto televisivo tra i due201Dopo 30 anni vicini alla svolta, Metropolis 19/06/2013 ed in un post nel suo blog, nei quali accusa con veemenza l’ex magistrato di aver “sequestrato” il bulgaro Antonov (cioè tenuto in carcere), accusato da Ali Agca di aver organizzato l’attentato a Giovanni Paolo II.

Accetti ha anche più volte ricordato che il telefonista l'”Amerikano” (cioè lui stesso, secondo le sue rivelazioni) il 20/07/1983 telefonò al priore della chiesa di Santa Francesca Romana dicendo: «Il governo della Repubblica italiana, con il placito dello Stato Vaticano, intende non venire meno al possesso di uno strumento di propaganda quale il detenuto Alì Agca. Pervenendo alla soppressione del 20 luglio, non perdiamo speranza nella volontà di quanti possono adoperare un gesto ultimo e risolutore».

La scelta di quella chiesa, ha spiegato l’uomo, sarebbe stato un riferimento al nome composto in maniera simile della nipote di Ilario Martella (Francesca Maria), giudice istruttore sull’attentato di Alì Agca.

 

Nel seguente video il confronto tra il giudice Ilario Martella e Marco Accetti (2013):

 

Occorre però ricordare che l’attenzione sul nome della nipote di Martella era contenuta anche in minacce precedenti al caso Orlandi, scritte in tedesco e provenienti dalla Germania. Nelle missive si leggeva il nome della nipote Francesca chiamata con il nome anagrafico completo Francesca Maria.

Nel 2005 Martella spiegò di non poter dire «che siano stati i bulgari a mandarle. Erano minacce anonime. E’ anche possibile che provenissero dai turchi. Arrivavano da Francoforte».

Le ritenne minacce inquietanti, rivelando: «Tra i miei parenti nessuno sa che mia nipote si chiama Francesca Maria», risultava soltanto al Comune202I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, pp. 14, 15, 17.


 

f) Avvertimento del Sdece.

Dopo l’attentato a Giovanni Paolo II (13/05/81), alla segreteria di Stato Vaticano arrivò un’informativa da parte del direttore dei Servizi segreti francesi (Sdece), il marchese Alexander De Marenches, avvertendo del progetto del Kgb di un possibile sequestro di una cittadina vaticana in cambio della liberazione dell’attentatore Alì Agca.


 

g) Il monaco della Stasi all’Osservatore Romano.

Il magistrato Ferdinando Imposimato, a lungo studioso del caso Orlandi e uno dei principali sostenitori della pista internazionale, ha riflettuto sul fatto che di fronte all’edificio degli Orlandi, in Vaticano, era presente lo stabile dell’Osservatore Romano.

Nell’edificio avrebbe lavorato il monaco benedettino Eugen Brammertz e Imposimato avrebbe verificato che «l’unico punto di osservazione per vedere le persone che entravano e uscivano da casa Orlandi era la finestra dell’ufficio di questo monaco», entrato in Vaticano nel 1977 e morto nel 1987.

Il magistrato era convinto che fosse un agente della Stasi, lo avrebbero riferito gli agenti Markus Wolf e Gunther Bohnsack. Inoltre, lo avrebbe appreso anche da alcuni sacerdoti presso la basilica di Sant’Anselmo i quali, dopo la morte di Brammertz avrebbero trovato documenti comprovanti.

«Egli fu probabilmente uno dei basisti dei rapitori», sostenne Imposimato.

Pur non essendoci prove di questo, non abbiamo motivi per dubitare delle parole e delle verifiche effettuate da Ferdinando Imposimato.

Tutto questo è stato confermato all’apertura degli archivi della Stasi, quando si scoprì la presenza di due spie della Germania Ovest in Vaticano con i nomi “IM Lichtblick” e “IM Antonius”. Dietro al primo c’era il benedettino Eugen Brammertz, mentre il secondo era Alfons Waschbusch, corrispondente del Katholische Nachrichten-Agentur (KNA) a Roma.

Nel suo libro sulle spie in Vaticano, anche John Koehler, ex agente segreto dell’esercito americano e consigliere del presidente Ronald Reagan, fece i nomi di Brammertz e Waschbusch, spiegando che il primo forniva notizie sulla “ostpolitik” di Casaroli e sulla la crescente influenza del clero polacco e dell’Opus Dei dopo l’elezione di Wojtyla.

Sempre negli archivi della Stasi furono anche ritrovate 550 pagine di materiali riguardanti il Vaticano, compresi i verbali riservati dei colloqui tra Papa Paolo VI e politici occidentali, ma anche resoconti dettagliati sulle vicende ecclesiali interne durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Una delle spie, si sostiene, sarebbe stato un religioso polacco la cui identità non è stata ancora chiarita.

Il fatto che i servizi segreti riuscirono a monitorare anche lo Stato del Vaticano, come ogni Stato è sempre stato vittima di spionaggio da parte di servizi esteri, non significa automaticamente che questi ambienti c’entrino con la scomparsa di Emanuela Orlandi (e Mirella Gregori??). Tuttavia, gli elementi citati da Imposimato sono effettivamente un punto a favore della pista internazionale.

 

 

3.2 I punti deboli della pista internazionale.

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a) Archiviazione del 1997 e del 2015.

La pista internazionale venne ampiamente indagata nella prima parte della lunga inchiesta sul caso Orlandi.

Il 19/12/1997, tuttavia, il giudice ispettore Adele Rando concluse le indagini e archiviò il caso mettendo per iscritto che quello della Orlandi non sarebbe stato un rapimento ma una messa in scena depistatrice, evidenziando che il movente politico-terroristico risultò essere privo di fondamento.

Nella seconda sentenza di archiviazione (2015), la Procura scrisse:

«Né la documentazione allegata, né quella acquisita dalla Procura (reperita dalla sentenza n.2675 del 21/03/98 relativa al proscioglimento dei presunti complici di Ali Agca nell’attentato al Papa), né la documentazione dei lavori svolti dalla Commissione Parlamentare Mithrokin, apportavano quegli elementi di novità necessari per far luogo alla riapertura delle indagini rispetto alla matrice terroristica del sequestro»203G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015.

 

Si fece anche accenno alle conclusioni a cui si pervenne nel 1997, ovvero che il movente politico-terroristico fu «un’abile operazione di dissimulazione dell’effettivo movente del rapimento di Emanuela Orlandi, destinato probabilmente a rimanere sconosciuto». Si concluse, quindi, anche nel 2015 per «l’inesistenza del fine terroristico»204G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015.


 

b) Il molteplice fallimento degli obbiettivi.

Chi sostiene l’ipotesi della pista internazionale dovrebbe spiegare perché tutti i presunti ricatti e/o depistaggi messi in piedi con tanta astuzia, fallirono su tutta la linea.

E’ vero che Ali Agca, cinque giorni dopo la sparizione di Emanuela e un giorno dopo essere stato minacciato in carcere, ritrattò improvvisamente le accuse verso i bulgari, inficiando la sua attendibilità e rovinando il processo. Ma pochi anni dopo tornò ad accusare i servizi segreti bulgari di complicità. Antonov fu assolto dalle accuse soltanto nel 1986.

Un altro obbiettivo sarebbe stato influire sul comportamento del Vaticano verso i paesi dell’Est, ma Giovanni Paolo II non mutò mai la sua dura politica nei confronti del comunismo, nemmeno dopo la sparizione di Emanuela.

Il terzo obbiettivo di cui qualcuno parla è il tentativo di recuperare i soldi che sarebbero stati prestati da oscuri ambienti (mafia? Licio Gelli?) al Banco Ambrosiano (il cui crack avvenne nel 1981 e fu liquidato il 06/08/1982) anche per il finanziamento di Solidarnosc. Non risulta che qualcuno abbia mai recuperato questi ipotetici denari dopo la sparizione della Orlandi.


 

c) Mancanza di prove certe di Emanuela da parte dei sequestratori.

Se i telefonisti e le varie sigle (“Phoenix”, “Turkesh”, “Nomlac”, “Tukum” ecc.) che rivendicarono il rapimento di Emanuela avessero davvero voluto ottenere il ritiro delle accuse di Agca verso i paesi dell’Est, la sua liberazione e il recupero dei soldi spariti con il crack del Banco Ambrosiano, perché non dimostrarono in maniera certa di aver sequestrato la Orlandi?

Certo, come abbiamo visto si sforzarono di produrre dettagli biografici piuttosto precisi di Emanuela, come diverse fotocopie di tessere e iscrizioni alla scuola di musica e una fotocopia del frontespizio di un album con gli spartiti alla giovane.

Molto più semplicemente sarebbe bastata una fotografia di Emanuela con a fianco un quotidiano che mostrasse la data, il classico metodo utilizzato da tutti i gruppi terroristici per stabilire una prova di vita degli ostaggi e negoziare con le autorità per le loro richieste.

I casi sono tre:
1) I presunti sequestratori (telefonisti e autori dei comunicati) avevano solo carpito in qualche modo oggetti e informazioni dettagliate sulla Orlandi senza aver nulla a che vedere con la sua sparizione;
2) I presunti sequestratori (telefonisti e autori dei comunicati) erano entrati in contatto con chi aveva sequestrato Emanuela Orlandi per motivi estranei al ricatto internazionale (nella sentenza di proscioglimento del 1997 si sospettò infatti che ci potesse essere stato «un contatto con il gruppo che per primo aveva ottenuto e utilizzato le informazioni su Emanuela, per appropriarsene e riciclarle a sua volta»205G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 5);
3) I presunti sequestratori (telefonisti e autori dei comunicati) effettivamente erano tali ma non avevano interesse ad un ricatto pubblico con i loro interlocutori e usarono i media soltanto per lanciare allusioni ricattatorie (messaggi, codici ecc.), mentre la vera trattativa sarebbe avvenuta sotto traccia. D’altra parte Agca ritirò le sue accuse due giorni dopo la sparizione della Orlandi, leggendovi un messaggio nei suoi confronti per motivi inspiegabili all’opinione pubblica ma nonostante ciò la Orlandi non fu rilasciata e pochi anni dopo il turco tornò ad accusare i servizi bulgari.

La non chiarezza di questo aspetto la consideriamo tuttavia un punto di debolezza dell’ipotesi della pista internazionale.


 

d) Non spiega alcuni elementi chiave.

La pista internazionale risulta convincente in molti aspetti, dando una spiegazione verosimile di quanto accadde in quegli anni.

Eppure alcuni elementi chiave del caso Orlandi non vengono affatto chiariti.

Innanzitutto tale ipotesi può spiegare perché il caso Orlandi sia così complesso e intricato, coinvolgendo lo Stato italiano, lo Stato vaticano, servizi segreti italiani ed esteri, gruppi terroristici, mafiosi e malavitosi locali. E’ stato inoltre collegato a diverse altre scomparse/uccisioni misteriose avvenute in quegli anni (Alessia Rosati, Katy Skerl, Jeanette de Rothschild ecc.).

Ma la pista internazionale svelerebbe solo che al caso della sparizione della Orlandi si siano interessati successivamente numerosi ambienti e personaggi, desiderosi di approfittare della situazione per perseguire i loro interessi economici-politici. Non dimostra che Emanuela sia stata rapita proprio da chi operò le presunte trattative ricattatorie..

E che dire della sparizione di Mirella Gregori? La giovane non fu più ritrovata il 7/05/83 e il collegamento con il caso Orlandi avvenne ufficialmente tre mesi dopo tramite il “Komunicato 1” da uno dei principali gruppi di presunti sequestratori, il Fronte Turkesh206P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 75. In che modo tale pista legata all’attentato al Papa e ai soldi del Banco Ambrosiano spiegherebbe la sparizione di una cittadina italiana?

Un altro aspetto inverosimile è come potesse il sequestro di una figlia di un semplice dipendente del Vaticano (Emanuela) e di una semplice cittadina italiana (Mirella) avere la forza di influire sull’atteggiamento del Vaticano verso il comunismo sovietico, condizionare il processo su Alì Agca o addirittura ottenerne la liberazione (era incarcerato in Italia, non in Vaticano) e recuperare i soldi persi nel fallimento del Banco Ambrosiano.

Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che la sparizione di giovani donne poteva venire usata come ricatto per atti di pedofilia verso il mondo ecclesiastico. Eppure, non solo Emanuela non rientrò mai a casa, ma non risulta che vi siano stati religiosi direttamente legati all’allora capo dello Ior, Paul Marcinkus, che vennero macchiati da accuse mediatiche di pedofilia.

Un altro elemento chiave privo di spiegazione è in quale modo il sequestro di alcune adolescenti (come Orlandi e Mirella) avrebbe potuto intenerire il terrorista turco Agca tanto da spingerlo a rovinare completamente la sua reputazione e le accuse ai suoi mandanti? Nel 1997 rivelò di aver distrutto il processo sull’attentato al Papa dopo che ricevette minacce in carcere dagli agenti-magistrati bulgari Petkov e Ormankov, i quali lo intimarono a tacere altrimenti «il cadavere di Emanuela verrà gettato in Piazza San Pietro e poi tu sarai ammazzato»207Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 11.

Perché il killer Alì Agca, già autore dell’omicidio del giornalista Abdi Ipekci e attentatore di Papa Wojtyla, avrebbe dovuto preoccuparsi per il cadavere della Orlandi?

A questo ha risposto Marco Accetti, colui che si è accusato di aver organizzato la sparizione della Orlandi e della Gregori per ottenere proprio la ritrattazione delle accuse di Agca verso i bulgari: «La rappresaglia annunciatagli in carcere dai giudici bulgari in realtà riguardava sua sorella: era Fatma che gli dissero di voler ammazzare e Agca, per tutelarla, nella lettera a Martella parlò non di lei, ma della Orlandi. D’altra parte, minacciarlo attraverso ritorsioni su Emanuela, persona a lui sconosciuta, non aveva senso. Figurarsi al signor Agca, turco e islamico, cosa gliene importava della figlia di un dipendente vaticano»208in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 157.

Un altro elemento inspiegato: se la ritrattazione improvvisa di Agca subito dopo la sparizione della Orlandi è effettivamente un punto a favore, perché il turco tornò presto ad accusare i bulgari per l’attentato al Papa e per averlo minacciato in carcere, comportandosi così in modo opposto al volere degli autori dei comunicati?

Non si capisce inoltre perché l’attentatore turco abbia continuato a farsi passare come pazzo anche a distanza di anni dalla fine del processo, fin dopo la sua scarcerazione. Nel corso del primo dibattimento sull’attentato al Papa la difesa contò 107 versioni diverse e contraddizioni nelle sue dichiarazioni.

Agca ha proseguito fino ai giorni attuali ad affermare che Emanuela sarebbe viva, collocandola in diverse località, accusando la Cia, il Vaticano e altre istituzioni, scrivendo alla famiglia e facendo viaggiare il fratello Pietro per raccontargli fatti rivelatisi bugie. Perché proseguire nel (presunto) depistaggio anche senza interessi personali da ottenere? Oscure ragioni? E’ realmente pazzo? Obbedisce ad una regia nascosta? Ha ancora paura?

Il suo comportamento non è mai sembrato in linea con le ragioni di chi sostiene la “pista internazionale”.


 

e) I primi telefonisti non erano interessati a Alì Agca.

I primi due telefonisti, “Pierluigi” e “Mario”, hanno dimostrato di conoscere particolari inediti su Emanuela a poche ore dalla sua scomparsa. Secondo gli inquirenti ebbero quasi certamente a che fare con la sua sparizione.

La tesi della pista internazionale si scontra però con il fatto che i due anonimi personaggi non erano affatto interessati al processo su Alì Agca o all’attentato del Papa. Vollero invece far passare la vicenda come una semplice scappatella.

La connessione tra Emanuela e la liberazione di Agca verrà fatta per la prima volta nella prima telefonata dell'”Amerikano“, avvenuta il 05/7/1983.

Se erano membri di un unico piano (come è quasi certo che fosse così), come spiegare l’atteggiamento dei primi due telefonisti?

Nessun telefonista o komunicato inoltre si riferì mai, neanche velatamente, alla restituzione di denaro, al Banco Ambrosiano o a Roberto Calvi.

Questo avvalora che la negoziazione avrebbe voluto almeno nelle intenzioni agire sotto traccia? La non chiarezza su questo aspetto lo riteniamo un punto debole della pista internazionale.


 

f) I comunicati ottennero un effetto controproducente.

I “Komunicati” delle varie sigle di presunti sequestratori che comparvero dopo la sparizione di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori ebbero in comune il voler passare per amici e solidali di Alì Agca, tentando di portare l’attenzione sugli idealisti turchi e sui Lupi Grigi.

Un’operazione plateale fin dai nomi che si diedero: “Nuova organizzazione musulmana per la lotta anticristiana” e “Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh”, un evidente richiamo al colonnello nazionalista turco Arsaplan Turkesh, l’ideologo dei “Lupi Grigi” e di Alì Agca.

Un’idea assolutamente (o volutamente?) controproducente, realmente pensavano di poter essere creduti?

A parte il primo periodo, inoltre, gli autori dei comunicati apparvero in contrasto con il comportamento dello stesso Agca il quale, come è stato rilevato, produsse infinite dichiarazioni deliranti «con l’effetto chiaro di inficiare le acquisizioni sul “livello” turco delle indagini».

Il “Fronte Turkesh” voleva portare l’attenzione sui turchi e Alì Agca voleva toglierla. Un mese dopo la sparizione della Orlandi il turco, affermò: «Non accetterò nessuno scambio con la ragazza». Disse di non capire l’interesse di queste persone con lui e aggiunse: «Rifiuto ogni scambio con qualcuno, sto bene nelle carceri italiane»209citato in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 91.

Il “Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh” voleva risultare appositamente controproducente? Ma anche questo tentativo appare ovvio, banale e quindi controproducente allo stesso modo. Se non fosse stato per i dettagli biografici e le fotocopie dei documenti che fornirono riguardanti Emanuela e le telefonate ad amiche e compagne per dettare i loro messaggi, nessuno semplicemente li avrebbe mai presi sul serio.

Non si può escludere che l’interesse fosse solo depistare gli inquirenti e la stampa, usandoli per tenere il caso sotto i riflettori e inviando a presunti interlocutori messaggi o codici da interpretare e decifrare. Le minacce del gruppo Phoenix ad altre sigle e ai primi telefonisti sembra dimostrare l’inserimento nel caso di gruppi con obbiettivi opposti o l’azione dei servizi segreti italiani.

Ancora una volta, riteniamo che la non chiarezza su questo aspetto indebolisca la tesi della pista internazionale.

 

 

3.3 Conclusioni sulla pista internazionale.

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L’ipotesi della pista internazionale, sostenuta da autorevoli personalità, effettivamente contestualizza tramite una descrizione piuttosto organica la vicenda Orlandi nello scenario internazionale che in quegli anni vedeva gli Stati dell’est e i loro servizi segreti molto sensibili alle posizioni politiche del Vaticano, così come offre una chiave di lettura all’improvvisa ritrattazione dell’attentatore turco, Ali Agca, pochi giorni dopo la sparizione di Emanuela Orlandi.

E’ impensabile che fossero così ingenui da ritenere di poter essere creduti senza offrire una prova certa della detenzione della ragazza, allo stesso modo è difficile credere che puntassero realmente alla liberazione di Agca tramite comunicati farneticanti e, come abbiamo visto, controproducenti.

Se davvero furono personaggi talmente abili da tenere sotto scacco per anni la stampa e gli inquirenti, sicuramente sapevano che il Vaticano nulla può su una condanna della magistratura italiana, il cui Stato non avrebbe mai rilasciato l’attentatore del Papa in cambio di una adolescente (con tutto il rispetto per la sacralità della sua vita) che, oltretutto, non avevano mai dimostrato di aver rapito.

Lo stesso giudice Ilario Martella, alla domanda di esplicitare concretamente un collegamento fra il sequestro Orlandi e il tentativo di utilizzarlo come
merce di scambio per Agca, rispose: «Non posso dire che esistono elementi concreti, ma solo ipotesi plausibili»210I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 19.

E’ più sostenibile che volessero più semplicemente indurre Agca a ritrattare le accuse ai bulgari? Ciò di fatto avvenne temporaneamente solo pochi giorni dopo la scomparsa di Emanuela (ma non di Mirella).

Dalle sue dichiarazioni, gli avrebbero detto in turco (il bulgaro Petkov parlava perfettamente turco211I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 10): «Il KGB ti comunica che ci saranno altri tentativi per la tua liberazione come il caso Orlandi; devi tacere, altrimenti il cadavere di Emanuela verrà gettato in Piazza San Pietro e poi tu sarai ammazzato»212Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 11.

Al di là dell’attendibilità di Agca, suona strano che si fidarono così tanto dell'”umanità” di un terrorista. Solo un mese dopo, Agca dimostrò di non capire cosa volessero da lui i “sequestratori”.

A tal proposito, occorre precisare la perplessità del giudice Ilario Martella, presente in quei giorni assieme ai due giudici bulgari, di aver saputo di queste minacce soltanto 13 anni dopo (nel 1997): «Può darsi che la minaccia sia stata fatta nei momenti in cui Ormankov ed io andavamo a prendere un caffè, ma non potevo minimamente pensare che un magistrato minacciasse l’imputato. Ove l’avesse fatto, perché Agca non me ne ha parlato allora?»213I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 10.

Inoltre, cosa c’entrava in tutto questo il sequestro di Mirella Gregori, rivendicato dal “Fronte Turkesh”? Forse per indurre il presidente Pertini alla grazia presidenziale? E perché i primi telefonisti non furono interessati né ad Agca, né alla cittadina italiana?

Alla luce di questa analisi riteniamo che i punti di debolezza ridimensionino la credibilità della pista internazionale.

Non a caso gli inquirenti nel 1997, dopo oltre dieci anni di studio di questa ipotesi, hanno concluso sostenendo che non si trattò di rapimento ma soltanto di un depistaggio il quale, semmai, potrebbe avvalorare l’interesse di Stati esteri e servizi segreti internazionali ad Alì Agca e alle sue deposizioni, non certo dimostrare che i rapitori della Orlandi fossero gli stessi autori dei comunicati. Nell’archiviazione del 2015 si parlò chiaramente di «inesistenza del fine terroristico».

 
 

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4. EMANUELA ORLANDI E LA BANDA DELLA MAGLIANA.

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Secondo i sostenitori di questa pista investigativa, la Banda della Magliana, guidata da Enrico De Pedis (detto Renatino), avrebbe rapito Emanuela Orlandi nel tentativo di ricattare il Vaticano per ottenere la restituzione dei soldi che, assieme alla mafia siciliana facente capo Pippo Calò, avrebbe investito (e poi perso con il fallimento) nel Banco Ambrosiano214G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 11.

Una seconda versione ritiene questa pista collegata alla “pista internazionale”, sostenendo che esponenti della Magliana avrebbero avuto soltanto un ruolo di “manovalanza”. Il giudice Rosario Priore ha spiegato che «in Italia abbiamo individuato tante agenzie di servizi, a partire dalla banda della Magliana. Eessi fanno servizi per chiunque glieli chieda»215R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 12.

La pista della Banda della Magliana si è aperta ufficialmente l’11/07/2005 con una telefonata anonima alla trasmissione Chi l’ha visto?:

«Riguardo al fatto di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso, andate a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant’Apollinare, e del favore che Renatino fece al cardinal Poletti, all’epoca, e chiedete al barista di via Montebello, che pure la figlia stava con lei..l’altra Emanuela….e i genitori di Emanuela sanno tutto. Però siccome siete omertosi, non direte un cazzo come al solito!».

 

L’anonimo telefonista con “l’altra Emanuela” si riferì chiaramente Mirella Gregori. Alla telefonata facevano seguito un fax e alcune lettere anonime pervenute alla trasmissione televisita e presso l’abitazione degli Orlandi216G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 11.

Nonostante la telefonata del 2005 a Chi l’ha visto?, gli inquirenti erano già a conoscenza della salma di De Pedis nei sotterranei della Basilica di Sant’Apollinare. Il 12/12/1995, dieci anni prima, infatti, interrogarono in merito mons. Pietro Vergari, allora rettore della Basilica, il quale confermò la sua amicizia con De Pedis da prima del 1993, quando era cappellano del carcere di Regina Coeli.

Il prelato attestò quanto già contenuto nei documenti di sepoltura, ovvero che De Pedis fu molto generoso con i poveri della parrocchia (più sotto un approfondimento). La moglie dell’uomo, Carla Di Giovanni, chiese la tumulazione nei sotterranei dopo aver finanziato i lavori di risanamento della cripta. Ascoltata in Procura il 9/06/1995, la donna spiegò di aver sostenuto le spese assieme a Marco De Pedis, il fratello di Enrico, per un totale di 37 milioni di lire.

Gli inquirenti accertarono le dichiarazioni, osservando dai documenti del Comune di Roma che la sepoltura avvenne il 24/04/1990 e rilevando il nulla osta alla sepoltura rilasciato dal Vicario di Roma, Ugo Poletti, datato 10/03/1990.

Nonostante la spropositata campagna mediatica sul caso da parte di Chi l’ha visto, altrettanto veementemente osteggiata da Pino Nicotri e dalla vedova di De Pedis, la vicenda della sepoltura di De Pedis si chiuse alla fine del 2012 con l’infruttuosa perquisizione della tomba e dell’intera basilica di Santa Apollinare, nonché il proscioglimento di mons. Vergari.

La Santa Sede in merito manifestò più volte la completa disponibilità all’ispezione della Basilica di Sant’Apollinare, nel 2012 padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, confermò: «Si ribadisce che da parte ecclesiastica non si frappone nessun ostacolo a che la tomba sia ispezionata e che la salma sia tumulata altrove, perché si ristabilisca la giusta serenità, rispondente alla natura di un ambiente sacro».

Prima di soppesare le argomentazioni favorevoli e contrarie alla pista della Banda della Magliana, riteniamo utile analizzare l’effettivo coinvolgimento di alcuni personaggi che sono stati collegati alla vicenda:

 

4.1 Sabrina Minardi.

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Sabrina Minardi entrò nel caso Orlandi il 15 marzo 2008, anno in cui si presentò in Procura con la sua testimonianza.

Il 4 giugno 2008 la donna disse agli inquirenti di essere stata l’amante di De Pedis dal 1982 al 1984 il quale, in una sera imprecisata e con l’aiuto di Sergio Virtù, le avrebbe messo in macchina una ragazza, da lei riconosciuta essere Emanuela Orlandi, che consegnò ad un uomo vestito da prete a bordo di un’auto targata Città del Vaticano, alla fine di via delle Mura Aurelie.

Il pubblico ministero la ritenne una lunga e confusa deposizione, rilevando inoltre che la donna in quel periodo era in cura poiché tossicodipendente217G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 12.

In successive interrogazioni (28/10/2008, 18/11/2009, 18/03/2010 e 27/05/2010) raccontò che prima di tale episodio, Emanuela sarebbe stata sequestrata da tre uomini della Magliana (ricordando solo Angelo Cassani), portata all’EUR e consegnata a De Pedis. In un’altra occasione racconterà che venne invece consegnata a Renatino da due donne.

La Orlandi sarebbe stata quindi segregata, prima in una casa appartenente alla stessa Minardi a Torvajanica, poi al n° 13 di via Antonio Pignatelli in un appartamento di Daniela Mobili e con la complicità di Danilo Abbrucciati. La carceriera sarebbe stata la badante.

Nel 1993, disse ancora la Minardi, avrebbe visto De Pedis e Sergio Virtù buttare due sacchi dentro una betoniera in un cantiere, capendo che in uno ci sarebbe stata la Orlandi. Glielo avrebbe poi riferito anche De Pedis, aggiungendo che nell’altro sacco ci sarebbe stato il piccolo Domenico Nicitra. La mattina dopo De Pedis avrebbe negato la presenza della Orlandi nel sacco.

Il 5/11/2008 la Minardi ha invece sostenuto che la ragazza sarebbe stata portata in un paese arabo, mentre nell’ultima audizione del 18/03/2010 ha sostenuto che il corpo sarebbe stato gettato in mare da De Pedis e Virtù.

Al di là delle continue contraddizioni, la Minardi sicuramente dice il falso riguardo il piccolo Nicitra, figlio di un ex boss della Magliana, il quale morì il 21/06/1993, dieci anni dopo il rapimento Orlandi e tre anni dopo la morte di De Pedis. Oltretutto, la donna non è mai riuscita ad indicare il luogo esatto del cantiere.

Quasi nulla delle dichiarazioni della Minardi trovò infatti conferma.

Rispetto all’appartamento-prigione di Emanuela di via Pignatelli, Abbrucciati morì prima della sparizione di Emanuela, mentre la Mobili rispose agli inquirenti che dal 1982 al 1984 si trovava in carcere e non aveva una domestica fissa.

Il 18/01/2010 in un’informativa della polizia, si segnalò che la Minardi stava cercando di ottenere a tutti costi un guadagno dalle sue dichiarazioni mediatiche sia per l’ottenimento di una casa dal Comune di Roma che per pubblicità al suo libro sul caso Orlandi218G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 37.

Nel 2015 la Procura concluse ritenendo la Minardi «un testimone difficile a causa della sua tossicodipendenza e delle pessime condizioni di salute, fisiche e mentali. Le sue dichiarazioni appaiono e sono del tutto inverosimili, oltre che contraddittorie nelle versioni succedutesi nel tempo». Così, «le incongruenze evidenziate sono talmente numerose e macroscopiche da compromettere in toto la credibilità della dichiarante, senza che sia ravvisabile una plausibile spiegazione delle molteplici incoerenze e dei vari contrasti con dati certi»219G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 32, 37.

Inoltre, gli inquirenti rilevarono da un’informativa del 2010 che la Minardi cercava in tutti i modi un guadagno dalle sue dichiarazioni, in particolare pubblicità per il suo libro220G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 20.

C’è un piccolo dettaglio che merita tuttavia attenzione, non tenuto in considerazione nell’istruttoria di archiviazione del 2015.

Il 17/10/1983 in un comunicato legato al caso Orlandi e firmato “Dragan”, si invitò ad indagare su un giocatore della Lazio, Arcadio Spinozzi (si certificò in seguito la sua estraneità). Al termine del messaggio venne disegnato il nome “Sergio”, seguito dalla parola “morte”.

Sabrina Minardi è stata la ex moglie proprio di un giocatore della Lazio, Bruno Giordano ed è lei ad aver accusato Sergio Virtù di aver ucciso, assieme a De Pedis, Emanuela Orlandi. Solo una coincidenza?

La credibilità di Sabrina Minardi è stata avvalorata in parte da Marco Accetti, reo-confesso di aver architettato il finto sequestro di Mirella e Emanuela. Quest’ultima sarebbe stata ospitata in due appartamenti della Magliana nel quartiere Monteverde e nella cittadina di Torvajanica, due luoghi citati anche nella telefonata di “Mario” pochi giorni dopo la scomparsa della Orlandi. «Non si può immaginare che la Minardi possa aver avuto accesso a tali verbali secretati», ha sostenuto Accetti nel 2013, ritenendo la telefonata di “Mario” ancora in parte secretata221M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.

L’uomo ha quindi concluso: «Né si può ritenere che tra tanti quartieri di Roma e tante località marittime possa essersi verificata una mera, fortuita coincidenza nell’essere citati da entrambi i personaggi, “Mario” e la Minardi»222M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.

 

4.2 Marco Sarnataro, Carlo Alberto e Giuseppe De Tomasi.

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Tra il 2008 e il 2009 Salvatore Sarnataro, padre di Marco Sarnataro (deceduto nel 2007), dichiarò che il figlio gli avrebbe rivelato di aver prima pedinato Emanuela Orlandi per le vie di Roma assieme a «uno fra “Gigetto” e “Ciletto”, oppure anche tutti e tre», e poi l’avrebbero sequestrata su ordine di De Pedis. Dopo averla fatta salire su una BMW berlina in una fermata dell’autobus di piazza Risorgimento, senza alcuna resistenza da parte della ragazza, l’avrebbero condotta al laghetto dell’Eur e consegnata a “Sergio” (Sergio Virtù?), autista di De Pedis. Non sarebbe stato a conoscenza della sua morte223G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 20.

La Procura espresse dubbi dovuti alla pessima condizione di salute di Salvatore Sarnataro e al fatto che rilasciò informazioni di seconda mano (ricevute dal figlio), contenenti alcune contraddizioni. Tuttavia, scrissero gli inquirenti, «non si ravvisano motivi per i quali costui avrebbe dovuto attribuire al figlio una così grave condotta»224G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 38 e lo ritenne «certamente attendibile»225G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 41 nell’aver ricevuto queste confidenze dal figlio.

Le contraddizioni di Salvatore Sarnataro riguardarono in particolare la confusa collocazione temporale di quando apprese queste informazioni dal figlio. Non c’è mai stato riscontro sufficiente alle sue dichiarazioni226G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 38, 41.

Va ricordato, pur sempre considerando il notevole lasso di tempo, che Marco Sarnataro sarebbe stato riconosciuto con alta probabilità da due amici di Emanuela, Angelo Rotatori e Paola Giordani, come uno dei giovani che avrebbero pedinato loro e la Orlandi nei giorni antecedenti al sequestro. Altri amici della ragazza avrebbero individuato soltanto Sergio Virtù (Gabriella Giordani) o nessuna delle fotografie mostrate.

Gli inquirenti hanno rilevato tuttavia contraddizioni anche nei racconti dei vari amici di Emanuela, creando dei «limiti di attendibilità derivanti innanzitutto dal considerevole lasso di tempo tra il momento dell’osservazione e quello che in cui l’indagine è stata effettuata (oltre 20 anni)». Senza contare, oltretutto, il possibile condizionamento sui ricordi a causa dell’elevata esposizione mediatica del caso.

 

Qui sotto il confronto tra l’identikit fatto da Angelo Rotatori e Marco Sarnataro:

 

Le contraddizioni degli amici di Emanuela rispetto al riconoscimento degli uomini che li avrebbero pedinati nei giorni precedenti la scomparsa della ragazza sono state dettagliatamente sottolineate dal giornalista Tommaso Nelli.

 

Per quanto riguarda Carlo Alberto De Tomasi e il figlio Giuseppe, abbiamo accennato alla telefonata anonima del 2005 a Chi l’ha visto? che aprì le indagini sui legami tra la Banda della Magliana e il caso Orlandi.

Nel luglio 2008 e nel dicembre 2008 due analisi disposte dalla Procura ravvisarono una similitudine con la voce di Carlo Alberto De Tomasi e quella del telefonista anonimo che chiamò la trasmissione Chi l’ha visto? nel 2005227G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 27.

Una terza consulenza (dicembre 2008) indicò un’elevata corrispondenza con il telefonista “Mario” per Giuseppe De Tomasi (detto Sergione)228G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 26, 27.

Ascoltati in procura nel 2010, padre e figlio hanno negato di essere gli autori della telefonata229G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 27.

Una sentenza del 1994 stabiliva oltretutto che Giuseppe De Tomasi (detto Sergione) fu arrestato il 21/06/1983, giorno prima della sparizione di Emanuela, per riciclaggio di denaro. Dunque non ha potuto essere il telefonista “Mario”.

 

4.3 Sergio Virtù, Angelo Cassani e Gianfranco Cerboni.

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Sulla scia delle dichiarazione di Sabrina Minardi, la Procura ha intercettato a lungo i telefoni di Sergio Virtù, Angelo Cassani e Gianfranco Cerboni, senza rintracciare elementi di rilevanza. Almeno per quanto riguarda gli ultimi due.

Rispetto a Sergio Virtù, vi fu una intercettazione telefonica del 20/12/2009 tra lui e l’amante Maria Lldiko Kiss, durante la quale la donna gli chiese se la polizia aveva elementi su di lui relativi alla Orlandi. «Orlandi, Orlandi, Orlandi, Orlandi…», rispose l’uomo, «io me le volevo scordà queste cose dopo 23 anni».

Dopo aver sostenuto di volerne parlare di persona e di temere che le indagini possano portare a lui, per questo cambierebbe spesso numero di telefono, aggiunse: «Purtroppo quando ero giovane…stavo in un ambiente un po’ particolare, eravamo tutti scapestrati…però mica me pento di quello che ho fatto, l’ho fatto per i soldi e non me ne frega niente di quello che ho fatto…me interessa andamme a prendere dei permessi lontano, magari ce potrei avè dei problemi che me se ripercuotono contro…»230G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 24.

A questo link è possibile visionare l’intera intercettazione telefonica di Sergio Virtù.

Secondo la Procura, Virtù «è certamente a conoscenza di particolari compromettenti della vicenda»231G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 40, 41, come provato da questa intercettazione e dalla rivelazione di dover cambiare spesso utenze telefoniche perché «ti perseguitano tutta la vita questi».

L’uomo ha negato di aver avuto questa conversazione telefonica mentre la donna ammise di aver affrontato il discorso con lui232G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 24.

Nonostante ciò, gli inquirenti conclusero che «il quadro probatorio rimane insufficiente e troppo incerto per sostenere l’accusa in giudizio nei confronti di Virtù»233G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 41. L’intercettazione accerterebbe al massimo la conoscenza di particolari compromettenti, non certificando però la sua colpevolezza nell’evento.

Mentre le accuse della Minardi sono risultate inattendibili, il riconoscimento fotografico di Sergio Virtù da parte di un’amica di Emanuela (Gabriella Giordani) sugli uomini che li avrebbero pedinati prima della scomparsa ha una «minima attendibilità» secondo gli inquirenti234G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 42 (è stato definito come “vagamente somigliante” dopo un periodo di vent’anni dai fatti, mentre altri amici non hanno identificato lui come uno dei pedinatori).

Nel 2010 un’allieva della scuola di musica di Emanuela, Marta Szepesvari, le sembrò di riconoscere proprio in Sergio Virtù nel giovane che, il giorno prima della scomparsa di Emanuela, fissava l’ingresso della scuola come se attendesse qualcuno235G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 18.

Ricordiamo anche che il nome “Sergio”, come abbiamo già visto, fu disegnato a fiancola parola “morte” nel comunicato firmato “Dragan” del 17/10/83, dove si invitava ad indagare in merito alla Orlandi su un giocatore della Lazio, Arcadio Spinozzi. Sabrina Minardi è stata ex moglie di un giocatore della Lazio, Bruno Giordano e nel 2008 ha accusato Sergio Virtù di aver ucciso, assieme a De Pedis, Emanuela Orlandi.

Infine, nella sua deposizione su quanto gli avrebbe raccontato il figlio Marco, Salvatore Sarnataro indicò il nome “Sergio”, autista di De Pedis, come l’uomo a cui il figlio avrebbe consegnato Emanuela Orlandi dopo il sequestro.

 

Per quanto riguarda Gianfranco Cerboni e Angelo Cassani, chiamati in causa da Sabrina Minardi e Salvatore Sarnataro, la Procura ha più volte certificato i loro stretti legami d’amicizia almeno fino al 1984236G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 24.

Cassani e Cerboni negarono di conoscere Sergio Virtù, non riuscendo nemmeno a riconoscerlo fotograficamente. Tuttavia, in un’intercettazione telefonica dell’11/03/10, parlarono di lui in modo molto amichevole, dimostrando invece di conoscerlo bene: «Pensa a Sergio, poveretto, quello lo hanno bevuto!»237G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 25.

Anche Maurizio Abbatino, collaboratore di giustizia e accusatore della Magliana, ha rilevato nel 2009 alcune confidenze raccolte fra i membri sul coinvolgimento di De Pedis, Angelo Cassani (detto “Ciletto”), Libero Angelico (detto “Rufetto”) e Gianfranco Cerboni (detto “Gigetto”) nel sequestro e nell’uccisione della Orlandi.

 

Nel video qui sotto, Angelo Cassani rigetta le accuse:

 

Marco Accetti, reo-confesso di essere stato il regista del sequestro, ha dichiarato di aver coinvolto De Pedis nel caso Orlandi e che alcuni dei suoi uomini di De Pedis, in particolare “Ciletto” (Angelo Cassani) e “Giggetto” (Gianfranco Cerboni), si sarebbero recati nel bar dei Gregori proprio il giorno prima della sparizione di Mirella, quando fu inaugurato il locale.

Il 21/10/1986, su indicazione del cameriere Giuseppe Calì, venne eseguito un identikit del volto di una persona vista dal teste nel bar dei Gregori una settimana prima della scomparsa di Mirella, il quale assomiglia notevolmente al volto di Angelo Cassani.

Come già detto, Angelo Cassani fu riconosciuto con vari gradi di probabilità da due amici di Emanuela (Gaetano Palese e Angelo Rotatori) come uno dei giovani che li pedinarono prima dela scomparsa della giovane238G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 20.

 

Qui sotto il confronto tra l’identikit fatto da Angelo Rotatori e Angelo Cassani:

 

4.4 Antonio Mancini, Maurizio Abbatino e Maurizio Giorgetti.

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Nel 2015, la Procura di Roma ha constatato che tra i componenti della Banda della Magliana interrogati dagli inquirenti, a coinvolgere De Pedis con il caso Orlandi sono stati solo i pentiti Antonio Mancini e Maurizio Abbatino.

Sia Mancini che Abbatino hanno dichiarato di aver appreso del coinvolgimento di De Pedis da altri componenti della Banda, senza fare nomi e fornendo agli inquirenti indicazioni generiche239G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 12.

Antonio Mancini, detto “Accattone”, coinvolse De Pedis sostenendo ai magistrati che in carcere, all’epoca della scomparsa di Emanuela, «si diceva che la ragazza era robba nostra (della banda, ndr), l’aveva presa uno dei nostri».

Maurizio Abbatino, collaboratore di giustizia e accusatore della Magliana, nel 2009 rivelò alcune confidenze raccolte fra i membri sul coinvolgimento di De Pedis, Angelo Cassani, Libero Angelico (detto “Rufetto”) e Gianfranco Cerboni (detto “Gigetto”) nel sequestro e nell’uccisione della Orlandi.

Per entrambi la Procura concluse che le informazioni prodotte erano «notizie de relato, non direttamente riscontrabili e comunque relative alla sola posizione del De Pedis»240G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 42.

 

Maurizio Giorgetti intervenne nel caso Orlandi nel 2010 sostenendo che in epoca precedente alla scomparsa di Emanuela si sarebbe recato in un ristorante in gestione a Giuseppe De Tomasi e avrebbe ascoltato un dialogo tra lo stesso De Tomasi, Ciletto (cioè Angelo Cassani) e Manlio Vitali che parlavano di un prelievo di una ragazzina a scopo ricattatorio per recuperare delle somme di denaro ed esercitare pressioni.

Dopo le verifiche della Procura è stata verificata la totale inaffidabilità di Giorgetti e l’infondatezza delle sue rivelazioni241G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 54.

 

4.5 Don Piero Vergari e la Basilica di Sant’Apollinare.

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Dopo la famosa telefonata anonima del 2015 a Chi l’ha Visto?, la Basilica di Sant’Apollinare e il rettore don Piero Vergari sono stati per molto tempo al centro del collegamento tra la Magliana e la Orlandi.

Nel 2015 gli inquirenti hanno tuttavia concluso che dalla perquisizione della basilica, compresi gli accertamenti tecnici nella cripta in cui era sepolto De Pedis e lo studio delle ossa prelevate dagli ambienti circostanti, non si sono ricavati indizi utili242G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 31, 32, 42. Questo «ha escluso il coinvolgimento di mons. Vergari nella vicenda, ipotizzato in considerazione dell’amicizia con De Pedis»243G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 42.

Nessun teste, d’altra parte, ha mai accusato l’allora rettore e, anche se nelle sue dichiarazioni si rilevarono piccole incongruenze rispetto a quelle riferite da Carla Di Giovanni, moglie di De Pedis, queste non determinarono alcuna significativa valenza agli occhi dei magistrati.

Lo stesso don Piero Vergari ha precisato di aver accolto la richiesta della moglie di De Pedis di seppellirlo nei sotterranei di S. Apollinare, chiesa nella quale aveva celebrato il loro matrimonio. La salma, al contrario di quanto riferito dall’opinione pubblica, venne posta nei sotterranei della basilica dove non sono sepolti né Papi né cardinali, in un corridoio abbandonato da oltre un secolo e non situato in terra consacrata.

Nel 2005 don Piero Vergari scrisse questo testo in merito ai fatti:

«Nel carcere mai ho domandato a nessuno perché De Pedis era là o che cosa aveva fatto. Tra le centinaia di persone incontrate dei più diversi stati sociali, parlavamo di cose religiose o di attualità; Enrico De Pedis veniva come tutti gli altri, e fuori dal carcere, ci siamo visti più volte: normalmente nella chiesa di cui ero rettore, sapendo i miei orari e altre volte fuori, per caso. Mai ho veduto o saputo nulla dei suoi rapporti con gli altri, tranne la conoscenza dei suoi familiari. Aveva il passaporto per poter andare liberamente all’estero. Mi ha aiutato molto per preparare le mense che organizzavo per i poveri. Quando seppi dalla televisione della sua morte in Via del Pellegrino, ne restai meravigliato e dispiacente. Qualche tempo dopo la sua morte i familiari mi chiesero, per ritrovare un po’ di serenità, poiché la stampa aveva parlato del caso e da vivo aveva espresso loro il desiderio di essere un giorno sepolto in una delle antiche camere mortuarie, abbandonate da oltre cento anni, nei sotterranei di S. Apollinare, di realizzare questo suo desiderio. Furono chiesti i dovuti permessi religiosi e civili, fu restaurata una delle camere e vi fu deposto. Anche in questa circostanza doveva essere valido come sempre il solenne principio dei Romani “Parce sepulto”: perdona se c’è da perdonare a chi è morto e sepolto. Restammo d’accordo con i familiari che la visita alla cappella funeraria era riservata ai più stretti congiunti. Questo fu osservato scrupolosamente per tutto il tempo in cui sono rimasto rettore, fino al 1991».

 

Le autorità hanno infine stabilito che la documentazione della sepoltura era completa e trasparente, già nota agli inquirenti anche prima della famosa telefonata del 2015 a Chi l’ha visto?. La moglie di De Pedis si occupò a sue spese di risanamento dei locali della cripta a causa dello stato di abbandono in cui versavano244G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 29.

 

4.6 Enrico De Pedis.

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Coloro che hanno coinvolto Enrico De Pedis nel caso Orlandi sono stati Sabrina Minardi, Maurizio Abbatino, Antonio Mancini e Salvatore Sarnataro.

Mentre la Minardi è stata giudicata inattendibile dagli inquirenti, gli altri tre hanno riportato notizie di seconda mano, non verificabili.

Non essendoci nulla di rilevante nella sua sepoltura nei sotterranei della Basilica Sant’Apollinare e non essendo emerso nulla dalle perquisizioni, non ci sono motivi consistenti per accusarlo di aver avuto un ruolo nella vicenda Orlandi e/o Gregori.

Più volte Pino Nicotri, in solitaria rispetto al “martellamento” mediatico sulla vicenda De Pedis, ha osservato che “Renatino” morì con la fedina penale pulita, dotato di regolare patente, carta di identità valida e passaporto valido per viaggiare all’estero.

L’avvocato della famiglia De Pedis affermò nel 2015: «Sul certificato penale di Renatino vi è solo un episodio di rapina, risalente al 1974, e per cui è stata scontata interamente la pena. Enrico De Pedis non ha mai subito condanne per il reato di associazione a delinquere o per concorso nell’omicidio di alcuno. Inoltre si fa presente che nel processo principale che ha riguardato la cosiddetta Banda della Magliana, la Cassazione ha escluso che questa fosse una organizzazione di tipo mafioso».

I quotidiani dell’epoca confermano che De Pedis «uscì “pulito” dal carcere dopo che le inchieste giudiziarie che avevano portato al suo arresto e a quello di decine di malavitosi della banda della Magliana , erano state mano a mano smantellate dai processi»245L’Unità, 03/02/1990. Tuttavia le cronache di quegli anni lo definiscono uno dei capi storici della Banda della Magliana, in particolare l’ala della malavita di Testaccio che controllava interi quartieri, nonché uno dei principali “riciclatori” di denaro sporco.

Il dato più rilevante è che Enrico De Pedis fu sepolto nella cripta sotterranea della basilica di Sant’Apollinare, in territorio sconsacrato, in modo regolare e trasparente, come confermato dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, dal magistrato Andrea De Gasperis e dal ministro Cancellieri. Fu la famiglia a chiederlo e ottenne il permesso del Vaticano e il via libera dal Comune di Roma.

De Pedis è stato coinvolto nel caso Orlandi anche da Marco Accetti, reo-confesso di essere stato il regista del sequestro. L’uomo ha dichiarato di aver inserito De Pedis nelle operazioni ingannandolo sul fatto che il sequestro di due ragazzine fosse una strada efficace per convincere i vertici dell’istituto Ior a saldare il debito che avevano con la Magliana per i soldi persi nel crack dell’Ambrosiano246citato in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

Il suo coinvolgimento sarebbe avvenuto alla morte di Roberto Calvi, in quanto «venne meno la compattezza di quell’insieme di persone che a lui prestava i soldi. L’interesse del signor De Pedis sarebbe stato quello di recuperare quanto prestato al dottor Calvi, ma a questa si sarebbe opposto monsignor Marcinkus. Questo si fece presente all’imprenditore: che era necessaria la rimozione del Monsignore o la sconfitta della sua linea politica»247in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 83.

La fazione di Accetti gli avrebbe fatto credere che il sequestro di due ragazzine sarebbe stata una strada efficace per convincere i vertici dell’istituto a saldare248in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 83.

Accetti ha infine riferito che alcuni uomini di De Pedis, in particolare “Ciletto” e “Giggetto”, si sarebbero recati nel bar dei Gregori proprio il giorno prima della sparizione di Mirella, quando fu inaugurato il locale.

Il 21/10/1986, su indicazione del cameriere Giuseppe Calì, venne eseguito un identikit del volto di una persona vista dal teste nel bar dei Gregori una settimana prima della scomparsa di Mirella, il quale assomiglia notevolmente al volto di Angelo Cassani, detto appunto “Ciletto”.

 

 

4.7 I punti forti della pista della Magliana.

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a) Movente e contesto temporale.

La tesi della Magliana vanta un movente abbastanza verosimile e un’opportuna collocazione temporale.

Una cittadina vaticana sparisce esattamente un anno dopo il fallimento del Banco Ambrosiano, rapita dalla Banda della Magliana nel tentativo di ricattare il Vaticano ed ottenere la restituzione dei soldi che, assieme alla mafia siciliana facente capo Pippo Calò, avrebbe perso.


 

b) L’intercettazione a Sergio Virtù.

Al contrario della pista sessuale e internazionale, quella relativa alla Magliana ha una importante prova oggettiva riguardante Sergio Virtù.

Ci riferiamo all’intercettazione telefonica tra Sergio Virtù, faccendiere e autista di Enrico De Pedis, e l’amante Maria Lldiko Kiss. Come abbiamo già visto, l’uomo fa capire alla donna che il caso Orlandi appartiene al suo passato giovanile quando stava «in un ambiente un po’ particolare», pieno di «scapestrati», ma non se ne pente perché lo ha fatto per soldi.

Gli inquirenti che nel 2015 scelsero comunque di archiviare il caso per insufficienza del quadro probatorio, scrissero che Virtù «è certamente a conoscenza di particolari compromettenti della vicenda».


 

c) Identikit e riconoscimento facciale.

A distanza di vent’anni dai fatti, diversi amici di Emanuela ricordarono diversi episodi di perdimento nei loro confronti prima della scomparsa.

Nel video qui sotto il racconto di Angelo Rotatori di uno dei pedinamenti subiti assieme a Emanuela:

 

In questa foto, invece, i due identikit prodotti dagli amici di Emanuela sui pedinatori

 

Lo stesso Angelo Rotatori, oltre ad un’amica di Emanuela, Paola Giordani, riconobbero Marco Sarnataro con “altissima probabilità” (Rotatori) e “molto somigliante” come uno dei giovani che li avrebbe pedinati nei giorni antecedenti alla sparizione di Emanuela, mentre erano in compagnia della ragazza249G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 19).

Angelo Rotatori riconobbe anche, con “alta probabilità”, Angelo Cassani250G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 19, mentre non riconosceva la foto di Sergio Virtù251G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 39.

Ecco il confronto fotografico tra l’identikit di Rotatori e le foto di Cassani e Sarnataro:

 

Gabriella Giordani individuò invece Sergio Virtù, mentre gli altri non riuscirono a ricordare252G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 19.

Un altro amico, Gaetano Palese, seppur “vagamente” riconobbe fotograficamente Angelo Cassani253G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 20.

Nel 2010, un’allieva della scuola di musica, Marta Szepesvari, riconobbe in Sergio Virtù l’uomo che il giorno prima della scomparsa di Emanuela nel 1983, fissava la scuola come se aspettasse qualcuno254G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 12.

Va sottolineato che il riconoscimento avvenne dopo un «notevolissimo lasso di tempo trascorso»255G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 39 dai fatti e dopo il notevole «inquinamento della genuinità delle ricostruzioni causato dall’enorme rilievo mediatico che ha suscitato il caso»256G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 39. Inoltre, soltanto alcuni degli amici riuscirono a riconoscere dei volti.

Per questo gli inquirenti hanno sottolineato i «limiti di attendibilità» di questi riconoscimenti257G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 40.

Gli amici di Emanuela (Rotatori, Giordani Paola e Gabriella, Cristina Orlandi) ricordarono anche un episodio in cui un’auto con a bordo due giovani si accostò al loro gruppo e toccando il braccio di Emanuela, l’autista disse: “Eccola”258G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 19.

Più rilevante è la forte somiglianza tra l’identikit di un uomo che venne visto nel bar dei Gregori il giorno prima della scomparsa di Mirella e Angelo Cassani, detto “Ciletto”. L’uomo, esponente della Banda della Magliana, è stato coinvolto nel caso Orlandi-Gregori da Sabrina Minardi, il pentito Maurizio Abbatino e Marco Accetti. Quest’ultimo ha collocato Cassani, assieme a “Giggetto”, proprio nel bar dei Gregori.

 

Qui sotto il confronto tra il volto di Angelo Cassani e l’identikit dell’uomo visto nel bar dei Gregori:

 

Infine, occorre sottolineare che i vari riconoscimenti fotografici degli amici di Emanuela verso alcuni uomini di De Pedis (in particolare Angelo Cassani, Marco Sarnataro e Sergio Virtù) coincidono perfettamente e in maniera indipendente con la testimonianza di Salvatore Sarnataro, padre di Marco, sul ruolo che quest’ultimo avrebbe avuto nel caso Orlandi (pedinamento + sequestro).

Marco Accetti, reo-confesso di essere stato il regista del sequestro, ha dichiarato di aver coinvolto De Pedis e alcuni suoi uomini nel caso Orlandi, in particolare “Ciletto” e “Giggetto” si sarebbero recati nel bar dei Gregori il giorno prima della sparizione di Mirella, quando fu inaugurato il locale.

Il 21/10/1986, su indicazione del cameriere Giuseppe Calì, fu eseguito un identikit del volto di un uomo visto dal teste nel bar dei Gregori una settimana prima della scomparsa di Mirella, il quale assomiglia notevolmente a Angelo Cassani, detto appunto “Ciletto”.


 

d) Comunicato sul giocatore della Lazio.

Come abbiamo spiegato in precedenza, nell’istruttoria di archiviazione del 2015 non si tenne conto del comunicato firmato “Dragan” arrivato del 17/10/83 che invitava ad indagare, in merito alla Orlandi, su un giocatore della Lazio, Arcadio Spinozzi (si certificò in seguito la sua estraneità). Al termine venne disegnato il nome “Sergio” seguito dalla parola “morte”.

E’ l’unico dettaglio a favore del racconto totalmente contraddittorio fornito da Sabrina Minardi la quale, effettivamente, fu l’ex moglie proprio di un giocatore laziale, Bruno Giordano. Fu lei nel 2008 ad accusare per prima Sergio Virtù di aver ucciso, assieme a De Pedis, Emanuela Orlandi.

Una mera coincidenza? E’ probabile, tuttavia riteniamo di valutarlo come un aspetto che arreca credibilità alla pista della Banda della Magliana.


 

e) Il ristorante di “Pierluigi” e Campo De Fiori.

Due dettagli piuttosto rilevanti sono legati ai primi due telefonisti che chiamarono casa Orlandi a poche ore dalla sparizione.

Il primo, “Pierluigi”, nella seconda telefonata disse di telefonare da un ristorante sul mare, con tanto di sottofondo di piatti. Il 19/09/83 in una lettera firmata dal “Gruppo Phoenix”, comparvero minacce proprio a “Pierluigi” avvertendolo: «E’ assai pericoloso stare in quella trattoria con le spalle verso la porta perché ci sono troppe “correnti d’aria”: un nostro vecchio “amico” ha fatto una brutta fine davanti ad un piatto di spaghetti».

Nel 2006, Antonio Mancini, uno dei boss della banda della Magliana e collaboratore di giustizia, affermò di aver riconosciuto nella voce di “Mario” uno dei killer della Magliana, col soprannome di Rufetto, ovvero Libero Angelico. Per Mancini costui era «alle dipendenze unicamente di De Pedis, era il suo sicario personale e già all’epoca possedeva un ristorante a Trastevere»259citato in O. Lupacchini, M. Parisi, Dodici donne un solo assassino?, Koiné 2006, pp. 48, 49. Il confronto della voce tra Mario e Libero Angelico, realizzato dalla polizia, diede però esito negativo.

Perché “Pierluigi” specificò di parlare da un ristorante? Marco Accetti nel suo Memoriale confermò il collegamento fatto da Antonio Mancini e scrisse: «Costui dice di chiamare da un ristorante (il noto ristorante di Torvaianica frequentato da vari protagonisti di questi fatti). Fui io personalmente a registrare il rumore di sottofondo al ristorante “Pippo l’Abruzzese” di Tor Vaianica […]. Nel caso la telefonata potesse essere registrata e sottoposta al giudizio di un esperto, le caratteristiche specifiche di alcuni rumori potevano far risalire proprio a quell’ambiente».

Un secondo dettaglio è contenuto anch’esso nelle parole del primo telefonista quando disse di aver visto Emanuela vendere collane in Campo de Fiori.

Tale piazza è nota sui quotidiani locali per essere stata il luogo degli usurai (detti “cravattari”), il cui commercio era alimentato dai denari provenienti da organizzazioni mafiose e sodalizi terroristici. In una stradina adiacente alla piazza aveva un negozio di elettrodomestici Domenico Balducci, dove intratteneva rapporti con la mafia siciliana, Tommaso Buscetta, Flavio Carboni (coinvolto nella morte di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano) e “Pippo” Calò.

A questo dettaglio ha fatto riferimento ancora una volta Marco Accetti, sottolineando che «”Pierluigi” parla anche della piazza Campo de Fiori, luogo in cui aveva il negozio Edoardo Balducci, esponente della Magliana, nel quale praticava l’usura per conto di Pippo Calò, noto durante la latitanza come Mario Aglialoro, lo stesso nome usato dal secondo telefonista, “Mario”».

 

 

4.8 I punti deboli della pista della Magliana.

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a) L’archiviazione del 2015.

Il principale punto debole dell’ipotesi che coinvolge la Banda della Magliana nel caso Orlandi è la decisione della Procura nel 2015 di archiviare il caso, non rilevando un quadro probatorio sufficiente a carico degli esponenti della malavita romana. Addirittura, si legge che «la pista principale della Banda della Magliana non ha rilevato alcun coinvolgimento degli appartenenti a tale organizzazione criminale con la scomparsa della ragazza»260G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 62

Più dettagliatamente, negli atti conclusivi si legge:

«In definitiva, alla stregua degli imponenti accertamenti investigativi attuati con straordinaria capillarità, gli elementi emersi in favore dell’ipotesi di un coinvolgimento della Banda della Magliana nella scomparsa di Emanuela Orlandi, di intensità e grado diversi nei confronti degli odierni indagati e di coloro che sono deceduti non possiedono senz’altro, per nessuno degli indagati iscritti quella consistenza tale da imporre l’esercizio dell’azione penale e giustificare, dunque, il vaglio dibattimentale»261G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 43, 44.


 

b) Un piano troppo sofisticato.

La Banda della Magliana era costituita da killer professionisti, criminali legati alla droga, alla mafia calabrese. I loro atti criminali erano solitamente costituiti da attentati a freddo tramite colpi di pistola.

E’ inverosimile che dei feroci malavitosi romani abbiano potuto architettare un piano sofisticato e genialmente stratificato come il sequestro Orlandi-Gregori e la complessa opera di strumentalizzazione, formata da codici, allusioni e depistaggi.

Avrebbero dovuto distrarre la stampa e gli inquirenti con telefonate e comunicati riguardanti il giudice Ilario Martella, Alì Agca e la sua liberazione, mentre dall’altra avrebbero mantenuto una trattativa segreta con i loro interlocutori (lo Ior?) sui soldi investiti nel Banco Ambrosiano.

Tutto questo, oltretutto, fornendo dettagli biografici precisi sulle due ragazze (oltre a fotocopie di oggetti personali di Emanuela) ma senza esibire la prova decisiva della loro detenzione. Infine, probabilmente usarono una tecnologia d’avanguardia capace di impedire il rintracciamento delle telefonate, facendole rimbalzare in posti diversi.

Non è così che agivano De Pedis e gli esponenti della Magliana, un loro ruolo di primo piano va decisamente escluso.


 

c) Perché erano interessati ad Agca e alla sua liberazione?

Escluso il fatto che dei malavitosi romani come quelli della Magliana avessero potuto escogitare un piano così sofisticato da usare la liberazione di Agca come oggetto di distrazione per perseguire i loro veri interessi, a cosa poteva interessare a De Pedis e Sergio Virtù il fatto che il terrorista turco ritirasse le sue accuse verso i bulgari nell’ambito dell’attentato al Papa?

Il telefonista l'”Amerikano” e le sigle comparse successivamente (“Fronte Turkesh” ecc.) erano unicamente interessate ad Agca e alla sua liberazione. Lo stesso idealista turco, dopo aver collaborato per due anni con gli inquirenti, ritirò improvvisamente le sue accuse ai servizi segreti bulgari due giorni dopo la sparizione della Orlandi.

Questo è un altro aspetto totalmente incomprensibile se si vuole porre De Pedis e la Magliana come protagonisti del caso Orlandi-Gregori.

 

 

4.9 Conclusioni sulla pista della Banda della Magliana.

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L’ipotesi del coinvolgimento della Magliana ha come detto un movente e un contesto temporale molto forti.

Inoltre, al contrario delle altre piste, può vantare due importanti riscontri oggettivi: l’intercettazione di Sergio Virtù, nel quale ammette la sua compromissione con il caso (oltre ad essere riconosciuto dall’amica di Emanuela, Gabriella Giordani, come uno dei pedinatori nei giorni prima della sparizione), e la forte somiglianza di Angelo Cassani all’identikit realizzato da un cameriere del bar dei Gregori sull’uomo che fu visto nel locale il giorno prima della sparizione di Mirella.

D’altra parte, il coinvolgimento della Magliana ha trovato qualche riscontro anche dagli inquirenti che, tuttavia nel 2015 archiviarono il caso non rilevando prove tanto consistenti a livello penale.

Altrettanto forti sono però i punti di debolezza, non è infatti possibile che dei killer rozzi e violenti come i testaccini abbiano ideato un piano così sofisticato da sopravvivere a due archiviazioni (1997 e 2015) e scervellare decine di giornalisti, magistrati e investigatori senza arrivare a una soluzione. Oltretutto portano un caso di malavita locale a sembrare un grande complotto internazionale.

Un’ipotesi, quella della Magliana, che ha avuto più valore di quanto ne meriti, colpa senz’altro dell’opinione pubblica e della trasmissione Chi l’ha visto?, che ha sposato univocamente tale pista divulgandola ossessivamente e crogiolandosi nella possibilità di coinvolgere fantomatici alti prelati e monsignori in traffici di sesso e denaro. Il tutto è terminato con un grande flop mediatico.

Lo scenario più verosimile è invece quello che vede esponenti della Magliana coinvolti in maniera marginale nel caso Orlandi, un ruolo di manovalanza, permettendo dunque un legame tra questa tesi e quella della “pista internazionale” e superando, così, i punti deboli che abbiamo sottolineato.

Tale ipotesi collima con la versione fornita dal reo-confesso Marco Accetti, il quale riferì di aver coinvolto De Pedis e alcuni suoi uomini in una «limitata partecipazione logistica e di copertura», in particolare per quanto riguarda i pedinamenti prima della scomparsa, il coinvolgimento di De Pedis il giorno del “finto” sequestro della Orlandi e la messa a disposizione di due loro appartenenti (quello di Monteverde e quello di Torvajanica). In cambio, ha sostenuto, «avrebbero ottenuto principalmente come interscambio alcune entrature all’interno della Città del Vaticano per alcune loro esigenze di investimento finanziario»262M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.

 
 

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5. ROBERTA HIDALGO E EMANUELA ORLANDI.

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La tesi della fotografa Roberta Hidalgo è la più incredibile di tutte.

Emerse pubblicamente nel 2012 con l’uscita del suo libro L’affaire Emanuela Orlandi, anche se la Procura ha rilevato che già nel novembre 2002 una giornalista reporter si presentò presso gli uffici riferendo di aver visto e fotografato casualmente, mentre si trovava a Piazza San Pietro263G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 52.

La Hidalgo ha sostenuto di aver riconosciuto Emanuela Orlandi in una fotografia da lei scattata in Piazza San Pietro. Per coincidenza, la stessa donna sarebbe apparsa sullo sfondo anche di una seconda foto che la Hidlago scattò tempo dopo a sua figlia davanti ad un gelataio, sempre nei dintorni di piazza San Pietro. La Hidalgo avrebbe poi incrociato personalmente la donna in un supermercato della zona264R. Hidalgo, “L’affaire Emanuela Orlandi” (Edizioni Libreria Croce): intervista a Roberta Hidalgo, intervista a Radio Radicale, 24/04/2012.

In una delle aree più affollate d’Europa, Emanuela Orlandi gironzolerebbe in piazza San Pietro e sarebbe casualmente comparsa per due volte in due fotografie scattate in tempi diversi dalla stessa persona, la quale sempre per coincidenza l’avrebbe anche incontrata di persona in un’altra occasione. Senza che nessun’altro si sia accorto di lei.

La fotografa ha sostenuto inoltre di aver pedinato “Emanuela”, la quale sarebbe entrata nell’appartamento del fratello Pietro Orlandi.

Dopo numerosi appostamenti e indagini personali, iniziate nel 1999, la Hidalgo ha sostenuto che Anna Orlandi non sarebbe la vera zia di Emanuela, ma la madre e che Emanuela sarebbe nata dalla relazione con monsignor Paul Marcinkus. Inoltre, la stessa zia Anna non sarebbe di Pietro Orlandi, nonno di Emanuela, ma addirittura di papa Pio XII.

La Hidalgo sostenne di aver capito tutto questo confrontando le fotografie e grazie ai suoi studi di anatomia del volto.

La scomparsa di Emanuela, secondo la fotografa, sarebbe stata architettata dal capo dello Ior, Marcinkus (vero padre di Emanuela), così da spostare l’attenzione mediatica dal Banco Ambrosiano, dallo Ior, da Calvi ecc., dirottandola altrove.

Non è ancora finita: Emanuela Orlandi vivrebbe assieme al fratello Pietro e ai suoi figli, fingendo di essere sua moglie, mentre Patrizia Marianucci, vera moglie di Pietro, abiterebbe in una casa in campagna.

Questo elemento emergerebbe dal materiale biologico prelevato di nascosto dalla Hidalgo a vari esponenti della famiglia Orlandi, tesi che sarebbe confermata da una perizia del Dna firmata dal noto criminologo Francesco Bruno: «In sintesi», si legge, «si può dire che la donna che convive con Pietro Orlandi da almeno 10 anni non presenti molti elementi in comune con Patrizia Marinucci, ma che al contrario presenta numerose somiglianze con la sorella di Pietro, la scomparsa Emanuela».

Il Dna di “Emanuela Orlandi” sarebbe inoltre compatibile con quello di Anna Orlandi.

Un’altra prova fornita da Hidalgo è che Emanuela, cioè colei che vivrebbe a casa di Pietro Orlandi, verrebbe soprannominata “Mandi” dal fratello e dai figli, elemento scoperto grazie ad una cimice posizionata dalla Hidalgo in casa di Pietro Orlandi.

Sottolineiamo che una tesi quasi identica è stata pubblicata successivamente nel libro La Figlia del Papa dal portoghese Luis Miguele Rocha. In questo caso la Orlandi sarebbe però figlia di Giovanni Paolo II (e non di Marcinkus) e l’autore sostiene anche di averla incontrata personalmente.

Pietro Orlandi ha querelato la Hidalgo chiedendo anche il ritiro del libro ma il giudice senza successo,” rel=”noopener” target=”_blank”>ha negato sia il sequestro del libro che l’azione legale risarcitoria.

Non volendo scartare a priori nessuna ipotesi, procediamo ad analizzare i punti di forza e di debolezza della tesi di Roberta Hidalgo.

 

 

5.1 I punti forti della pista di Roberta Hidalgo.

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a) La perizia di Francesco Bruno

Al di là della comparazione di foto, l’unica “prova” fornita da Roberta Hidalgo è la perizia genetica firmata dal criminologo Francesco Bruno.

Essendo la vicenda talmente surreale, la perizia andrebbe però quantomeno replicata da altri professionisti, ancor meglio che non si siano mai occupati del caso Orlandi.

Sottolineiamo che Francesco Bruno, deceduto nel 2023, è stato docente di psicologia forense alla Sapienza di Roma e funzionario dal 1978 al 1987 della divisione tecnico-scientifica del SISDE, i servizi segreti italiani.


 

b) Mancanza di un chiarimento degli Orlandi

E’ più che comprensibile che la famiglia Orlandi non abbia voluto replicare pubblicamente alla Hidalgo se non tramite una querela, è un’operazione offensiva e scandalistica nei loro confronti che espone al grande pubblico la loro intimità familiare. Inoltre, si capisce che non vogliano regalare pubblicità gratuita.

Agli occhi dei sostenitori di questa tesi, tuttavia, un mancato chiarimento da parte degli Orlandi viene letto come l’impossibilità imbarazzata di fornire una versione alternativa. Basterebbe procedere ad una seconda perizia genetica per liquidare definitivamente questa vicenda.

Occorre infatti considerare che perplessità sul comportamento della zia Anna Orlandi, indipendentemente dalla loro fondatezza o meno, sono state avanzate dai sostenitori della “pista sessuale”, come Pino Nicotri e l’avv. Gennaro Egidio, ex legale degli Orlandi.

 

 

5.2 I punti deboli della pista di Roberta Hidalgo.

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a) Mancanza di prove oggettive

Affermazioni sconvolgenti necessitano di prove sconvolgenti.

Il racconto di per sé assurdo fornito da Hidalgo si dipana in un infinito corollario di altrettante apocalittiche conseguenze, il tutto basato su qualche fotografia, qualche somiglianza, un soprannome (manca la prova audio che Pietro e i figli chiamerebbero “Mandy” la donna che vivrebbe con loro) e una perizia di un criminologo su un assorbente (che la Procura nemmeno ha voluto considerare dato che non se ne parla negli atti).

Non basta scrivere un libro per sostenere che Emanuela sia figlia di un cardinale e della zia, la quale sarebbe a sua volta figlia di un Pontefice e che Pietro Orlandi passi la vita con sua sorella, fingendo che sia la moglie e facendo crescere i figli lontani dalla vera madre.

Si aggiunga la necessità di credere che Emanuela girerebbe tranquillamente per piazza San Pietro nonostante sia ricercata da trent’anni, implicando così che tutta la famiglia Orlandi (i loro amici e i loro parenti) stia mentendo da decenni agli inquirenti e a tutto il mondo.

Chiamarla “pista” o “ipotesi” è fin troppo generoso, soprattutto per la totale mancanza di riscontri oggettivi.


 

b) Le fotografie dimostrano il contrario.

La stessa Roberta Hidalgo ha ammesso che la presunta Emanuela da lei fotografata differisce dalla vera Emanuela in quanto mostra i lobi delle orecchie completamente diversi.

La fotografa tuttavia ha giustificando tale differenza con il fatto che «se li può essere tagliati!». Una risposta tanto incredibile da essere al livello della tesi sostenuta.

Se si osservano le fotografie di Patrizia Marinucci accanto alle figlie si percepisce chiaramente la netta somiglianza del viso e, in particolare, l’identica conformazione dei lobi delle orecchie. Molto diversa, al contrario, da quella di Emanuela Orlandi (immagine sulla destra)


 

c) L’archiviazione del 2015.

Nell’archiviazione del caso Orlandi del 2015, la Procura di Roma ha affermato di aver acquisito le immagini fornite dalla Hidalgo e le fotografie meno recenti di Patrizia Marinucci al fine di compararle con quelle di Emanuela Orlandi.

La conclusione è stata il respingimento della tesi poiché «la comparazione ne escludeva l’identità»265G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 52.


 

d) Assenza del movente.

Anche dando per vero il complesso racconto di Roberta Hidalgo, a che scopo Pietro Orlandi dovrebbe vivere e far vivere i suoi figli con Emanuela e non con sua moglie?

Se Paul Marcinkus avesse davvero ideato il sequestro per distrarre l’opinione pubblica dallo Ior e dal Banco Ambrosiano, perché avrebbe scelto di coinvolgere proprio sua figlia Emanuela e non un’altra adolescente, perché architettare tutto il complesso e stratificato scenario (telefonisti, sigle anticristiane, komunicati, appelli al Papa e al presidente della Repubblica, Mirella Gregori ecc.) che di fatto è il caso Orlandi?

Non ha alcun senso.

 

 

5.3 Conclusioni sulla pista di Roberta Hidalgo.

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Abbiamo analizzato la tesi di Roberta Hidalgo soltanto perché anche la Procura della Repubblica ha scelto di dedicarvi del tempo.

Si tratta però di uno scenario apocalittico, privo di movente, di logica e di prove documentate, basato sulla perizia genetica di un assorbente (non consultabile) e sulla comparazione di foto che smentiscono la tesi stessa (per ammissione della stessa Hidalgo).

L’unico obiettivo era il successo editoriale, prontamente imitato dal portoghese Luis Miguele Rocha con il suo libro La figlia del Papa.

Due racconti fantasy, da scartare senza alcun dubbio.

 
 

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6. EMANUELA ORLANDI E IL RUOLO DI MARCO ACCETTI.

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Marco Fassoni Accetti è un fotografo e autore cinematografico, nato in Libia e arrivato in Italia nel 1970 con la famiglia in qualità di profugo266G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46. Il 27/03/2013 si è recato in Procura per riaprire un caso giudiziario che lo ha riguardato in passato, l’omicidio di José Garramon267G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43.

Nel dicembre 1983, infatti, Accetti investì e uccise con il suo furgone il piccolo Josè Garramon, 12 anni, figlio di un funzionario uruguayano delle Nazioni Unite, nella pineta di Castel Fusano (Roma). Fu inizialmente processato per omicidio volontario e poi condannato solo per omicidio preterintenzionale, scontando 2 anni in carcere.

L’uomo ha sostenuto che all’epoca avrebbe patito accuse ingiuste e voleva «chiudere moralmente quel caso, che all’epoca non potevo delucidare pienamente in quanto avrei dovuto motivare la mia presenza in quell’area». Secondo Accetti, indagando nuovamente sul caso Garramon e identificando gli autori del messaggio a firma “Phoenix” del 19/09/83 si sarebbe potuto giungere a far luce anche sulla sparizione di Emanuela e Mirella.

Negli Atti del processo si legge268G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45 che Accetti più volte ha invitato la Procura a indagare al fine di identificare gli autori del messaggio di “Phoenix”. Si riferisce al messaggio del gruppo “Phoenix” nel quale verranno minacciati i primi due telefonisti, “Pierluigi” e “Mario”. In particolare, le parole rivolte al secondo citano la “pineta”, lo stesso luogo in cui Accetti investì e uccise Garramon: «Vogliamo generosamente ricordare a Mario che nella pineta c’è tanto posto per aumentare la vegetazione».

L’elezione di un Papa non curiale (Francesco divenne Papa il 13/3/2013) e l’abdicazione dell’ex Prefetto per la Dottrina della Fede (Benedetto XVI) lo avrebbero indotto a presentarsi dopo 30 anni in quanto sarebbero venute meno certe coesioni interne alla Curia romana, aiutando all’emergere dei responsabili delle sparizioni269G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43.

Accetti ha rivelato inoltre che avrebbe voluto comparire 10 anni prima, alla morte di Giovanni Paolo II, se non fosse stato eletto «un pontefice curiale». Aggiunse che «della mia intenzione resi partecipi in quel mese di Aprile del 2005, alcuni sodali con cui condivisi le responsabilità per i suddetti fatti degli anni 80. Seppi che alcuni di costoro, temevano io potessi fare i nomi dei responsabili dell’omicidio di Catherine Skerl». Il caso della Skerl è analizzato più sotto.

«Eravamo pochi laici che aiutavano pochi ecclesiastici», ha aggiunto il fotografo, invitando i suoi sodali «a presentarsi e contribuire con la testimonianza, coscienti che non si trattò di fatti ferali». Oltre a loro, l’appello fu rivolto ad alcune donne che avrebbero partecipato come complici.

Per quanto riguarda Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, si è accusato di aver architettato l’operazione e di essere stato il telefonista “Mario” e l'”Amerikano”. Sarebbero stati due allontanamenti volontari, anche se le ragazze furono da lui (e dal suo gruppo) indotte tramite l’inganno nell’ambito di uno scontro politico-ideologico tra due fazioni vaticane interessate a influire in modo occulto la politica estera ed economica della Santa Sede, in particolare nei suoi rapporti con i Paesi dell’Est.

 

Riteniamo Marco Accetti una persona realmente informata dei fatti, per questo prima di analizzare e valutare la sua complessa testimonianza (è stato ascoltato dagli inquirenti 11 volte, dall’aprile al luglio 2013) riassumiamo le principali sezioni del suo racconto, verificando fin dove è possibile gli elementi forniti.

 

6.1 La biografia di Marco Accetti prima del caso Orlandi

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Marco Accetti è nato a Tripoli (Libia) il 1955, figlio di Aldo Accetti e Silvana Fassoni, fratello di Laura Accetti.

Nel 1970 arrivò in Italia con la famiglia in qualità di profugo270G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.

Questo dato è in contrasto con il fatto che l’uomo avrebbe frequentato la scuola elementare Sant’Eugenio (futura St. George), sulla via Cassia271M. Accetti, Punti 6 e 7 (indizi e prove), 21/01/2014: se arrivò in Italia negli anni ’70, come si legge nella sentenza di archiviazione del 2015272G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46, com’è possibile che possa aver frequentato le scuole elementari in Italia prima di quella data? Probabile errore della Procura di Roma.

Nel 1967 Accetti frequentò le scuole medie all’Istituto Giuseppe De Merode273M. Accetti, Memoriale, 16/06/2014, il cui direttore spirituale era don Pierluigi Celata, dopo poco diventato diplomatico in Vaticano.

Attraverso mons. Celata avrebbe conosciuto ecclesiastici della Curia romana di origine lituana e francese, tra i quali mons. Audrys Juozas Backis, che nel 1973 divenne membro del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa. Accetti avrebbe quindi sposato la causa lituana274G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43

Agli Atti risulta che Marco Accetti frequentò cortei e manifestazioni con il partito di destra MSI per poi schierarsi con il partito radicale275G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.

Nel 1972, all’età di 17 anni, Accetti fu arrestato a seguito di un assalto fascista al liceo Tasso. Le cronache dell’epoca lo videro accusato di incendio doloso, danneggiamento aggravato e resistenza a pubblico ufficiale.

Secondo il racconto fatto da un uomo di origine araba ma da tanto tempo in Italia, suo stretto conoscente di allora, fu in questo periodo che Accetti iniziò a frequentare gli stabilimenti De Laurentiis, affascinato dalla scenografia del film di Luigi Magni Nell’anno del Signore (1969). Avrebbe iniziato così a creare le sue installazioni artistiche276in P. Nicotri, Emanuela Orlandi. Flauto di Marco Fassoni Accetti dai resti di studio cine Roma?, BlitzQuotidiano, 12/06/14.

Attorno al 1976-1977 sarebbe stato invitato da un religioso diplomatico a fotografare e immortalare incontri tra ecclesiastici che avevano il “vezzo” di riferire notizie delle attività del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa a persone riferibili a certi circoli d’interesse “occidentale”, tra cui mons. Achille Silvestrini, segretario del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, spesso nei pressi del Club di Roma. Lo avrebbe fatto in cambio di attrezzatura cinematografica da usare per le sue attività277G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43.

Dal 1978, con l’elezione di Giovanni Paolo II, la sua fazione si sarebbe impegnata a neutralizzare le realtà diplomatiche e politiche vaticane che contrastavano il dialogo con i Paesi dell’Est (tra cui URSS, che inglobava la Lituania, Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria e Germania dell’Est), nonché azioni di propaganda contro tali nazioni.

Nel 1979, alla nomina di mons. Bakis a sottosegretario del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, sarebbe aumentato il monitoraggio dei suoi incontri (tramite microspia nella sua Fiat) e si sarebbe costituita una fazione (o ganglio) “progressista” per condizionare le scelte della Segreteria diretta da mons. Silvestrini, collaboratore del card. Casaroli e sostenitore della politica di apertura verso i regimi comunisti.

Nello stesso anno, Marco Accetti fu arrestato (e poi assolto) per un pestaggio ai danni di Mario Appignani (“Cavallo Pazzo”) in piazza Navona. Nel suo Memoriale ha scritto che la vittima sarebbe stata d’accordo e l’episodio sarebbe servito per dissimulare alcune attività in quel luogo legate alla sua fazione. Gli altri arrestati per il finto pestaggio (quindi anche loro appartenenti alla fazione “progressista”?) furono, Oriano Mondin (23 anni) e Gaetano De Janni (21 anni).

Nella sentenza del febbraio 1984 si parlò di “minacce” e di “sballottamento” nei confronti di Appignani (non di “pestaggio”) e si concluse con l’assoluzione di Accetti (di Mondin e di De Janni) perché «il fatto non sussiste». Inoltre, gli inquirenti denunciarono Appignani per «calunnia e simulazione di reato».

 

Qui sotto una foto di Marco Accetti travestito da prete in una una manifestazione anti-militarista alla fine degli anni Settanta.

 

Nel marzo 1982 Marco Accetti venne arrestato per detenzione d’arma da sparo278G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46, rimanendo in carcere meno di un mese, fino al 29/04/1982.


 

Marco Accetti e la morte del somalo Ali Giama.

Nella notte del 22/05/1979, il somalo Ahmed Ali Giama, senza fissa dimora, morì bruciato sotto al colonnato del Tempietto della Pace. Alcuni testimoni videro allontanarsi dal luogo dell’omicidio quattro ragazzi, poi riconosciuti in Marco Rosci, Fabiana Campos, Roberto Golia e Marco Zuccheri.

Dopo la condanna, restarono in carcere fino al 17/07/1981 quando vennero assolti dalla seconda sezione della Corte di Appello di Roma, sentenza confermata nel 1985 dalla Suprema Corte.

Come già visto nella sezione precedente, pochi giorni dopo l’omicidio del somalo, Marco Accetti fu arrestato per un presunto pestaggio in piazza Navona nei confronti di Mario Appignani (“Cavallo pazzo”), reo di aver rubato i soldi raccolti dagli abitanti del quartiere per pagare i funerali di Ahmed Ali Giama. L’uomo fu assolto e Appignani fu denunciato per “simulazione di reato”.

Nel suo Memoriale, Accetti fece riferimento a tale episodio sostenendo che proprio nell’estate 1979 avrebbe collaborato con a Giama nel sorvegliare le uscite del Collegio Pangermanico su via Santa Maria dell’Anima e su piazza della Pace. Lo descrisse come un ingegnere somalo che aveva viaggiato in Unione Sovietica e avrebbe dovuto incontrarsi con lui il giorno seguente alla sua morte. L’uomo precisa però che la morte del somalo non sarebbe da ricondurre a tali attività.

Il fotografo romano riferì che la notte dell’omicidio del somalo si sarebbe recato sul luogo e avrebbe raccolto dei brandelli della giacca (nell’ipotesi che contenessero fogli sulle loro attività). Giorni dopo sarebbe stato contattato dal commissario Paul Nash, il quale gli avrebbe mostrato alcune fotografie ritraenti Accetti mentre prelevava i brandelli. Sarebbero state scattate dal Collegio Pangermanico.

Per dissimulare i suoi reali interessi e giustificare la sua presenza in quell’area avrebbe quindi creato alcune coperture tramite la complicità di Mario Appignani, il cui esito (cioè l’arresto) sarebbe andato oltre le aspettative.

 

Analisi e verifiche sul caso Giama

A meno di contattare Paul Nash (ammesso sia ancora vivo) o poter visionare le fotografie che avrebbero immortalato Accetti, non c’è modo di verificare l’autenticità di questo racconto.

Qualche sospetto che il somalo Giama non fosse un semplice clochard è riportato anche nelle cronache dell’epoca, dove fu citata l’ipotesi di una pista politica sostenuta da Nur Giama Nur, esule somalo e amico della vittima, a suo dire anch’egli funzionario del ministero degli esteri somalo. Questa ipotesi venne dibattuta in sede di processo e scartata.

C’è però un aspetto totalmente inedito (siamo i primi a svelarlo) che sembra collegare Accetti e i casi Giama e Orlandi.

Il secondo telefonista che chiamò a casa Orlandi poche ore dopo la sparizione di Emanuela, il cosiddetto “Mario”, sostenne di telefonare per scagionare un suo amico rappresentante della Avon, il quale abitava al quartiere Parione279Trascrizione della telefonata, p. 34. Poco prima di congedarsi, inoltre, aggiunse di aver lavorato come fornaro280Trascrizione della telefonata, p. 43.

Come emerge dai quotidiani dell’epoca, uno dei quattro ragazzi accusati di aver dato fuoco al somalo Giama, Marco Rosci, aveva lavorato come fornaio nel negozio del padre e abitava in via del Governo Vecchio, cioè proprio nel quartiere Parione.

Se non fosse una coincidenza, il telefonista “Mario” (cioè Marco Accetti) volle citare nella telefonata quello che riteneva essere uno degli autori dell’omicidio Giama, ucciso per le sue operazioni di contro-spionaggio in sodalizio con lo stesso Accetti?

Una tesi complicata per tre motivi: le indagini assolsero Marco Rosci, non è provato che Giama fosse in complicità con Accetti e lo stesso reo-confesso ha escluso che la morte del somalo fosse riconducibile alle loro (presunte) attività.

 

6.2 Marco Accetti e il flauto di Emanuela Orlandi

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Il 03/4/2013, dopo la sua prima deposizione in Procura, Accetti ha fatto ritrovare al giornalista Fiore De Rienzo della trasmissione Chi l’ha visto? il (presunto) flauto di Emanuela, posizionato sotto una formella della Via Crucis all’interno dell’ex studio cinematografico De Laurentis.

Ha dichiarato agli inquirenti che il flauto sarebbe stato nascosto nella chiesa di Santa Francesca Romana dopo la telefonata dell'”Amerikano” del 4/09/83, nella quale si diceva: «Mi hanno detto di riferirvi che nelle vicinanze della basilica di Santa Francesca Romana il pontefice celebra la Via crucis. La scelta della basilica è inerente il giorno della scadenza del 20 luglio».

Nel 1987, in occasione della trasmissione televisiva Telefono Giallo (durante la quale telefonò l’amico di Emanuela Orlandi, Pierluigi Magnesio, dicendo «se parlo, mi ammazzano»), una donna glielo avrebbe consegnato e lui lo avrebbe custodito nel luogo in cui lo ha fatto ritrovare281G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45.

Secondo Accetti, l’aver fatto ritrovare il flauto della Orlandi nel 2013 sarebbe stato un elemento importante per i suoi sodali, ai quali chiese di presentarsi in Procura. Queste persone infatti sarebbero state a conoscenza del fatto che la Orlandi avrebbe dormito nell’ex studio cinematografico De Laurentis la notte del 21/12/83. Tuttavia, la trasmissione Chi l’ha visto? non accennò al luogo del ritrovamento, vanificando la portata dell’appello282G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45.

Dai rilievi scientifici sul flauto (atti a rilevare eventuali impronte, tracce di DNA, analisi pilifere) non si è riusciti a stabilire una corrispondenza con quello usato da Emanuela Orlandi 283G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 48, 49, seppur la famiglia lo abbia vagamente riconosciuto.

 

Nel seguente video, la presentazione di Marco Accetti in Procura nel 2013 e la reazione di Natalina Orlandi alla vista del flauto:

 

Nella memoria presentata da Pietro Orlandi contro la sentenza di archiviazione viene esplicitato che il flauto è stato riconosciuto dai familiari come autentico284G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 57.

 

 

6.3 Il teschio e le minacce “alle due belle more”.

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Il 21/12/2012 (tre mesi prima della presentazione di Accetti in Procura), vicino al colonnato di Piazza San Pietro fu ritrovata una busta con la scritta in inglese “non toccare”, in essa era presente un teschio con all’interno del materiale cartaceo, il cui contenuto sembrò analogo a quello allegato alle lettere che appariranno pochi mesi dopo285G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 48.

Verso fine marzo 2013, poco dopo la comparsa di Accetti e del presunto flauto di Emanuela, a casa di Raffaella Monzi (compagna di Emanuela, l’ultima persona ad averla vista) e di Antonietta Gregori, sorella di Mirella, arrivarono due lettere con queste parole: «Non cantino le due belle more per non apparire come la baronessa e come il ventuno di gennaio martirio di S. Agnese con biondi capelli nella vigna del Signore».

Oltre alla frase, presenti anche i numeri “193” e “103” e una foto del giuramento di una guardia svizzera sopra una didascalia in tedesco, la cui traduzione è: “Durante il giuramento ogni recluta si posiziona davanti alla bandiera della Guardia e promette di servire fedelmente, lealmente e onorevolmente il Pontefice e i suoi legittimi successori”. Accanto alla foto compariva la scritta a penna: ”4 – FIUME” (nella lettera arrivata alla Gregori invece c’è: “V – FIUME”).

Infine, sempre scritta a mano, erano visibili le parole “SILENTIUM”, “V. FRATTINA 103” e, sul retro, “MUSICO 26/OTT/1808 – 5/3/1913 – 2013”.

 

Qui sotto l’immagine della lettera di minacce alle “due belle more”

 

Oltre alla lettera, fu ritrovata una ciocca di capelli color cenere, un fiore colorato di merletto, del terriccio e un brandello di tessuto scuro. Allegati alla lettera anche tre negativi fotografici, il primo ritraeva l’attentato a Papa Wojtyla e l’altro un teschio umano con la scritta: “Eleonora De Bernardi, Morta in Campagna, Lì 23 agosto 1854″.

Solo nella lettera giunta alla sorella di Mirella compariva un riferimento al marito, Filippo Mercurio: «Mercurio vola in sella del suo ciclomotore dal caffè alla via Nomentana all’altro caffè».

 

Gli indizi contenuti nella lettera sarebbero questi:

  • La frase Non cantino le due belle more non si rifersce a Emanuela e Mirella, come avvalorato dai media, ma più verosimilmente sarebbe un messaggio diretto a due complici;
  •  

  • La citazione della “baronessa” si riferisce alla morte della baronessa Jeanette de Rothschild, avvenuta il 29/11/11/1980 in circostanze misteriose e che Accetti collegherà al caso Orlandi, lo analizziamo più sotto;
  •  

  • La citazione del ventuno di gennaio, biondi capelli e vigna del Signore si riferisce alla morte di Caterina (Katy) Skerl, altro caso che Accetti unirà alla Orlandi. La ragazza (bionda) fu trovata strangolata il 21/01/83 in una vigna a Grottaferrata (Roma);
  •  

  • La citazione di “Eleonora De Bernardi” potrebbe riferirsi alla ex moglie di Marco Accetti, Eleonora Cecconi. L’uomo la indicherà come colei che spediva i comunicati da Boston;
  •  

  • Il teschio del negativo fu fotografato nella cripta in Santa Maria dell’Orazione e Morte, in via Giulia, e la didascalia sulla fronte è la stessa riportata nella lettera (“Eleonora De Bernardi, Morta in Campagna, Lì 23 agosto 1854”);
  •  

  • Il riferimento a Filippo Mercurio, marito di Antonietta Gregori, si riferisce probabilmente al fatto che fu l’uomo a rispondere al telefonista anonimo che chiamò al bar dei Gregori dopo la scomparsa di Mirella, elencando le marche dei vestiti che la giovane indossava il giorno della sparizione;
  •  

  • La frase “MUSICO 26/OTT/1808 – 5/3/1913 – 2013” si riferisce al musicista Luigi Hugues, morto il 5/3/1913 ma nato il 27/10/1836 (non il 26/10/1808), i cui spartiti erano nello zaino di Emanuela il giorno della sparizione e la fotocopia del frontespizio fu fatta ritrovare dall'”Amerikano” il 04/09/83;
  •  

  • La parola “FIUME” potrebbe ricordare la Avon, ovvero “fiume” in lingua celtica, codice già usato da Marco Accetti;

 

E’ evidente che le lettere siano legate alla comparsa di Marco Accetti e citano molti elementi chiave del complesso raccontò che farà nel corso degli anni.

L’uomo ha negato di esserne l’autore, sospettando del tentativo «della parte avversa di inquinare la situazione».

Le analisi scientifiche sul teschio ritrovato il 21/12/12, sulle due lettere, sui ritagli di giornale e sugli indirizzi sulle buste scritti con il normografo hanno evidenziato una riconducibilità ad uno stesso autore, senza che emergesse alcun elemento per rintracciarlo286G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 49.

 

 

6.4 Le fazioni vaticane e i complici di Marco Accetti.

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Marco Accetti ha sempre dichiarato di non voler citare i sodali che avrebbero operato con lui per onorare la parola data, invitandoli a comparire spontaneamente per usufruire di un’agevolazione di una pena e in considerazione del fatto che non sarebbero stati compiuti atti gravi.

Inoltre, ha sottolineato l’inutilità di citare testimoni i quali avrebbero inevitabilmente negato, senza giungere comunque alla soluzione. E’ stato più volte criticato per questa reticenza.

Negli Atti del processo che lo riguarda si legge che Accetti ha però più volte invitato la Procura a fare un appello alle ragazze e alle persone coinvolte perché si facciano avanti a confermare le sue dichiarazioni287G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45.

Nel luglio 2023 la Procura di Roma avrebbe individuato una donna, romana e di estrema sinistra, che ha ammesso di aver letto con un finto accento inglese uno dei comunicati sul caso Orlandi spediti da Boston. E’ la famosa “amerikana” di cui ci riferì l’uomo nel 2016.

Marco Accetti ha però s,m però per smentito la notizia dell’identificazione di una persona che prestò la sua voce per il caso Orlandi»M. Accetti, Dichiarazione su Facebook, 27/07/23.

Nel corso degli anni sono emersi numerosi nomi di persone che avrebbero operato al fianco di Accetti o sarebbero stati coinvolti in qualche modo.

Per quanto riguarda le “fazioni vaticane”, Accetti ha parlato di una lotta nella Curia romana fra due fazioni contrapposte sulle politiche della Segreteria di Stato e del Papa in materia economica e di rapporti con il blocco sovietico e con il sindacato Solidarnosc.


 

La fazione vaticana progressista.

La fazione “progressista” di cui avrebbe fatto parte si sarebbe opposta alla politica papale di forte contrasto al comunismo288G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

Avrebbero inoltre mirato a coinvolgere mons. Marcinkus, presidente dello IOR, in un discorso di finta pedofilia per minarne il potere, coinvolgendo a tal proposito inconsapevoli ragazze e ragazzi289G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43.

Tale fazione sarebbe stata formata da «pochi laici che aiutavano pochi ecclesiastici».

 

Qui sotto le parole di Marco Accetti sulla sua fazione:

 

Nel suo blog, Accetti ribadì lo stesso concetto: «Non si pensi che degli ecclesiastici possano compiere tali misfatti. Erano solo alcuni e pochi laici a loro contigui ad adoperarsi in tal senso, per interessi finanziari od altro. E quasi sempre gli ecclesiastici in oggetto erano assolutamente estranei ed inconsapevoli di quanto accadeva in pro o contro di loro»290M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.

I membri della fazione “progressista” vaticana in cui avrebbe operato sarebbero stati fedeli alla linea del segretario di Stato, car. Agostino Casaroli, cioè favorevoli al dialogo con il comunismo. Avrebbero inoltre avuto come riferimento mons. Audrys Juozas Backis, il card. Basil Hume e l’arcivescovo Bruno Heim, senza che essi ne fossero stati mai coinvolti.

 

Secondo i vari racconti di Marco Accetti, i membri operativi sarebbero invece stati:

  • Religiosi lituani e francesi, consiglieri e segretari di nunziatura vicini al francese Jacques-Paul Martin, prefetto della casa pontificia e al polacco Andrzej Maria Deskur, dal 1973 presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali;
  •  

  • Alcuni laici vicini al marchese Giulio Sacchetti del Palazzo del Governatorato;
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  • Due religiosi asiatici della Congregazione Propaganda Fide, uno dei quali avrebbe prestato servizio diplomatico in Brasile (e che avrebbero avuto relazioni con Alì Agca);
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  • Elementi vicini al card. Egidio Vagnozzi nella Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede e nell’ex- gendarmeria;
  •  

  • Tre persone tedesche291in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 96, (due ragazze e un ragazzo), ben retribuite e collaboratrici della Stasi: il ragazzo, biondo, svizzero del cantone tedesco292in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 99, sarebbe stato presentato a Mirella per farla innamorare e giustificare l’allontanamento da casa, le due ragazze avrebbero invece avuto un falso passaporto americano293in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 135. Una di esse, sempre presente al fianco di Accetti fino al dicembre 1983, era una ragazza bionda294in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 101, dal nomignolo Ulrike, coetanea di Accetti295M. Accetti, Punti 6 e 7 (indizi e prove), 21/01/2014, conosciuta tramite un diplomatico e un religioso delle Amministrazioni Palatine (il nome in codice deriva da Ulrike Meinhof, la terrorista tedesca di estrema sinistra che fondò la Banda Baader-Meinhof);
  •  

  • L’ex Lupo grigio Musa Serdar Celebi, spesso coinvolto da Accetti nel caso Orlandi e che avrebbe ospitato nella sua abitazione296F. Peronaci, Caso Orlandi, la difesa di Accetti: «Interrogate 2 arcivescovi e il turco Celebi», Corriere della Sera, 21/11/2013
  •  

  • Una ragazza cecoslovacca di nome Iva (ne ha fornito anche il cognome) che avrebbe nascosto il flauto di Emanuela e che lui avrebbe portato con sé in Egitto per una “missione” in ambienti della nunziatura;
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  • Oriano Mondin e Gaetano De Janni, entrambi arrestati (e assolti) assieme ad Accetti nel pestaggio di Mario Appignani, episodio che sarebbe stato architettato dalla sua fazione;
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  • Una compagna di Emanuela dell’Istituto Convitto Nazionale che collaborò nel giorno della sparizione;
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  • L’ex moglie Eleonora Cecconi, alla quale Accetti avrebbe detto (mentendo) di aver ucciso Mirella Gregori e le avrebbe chiesto di aiutarlo a sbarazzarsi del corpo ai piedi di «una collina chiamata Empireo» a Monterotondo297in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 139. La stessa donna aveva un fratello a Boston e secondo l’uomo sarebbe stata lei a spedire da lì i telegrammi dopo la sparizione di Emanuela298G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47;
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  • L’ex fidanzata Patrizia De Benedetti (legame sentimentale durato dal 1979 al 1982 e poi ricominciato dopo l’estate del 1983299G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46), la quale secondo l’uomo avrebbe scritto alcuni comunicati e sarebbe stata informata dei fatti relativi alla Orlandi300M. Accetti, varie dichiarazioni su Facebook, 2015-2016;
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  • Alcuni elementi del SISE (Servizio di Informazioni della Sicurezza Democratica)301M. Accetti, Punto 4 (indizi e prove), 17/12/2013.
  •  

  • Una ragazza romana di 19 anni, di estrema sinistra, che lesse un comunicato con un finto accento inglese (sarebbe stata individuata dalla Procura nel luglio 2023302F. Peronaci, Caso Orlandi: individuata una donna coinvolta nelle rivendicazioni, Corriere della Sera, 27/07/23).

 

Una menzione particolare per Dany Astro, compagna di Accetti dal 2001 (fino sicuramente al 2013).

Nel 2013 la donna ha riferito in Procura di aver riconosciuto Emanuela Orlandi a Parigi dove Accetti l’avrebbe mandata dopo la morte di Oscar Luigi Scalfaro (2012), a consegnare una lettera ad un arabo (o un orientale) della moschea centrale di Parigi303G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45. Dopo la consegna, avrebbe incontrato tre donne che avrebbe messo in contatto con Accetti e tra queste avrebbe riconosciuto la Orlandi304G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45.

 

Nel novembre 2013 l’allora legale di Marco Accetti, Maria Calisse, sollecitò (inutilmente) alla Procura l’audizione di una decina di testimoni: tra essi, mons. Pierluigi Celata e mons. Audrys Backis, l’ex Lupo grigio Musa Serdar Celebi, vicino ad Agca e capo dei turchi rifugiati in Germania, un poliziotto oggi in pensione a alcune amiche di Emanuela e Mirella che si sarebbero rese complici involontarie305F. Peronaci, Caso Orlandi, la difesa di Accetti: «Interrogate 2 arcivescovi e il turco Celebi», Corriere della Sera, 21/11/2013.


 

La fazione vaticana anticomunista.

La fazione opposta a quella di Accetti (deduttivamente “conservatrice”) sarebbe stata dalla parte di Papa Wojtyla, favorevole al pugno duro del Vaticano contro il comunismo.

Questa fazione avrebbe invece avuto come riferimenti:

  • Il presidente dello Ior, Paul Marcinkus, il quale però sarebbe stato un semplice esecutore della politica filo-statunitense dell’avvocato Thomas Macioce e del card. John Joseph O’Connor;
  • Alcuni uomini vicino all’avvocato Umberto Ortolani;
  • Il generale Giuseppe Santovito, capo del SISMI (servizi segreti italiani);
  • Alcuni elementi del SISDE (servizi segreti italiani);
  • Il card. Giuseppe Caprio, presidente dell’APSA (organismo che cura il patrimonio economico del Vaticano), prelato effettivamente avverso al comunismo;
  • Mons. Pavol Hnilica, presidente della “Pro Fratribus” con sede a Grottaferrata, accusato di aver versato a Flavio Carboni dai 3 ai 6 miliardi di lire per riavere documenti relativi allo lor contenuti nella borsa
    sottratta a Roberto Calvi prima della sua morte. Accetti ha detto che Hnilica «era la nostra bestia nera»306citato in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014;
  • Alcuni membri dell’aeronautica militare italiana307M. Accetti, Memoriale 2014;

 

Analisi e verifiche sulla fazione opposta

Riguardo a Umberto Ortolani, il suo nome viene spesso citato da Accetti («i cui uomini erano la parte a noi opposta»308M. Accetti, Punti 6 e 7 (indizi e prove), 21/01/2014). L’uomo fa spesso notare che la sua nazione feudo era l’Uruguay, proprio il Paese da cui proveniva José Garramon, ucciso in circostanze misteriose dallo stesso Accetti nel 1983.

Effettivamente nel 1969 divenne Ambasciatore dell’Ordine dei Cavalieri Ospitalieri di Malta a Montevideo, capitale uruguayana. Fu arrestato nel settembre 1983 e tra le sue proprietà comparivano trenta grandi fattorie in Uruguay309in Umberto Ortolani, Wikipedia.

Nel 1983 si scoprì che Ortolani era proprietario del Banco Financiero sudamericano (Bafisud), mentre in Italia fu coinvolto nello scandalo del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e per molte altre vicende legate alia P2.

Ortolani nel 1963 venne nominato “Cavaliere di Gran Croce” dal presidente della Repubblica Giovanni Leone310da Ortolani, un miliardario all’ombra di DC e Vaticano, l’Unità 22/04/1984 e gentiluomo pontificio da Paolo VI, titolo revocato nel 1983 da Giovanni Paolo II.

Massone, anticomunista e esponente di rilievo della P2 (tessera 1622311da Ortolani, un miliardario all’ombra di DC e Vaticano, l’Unità 22/04/1984), Umberto Ortolani era il braccio destro di Licio Gelli, venerabile maestro della stessa organizzazione. La collaborazione iniziò a partire dagli anni Sessanta quando esportarono in Sudamerica i capitali dei gerarchi fascisti e nazisti. I due erano legati anche a Michele Sindona.

A proposito della tessera di Ortolani della P2 (1622), Accetti ha riferito che la data scelta per la sparizione di Emanuela Orlandi (22/6/83) avrebbe dovuto ricordarla come codice (oltre alla sezione 22 della Stasi dedita all’antiterrorismo)312M. Accetti, Memoriale, 2014.

Per quanto riguarda Licio Gelli, Accetti non lo nomina tra gli esponenti della controparte. Nelle cronache dell’epoca si riportò che era orientato verso la destra americana, in linea con la visione politica di Ortolani.

Proprio tra il 1983 e il 1984, mentre Ortolani era ricercato per il crack del Banco Ambrosiano e per l’inchiesta sulla P2, l’Italia era in contrasto con l’Uruguay per l’archivio segreto di Gelli, custodito nella sua villa a Montevideo e fonte di uno dei più gravi scandali della storia italiana dal dopoguerra. La stessa villa in cui José Garramon giocava a fare il detective intrufolandosi nel giardino e dove, a pochi metri di distanza, abitava anche Umberto Ortolani.

 

In questo video vengono ricostruiti i legami tra il caso Garramon, Licio Gelli e Ortolani:

 

 

6.5 La baronessa Rothschild, Marco Accetti e il caso Orlandi.

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Secondo il racconto di Marco Accetti, la fazione “progressista” vaticana in cui disse di far parte ebbe come obbiettivo di frenare i finanziamenti al sindacato anticomunista di Solidarnosc (definito da Accetti la «cellula radicale polacca» e avrebbero cercato di delegittimare moralmente Paul Marcinkus tramite false testimonianze sul suo conto.

La scelta sarebbe caduta anche su donne altolocate come la baronessa Rothschild, Jeannette Bishop, la quale avrebbe frequentato gli stessi ambienti di studio di araldica di mons. Heim, riferimento della fazione accettiana. Le donne avrebbero dovuto sostenere che nella loro relazione con Marcinkus costui avrebbe fatto trapelare informazioni riservate riguardanti lo Ior.

Accetti ha però sostenuto che la baronessa non fu mai contattata e sparì improvvisamente per motivi estranei ai fatti. Le due fazioni vaticane sospettarono l’una dell’altra, il fotografo romano ha escluso che il suo ganglio abbia avuto a che fare con la morte di Jeannette May.

 

La scomparsa della baronessa e della sua amica, Gabriella Guerin, avvenne il 29/11/1980. Le donne furono viste in paese alle 17 e, nonostante un importante appuntamento, si sarebbero avventurate in montagna poco prima di una forte nevicata. Tracce della loro presenza furono trovate in una casa abbandonata di montagna a Fonte Trocca.

All’epoca un testimone disse di averle viste arrivare all’albergo in cui alloggiavano in auto con un uomo distinto e abbronzato, per poi ripartire. Un altro le vide il giorno dopo con due uomini su due grosse macchine dirette a Roma. Tuttavia la baronessa era da soli quattro giorni in Italia, troppo pochi per organizzare un rapimento.

I loro corpi furono ritrovati il 27/01/1982 tra i monti del Maceratese. L’autopsia stabilì che le donne morirono il giorno stesso della sparizione sul luogo del ritrovamento dei resti, causa assideramento. Le perizie successive non esclusero però il duplice omicidio ma, senza ulteriori elementi, il caso fu archiviato nel 1987.

 

In quale modo la morte della baronessa è collegata al caso Orlandi?

Secondo la versione fornita da Marco Accetti, gli «venne raccontato che uno dei miei sodali aveva spedito dei telegrammi riportanti dei codici che già contemplavano la possibilità di scegliere una o due delle ragazze nella palazzina abitata dagli Orlandi: si citava il luogo 3, così indicando la palazzina degli Orlandi ma non ricordo il motivo per cui questa palazzina fosse associata al numero 3, e inoltre si citava l’anagramma parziale di Orlandi, “Roland“».

 

Analisi e verifiche su “Roland” (codice di “Orlandi”)

Setacciando le cronache dell’epoca riguardo questi telegrammi, in quasi tutte le versioni -pur contraddittorie tra loro- il nome “Roland” non comparì.

Si trattò di tre telegrammi inviati poco dopo la comparsa della baronessa: il primo (spedito 03/12/1980) alla casa d’aste Christie’s (svaligiata il giorno dopo della scomparsa), il secondo (spedito il 06/12/1980) all’hotel di Sarnano in cui alloggiava Jeannette, il terzo (spedito il 02/01/1981) a un imprenditore del marmo.

Il quotidiano l’Unità del 15/03/1981 riferì che alla casa d’aste Christie’s arrivò questo testo: «Se volete ritrovare la roba andate al 130 di via Tito Livio». Firmato: «Roderigo, via Po 45».

La Stampa del 24/08/1981, invece, riportò un testo diverso: «Se volete ritrovare la roba andate in via Tito Livio 130, interno 3». Lo stesso quotidiano il 22/02/1981 riportò un’altra versione ancora: «Se vuoi la tua merce vai al 130 di via Tito Livio». Firmato: «Rodrigo». Versione confermata nella copia dell’11/12/1984.

Per quanto riguarda il secondo telegramma, inviato al residence da cui scomparve la baronessa, l’Unità del 15/03/1981 riferì questo testo: «Ti aspetto in via Tito Livio 130». Firmato: «Peppo, via Po 55».

La Stampa del 22/02/1981 riportò anche in questo caso una frase diversa: «Ti aspetto in via Tito Livio 130, interno 3». Firmato: «Peppo» (testo confermato anche nella copia del 24/08/1981 e in quella dell’11/12/1984).

Vi furono però altre versioni riportate sui quotidiani dell’epoca. Ad esempio, La Stampa del 14/03/1981 riferì che il mittente che inviò il telegramma all’albergo “Ai Pini” di Sarnano, dove scomparve la baronessa, si firmò effettivamente come “Roland”. Il testo riportato fu il seguente: «Attendoti Tito Livio 130, interno 3».

Questa esatta versione del testo, con la firma “Roland”, fu confermata anche dal Messaggero del marzo 1983.

I carabinieri si recarono all’appartamento di via Tito Livio 130, trovando solo degli extracomunitari e della cocaina.

Infine, per quanto riguarda il terzo telegramma, l’Unità del 15/03/1981 scrisse che qualche giorno dopo gli altri sarebbe arrivato a un anonimo imprenditore di Roma, indicante sempre “via Tito Livio”. Anche La Stampa del 24/08/1981 confermò che fu spedito «a un industriale del marmo di Roma». Il testo diceva: «Ti aspettiamo riunione di affari in via Tito Livio 130, int. 3».

Molto più preciso fu Il Messaggero del marzo 1983, dove si scrisse che il telegramma ai familiari di Valerio Ciocchetti, industriale del marmo, sequestrato una ventina di giorni prima (il 03/12/198, quattro giorno dopo la scomparsa della baronessa) da Laudavino De Sanctis e dalla cosiddetta “Banda delle Belve” e trovato morto il 27/02/1981, nonostante il riscatto pagato dalla famiglia.

E’ evidente che in quei giorni i mittenti dei telegrammi riguardanti la baronessa lessero sui giornali del sequestro di Ciocchetti e, per ignoti motivi (depistaggio?), inviarono ad un suo familiare lo stesso telegramma.


 

Conclusioni sui legami tra la scomparsa della Baronessa e il caso Orlandi.

Abbiamo visto che solo alcune fonti dell’epoca confermarono che il mittente dei telegrammi si fosse firmato come “Roland”.

Quali conclusioni trarne?
1) Marco Accetti ha mentito e si tratta di un errore di battitura di alcuni quotidiani (gli altri giornali dell’epoca riferirono i nomi “Rodrigo” e “Roderigo” per il telegramma alla casa d’aste Christie’s e “Peppo” per quello inviato all’albergo della baronessa)? Ipotesi da scartare, la probabilità che Accetti stia mentendo in merito a “Roland” e che, casualmente, alcune cronache di allora confermino pur erroneamente lo stesso nome, è troppo bassa;

2) Marco Accetti ha inventato il legame tra “Roland” e “Orlandi” solo dopo aver letto quegli articoli? E’ possibile, tuttavia sarebbe stato rischioso: a parte alcuni quotidiani (ne abbiamo trovati due per ora), le altre cronache dell’epoca non parlarono di “Roland”;

3) Marco Accetti ha detto il vero e gli articoli dell’epoca sono una prova? E’ possibile, tuttavia andrebbe spiegato perché gli altri quotidiani riferiscano nomi diversi (“Rodrigo” e “Peppo”).

Una controprova che si potrebbe fare è verificare se la palazzina (o l’appartamento) degli Orlandi in Vaticano abbia qualcosa a che vedere con il numero 3 (o con il numero 130). Al momento il legame tra la baronessa Rotschild e il caso Orlandi rimane incerto, non smentito ma nemmeno confermato.

C’è un aspetto che però sembra contrastare con le dichiarazioni di Accetti.

Abbiamo già spiegato in una sezione precedente che voci di possibili sequestri di cittadine vaticane arrivarono effettivamente in Vaticano, come testimoniato Raffaella Gugel, figlia dell’aiutante di camera del Papa (e come hanno rilevato le indagini di polizia su alcuni pedinamenti) e abitante nello stesso edificio degli Orlandi313F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 7. Ma esse pervennero soltanto dopo l’attentato del Papa, avvenuto nel maggio 1981 e non all’inizio di quell’anno, cioè quando arrivarono i telegrammi subito dopo la sparizione della baronessa Rotschild (avvenuta il 29/11/1980).

 

 

6.6 L’attentato a Giovanni Paolo II.

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Si è sempre sospettato che al centro del caso Orlandi vi fosse anche l’attentato a Giovanni Paolo II, avvenuto il 13/05/1981 (anniversario della apparizioni di Fatima, 13/05/1967), un anno prima della scomparsa di Emanuela.

L’evento rientra anche nel racconto di Marco Accetti e delle fazioni che avrebbero operato nell’ombra del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa.

L’uomo ha infatti sostenuto che la sua fazione vaticana si sarebbe affiancata agli organizzatori di un possibile attentato al Papa al fine di limitarne gli effetti cercando di trasformarlo in un gesto intimidatorio314G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.


 

La fazione di Accetti e le notizie sull’organizzazione dell’attentato.

Nell’estate 1980, la fazione di Marco Accetti sarebbe venuta a conoscenza della preparazione di un attentato al Papa da parte di idealisti turchi di estrema destra (i “Lupi Grigi”), grazie ad agganci nel servizio diplomatico della Turchia, dove fu nunzio mons. Backis.

 

Analisi e verifiche sulle notizie giunte alla fazione di Accetti.

Effettivamente in Vaticano arrivò nel 1979 un’informativa da parte del capo dei Servizi segreti francesi (SDECE), Alexandre de Marenches, di un possibile attentato al Papa.

Il giudice Rosario Priore, autore dell’inchiesta giudiziaria sull’attentato del 1985, ritenne che la fonte arrivasse dall’Est, più probabilmente dalla Polonia, escludendo però una connessione con l’attento del 1981 (si sarebbe trattato di un altro attentato). Al contrario, il marchese De Marenches creò un collegamento tra quelle notizie e quanto poi avvenne, attribuendo le responsabilità ai più alti vertici di Mosca315R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, p. 7, come scrisse lui stesso nel libro Dans le secrets des princes (1986).

Il 01/06/1979 De Marenches inviò due agenti a Roma, Valentin Cavenago e Maurice Beccuau, i quali si misero in contatto con l’ordine dei Premostratensi sull’Aventino, il cui l’abate generale era padre Norbert Calmel, con la Segreteria di Stato vaticana e quindi al Papa.

i monaci Premostratensi dell’abate Calmels?

Marco Accetti ha risposto sostenendo che fu la sua fazione a controllare «l’iter di consegna dell’informativa presso la Città del Vaticano e facemmo in modo che a essere prescelto come terminale della stessa fonte fosse l’abate dei Premostratensi Calmels, persona molto vicina a monsignor Bačkis, sottosegretario al Consiglio per gli Affari pubblici della Chiesa, a cui la mia parte faceva riferimento diplomatico-politico, senza che egli ne fosse mai stato coinvolto»316F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 35.

Nel 2005 il giudice Priore ha sostenuto di aver indagato nell’archivio dei Premostratensi ma esso era già stato diviso e le carte di interesse politico erano state portate in Vaticano, prelevate da «un monsignore lituano che lavorava presso la Segreteria di Stato e che, al tempo in cui svolgevo era diventato nunzio fuori d’Europa»317R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, pp.6, 7.

In risposta alla rogatoria del 28/02/1994, i vertici vaticani negarono l’esistenza di un’informativa da parte dei Servizi francesi318p. 8, ma Priore non lo ritenne credibile in quanto oltre alla testimonianza di De Marenches, ricevette la conferma dei due agenti recatisi in Vaticano, e dei Premostratensi che li accompagnarono319R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, pp. 8, 9.

Secondo la deposizione fornita dal giudice Ilario Martella, il SDECE (servizi segreti francesi) avrebbe nuovamente informato le autorità vaticane nel febbraio 1981, almeno secondo la testimonianza del giornalista americano Arnaud De Borchgrave320F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 12.

Da questi elementi non si può appurare quanto riferisce Accetti, se non la coincidenza che sia lui che il giudice Priore riferiscono un coinvolgimento “lituano”.


 

b) Il primo contatto con i “Lupi Grigi”.

Marco Accetti continua il suo Memoriale spiegando che, dopo aver saputo dell’intenzione di un attentato al Papa, avrebbero contattato loro i “Lupi Grigi” turchi qualificandosi come appartenenti a un gruppo cultista sudamericano di destra, in polemica con il pontefice per il flebile sentimento anticomunista (chiamandosi “Proprietà, Tradizione e Famiglia”).

 

Analisi e verifiche sul primo contatto con i “Lupi Grigi”.

E’ credibile che dei cattolici tradizionalisti potessero aver contattato degli estremisti islamici?

Il fatto che sull’attentato del Papa vi fosse stata una convergenza di interessi di gruppi eterogenei è effettivamente confermato dalla Corte di assise di primo grado e da quella di appello, le quali esclusero la tesi dell’atto individuale: «Il delitto fu il risultato di un complotto di alto livello: e cioè a monte dell’esecutore, anzi degli esecutori materiali vi furono organizzatori ed entità, con ogni probabilità, statuali»321citata in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 10.

La tesi fu confermata dal giudice Rosario Priore, titolare dell’inchiesta sull’attentato del 1985322Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, p. 12, convinto che dietro ad Agca ci fu sicuramente anche una parte dei “Lupi Grigi”, idealisti turchi di estrema destra, i quali, spiegò, «è pacifico che erano legati agli Stati Uniti[cioè la CIA, nda]. I Lupi Grigi erano una struttura che aveva compiti di difesa contro il comunismo» e «operano in un certo senso più dalla parte occidentale che dalla parte orientale»323Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, pp. 15, 27.

Ferdinando Imposimato e la Commissione parlamentare sul dossier “Mitrokhin” sostengono invece che, almeno inizialmente, Agca era un estremista di sinistra, amico del leninista rivoluzionario arabo Seddat Kaddem, addestratosi 40 giorni in un campo militare palestinese di Habbash324F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 15 325Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, Documento conclusivo 15/03/2006, p. 257.

Il giudice Rosario Priore, al contrario, faticò ad inquadrare Agca: si dice che furono «i Servizi occidentali ad avere rapporti con i Lupi Grigi, però altri sostengono che i Lupi Grigi fossero stati infiltrati dal KGB e che addirittura Agca fosse un infiltrato del KGB. Agca l’ho sentito molte volte: è furbo, astuto, intelligentissimo, però non lo ritengo in grado addirittura di percepire queste differenze. Se dovessi dare un giudizio su Agca, non lo definirei né di destra, né di sinistra, ma lo descriverei come un uomo aperto, rotto a tutto, come si diceva una volta»326R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 25.

La versione più sostenuta dagli inquirenti italiani sull’attentato al Papa è che il KGB e l’Unione Sovietica avrebbero dato mandato ai Servizi segreti bulgari di uccidere il Papa, i quali si sarebbero serviti della mafia turca, tramite Bekir Celenk, che a sua volta si avvalse dell’organizzazione terroristica dei Lupi grigi. Agca sarebbe stato l’ultimo anello della catena.

Per quanto riguarda l’eterogeneità degli interessi, anche il magistrato Carlo Palermo citò un rapporto di polizia giudiziaria in cui venivano collegati esponenti islamici, massonici (Thurn und Taxis e «il gruppo religioso cultista “Tradizione, famiglia e proprietà”, particolarmente forte e numeroso in America Latina», ed il tradizionalismo ultracattolico (la famiglia portoghese Braganza e Juan Fernandez Krohn, attentatore del Papa nel 1982)327Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 06/07/2005, p. 12.

Così, proseguì il magistrato Palermo328p. 8, 9, «si hanno dei collegamenti tra componenti occulte occidentali, in particolare americane, ed elementi arabi o musulmani, che dovrebbero essere contrapposti, ma che tali non sono, ove si esaminino tutti gli aspetti affaristici che invece ne costituiscono il prodotto».

Il tutto ruotava attorno alle apparizioni di Fatima, quella che Palermo definì «esaltazione mistica dell’ispirazione alle apparizioni di Fatima e al terzo segreto di Fatima cui, da una parte Agca e dall’altra padre Krohn l’anno seguente, sia pur da contrapposte posizioni, si erano ispirati»329p. 7.

D’altra parte, proseguì il giudice Palermo, Alì Agca «ha una sorella che si chiama Fatma (lo scrive lui nel suo libro). E dato che non può parlare delle apparizioni di Fatima nel senso religioso nostro, visto che è musulmano, ma ha anche una sorella che si chiama così, lui può esprimere solo una rivendicazione propria nei confronti di quell’episodio, in attesa del premio, così come era stato per gli altri omicidi che aveva compiuto»330p. 16.

Ricordiamo infatti che Fatima era anche il nome della figlia prediletta di Maometto, come spiegò Carlo Palermo, «le apparizioni avvenute in Portogallo per i musulmani non sono altro che apparizioni della loro Fatima, alle quali viene ricondotto comunque un effetto salvifico, un fine salvifico» (p. 24).

Se il legame tra fondamentalisti cattolici e islamici ha dunque una conferma storica, rimane sempre possibile che Marco Accetti ne sia venuto a conoscenza e l’abbia usato in maniera creativa per inserirlo nel grande filone del caso Orlandi.


 

c) Il contatto con Alì Agca.

Marco Accetti ha sostenuto che a contattare Alì Agca sarebbero stati due religiosi asiatici con lineamenti orientali, membri di Propaganda Fide, uno dei quali avrebbe prestato servizio diplomatico in Brasile e avrebbe incontrato tre volte l’idealista turco, a Milano, a Perugia e a Roma in un appartamento in via Belsiana, di proprietà di una persona conosciuta da Accetti stesso al collegio San Giuseppe De Merode331in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, pp. 56, 57.

 

Analisi e verifiche sul contatto con Alì Agca

Non esistono riscontri specifici anche se c’è un elemento particolare riguardante l’albergo “Aosta” di Milano, nel quale Agca alloggiò.

Il giudice Rosario Priore ha rivelato che i registri furono trovati bruciati da un incendio ma i Servizi segreti (il Sisde o il Sismi) conservarono copia delle pagine, sulle quali «c’erano degli sbianchettamenti sulla registrazione di un prelato che era stato in quell’albergo, quasi in coincidenza con Agca». Un dettaglio trascurabile, anche se «questa presenza aveva immediatamente richiamato l’attenzione dell’intelligence»332R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 14.

Non si capisce se la sbianchettatura la operarono i Servizi o il nome risultava già cancellato quando fotocopiarono le pagine del registro dell’albergo. A rigor di logica, se dedussero la presenza di un prelato è perché videro effettivamente il nome. Sarebbe utile indagare in tal senso.


 

d) La presenza di Alì Agca ad alcune udienze papali.

La fazione di Accetti avrebbe anche introdotto Agca in alcune udienze papali prima dell’attentato, in veste di studente universitario in contatto con la Segreteria per i non cristiani.

Agca, disse Marco Accetti, «doveva essere presentato come uno studente indiano, dell’università di Perugia e poi fotografato assieme a prelati, tra i quali alcuni membri della Congregazione per la dottrina della fede, che non sapevano chi fosse il giovanotto, certo, ma se le foto fossero arrivate a un giornale, dopo l’attentato, sarebbe stato comunque un problema serio, imbarazzante»333in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 148.

Agli idealisti, invece, sarebbe stato fatto credere che la presenza di Agca in queste occasioni ecclesiastiche «fosse per il fine di esercitare pressione su alcuni prelati attestati su posizioni vicine all’eurocomunismo»334in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 55.

 

Analisi e verifiche sulla presenza di Alì Agca alle udienze papali.

Il primo a sostenere che Agca comparve in alcune cerimonie in presenza di Papa Wojtyla non è stato Accetti ma Oral Celik335R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 131.

Fu dalle sue dichiarazioni che si visionarono le immagini della messa di Giovanni Paolo II celebrata il 10/05/81, tre giorni prima dell’attentato, presso la chiesa di S. Tommaso d’Aquino. Effettivamente il giudice Rosario Priore riconobbe una persona somigliantissima a Agca, totalmente sconosciuto ai parrocchiani del quartiere336R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, pp. 131, 132.

I tratti somatici erano identici, «se costui non è Agca, ne è di certo un perfetto sosia», scrisse Priore337R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 135. La forte somiglianza fu notata nei giorni dopo l’attentato anche dal parroco di S. Tommaso, dal fotografo pontificio, Arturo Mari, e da quelli dell’Osservatore Romano338R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 131.

Quest’uomo si trovava in una zona riservata a coloro che potevano ricevere la Comunione dalle mani del Papa, a cui si accedeva tramite invito da parte della parrocchia e della Prefettura della Casa Pontificia, il cui reggente era mons. Dino Monduzzi. L’indagine stabilì che gli inviti distribuiti dalla parrocchia erano solo per i parrocchiani, mentre quelli forniti dalla Casa pontificia erano una ventina, tra cui alcuni stranieri339R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, pp. 136, 137.

Il padre di Emanuela, Ercole Orlandi era uno degli incaricati alla distribuzione degli inviti e nel 1995 testimoniò che essi venivano consegnati a mano il giorno prima delle cerimonie ed escluse che tra essi vi fosse il nome di Agca. Ricordò però di aver inviato diversi biglietti all’albergo Isa di via Cicerone, dove effettivamente Agca alloggiò340R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, pp. 137, 138.

Uno dei fotografi della parrocchia era Daniele Petrocelli, poche ore dopo l’attentato si presentò a casa sua un uomo qualificatosi come appartenente alla Digos e chiese le foto dell’evento senza però redigere un verbale d’acquisizione. Qualche giorno dopo fu restituita una solo foto e gli fu detto che l’uomo sarebbe stato individuato come appartenente alla scorta del Papa341R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 132.

Il giudice Priore smentì che si trattò di un uomo della scorta, sottolineando anche quell’uomo che si trovava in una zona riservata agli invitati, per la quale occorrevano speciali inviti342R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 135.

Tale evento fu l’unico in cui emerse la presenza di Agca a cerimonie religiose343R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 141.

Se è quindi possibile confermare la presenza di Agca vicino a Papa Wojtyla tre giorni prima dell’attentato, non ci sono prove che dimostrino il ruolo di Marco Accetti ad averlo introdotto.

Certamente i vari viaggi e spostamenti di Agca prima dell’attentato sono sempre risultati inspiegabili, non fu il classico comportamento di un attentatore.

La spiegazione fornita da Accetti di un apposito intento di farsi fotografare per produrre pressioni e ricatti successivamente all’attentato è un’ipotesi convincente, molto meno lo è pensare che organizzazioni criminali estere avessero riposto così tanta fiducia in Marco Accetti e al suo finto gruppo sudamericano tradizionalista, tanto da affidare a loro la logistica del più grande attentato del secolo. Con quali garanzie?

Della logistica di quei giorni avrebbero potuto interessarsene in maniera più autorevole e competente i servizi segreti di uno dei Paesi dell’Est interessati. Il giudice Rosario Priore ha infatti scritto che vi sono prove certe «che tale delitto fu il risultato di un complotto di alto livello, e cioè che a monte dell’esecutore, anzi degli esecutori materiali, vi furono organizzazioni e entità con ogni probabilità statuali»344R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 14.

L’organizzazione alle spalle di Agca (ingaggiata da entità statuali riferite da Priore) era talmente preparata che lo aveva fatto evadere dal carcere turco, gli aveva fornito rifugio, lo aveva rifornito di denaro, di documenti d’identità e di viaggio falsi, lo aveva fatto muovere attraverso varie frontiere, dall’Asia, all’Europa, all’Africa e infine lo aveva munito dell’arma345R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 14.

Non avevano bisogno di Marco Accetti e della sua fazione, certamente non come mente logistica, al massimo come semplice manovalanza (ricordiamo la telefonata di prenotazione dell’albergo “Isa” fatta da un italiano).


 

e) La prenotazione degli alberghi di Alì Agca.

Pur precisando di non averlo mai incontrato personalmente, Marco Accetti sostenne di prenotato lui stesso a Roma l’albergo “Archimede” in via dei Mille, l’albergo “Ymca” di piazza Indipendenza e l'”Isa” di via Cicerone, da dove il terrorista uscì per compiere l’attentato.

«Venne deciso che fossi io a prenotare la stanza per il signor Agca per dare una certa impronta al cosiddetto attentato, far capire che l’azione nasceva da ambienti italiani, e per esteso vaticani»346citato in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, ha riferito Accetti.

Marco Accetti aggiunse inoltre che in quei giorni offrì anche la logistica per l’attentato ad un complice di Agca, Musa Serdar Celebi, «che una volta ospitai presso la mia abitazione»347citato in F. Peronaci, Caso Orlandi, la difesa di Accetti: «Interrogate 2 arcivescovi e il turco Celebi», Corriere della Sera, 21/11/2013.

 

Analisi e verifiche sulla prenotazione degli alberghi.

Alì Agca, nell’interrogatorio del 21/02/1983, sostenne che nel gennaio 1981 non alloggiò solo all’albergo “Isa” ma anche all’albergo “Archimede”.

Gli inquirenti dell’epoca verificarono che all’hotel “Archimede”, Agca alloggiò nel novembre 1980, mentre all’“Ymca” si fermò la notte tra il 10 maggio e l’11 maggio 1981. All’albergo “Isa” arrivò invece la mattina del 12 maggio 1981.

Un dettaglio rilevante riguarda l’albergo “Isa”: Maurizio Paganelli, il titolare di allora, testimoniò che a prenotare la stanza per telefono fu una persona che parlava un italiano corretto, quindi non Agca in quanto lo parlava a malapena.

«Se si vuole disporre un confronto con il titolare della pensione Isa sanno dove trovarmi», ha dichiarato Accetti348citato in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

Il reo-confesso ha sostenuto anche che l’albergo “Isa” sarebbe stato scelto per la stretta vicinanza alla sede di Osservatorio Politico dell’avvocato Mino Pecorelli, il quale «era nei nostri interessi per il rapporto con monsignor Bruno, e come ulteriore codice per il nome dell’albergo “Isa”, che in lingua araba e turca significa “Gesù”».

Pecorelli venne assassinato nel 1979, due anni prima dell’attentato al Papa e l’Osservatore Politico aveva sede in via Tacito, effettivamente a 100mt. di distanza dall’albergo “Isa”.

L’elemento contraddittorio è quanto sottolineato dal giudice Rosario Priore, ovvero che Agca alloggiava «sempre in determinati alberghi». Inoltre, aggiunse, «i registri alberghieri sono una miniera di notizie, perché negli alberghi frequentati da Agca vi erano contemporaneamente un’infinità di turchi»349R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, pp. 14, 15 .

Dai registri dell’hotel “Isa” emerse infatti che il turco pernottò in quell’albergo anche nel gennaio 1981, nella stanza 18. Si trovava a Roma presumibilmente per compiere un attentato (poi fallito) a Lech Walesa, leader di Solidarnosc, in udienza papale il 15/01/81. In quest’albergo, spiegò Priore, «c’é stato ben tre volte»350R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 14.

Quando tornò nel maggio 1981, fu registrato il 13/05/1981 anche se era già lì dal 10/05/1981. Non gli venne però data la stanza 18, «come sempre era successo», ma gli assegnarono la stanza 31. Lo si apprese dai registri, dalla testimonianza del gestore Paganelli (diede 4 deposizioni) e da quella della sorella, «che riporta con attendibilità come sono andate le cose»351R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 14. E’ confermato il fatto che la prenotazione venne fatta da un uomo che parlava in italiano perfetto.

Un dettaglio controverso è che nella stanza 31 dell’albergo “Isa”, alloggiava un somalo e dopo l’attentato furono trovate due valige, sequestrate dagli inquirenti352R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 14.

Se Agca pernottava sempre negli stessi alberghi, se all'”Isa” alloggiò già altre tre volte, se vi era la presenza di altri turchi: perché Accetti riferisce di aver scelto lui quell’albergo il giorno prima dell’attentato per simboleggiare una relazione con Pecorelli e con il nome “Isa”? Intende dire che la sua fazione aveva prenotato a nome di Agca nonostante il terrorista turco avesse prenotato e alloggiato negli stessi alberghi anche in passato?

 

f) Il giorno dell’attentato al Papa.

I contatti con Agca sarebbero serviti ad indurre i turchi a semplici minacce o a spari in aria, cercando di convincerli che la morte del Pontefice sarebbe stata controproducente per gli interessi di tutti. Tuttavia, Agca sparò al Papa.

«Abbiamo sempre pensato a due ipotesi», ha scritto Accetti, «la prima che vede gli idealisti venir meno autonomamente al patto. La seconda, che possa esserci stato il suggerimento da parte di interessi terzi»353M. Accetti, Memoriale, 2014.

Gli accordi iniziali sarebbero stati di effettuare un solo colpo di arma da fuoco da esplodere per aria, simulando di aver mancato il bersaglio. La pistola di Agca, aggiunse il reo-confesso, disponeva di un caricatore con un limite-capienza di 14 cartucce, e una non fu inserita per timore di inceppamenti. Avrebbe dovuto quindi montare 13 proiettili e il colpo esploso doveva essere il tredicesimo, come la data del giorno da noi scelto, per l’appunto il 13 maggio, anniversario del fatto di Fatima354in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango libri 2014, pp. 61, 62.

 

Analisi e verifiche sul giorno dell’attentato al Papa.

Per quanto riguarda il fatto che il turco sarebbe venuto meno agli accordi, Agca colpì Wojtyla a soli due centimetri sotto l’aorta, quindi l’intenzione fu di uccidere il Papa.

Rispetto a ciò, però, il giudice Rosario Priore ha dichiarato che «Agca era veramente un killer […] era abituato a uccidere persone ad una distanza di 50 metri anche in condizioni di scarsissima visibilità; in piazza San Pietro era a sette metri, in pieno giorno, con il sole»355R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 9.

Nel primo periodo del processo a suo carico (dal maggio 1982), quando si dimostrò collaborativo, Agca comunicò al giudice Ilario Martella che l’intenzione era uccidere il Papa, «questo era il mandato che mi era stato affidato, tant’è che ho sparato solo due colpi perché accanto a me c’era una suora[di nome Lucia, tra l’altro, NDA] che ad un certo momento mi ha preso il braccio destro, per cui non ho potuto continuare a sparare. Altrimenti io avrei ucciso il Papa»356citato in I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 8.

Per quanto riguarda il caricatore dell’arma di Agca, il pm Antonio Marino ha spiegato che nella pistola di Agca fu trovato un caricatore con dieci colpi e, poiché il caricatore ne poteva contenere dodici, si è sempre dedotto che fossero stati sparati due colpi357A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 31/05/2005, p. 12. Ciò risulta anche dagli atti della documentazione sonora358I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/04/2005, p. 12.

L’esplosione di due colpi fu confermata dal rapporto dell’Ufficio centrale di Vigilanza del Governatorato del 19/05/1981, dall’autista della papamobile, Franco Ghezzi, dal sovrastante Giusto Antoniazzi, dall’agente di Vigilanza Graziano Tommasini, dall’agente scelto Franco Chiei Gamacchio, dall’agente Antonio Mantovani e dal gendarme Ermenegildo Santarossa359R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, pp. 175-183.

Quanto riferisce Accetti, quindi, riguardo al caricamento di 13 proiettili (codice di Fatima), non corrisponde al vero. Sarebbe stato fisicamente impossibile per il tipo di caricatore trovato in possesso di Agca.

La diatriba fu piuttosto sul terzo colpo udito da alcuni presenti quel giorno 360I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/04/2005, pp. 11, 12, testimoniato anche da mons. Stanislao, che stava accanto al Papa. Il processo non ha mai stabilito che il terzo colpo sia stato esploso da un complice di Agca361A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 31/05/2005, p. 13.

 

g) Un complice di Agca in Piazza San Pietro.

Il reo-confesso Marco Accetti ha riferito inoltre che in piazza San Pietro vi sarebbe stata «una persona accanto a lui che doveva coprirne la fuga accendendo un fumogeno»362in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango libri 2014, p. 61.

Non sappiamo a chi si riferisca, seppur in precedenza disse di aver gestito anche la presenza in quei giorni di Musa Serdar Celebi.

 

Analisi e verifiche sul complice di Agca.

I magistrati che si sono occupati dell’attentato al Papa hanno smentito ufficialmente che Agca abbia agito da solo, parlando esplicitamente e documentando l’idea di un complotto internazionale363priore 364Imposimato, p.15, ordito da entità statali.

E’ infatti piuttosto certificato365F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 15 366A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 14/06/2005, p. 25 che in piazza San Pietro vi furono altri elementi a sostegno di Agca.

Alcuni magistrati furono convinti che ci fosse Oral Celik367F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 15, addirittura con «prove schiaccianti»368A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 14/06/2005, pp. 25, 35, insieme ad Antonov369A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 14/06/2005, p. 25.

Altri inquirenti hanno negato, riconoscendo solo un uomo che fugge ripreso di spalle verso il colonnato in corrispondenza di Porta Angelica370R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 28/09/2005, p. 22. Il giornalista Lowell Newton riferì infatti agli inquirenti di aver visto un uomo diverso da Agca scappare con in mano una pistola e di essere riuscito a fotografarlo soltanto di spalle. Dall’immagine si vede la protuberanza della pistola nascosta sotto il giubbotto371I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/04/2005, p. 11.

Lo stesso Oral Celik, interrogato dal giudice Priore, ammise che c’era un’auto in attesa, non sotto l’ambasciata del Canada come si è sempre detto, ma in via di Borgo Angelico (la direzione in cui stava correndo l’uomo fotografato di spalle)372R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 28/09/2005, p. 22.

Nel 2006 una perizia della polizia scientifica su una fotografia scattata in Piazza San Pietro il giorno dell’attentato stabilì la presenza certa di Sergej Ivanov Antonov373Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, Documento conclusivo 15/03/2006, p. 264. Abbiamo mostrato la foto a Marco Accetti ma ci venne risposto che non si trattava di Antonov.

Ferdinando Imposimato ha criticato talla perizia sostenendo che non vi sarebbe «alcun elemento che induca a ritenere che Antonov si trovasse in Piazza San Pietro. Sarebbe stato assurdo anche dal punto di vista logico, considerato che in quella piazza vengono fatte riprese e scattate fotografie»374F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 24.

Il giudice Rosario Priore fu più prudente affermando che «sappiamo chi era l’autore ma non sappiamo chi erano i coautori presenti a piazza San Pietro»375R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 28/09/2005, p. 18.

Una cosa simile a quella riferita da Accetti fu detta nel 1985 in uno degli interrogatori dallo stesso Agca, quando sostenne che Arslan Samet sarebbe dovuto intervenire, nel caso qualche membro fosse stato catturato, facendo esplodere delle bombe panico. Un anno più tardi ritrattò tutto376R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, pp. 20, 21.

 

h) Tentativi di condizionare Agca e l’idea del sequestro della Orlandi.

Dopo l’arresto di Agca nel 1981 e per evitare la collaborazione con gli inquirenti, la fazione di Accetti avrebbe ideato di effettuare dei pedinamenti “appariscenti” per far credere al turco che si stava organizzando un sequestro di cittadini vaticani da contraccambiare con la sua scarcerazione377M. Accetti, Memoriale, 2014.

E’ con questa motivazione che Accetti spiega gli effettivi pedinamenti che le figlie di Gugel (aiutante Papa) e Cibin (sicurezza Papa) denunciarono dopo la scomparsa di Emanuela.

A pedinare Raffaella Gugel, disse Accetti, sarebbe stato «un membro dei Focolari Idealisti», mentre della figlia di Camillo Cibin si sarebbe occupato un membro della Stasi.. Il nome dell’idealista turco «è negli atti del processo per l’attentato. Non intendo fare chiamate di correità, ma gli organi inquirenti, volendo, arriverebbero a lui facilmente»378in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 72.

Nel marzo 1982, Marco Accetti venne arrestato per detenzione d’arma da sparo379G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46, ha sostenuto in merito che la sua fazione ebbe la notizia che l’attentatore turco intendesse collaborare con i giudici incolpando la delegazione bulgara, «cercammo di fargli credere, fittiziamente, che un servizio dell’Unione Sovietica stesse mandando un neofascista a compiere un omicidio nei suoi confronti. Agca sapeva essere prassi d’oltrecortina usare elementi di destra»380in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 75.

Lo stesso Accetti si sarebbe fatto arrestare «usando un’arma del padre di mia moglie, la quale me l’avrebbe consegnata senza conoscerne l’uso. Quindi il semplice reato era porto abusivo»381in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 75.

Si sarebbe così posizionato «nel giardinetto prospiciente» in piazza Sant’Emerenziana «cercando di far notare al vigilante privato, posizionato innanzi ad una banca, che recavo con me, sotto al giubbotto, una rivoltella», di tipo P38. Venne avvisata la polizia e Accetti finì a Rebibbia. «Nell’interrogatorio di rito simulai un trascorso nell’ambiente del neofascismo, citando fatti inesistenti e inserendo, all’interno degli essi, luoghi ecclesiastici a mo’ di codice»382in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 75.

La minaccia verso Agca sarebbe stata far girare la voce di un emissario del Kgb entrato nelle carceri incaricato di ucciderlo. Al terrorista turco, attraverso un agente corrotto dagli uomini di De Pedis, sarebbe stata fatta leggere una copia del verbale. Accetti fu scarcerato il 29/04/82 e un mese dopo, Agca iniziò a collaborare con gli inquirenti e l’8/11/82 accuserà di complicità i bulgari Antonov, Vassilev e Ayvazov383in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 76.

 

Analisi e verifiche sul condizionamento di Agca.

  • Un riscontro al fatto che a pedinare alcune adolescenti vaticane sarebbe stato un “idealista turco” è contenuto nella deposizione del 1984 di Raffaella Gugel, figlia di Angelo Gugel, aiutante di camera del Papa, la quale testimoniò di essere stata pedinata pochi giorni dopo l’attentato al Papa da un uomo «di carnagione scura, tipo nazionalità turca, capelli scuri ricci con occhi scuri»384citata in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 6.
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  • Lo stesso Agca nel 1990 dichiarò che sia da prima dela realizzazione dell’attentato il piano prevedeva il sequestro di diplomatici italiani nel caso un membro fosse stato arrestato e, continuò il turco, «qui è entrata in mezzo la storia di Emanuela e Mirella»385citato in R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 22.
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  • Non vi sono prove per sostenere che Accetti non abbia consultato gli atti delle deposizioni di Raffaella Gugel e degli interrogatori di Agca e abbia innestato queste informazioni nel suo racconto sul caso.
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  • Anche per quanto riguarda l’arresto di Accetti per detenzione d’arma da fuoco non è possibile né avvalorare, né smentire quanto riferito dal reo-confesso. Sottolineiamo soltanto la poca credibilità di un’immolazione totale da parte di Accetti per salvaguardare i bulgari dalle accuse di Agca (tentativo fallito, tra l’altro), tanto da macchiare appositamente la sua fedina penale e passare un mese in carcere. In cambio di cosa?

 

 

6.7 Marco Accetti e l’omicidio di José Garramon.

Nel dicembre 1983 Marco Accetti fu arrestato e processato per l’omicidio di José Garramon, figlio dei coniugi Maria Laura Bulanti e Carlos Juan Garramòn, ingegnere specializzato in progetti agricoli per l’Ifad, agenzia delle Nazioni Unite. L’uomo fu condannato per omicidio colposo e omissione di soccorso.

 

Qui sotto il furgone di Marco Accetti dopo l’incidente:

 

Presentandosi in Procura nel 2013 per il caso Orlandi ha sostenuto che all’epoca del processo per il caso Garramon non poté rivelare i retroscena dell’episodio386G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43, che sarebbero legati al caso Orlandi.

Accetti ha infatti raccontato che il 20/12/1983 nella pineta di Ostia mentre si trovava alla guida di un furgone Ford Transit in compagnia di una sua complice tedesca (fiancheggiatrice della Stasi con nome in codice Ulriche) investì involontariamente Garramon.

Nel 2013 l’uomo ha chiesto agli inquirenti di fare luce sulla vera natura dell’incidente in quanto, a suo dire, la responsabilità dei fatti sarebbe stata della fazione vaticana a lui contrapposta387G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43.

 

Nel seguente video la ricostruzione dell’omicidio e la tesi di Marco Accetti:


 

a) La pineta e la figlia del giudice Santiapichi.

Marco Accetti e Ulrike si sarebbero trovati in quella pineta per recarsi al camper in cui Emanuela sarebbe stata custodita da altre ragazze, parcheggiato all’Infernetto vicino alla casa del giudice Santiapichi, magistrato che avrebbe dovuto presiedere la prossima Corte d’Assise per l’attentato al Papa388G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43.

«Alla Orlandi, senza spiegare il motivo, facemmo delle foto nelle quali si rendeva riconoscibile il luogo», ha dichiarato Accetti. «Più che Santiapichi, ci interessavano i familiari, in particolare la figlia Arianna, con la quale io stesso scambiai qualche parola, senza farle intendere nulla»389in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

In un’altra occasione (perlomeno citato da Fabrizio Peronaci) l’uomo ha precisò che «le pressioni, più che alla persona del giudice, erano rivolte ai suoi familiari, in particolare la figlia, e a funzionari del ministero di Giustizia, con riferimento alla composizione della futura giuria di Corte d’assise».

 

Analisi e verifiche sui Santiapichi :

  • Nel febbraio 2016 abbiamo contattato Xavier Santiapichi, figlio del giudice Severino e fratello di Arianna, il quale ci ha riferito che «mia sorella non si è mai interessata di queste cose, fra l’altro aveva un fidanzatino in Sicilia e stava sempre in Sicilia con il suo fidanzatino». Circostanza che ci è stata confermata dallo stesso giudice Santiapichi in una telefonata del 27/02/16.
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  • Per quanto riguarda l’utilizzo del camper, vi è invece un possibile riscontro, rimandiamo il lettore alla sezione apposita.


 

b) Il SISDE, “Phoneix” e l’omicidio Garramon.

Secondo la versione ipotizzata da Accetti, l’attività svolta dal suo “ganglio” nella pineta (pressioni, foto, pedinamenti, lettere di minaccia) sarebbe giunta a conoscenza di elementi del Sisde.

Sarebbero stati loro dietro al gruppo “Phoenix” che, in un comunicato del 27/09/1983 (tre mesi prima dell’episodio riguardante Garramon), minacciarono i telefonisti del caso Orlandi, parlando proprio di una “pineta” («Vogliamo generosamente ricordare a Mario che nella pineta c’è tanto posto per aumentare la vegetazione“»).

Il 20/12/1983, tre mesi dopo la minaccia di “Phoenix”, alla vigilia dell’uscita dal carcere di Antonov (un successo per la fazione “progressista”) Accetti si sarebbe recato al camper, in cui ci sarebbe stata Emanuela, in quanto i vertici della sua fazione avrebbero deciso di far interrompere le pressioni in corso affinché la decisione non venisse revocata. Rientrando verso Ostia, in compagnia della ragazza tedesca vicina alla Stasi (“Ulrike”), avvenne l’incidente e Accetti investì José Garramon.

Accetti avrebbe deciso di costituirsi ma cercando di sfruttare l’episodio per le finalità della fazione, facendosi arrestare nei pressi della villa di Santiapichi.

La ragazza tedesca si sarebbe recata nuovamente al camper per spostarlo, Accetti prese un autobus per il centro (fu ritrovato il biglietto) e sarebbe passato da casa sua per telefonare all’amica ed ex fidanzata Patrizia De Benedetti. Con lei, a notte fonda, sarebbero tornati sul luogo, precisamente in via Francesco Cilea. L’uomo si trovava con la De Benedetti al momento dell’arresto390G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.

Nella sentenza si sostenne che i carabinieri fermarono Accetti e De Benedetti nella Fiat 127 per un controllo dei documenti e li sospettarono di essere estremisti di sinistra, quali i due erano considerati allora, anche per la vicinanza a una scuola391citata in P. Nicotri, Fassoni Accetti: tre errori nella sentenza di condanna per la morte di Garramòn, BlitzQuotidiano, 11/03/2014.

La preoccupazione di Accetti sarebbe stata farsi arrestare prima che i testimoni oculari della fazione avversa lo denunciassero producendo indizi fasulli. Per questo avrebbe tenuto addosso il giubbotto macchiato di sangue e non avrebbe tolto i frammenti del parabrezza dalla ventola del furgone392in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 154.

Nel 1986, tre anni dopo, la Corte d’Assise condannò Marco Accetti a 26 mesi di reclusione ma, siccome la carcerazione era già stata superiore (oltre un anno in cella, altrettanto ai domiciliari), ne disporrà l’immediata liberazione393in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 152.

Nell’istruttoria non c’è traccia del fatto che Accetti, nelle settimane precedenti l’investimento, si sarebbe recato presso l’abitazione dei Garramon travestito da prete e poi come fotografo, come invece affermato dalla madre di Garramon e dalla sua domestica394M. Accetti, Le falsità della signora Garramòn, 06/08/2014.

 

Analisi e verifiche sull’arresto di Accetti dopo l’omicidio:

  • La Corte di Assiste del 1985 stabilì che Marco Accetti nella notte fra il 20 e il 21 dicembre 1983 fu tratto in arresto per omicidio colposo e omissione di soccorso per aver investito Garramon su viale di Castel Porziano all’altezza della cascina nel Bosco, nascondendo il furgone in via Dobbiaco all’altezza del civico 59.
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  • Il giornalista Pino Nicotri ha sostenuto che nella sentenza non è citato il fatto che l’arresto avvenne nei pressi dell’abitazione del giudice Severino Santiapichi, né che «a bloccare Fassoni Accetti sulla 127 fu la scorta di Santiapichi preoccupata per la vicinanza della casa del magistrato»395P. Nicotri, Fassoni Accetti: tre errori nella sentenza di condanna per la morte di Garramòn, BlitzQuotidiano, 11/03/2014. Eppure, il fatto che l’omicidio Garramon si svolse effettivamente nei pressi della villa del giudice Santiapichi è stato confermato sia dal figlio Xavier Santiapichi, da noi intervistato nel febbraio 2016, che in maniera oggettiva e imparziale dalle cronache dell’epoca.

    Ecco cosa si legge sull’Unità del 22/12/1983 (una ricostruzione tuttavia poco chiara e differente dalla sentenza):

    «A lui i carabinieri di Ostia sono giunti per un caso del tutto fortuito, a quanto sembra. Sarebbe stata la scorta del giudice Santiapichi, presidente della Corte d’Assise a far scattare l’operazione. Avendo notato infatti un “Ford Transit” simile a quello segnalato nei bollettini di ricerca per il “pirata” di Castelporziano, gli uomini della scorta hanno segnalato il numero di targa alla stazione dei CC di Ostia. Risaliti al proprietario del furgone, i militari hanno scoperto che effettivamente Marco Accetti aveva parcheggiato in garage il suo “Ford”, con un’ammaccatura sul muso anteriore. E mancava anche la targhetta ritrovata vicino al corpo del piccolo José. Per questo l’uomo fu fermato, ed accompagnato in carcere per essere interrogato dal magistrato»

    Nella ricostruzione della Procura di Roma del 2015, si rilevò inoltre che Patrizia De Benedetti dichiarò che «lei è Accetti, dopo essere stati fermati e portati in caserma dai carabinieri, appresero solo il giorno successivo che i carabinieri che li avevano sottoposti a controllo appartenevano alla scorta del magistrato Santiapichi, che abitava in quei pressi»396G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 51.

    Lo stesso Nicotri, oltretutto, ha riconosciuto che la De Benedetti sarebbe stata pressata da domande «per lei prive di senso da un magistrato – Domenico Sica – arrivato apposta da Roma perché la vicinanza dell’abitazione di Santiapichi, all’epoca impegnato in processi di grande importanza anche politica, faceva sospettare intenti terroristici»397P. Nicotri, Fassoni Accetti: tre errori nella sentenza di condanna per la morte di Garramòn, BlitzQuotidiano, 11/03/2014.

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  • Nella versione dell’arresto riportata da Fabrizio Peronaci nel suo libro, secondo il quale i carabinieri avrebbero invece fermato Accetti e De Benedetti alle ore 4 in via Francesco Cilea e, sospettando fossero brigatisti, li avrebbero portati in caserma. Nell’interrogatorio, la De Benedetti si tradì (lui non intendeva ancora parlarne) citando il furgone e l’uomo venne arrestato398in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 154.


 

c) I legami biografici tra Marco Accetti e José Garramon.

Considerando che Accetti fu accusato di omicidio colposo (non di rapimento), rimane un mistero come il piccolo José Garramon si fosse trovato a quell’ora su quella strada al buio, nonostante abitasse al’Eur, diversi chilometri di distanza. E’ possibile che l’omicidio non fu una casualità?

Secondo Marco Accetti qualcuno condusse lì Josè Garramòn: «Non ho mai pensato che potessero essere stati i funzionari del Sisde a prelevare il ragazzo uruguyano, ma che gli stessi potessero aver detto a determinati personaggi a loro contigui[la malavita romana, nda], delle nostre attività nella suddetta pineta, e che queste persone, autonomamente, abbiano deciso di “usare” il Garramòn, e senza forse mettere al corrente le persone del predetto servizio dello Stato Italiano»399M. Accetti, Punti 6 e 7 (indizi e prove), 21/01/2014.

Accetti ha rintracciato alcuni elementi che lo collegherebbero al bambino400M. Accetti, Punti 6 e 7 (indizi e prove), 21/01/2014:

  1. Il primo indizio è oggettivo e non falsificabile: José frequentava lo stesso collegio elementare frequentato da Marco Accetti, la St. George School.
  2.  

  3. José era uruguayano, «nazione feudo dell’avvocato Ortolani, i cui uomini erano nostra controparte»;

    Analisi e verifiche: l’Uruguay poteva essere effettivamente essere definito il feudo del faccendierie Umberto Ortolani (oltre che di Gelli), esponente della P2, come abbiamo visto in un’altra sezione. La nonna di José Garramon abitava a pochi metri dalla villa di Ortolani (oltre che a quella di Gelli).

  4.  

  5. Una certa contiguità tra la famiglia Garramon in Uruguay con Licio Gelli, capo della loggia massonica P2401in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 155;
    Analisi e verifiche:
    Questo sarebbe stato per Accetti l’elemento chiave, come disse nel 2013 a Radio Radicale: «Uscito dal carcere, ho conosciuto tutti i motivi che legano i Garramòn a una certa abitazione. Vada a vedere in Uruguay chi abita accanto a lui».

    Effettivamente la nonna di Garramon abitava a poche centinaia di metri dalla villa di Licio Gelli a Montevideo (oltre che a quella di Umberto Ortolani). La madre di José, Maria Laura, dichiarò a Chi l’ha visto? nel 2013 che «quando eravamo in Uruguay mio figlio andava spesso a giocare con un amichetto nel giardino della villa di Licio Gelli. Si divertivano a cercare l’archivio segreto» Due mesi prima dell’omicidio, José e un amico (o altri amici) entrarono nel giardino della casa di Gelli con una macchina fotografica, il giardiniere li cacciò e rientrarono a casa agitati. Alla domanda su cosa stessero cercando, José rispose che forse avrebbe potuto trovare i documenti che l’Italia stava cercando in Uruguay (nel video più sopra si possono ascoltare le parole della madre).

  6.  

  7. José abitava in viale dell’Aeronautica all’Eur, nei pressi dell’abitazione di Enrico de Pedis;
    Analisi e verifiche:
    Non abbiamo riscontri sul fatto che De Pedis abitasse lì. Al contrario, Pino Nicotri ha rivelato che il padre di Marco, Aldo Accetti, nel dicembre 1983 chiese il trasferimento della residenza in via Curzio Malaparte in cui aveva una seconda abitazione (o un ufficio), strada distante solo un paio di chilometri da casa dei Garramon e dal negozio del barbiere (via dell’Aeronautica 23402G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46), dove il giovane fu visto l’ultima volta403P. Nicotri, Marco Fassoni Accetti: José Garramon e il mistero della strada. BlitzQuotidiano, 12/10/2015.
  8.  

  9. L’incidente si verificato vicino alla villa del giudice Santiapichi, presidente del primo processo ad Agca ed in predicato di presiedere la Corte d’Assise del secondo processo per l’attentato al Pontefice;
    Analisi e verifiche:
    Come già visto, nelle cronache dell’epoca si riferisce che effettivamente fu la scorta di Santiapichi ad allertare la polizia trovando il furgone di Accetti abbandonato sul ciglio della strada. Circostanza a noi confermata nel 2016 dal figlio, Xavier Santiapichi.
  10.  

  11. Esattamente un mese prima, verso fine novembre, Accetti a Ulrike fermarono in corso Vittorio Emanuele Stefano Coccia (12 anni), che avrebbero dovuto coinvolgere in una sua falsa testimonianza contro un membro della curia. Aveva la stessa età di Josè Garramòn;
    Analisi e verifiche:
    Circostanza verificata e riconosciuta dallo stesso Coccia, come abbiamo visto nella sezione apposita.
  12.  

  13. Tre mesi prima, il 19/09/83, in una lettera del “Gruppo Phoenix” vi furono delle minacce al telefonista “Mario” parlando di “pineta”;
    Analisi e verifiche:
    Evento verificato, oltretutto legame piuttosto credibile: risulta effettivamente inusuale usare una “pineta” come luogo di minaccia, è fuori contesto soprattutto se tale riferimento non fu mai utilizzato nella telefonata di “Mario”. Accetti ha ragione quando afferma: «Se io devo fare una minaccia di morte posso dire: ti strozzo, ti accoltello, ti sparo, ti infilo in un pilone di cemento..ma nella pineta mai, non ci penso proprio!»404in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 156. Se si considera che la voce di Accetti risulta compatibile con quella di “Mario” (anche la Procura ha parlato di «similitudine»405G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 49), l’elemento della pineta rafforza la tesi di un legame non casuale tra Accetti e Garramon.


 

Conclusioni sul caso Garramon.

Quali conclusioni trarre da tutti questi elementi? Ricapitoliamo brevemente le certezze a cui possiamo giungere, provate in maniera oggettiva.

Nel settembre 1983 in un comunicato del gruppo “Phoenix” sul caso Orlandi, si minacciò il telefonista “Mario” parlando, inspiegabilmente, di una “pineta” (elemento indeito che non emerse mai nelle telefonate di “Mario”).

Tre mesi dopo, il 20/12/1983 Marco Accetti invest’ e uccise José Garramon nella pineta di Castel Porziano nei pressi della villa del giudice Severino Santiapichi, presidente del primo processo ad Agca e nell’imminenza di presiedere la Corte d’Assise del secondo processo per l’attentato al Pontefice.

E’ tuttora un mistero la dinamica dell’incidente in quanto Accetti non fu condannato per sequestro di persona né per omicidio preterintenzionale (ma per omicidio colposo gravato da omissione di soccorso), mantenendo irrisolta la spiegazione su cosa ci facesse un 12enne, di sera e al buio in una pineta romana, lontano diversi chilometri da casa sua.

La sentenza su Garramon chiarì che il bambino si trovava al centro della carreggiata «che in qualche modo stava per attraversare»406Sentenza Corte d’Assise, 1986, quindi Garramon non stava scappando dal furgone (perché altrimenti restare al centro della strada quando avrebbe potuto spostarsi a lato ed entrare nei campi e nella boscaglia?).

Inoltre, non sono state trovate sue impronte digitali sul veicolo di Accetti e la stessa sentenza, dopo un’indagine psichiatrica, escluse manifestazioni di pedofilia nell’uomo407Sentenza Corte d’Assise, 1986. D’altra parte non fu trovato alcun segno di violenza sessuale, né tracce e reperti sotto le unghie.

Garramon aveva effettivamente alcuni elementi di contatto con Accetti e con il caso Orlandi.

La sentenza stabilì che Garramon uscì di casa alle 17:30 per andare dal barbiere distante 1,5km dalla sua abitazione, arrivandovi alle 18:15 (ben 40 minuti dopo!). Una volta uscito, se ne persero le tracce fino alle 20:30 (oltre due ore dopo!) quando a 20km di distanza venne investito dal furgone in viale Castel Porziano408G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.

Nessun testimone osservò la scena di un rapimento o sentì grida d’aiuto. Cosa fece José tra l’uscita di casa e l’arrivo al barbiere? Una volta lasciato il negozio, salì volontariamente sull’auto che lo portò alla pineta? Quest’ultima ipotesi spiegherebbe le dichiarazioni della signora Garramon, sul comportamento strano ed inquieto del bambino nei giorni precedenti, riluttante ad andare a scuola, con tanto di crisi di pianto.

Se Garramon era autonomo nel girare per le trafficate strade di Roma, perché quella sera avrebbe attraversato una strada buia e deserta (tanto che il suo corpo rimase sul ciglio della strada diverso tempo) proprio nell’imminenza dell’arrivo di un furgone con i fari accesi, quindi visibile anche da lontano? Stava forse scappando da qualcuno che lo aveva condotto lì e nella concitazione non si accorse del furgone? Oppure fu in qualche modo indotto ad attraversare volontariamente, andando incontro alla sua morte?

 

Le sentenze hanno escluso l’ipotesi più verosimile, cioè la responsabilità di Marco Accetti nel prelievo dall’Eur di José Garramon. L’unico aspetto controverso è il fatto che Aldo Accetti, padre di Marco, avesse un’abitazione o un ufficio a poca distanza dall’abitazione del giovane. Andrebbe quantomeno chiarito.

Considerando gli elementi biografici che effettivamente accomunavano Garramon a Marco Accetti e alla complessa storia di fazioni vaticane di cui ha parlato a lungo (vicinanza della villa Santiapichi, contiguità con le abitazioni di Gelli e Ortolani, minaccia di “Phoneix” e la scuola frequentata) risulta verosimile che la presenza del giovane uruguayano e il suo omicidio involontario da parte del reo-confesso Accetti non fosse casuale.


 

d) Marco Accetti, Garramon e il caso dei nomadi.

Legato al caso di José Garramon ci sarebbe un altro episodio svoltosi sempre nella pineta di Castel Porziano.

E’ un presunto episodio raccontato da Marco Accetti e, in maniera deformata, anche da Sabrina Minardi nel 2008.

Iniziamo dalla versione della Minardi, la quale riferì che tra l’83 e l’84 il suo amante De Pedis le avrebbe chiesto di tenere in braccio una zingarella di due anni mentre si sarebbero diretti proprio nella pineta di Castel Porziano, in direzione Ostia. Ad un certo punto avrebbe accostato e, assieme ad un complice sopraggiunto, si sarebbero inoltrati nella boscaglia e le avrebbero sparato.

Non vi è stato alcun riscontro nemmeno su questo episodio, tuttavia Accetti sostenne che «la signora Minardi ha trasfigurato un reale episodio in cui ero presente», cioè una “simulazione” di omicidio di un nomade che la donna configura come un reale omicidio, «trasfigurando anche il sesso e l’età del giovane»409M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.

Il vero episodio, secondo Accetti, sarebbe avvenuto nell’autunno 1983 quando in un campo vicino alla pineta di Castel Porziano avrebbero pagato il padre di un nomade di 12 anni per avere l’autorizzazione a filmare suo figlio per «esigenze cinematografiche» nella stessa pineta. Al giovane sarebbe stata puntata una pistola 357 Magnum alla testa, e dopo il finto sparo si sarebbe gettato a terra, fingendosi morto. Nella scena sarebbe apparso anche un finto prete410M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.

Tale filmato sarebbe servito per fare pressioni su mons. Giovanni Cheli, un ostacolo per la fazione accettiana alla restituzione dei fondi che la Magliana aveva affidato al Banco Ambrosiano-Ior. Tale prelato «nel 1983 aveva dei rapporti presso la Pontificia Commissione per la Pastorale dei Migranti, che tra l’altro si occupava dei diritti dei nomadi»411M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.

Dopo aver investito Garramon il 20/12/83 e aver osservato il volto del giovane uruguayano, Accetti ha sostenuto di averne ravvisato «nei tratti la possibilità che questi fosse un giovane nomade, pensando conseguentemente che potesse trattarsi di una possibile vendetta per l’aver noi portato il giovane nomade di cui sopra nella stessa pineta, per le pressioni nei confronti di mons. Cheli»412M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.

Secondo Accetti, la Minardi userebbe la stessa tecnica di Agca nel raccontare parte della verità e al tempo stesso rendere la deposizione inverosimile, inutilizzabile a fini giudiziari, così da non coinvolgere altre parti in causa. Un’altra prova sarebbe il racconto della donna dell’uccisione del piccolo Domenico Nicitra (11 anni) da parte di De Pedis, sbagliando clamorosamente la collocazione temporale di dieci anni. Secondo Accetti, «pare che la Minardi lo coinvolga proprio per indicarne l’età, 11, come a rammentare sotto forma di codice l’età del reale minorenne nomade che fu da noi condotto in quella pineta, se non addirittura ricordando il giovane Garramòn, di 12 anni»413M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.

Ragionamento ribadito dall’uomo in un’altra occasione: «La Sabrina Minardi ambienta giustamente l’episodio, ma trasfigurandolo, modificandone la realtà per suoi motivi di cui non sono a conoscenza e rendendolo impropriamente un fatto omicidiario»414M. Accetti, Ultima e nuova considerazione sulla tv di Stato, 26/16/2013.

Infine, Accetti ha sostenuto che nel 1996 il suo ganglio sarebbe venuto a conoscenza della scomparsa di un altro nomade di 12 anni, Bruno Romano e, pur non avendo nulla a che vedere con tale sparizione, avrebbero nuovamente simulato che lo stesso ecclesiastico, membro della Pontificia Commissione per i Migranti e vicino a mons. Cheli (nel frattempo diventato pro-presidente della Commissione), potesse esserne ancora il responsabile415M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.

Avrebbero così inviato una missiva anonima agli inquirenti il cui contenuto avrebbe rivelato solo in Procura, dalla quale sarebbe stata avviata un’indagine che incluse intercettazioni telefoniche anche all’utenza di Accetti. Fu in quell’occasione che nell’aprile 1997 gli inquirenti carpirono due conversazioni separate tra Accetti e l’ex compagna, Ornella Carnazza mentre quest’ultima lo minacciava di rendere noto alla polizia il suo coinvolgimento con il caso Orlandi.

Accetti venne denunciato da una fonte fiduciaria qualificata della polizia proprio per la sparizione del bambino rom Bruno Romano, avvenuta il 26/12/1995 con la complicità di Ornella Carnazza. Le indagini tuttavia negarono la responsabilità dei due e non emerse alcun riscontro a quanto dichiarato dalla fonte fiduciaria416G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.

 

Conclusioni sul caso del nomade nella pineta.

Non esistono al momento riscontri sulla verità del racconto di Accetti rispetto all’uso di un giovane nomade per creare filmati da usare come oggetti di pressione verso mons. Giovanni Cheli (deceduto nel febbraio 2013, un mese prima della comparsa di Marco Accetti in Procura).

Risulta poco credibile quel che dice Accetti rispetto a Sabrina Minardi, cioè che la donna abbia astutamente rivelato episodi realmente avvenuti e che videro protagonista lo stesso Accetti, pur trasfigurandoli completamente per non renderli utilizzabili a fini giudiziari. Anche la Minardi giocherebbe con i codici? A chi si starebbe rivolgendo?

Come abbiamo già visto, nelle intercettazioni telefoniche carpite dagli investigatori la Minardi apparve preoccupata solamente da un ritorno economico delle sue rivelazioni417G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 37 e gli stessi inquirenti sottolineraono le sue «pessime condizioni di salute, fisiche e mentali»418G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 32, 37.

Rispetto a Bruno Romano, appare controversa la versione di Accetti secondo cui avrebbe sfruttato la sua sparizione (di cui non ebbe responsabilità) inviando delle missive anonime agli inquirenti. Si sarebbe auto-lesionato quindi, in quanto le indagini caddero proprio sulla sua persona?

Resta il fatto oggettivo che il reo-confesso venne denunciato da una fonte fiduciaria qualificata della polizia del rapimento del giovane Romano (poi fu assolto), rimarcando ancora una volta una certa contiguità di Accetti con il mondo adolescenziale.


 

e) Marco Accetti, le accuse di pedofilia e la sparizione di Magdalena Chindris.

Da diversi anni la trasmissione televisiva Chi l’ha visto?, condotta da Federica Sciarelli, ha avviato una dura campagna contro Marco Accetti accusandolo di pedofilia ma, allo stesso tempo, ritenendolo totalmente inattendibile sul caso Orlandi-Gregori.

Un comportamento, quello di Rai3 (televisione di Stato) dettato chiaramente dalla ricerca di audience tramite facile scandalismo. Nonostante nessun processo a carico di Accetti abbia mai accennato a sue perversioni sessuali verso minorenni, la trasmissione ha spesso manipolato i racconti sull’uomo adombrando sospetti più o meno palesi.

 

C’è però un caso oggettivo in cui Chi l’ha visto? ha prodotto un elemento interessante, ovvero quando si è occupata della sparizione di Magdalena Chindris. La donna scomparve nel nulla all’età di 46 anni, in data 31/05/1995. Lasciò la figlia Ester, allora ventiduenne e oggi ancora in ricerca della madre.

Madre e figlia abitavano a Roma e negli anni ’80 Magdalena si innamorò di un fotografo di nome Gherardo Gherardi e iniziò a lavorare nel suo studio sito nel quartiere Africano-Trieste (a 5 minuti da casa di Marco Accetti, in piazza Sant’Ermeneziana).

Gherardi è il primo collegamento tra Magdalena Chindris e Marco Accetti, infatti l’uomo testimonierà al processo Garramon del 1984-85 sostenendo che Accetti dall’inizio degli anni ’80 frequentava il suo studio fotografico e, proprio il pomeriggio della scomparsa José, sarebbe passato dal suo negozio per ritirare del materiale. Gherardi dimostrò così che Accetti non avrebbe avuto il tempo per appostarsi e sequestrare il bambino uruguayano nel quartiere Eur.

Verso la fine degli anni ’80, Magdalena conobbe e si fidanzò con l’intellettuale Aldo Rosselli e si trasferì in via Torino, la casa in cui scomparve nel 1995. A detta della figlia, era una casa visitata spesso da intellettuali socialisti e persone famose.

Il 31/05/1995, rientrata a casa, la figlia Ester trovò una macchia di sangue in camera da letto («come se qualcuno ferito fosse scivolato a terra») e una scena che simulava un tentativo di suicidio: una scala al centro della stanza, il ventilatore da soffitto appoggiato al divano con attaccata una cravatta annodata e, accanto, un foulard annodato più volte come fosse un cappio. Il corpo non fu mai trovato.

La soluzione è inevitabilmente una di queste:

  • 1) Magdalena ha tentato senza successo di suicidarsi, poi è uscita di casa ed è sparita;
  • 2) Magdalena ha finto un suicidio, poi è uscita di casa ed è sparita;
  • 3) Magdalena è stata uccisa fuori casa (altrimenti ci sarebbero stati maggiori segni di omicidio), qualcuno è entrato nell’appartamento e ha inscenato un suicidio;
  • 4) Magdalena si è suicidata in casa o è stata indotta al suicidio, qualcuno poi ha fatto sparire il corpo;

 

Il portiere del palazzo, intervistato da Chi l’ha visto?, ha ricordato di averla vista uscire di casa quel giorno in tarda mattinata. Era serena, aveva due buste in mano (uno con delle bottiglie vuote), ha salutato e si è diretta verso la stazione Termini. Un taxista l’ha portata a piazza Farnese, si è ricordato della donna in quanto ne è nato un diverbio sul pagamento, Magdalena aveva solo assegni.

 

Qui sotto un video che ricostruisce la scomparsa di Magdalena Chindris:

 

Il caso di Magdalena Chindris è in qualche modo collegato con Marco Accetti in quanto sia l’ex fidanzato della donna, Gherardo Gheradi, che la stessa Magdalena, testimoniarono a favore di Accetti nel processo del piccolo Garramon del 1984-1986. Mentre Gherardi lo scagionò dal rapimento di Garramon, Chindris escluse che l’uomo fosse un pedofilo.

Questo perché Magdalena conosceva Marco Accetti, lasciando alcune volte la figlia tredicenne Ester Ceresa a casa sua in quanto l’uomo desiderava fotografarla e inserirla in piccole opere teatrali che si svolgevano nella sua abitazione.

Il programma Chi l’ha visto? ha registrato una telefonata con Accetti (risalente al 2013 o 2014) in cui l’uomo disse di aver avuto diverse relazioni con adolescenti femmine (dai 13 anni in su) e ricordò la piccola Ester, l’essersene innamorato e il desiderio che ebbe di volerla sposare: «Vidi questa donna, con la figlia, mi innamorai della figlia e glielo dissi: “La voglio sposare”. Ora, ti pare che un pedofilo dice che vuole sposare la persona?». Secondo l’uomo, Magdalena gli avrebbe anche risposto: «Non c’è problema».

La figlia di Magdalena Chindris, oggi adulta, ha ricordato che Accetti «aveva questo grande amore per il mondo infantile e adolescenziale, lo rappresentava, lo sbirciava». Ester parlò anche dei momenti a casa di Accetti, sempre alla presenza di altri giovani e adolescenti e, pur confermando di non aver mai ricevuto attenzioni pedofile, ricordò di un contesto sessualmente morboso e inquietante, di una costante sensazione di disagio e pericolo.

 

Nel video qui sotto Ester Ceresa ricorda cosa avvenne a casa si Marco Accetti:

 

Questi ricordi di Ester sembrano però discordanti con la testimonianza di sua madre al processo Garramon del 1984-1985.

Nella deposizione che rilasciò, Magdalena Chindris disse infatti (un po’ confusamente) di essere ritornata altre volte a casa da Accetti dopo l’incidente della pineta in cui l’uomo uccise Garramon: «Sono ritornata con la bambina, anche se la bambina, io penso, non aveva grande confidenza come me, ammettiamolo, era restia nel ritornare in quella casa, anche se lui magari dimostrava qualcosa di morboso nei confronti della mia bambina, invece la bambina è ritornata tutta contenta da lui»419Testimonianza di Magdalena Chindris al processo Garramon, 1984-1985.

Gli episodi descritti da Ester si verificarono diversi anni prima del 1995, non è quindi ipotizzabile alcun legame con l’improvvisa scomparsa di Magdalena Chindris.

Abbiamo parlato della vicenda di Magdalena Chindris e della figlia Ester in quanto sembra invece avvalorare il ruolo di Accetti in relazione alla scomparsa delle adolescenti di cui lui stesso si è auto-accusato (Orlandi, Gregori, Rosati), in quanto viene confermata la predisposizione e la facilità dell’uomo nel relazionarsi con il mondo adolescenziale femminile, anche in modi moralmente ambigui.

 

 

6.8 Marco Accetti e la sparizione di Mirella Gregori.

Gli obbiettivi della fazione “progressista” vaticana di cui avrebbe fatto parte Marco Accetti sarebbero stati quelli di condizionare il processo ad Alì Agca, evitando l’accusa ai bulgari (1), defenestrare mons. Marcinkus (e soprattutto Thomas Macioce) dalla guida dello IOR per interrompere i finanziamenti al sindacato anticomunista di Solidarnosc (2) e inserire ecclesiastici polacchi affini al loro orientamento politico in determinati dicasteri vaticani (3).

L’idea di sequestrare (seppur fintamente) una cittadina italiana e una vaticana sarebbe nata con lo scopo di tranquillizzare Agca, un deterrente per una eventuale collaborazione con i magistrati.

Nel maggio 1982, però, il terrorista turco iniziò ad accusare i bulgari come complici dell’attentato al Papa. Fu così che, dopo gli appositamente appariscenti pedinamenti a cittadine vaticane, la fazione di Accetti avrebbe deciso di passare all’azione tramite due finti sequestri, ingannando delle giovani ragazze e facendole allontanare da casa.

I rapporti di complicità tra la fazione progressista vaticana e la Banda della Magliana sarebbe iniziati proprio nell’estate 1982, un anno prima del sequestro Orlandi.

Il presidente del Banco Ambrosiano, Roberto Calvi, fu trovato morto nel giugno 1982 e fu allora che il “ganglio” di Accetti avrebbe iniziato a collaborare con Enrico De Pedis per interessi comuni, ovvero “defenestrare” mons. Marcinkus (e il dott. Macioce, il vero capo dello IOR).

Accetti ha infatti spiegato che la “defenestrazione” di Marcinkus avrebbe giovato alla fazione vaticana per l’interruzione del finanziamento a Solidarnosc, mentre «l’interesse del signor De Pedis sarebbe stato quello di recuperare quanto prestato al Calvi, ma a questa operazione si sarebbe opposto monsignor Marcinkus»420in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 83.

Nel suo racconto, Accetti unisce così sia la “pista internazionale” che quella locale della Banda della Magliana.

Il 7 maggio 1983 sparì in circostanze misteriose la cittadina italiana Mirella Gregori, abitante in via Nomentana 91.

La sparizione avvenne un mese prima di quella di Emanuela e il 4/8/1983 i due casi furono uniti per la prima volta nel primo Komunicato del “Fronte Turkesh”, una delle sigle che comparvero dopo la sparizione di Emanuela.

Di Mirella, tra l’altro, si parlò pochi giorni prima del komunicato in un’inchiesta della rivista Panorama421P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 75.


 

Il momento della sparizione: perché Mirella mentì alla madre?

Il pubblico ministero Giovanni Malerba ha ricostruito il momento della sparizione di Mirella Gregori422citato in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, pp. 4,5, spiegando che la giovane rispose al citofono di casa alle ore 15:30 del 7/5/83, venendo invitata da Alessandro De Luca, ex compagno di scuola, a un appuntamento in Piazza Porta Pia, dinanzi al monumento del bersagliere.

Fu questo che Mirella disse alla madre prima di uscire, tranquillizzandola che sarebbe tornata di lì a poco e non prendendo con sé nulla, né la borsa, né i soldi. Una volta in strada, Mirella si sarebbe però recata al bar vicino, il cui titolare era il padre della sua amica Sonia De Vito. Dopo una conversazione di circa 15 minuti, all’amica avrebbe confermato l appuntamento con il comune conoscente Alessandro De Luca. Tuttavia Mirella non fece più ritorno a casa.

Nella sera del 7 maggio stesso si iniziarono le ricerche a seguito della denuncia presentata dalla madre, Maria Vittoria Arzenton e fu rintracciato Alessandro De Luca Alessandro, il quale riferì di non avere contatti con la Gregori da oltre cinque mesi e fornì dimostrazione che nel momento in cui Mirella ricevette la chiamata citofonica egli si trovava presso l’abitazione dell’amico Raffaele Longo, in Viale Libia, con altri amici.

Gli inquirenti dell’epoca dedussero quindi che Mirella sarebbe stata tratta tramite l’inganno da un persona sconosciuta, falsamente qualificatasi per Alessandro.

La ricostruzione del pm Malerba coincide sostanzialmente con quella contenuta nella sentenza di archiviazione del 2015423G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 2, 3.

 

Analisi e verifiche:

Le ipotesi sulla sparizione di Mirella possono essere solo due: o un malintenzionato finse di essere Alessandro (come dissero gli inquirenti dell’epoca) o Mirella mentì alla madre, avendo un accordo preventivo con la persona al citofono.

Se assumiamo la prima ipotesi, cioé che Mirella sarebbe stata fatta scendere con l’inganno da un soggetto maschile (adulto) diverso dal suo ex compagno Alessandro (adolescente), come mai non lo riconobbe al citofono? Alessandro De Luca risultò credibile quando disse di non avere contatti da 5 mesi con Mirella, perché allora quest’ultima non si insospettì di ricevere improvvisamente una citofonata da lui?

Inoltre, è incomprensibile il fatto che qualcuno citofoni per invitare ad un appuntamento in un luogo distante dall’abitazione. Al contrario del telefono, chi si è reca sotto casa per citofonare solitamente attende la persona. Gli appuntamenti non si danno al citofono.

Infine, se anche Mirella avesse sbagliato a riconoscere Alessandro e si fosse recata a Porta Pia, luogo dell’appuntamento, trovando però ad attenderla persone diverse dall’amico, sarebbe stato arduo sequestrarla in pieno giorno e in un luogo tanto frequentato. Sarebbe comunque stato un piano totalmente folle, tanto valeva evitare il rischio di citofonare e semplicemente sorvegliare la ragazza, attendendo il momento giusto per sequestrarla o per avvicinarla così da indurla a seguirli tramite un inganno.

Un rapitore non citofonerebbe mai a casa della vittima, con il rischio di non venire riconosciuto e magari anche individuato dalla finestra a causa dei sospetti innescati.

Per tutto questo risulta più verosimile che Mirella avesse effettivamente un’intesa con la persona che le citofonò ma disse falsamente che si trattava dell’ex compagno Alessandro. Aggiungiamo che si trattò presumibilmente di una persona conosciuta anche dalla famiglia in quanto, se a rispondere fosse stata la madre o la sorella, non si sarebbero allarmate del fatto che uno sconosciuto cercasse Mirella.


 

Marco Accetti ideatore del sequestro Gregori?

Nel 2013 Marco Accetti ha dichiarato di essere responsabile anche dalla sparizione di Mirella Gregori.

Secondo il racconto depositato in Procura, anche quello di Mirella (come per la Orlandi) sarebbe stato non un sequestro ma un allontanamento volontario, indotta da un ricatto riguardante il padre424G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

A Mirella sarebbe infatti stato fatto credere che il padre fosse stato aiutato a sanare i debiti per la ristrutturazione del bar di via Volturno contratti con personaggi riconducibili alla malavita romana, in particolare a De Pedis. Le sarebbe stato anche fatto credere che il padre era consenziente rispetto a tale “uso” della figlia”425G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

Mirella, ha affermato Accetti, sarebbe stata scelta «dopo lunghe ricerche, per l’età, la stessa di Emanuela, utile a richiamare suggestioni di pedofilia; per le caratteristiche fisiche, anche queste non lontane da quelle della Orlandi; per una certa vivacità caratteriale; e per la sua riconducibilità ad ambienti della gendarmeria»426in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 80, ovvero per la vicina abitazione del sovrastante vaticano Raoul Bonarelli. Inoltre, avrebbe giocato un ruolo la difficoltà economica del padre.

Inoltre, avrebbe giocato un ruolo importante l’abitazione posta sulla linea dell’autobus che conduceva dalla Nomentana a piazza della Stazione di San Pietro e, come già detto, i problemi finanziari del padre che, secondo il reo-confesso, sarebbero stati «autonomamente soddisfatti da una persona vicina all’imprenditore De Pedis».

 

Analisi e verifiche:

Non risulta che gli inquirenti abbiano mai verificato i movimenti finanziari sul conto del padre di Mirella Gregori, è un elemento che non è mai emerso dalle indagini. Se non fosse già stato indagato (poco credibile), sarebbe un importante elemento investigativo per provare il racconto di Accetti.

C’è una contraddizione tuttavia nel racconto di Accetti sulla scelta di Mirella. Dando per vero che l’uomo fu anche l'”Amerikano”, nell’ottobre 1983 diede un’altra versione in una telefonata al giornalista della CBS, Richard Roth: la Gregori «l’abbiamo prescelta durante un udienza in Vaticano».

La sorella, Maria Antonietta, in questo video confermò che alcune settimane prima della sparizione aveva partecipato ad un udienza del Papa e la sua foto, vicina a Papa Wojtyla, sarebbe stata appesa a lungo nella bacheca all’interno della Città del Vaticano.

 

 

Secondo Accetti, gli obbiettivi del finto e temporaneo sequestro della Gregori sarebbero stati quelli di far ritrattare ad Agca le accuse verso i bulgari, di operare delle minacce verso mons. Marcinkus e porre alcuni ecclesiastici polacchi alle udienze papali mettendo sotto pressione alcune persone dell’ex gendarmeria «per far credere che questi avessero un rapporto di connivenza con il dottor Gugel». La pressione era di poter accostare a Mirella il sovrastante vaticano Bonarelli, creando uno scandalo427M. Accetti, Memoriale, 2014.

Si sarebbe dovuto far credere che Mirella sarebbe scappata per voler trascorrere del tempo con un ragazzo conosciuto l’estate prima all’estero (Svizzera?), per poi rientrare a casa. Questo sarebbe stato scritto da Mirella in una lettera che avrebbe consegnato ad un’amica, la quale non l’avrebbe mai consegnata per timore e pudore.

A Mirella sarebbe stato fatto conoscere realmente un ragazzo svizzero (in realtà era tedesco, membro della Stasi) tempo prima, del quale si sarebbe realmente innamorata incontrandolo “casualmente” in via Nomentana e dicendole di averla vista nel paese di vacanza dell’estate prima e di non raccontare a nessuno di lui in quanto non avrebbe avuto i documenti in regola. Mirella avrebbe voluto lasciare per lui il suo fidanzato dell’epoca, ma il gruppo di Accetti glielo avrebbe impedito per inscenare una finta litigata tra i due al bar dei Gregori, da usare come pretesto per la sparizione.

Un finto sacerdote della parrocchia di San Giuseppe e Ulrike, la ragazza tedesca della Stasi fintasi appartenente all’Azione Cattolica, avrebbero fermato la Gregori e questo “nuovo” ragazzo parlandole dei debiti del padre e la pressione di certi malavitosi. Il finto sacerdote le avrebbe detto che per risolvere la cosa bisognava aiutare un prelato vicino a mons. Marcinkus, anche lui soggetto a pressioni degli stessi uomini. Il padre di Mirella, al posto di restituire i soldi, avrebbe permesso di usare la figlia per inscenare un finto sequestro.

 

Analisi e verifiche:

Non è chiaro dal racconto di Accetti perché avrebbe dovuto costituirsi una “pressione” per alcuni elemento dell’ex gendarmeria l’avere «un rapporto di connivenza» con Angelo Gugel, maggiordomo del Papa.

Per quanto riguarda una presunta amica a cui Mirella avrebbe scritto, raccontando di un ragazzo conosciuto in Svizzera, non è dato sapere chi sia. Si trattò sempre di Sonia De Vito? Nel 2013 Accetti ha riferito fuori dal tribunale di Roma che le complici del caso Gregori furono «due amiche».

Risulta piuttosto controverso costruire un piano di sequestro contando sul fatto che Mirella si sarebbe sicuramente innamorata di un loro complice, a maggior ragione se era già fidanzata.

Per quanto riguarda il litigio tra Mirella e Massimo, il fidanzato dell’epoca, avvenuto il giorno dell’inaugurazione del bar dei Gregori (elemento da usare come pretesto per la sparizione), fu confermato dallo stesso fidanzato in un’intervista per Chi l’ha visto?. Qui sotto il video:


 

Mirella Gregori e il giorno prima della sparizione

Alcuni episodi avvenuti il giorno prima della sparizione di Mirella risulterebbero decisivi.

Il 6 maggio 1983, infatti, Mirella partecipò all’inaugurazione del bar del padre, appena ristrutturato.

Secondo le testimonianze della famiglia sarebbero stati presenti anche due sconosciuti intenti a fotografare e osservare principalmente proprio Mirella.

Questi sono i due identikit di quegli uomini presenti nel bar dei Gregori:

Durante l’inaugurazione del bar, inoltre Mirella discusso con il fidanzato Massimo.

Nel seguente video, la sorella Maria Antonietta Gregori e l’allora fidanzato ricostruiscono questi episodi:

 

Nell’1986 il cameriere Giuseppe Calì produsse un identikit del volto di una persona vista nel bar dei Gregori, il quale assomiglia notevolmente al volto di Angelo Cassani, esponente della Magliana.

Secondo Marco Accetti, quegli uomini sarebbero stati gli stessi che pedinarono la Orlandi nei giorni precedenti alla sua sparizione, la loro presenza nel bar sarebbe servita per convincere Mirella dei problemi finanziari del padre, produrre testimoni pressi gli astanti e trait de union con il caso Orlandi428M. Accetti, Memoriale, 2014.

 

Analisi e verifiche:

o: sarebbe stato concordato con la ragazza, in quanto l’episodio sarebbe servito per giustificare una scappatella d’amore con il ragazzo svizzero.

Nell’ideazione del piano sarebbe stato tale ragazzo a citofonare a Mirella e lei avrebbe dovuto far credere alla madre che si sarebbe trattato dell’amico Alessandro. In realtà, a citofonare sarà l’amica Sonia De Vito mentre sarebbe stata video-ripresa con audio («come accadrà, solo fotograficamente, con la compagna di scuola del Convitto della Orlandi alla fermata del bus alle 19», affermò Accetti) per usare tale filmato per avvalorare la presenza di testimoni e far sentire coinvolta la ragazza, vincolandola al silenzio.

Prima di recarsi all’appuntamento, la Gregori sarebbe andata nel bagno del bar con Sonia De Vito per indossare degli abiti portati alla De Vito il giorno prima. I vecchi vestiti -conosciuti dalla madre- con i quali Mirella uscì di casa sarebbero invece stati concordati con la fazione e scelti tra i più identificabili e contrassegnati da etichette, per essere usati successivamente come prova mentre i vecchi abiti sarebbero stati consegnati dalla De Vito alla ragazza tedesca, complice della fazione.

Oltre a usare i vestiti per comunicare la lista delle etichette (Mirella avrebbe fornito loro in anticipo la lista di ciò che avrebbe indossato quel giorno), la fazione li avrebbe usati come intimidazioni «nei confronti di prelati avversi». Ad esempi, Accetti ha ricordato che nel 1985 un abito sarebbe stato nascosto nei locali della Pontificia commissione dei Migranti, ove vi era la segreteria di mons. Cheli, un altro nella sede di via dell’Erba di una organizzazione presieduta dal card. Sergio Pignedoli e poi da monsignor Jadot. In generale, «i vestiti della Gregori furono collocati in quattro sedi: due religiose, come ho messo a verbale, e due laiche»429in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 144.

In questo video Filippo Mercurio e Maria Antonietta Gregori ricordano la telefonata dell'”Amerikano” in cui elencò le etichette dei vestiti:

 

Dopo essersi cambiata, Mirella si sarebbe recata da sola verso il piazzale di Porta Pia, seguita da Accetti e dalla complice tedesca che avrebbero fotografato tutto. Alle 15:30 (codice 13-5 richiamante le apparizioni di Fatima del 13-5-1917, da completare con le 19, orario in cui scomparirà Emanuela) sarebbe arrivato De Pedis con una BMW verde e poi un secondo incontro con idealista turco.

L’uomo sarebbe stato lo stesso che verrà fatto incontrare anche a Emanuela il giorno della sua sparizione: «Si trattava di un estremista islamico tra i tanti rifugiati in Europa, ce n’erano in Germania, Svizzera, Francia, che aveva orientamento diverso, rispetto ai vari Agca o Celebi si poteva considerare di sinistra», ha spiegato Accetti. «Fecero da tramite i nostri referenti della nunziatura in Turchia e il sindacato di polizia Pol-Der, lo stesso che aveva intercettato le voci di attentato. Fu lui a pedinare la Gugel due anni prima. Agca, riconoscendolo nelle foto accanto a Mirella ed Emanuela, si sarebbe convinto che i sequestri erano stati realmente eseguiti da un’organizzazione filosovietica, quindi con l’intento dimostrato di ottenere da lui la ritrattazione delle calunnie sui bulgari, di cui avrebbe beneficiato grazie al tentativo di liberarlo»430in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 102.

Dopo l’incontro con il turco, Mirella si sarebbe allontanata per raggiungere il ragazzo svizzero e quindi un’abitazione in via di Santa Teresa, dove la coppia sarebbe stata ospite di un altro ragazzo locatario dell’appartamento. Accetti ha descritto esattamente come trovare l’abitazione.

Mirella si sarebbe chiamata da lì in poi Rosy, nome-codice per ricordare alla controparte vaticana Rossitza, la moglie del bulgaro Antonov accusato da Agca come collaboratore per l’attentato al Papa. Accetti l’avrebbe visitata un paio di volte e il ragazzo svizzero si sarebbe realmente innamorato di Mirellla.

La coppia sarebbe uscita pochissimo e avrebbe abitato lì per alcuni mesi, fino al gennaio 1984. Poi sarebbero usciti dall’Italia.

Nel frattempo Marco Accetti fu arrestato nel 1983 per l’omicidio di José Garramon, la polizia perquisì casa sua trovando diversi foglietti con nomi di giovani e relativi numeri di telefono, tra cui uno con scritto “Rosy” (il cognome è secretato). A fianco del nome il numero di telefono, la via Santa Teresa d’Avila n°23, interno 13. Nel marzo 1984 gli investigatori trovarono nell’appartamento l’attore americano Robert Sommer, il quale negò qualunque conoscenza con “Rosy” o con Accetti (nel 1982 partecipò come attore all’opera La Traviata di Franco Zeffirelli).

Di fronte all’abitazione c’era la parrocchia di Santa Teresa d’Avila. La sorella di Mirella, Maria Antonietta Gregori, dichiarò: «La nostra parrocchia era un’altra però mia sorella frequentava anche quella chiesa, per il cineforum. Ricordo che ci andava abbastanza spesso, si chiamava teatro Avila»431in F. Peronaci, Corriere della Sera, 12/09/2014.

Le reali intenzioni della fazione sarebbero state quelle di far rientrare la Gregori dopo qualche tempo che era divenuto pubblico il “finto sequestro” e farle raccontare della scappatella all’estero con questo ragazzo (senza rivelarne il nome), sostenendo che qualcuno, a conoscenza di ciò, avrebbe inventato un finto sequestro senza che lei ne avesse avuto notizia.

Il primo obbiettivo sarebbe stato far credere che ad architettare il finto sequestro sarebbe stato il sovrastante Raul Bonarelli, conoscente della Gregori e della De Vito, attraverso questi ulteriori passaggi:

Una volta rientrata Mirella:
– La De Vito avrebbe dovuto telefonarle per esternarle il dubbio che fosse stato un loro conoscente (Bonarelli) a orchestrare il finto sequestro (ma senza fare nomi), contando sul fatto che gli inquirenti avrebbero sottoposto ad intercettazione i telefoni;
– In una lettera anonima sarebbe stato scritto che qualcuno (Bonarelli) avrebbe saputo dalla De Vito che la Gregori avrebbe litigato al bar con il suo fidanzato e poi avrebbe visto Mirella entrare a casa dell’amica uscendo con altri abiti. Dopo la notizia della sparizione di Mirella, questo qualcuno avrebbe allora recuperato i suoi vecchi vestiti che erano stati nascosti nel frattempo e inventato un finto sequestro, telefonando anche ai familiari per elencare le marche dei vestiti di Mirella.

La pressione sarebbe stata esercitata verso persone dell’ex-gendarmeria per far credere di rivelare il nome del sovrastante Bonarelli come l’autore del finto sequestro e creare uno scandalo. Tale ricatto, secondo Accetti, sarebbe arrivato fino a mons. Heimo dell’Anticamera Papale, appartenente alla Consulta Pastorale Peregrinatio ad Petri Sedem, colui che in Germania si occupa di passare il denaro da Roma a Solidarnosc e responsabile delle udienze papali degli ecclesiastici polacchi. L’obbiettivo della fazione era conoscere l’identità di tali ecclesiastici venuti in Italia per le udienze e inserire alcuni ecclesiastici polacchi a loro vicini presso tali e udienze.

Un secondo ricatto sarebbe stato indirizzato verso mons. Marcinkus: la Gregori avrebbe potuto ammettere che la scappatella sarebbe stata una menzogna e invece avrebbe incontrato un ragazzo della Avon (dando riferimenti di una persona vicino a Marcinkus) che le avrebbe proposto un lavoro portandola in una villetta dove mons. Marcinkus stesso l’avrebbe indotta a partecipare ad un finto sequestro per riottenere la restituzione dei soldi da parte del padre, prestati dagli uomini di De Pedis in combutta con Marcinkus stesso.

L’allontanamento di Mirella Gregori sarebbe dovuto durare poche ore, il tempo di far presentare la denuncia di scomparsa ai famigliari, presentando codici ad Agca per costringerlo a ritrattare la pista bulgara. Tuttavia, come spiegato sopra, circostanze non dipendenti dalla volontà degli organizzatori dei finti sequestri avrebbero fatto rimandare il rientro432G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

Accetti finì in carcere nel dicembre 1983 e non avrebbe più avuto contatti diretti con Mirella. Sostiene che la sua fazione gli comunicò che non potendo più tenerla in Italia per questioni di sicurezza, sarebbe stata trasferita all’estero. «Mi fu detto in modo lapidario: “Stanno bene fuori, meglio non farle rimpatriare, si creerebbe uno scandalo inutile”».

Secondo l’uomo, Mirella avrebbe lasciato l’Italia in aereo, partendo dallo scalo dell’Urbe, sulla Salaria, a bordo di un velivolo privato. Sarebbe andata in Francia, in una città di cui non ricorda il nome, assumendo il nome di Rosi433in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 161.

In Procura, Accetti ha riferito anche che Mirella potrebbe trovarsi in Svizzera, paese da lei visitato l’estate prima della scomparsa, in compagnia del ragazzo della quale fu fatta innamorare434G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.


 

L’indagine sul sovrastante di polizia vaticana Raoul Bonarelli.

Un collegamento con la sparizione di Mirella Gregori coinvolgerebbe il Sovrastante maggiore della polizia vaticana (oggi Gendarmeria), Raoul Bonarelli.

Il 15/12/1985 la madre di Mirella, Maria Vittoria Arzenton, lo avrebbe riconosciuto come parte della scorta di Papa Wojtyla durante la visita alla parrocchia di San Giuseppe, ritenendolo lo stesso uomo che si sarebbe intrattenuto con la figlia e l’amica Sonia De Vito. Da successivi accertamenti, risultò effettivamente che Bonarelli abitava in quella zona, in via Alessandria435P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, pp. 204, 205.

 

Qui sotto il volto di Bonarelli recuperato dagli archivi di Rai3:

 

Interrogato dagli inquirenti, Bonarelli confermò di essere stato presente alla visita del Papa, ma negò di essere cliente del bar de De Vico.

Il 29/07/1993 registrò la sua deposizione agli inquirenti ed ebbe un confronto diretto con Bonarelli, confermò le dichiarazioni ma non lo riconobbe né di persona, né nel filmato sulla visita pontificia436P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 205. Inoltre, gli inquirenti sottolineano che nemmeno la descrizione dei connotati somatici forniti dalla donna corrispondeva alle caratteristiche fisiche di Bonarelli437G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 8.

Un aspetto controverso è la telefonata ricevuta da Bonarelli il giorno precedente all’interrogatorio con i magistrati e al confronto con la signora Arzenton. Gli inquirenti che la intercettarono ne verificarono l’origine dal Vaticano e ascoltarono il chiamante invitare Bonarelli a «non dire che la Segreteria di Stato ha indagato. Dì che siccome la ragazza è scomparsa in territorio italiano, la competenza delle indagini è della magistratura italiana e non del Vaticano»438P. Nicotri, Emanuela Orlandi, la verità p. 19, 203.

Incalzato dai magistrati, Bonarelli non seppe dare motivo della telefonata ricevuta e venne indiziato del reato di concorso in sequestro di persona dal giudice istruttore Adele Rando. In seguito verrà prosciolto.

Il 13/10/1993, in un’altra telefonata intercettata, Bonarelli risultò essere sollevato dal fatto che il colloquio con gli inquirenti avesse riguardato solo la Gregori e non Emanuela Orlandi439G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 10.

Bonarelli venne formalmente indagato, gli inquirenti ricevettero dal Vaticano la versione di Camillo Cibin e mons. Bruno Bretagna in merito alle conversazioni intercettate con l’uomo. Nel 2009 arrivò l’archiviazione.

Dalle indicazioni ricevute dal sovrastante Bonarelli si potrebbe leggere un eccesso di scrupolo da parte dei suoi responsabili vaticani, i quali lo avrebbero semplicemente messo al corrente dell’effettiva realtà dei fatti. Inoltre, è comprensibile la sensazione di sollievo per Bonarelli di non essere indagato per un caso riguardante una cittadina vaticana (Emanuela), scenario spinoso per un dipendente del Vaticano stesso.

Nel 2023 il giornalista Pino Nicotri ha avanzato l’ipotesi che i responsabili vaticani si riferirono a un carteggio segreto e imbarazzante per la famiglia Orlandi riguardante le molestie verbali da parte dello zio Mario Meneguzzi alla nipote Natalina Orlandi, risalenti al 1978. Episodio che fu oggetto di indagine da parte degli inquirenti dopo la scomparsa di Emanuela.

Secondo lo storico giornalista, il Vaticano avrebbe sempre «evitato di alimentare le malelingue, in modo da proteggere l’immagine degli Orlandi e la loro pace familiare»440P. Nicotri, Emanuela Orlandi, 40 anni fa: dai faldoni emerge rapporto dei carabinieri, il fidanzato di Natalina contro lo zio?, BlitzQuotidiano, 23/04/2023.

«Si è sempre pensato e scritto, l’ho fatto anch’io, che a Bonarelli venisse autorevolmente “consigliata” l’omertà totale per nascondere chissà quale responsabilità o colpa d’Oltretevere nella scomparsa di Emanuela», scrisse Nicotri, in una sorta di mea-culpa. «Oggi si può più serenamente e realisticamente pensare che non si voleva saltasse fuori il carteggio citato. E che non si voleva saltasse fuori perché si voleva invece proteggere la famiglia Orlandi»441P. Nicotri, Emanuela Orlandi, 40 anni fa: dai faldoni emerge rapporto dei carabinieri, il fidanzato di Natalina contro lo zio?, BlitzQuotidiano, 23/04/2023.

Il reo-confesso Marco Accetti ha aggiunto un episodio piuttosto controverso legato all’indagine nei confronti di Bonarelli.

Nel 1993 Mirella Gregori sarebbe stata fatta rientrare in Italia per incontrare la madre, Maria Vittoria Arzenton, evitando che quest’ultima riconoscesse Bonarelli come quell’uomo visto al bar dei De Vito in compagnia di Mirella e Sonia, rischiando di indirizzare le indagini sulla gendarmeria vaticana. Tale incontro sarebbe avvenuto a Villa Borghese in uno spazio nei pressi del galoppatoio442G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

«Era la fine del 1993», ha sostenuto Accetti, «un pomeriggio, attorno alle 15,30. Io ero presente, ma in lontananza, non visto. Ci trovavamo nei pressi del galoppatoio di Villa Borghese. La ragazza era nel camper, parcheggiato a ridosso della recinzione. L’incontro durò circa tre quarti d’ora, serviva a tranquillizzare la signora Arzenton, per le dichiarazioni da lei fatte contro la gendarmeria. Si salutarono e Mirella fu riportata all’estero»443in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 166.

 

Nel seguente video le parole di Marco Accetti sul presunto incontro tra Mirella e sua madre:

 

La sorella Maria Antonietta non ha mai creduto a tale episodio: «Non ci credo assolutamente. Sta dicendo che mia madre, riabbracciata mia sorella dopo dieci anni, tenne per sé il segreto? Continuò a fingere di cercarla, fino a morirne, di dolore e di malattia, mentre sapeva che era viva e dove si trovava? Impossibile. Mamma era sicura che fosse lui l’uomo visto con mia sorella. Lo ricordo bene, non aveva dubbi. La Procura impiegò otto anni a chiamarla per un confronto con questo signore, nel frattempo diventato misteriosamente cittadino vaticano, e quando la convocarono era ormai stanca e malata, morirà di lì a poco. Si confuse, forse si spaventò»444in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 166.

Accetti replicò a Maria Antonietta Gregori: «La sorella ha diritto di pensare ciò che vuole, ci mancherebbe. Sappia che dico la verità. E che la signora poteva aver un ottimo motivo per non raccontare: salvaguardare sua figlia». E questo può significare salvaguardare Mirella o anche la stessa Antonietta, la madre potrebbe essere stata costretta ad obbedire, altrimenti potevano far fuori Mirella o Antonietta445in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 166.

 

6.8 Marco Accetti e la sparizione di Emanuela Orlandi.

In maniera speculare al “finto sequestro” della Gregori, Marco Accetti ha spiegato agli inquirenti che anche quello di Emanuela sarebbe stato un allontanamento volontario, indotto da un ricatto riguardante il padre446G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

Per la precisione, a Emanuela sarebbe stato fatto credere che il padre Ercole fosse coinvolto nell’attentato a Giovanni Paolo II poiché aveva favorito (pur inconsapevolmente) la partecipazione di Agca ad alcune udienze papali del 1979 e che, per tale ragione, il suo lavoro era a rischio così come la sua permanenza della famiglia nell’appartamento in Vaticano447G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

Lo stesso Accetti, nel suo blog ha precisato che Emanuela «fu tratta in inganno raccontandole che il padre era sotto ricatto, e dunque necessitava della sua partecipazione a tale finto sequestro. Non significa affatto che la ragazza fosse “consenziente” ma che la sua minima partecipazione fu “estorta” e forzata. Quindi non era consenziente “in toto” e al tempo stesso non prelevata secondo i metodi convenzionali».

I complici di tale operazione sarebbero state delle ragazze, tra cui alcune amiche di Emanuela, Enrico De Pedis e alcuni prelati qualificati come officiali maggiori di seconda classe448G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

Gli scopi del temporaneo e finto sequestro sarebbero stati inviare codici ad Agca perché ritirasse le accuse verso i bulgari e operare pressioni e minacce a mons. Marcinkus. Lo stesso Accetti ha spiegato che «Emanuela serviva a far credere ad Agca che il Vaticano sotto ricatto non si sarebbe opposto alla sua liberazione, e la Gregori a spingere il presidente della Repubblica, allora era Pertini, a concedergli la grazia. Ma a noi delle sorti del detenuto non importava nulla, noi volevamo solo che credesse a queste promesse e scagionasse i bulgari, era una questione politica»449in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 19.

Una volta rientrata a casa, Emanuela, avrebbe dovuto raccontare che l’uomo della Avon, finita la lezione di musica, semplicemente le aveva mandato incontro un’amica con la quale sarebbe andata nel suo appartamento per mostrarle dei cosmetici e nella cui abitazione si sarebbe fermata a dormire.

Nel frattempo, la fazione di Accetti avrebbe fatto pressioni su prelati vicino a Marcinkus facendo credere che quella della Orlandi potrebbe essere stata una menzogna per coprire la verità, la quale sarebbe invece stata che un prelato la avrebbe condotta in una villetta dove Marcinkus le avrebbe fatto velate e gentili avances (da lei respinte), offrendo in cambio aiuto al padre che si trovava sotto ricatto avendo acconsentito al “finto sequestro” della figlia.

Secondo il Memoriale di Accetti, la ricerca della cittadina vaticana sarebbe iniziata nel 1981 da parte della giovane tedesca (la bionda “Ulrike”, fiancheggiatrice della Stasi), la quale -sotto mentite spoglie-, avrebbe lavorato in Vaticano dicendo di essere dell’Azione Cattolica.

Inizialmente avrebbero puntato sulla sorella di Emanuela, Cristina, la minore. Questo per comporre anagraficamente come codice l’età dei tre pastorelli di Fatima: Mirella (15 anni), Cristina e Stefano (Coccia, di cui parleremo dopo). Venne però ritenuto che Cristina, data la giovanissima età, non avrebbe “capito” il piano. Per la stessa “indisponibilità caratteriale” sarebbero state escluse anche le figlie della famiglia Gugel, il cui padre era addetto dell’anticamera papale.

In questo video Marco Accetti spiega a Pietro Orlandi il motivo per cui fu scelta Emanuela:

 

La scelta sarebbe quindi caduta su Emanuela per il carattere aperto (disponibile a collaborare) ma, soprattutto, perché frequentava la scuola di musica di musica nel palazzo di Sant’Apollinare, che Accetti definisce «feudo storico del Card. Caprio, nostra controparte». All’interno della scuola “Ludovico Da Victoria” sarebbe stata attenzionata Giuliana, membro del Consiglio direttivo450M. Accetti, Memoriale, 2014.

In un’altra occasione l’uomo ha ricordato vagamente che il nome sarebbe stato Giuliana Lollo (o Di Lollo) e che fu fintamente corteggiata per carpirle delle informazioni sul card. Caprio. La donna non fece mai collegamenti con la vicenda Orlandi451in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

Inoltre, sostiene che sarebbero stati rilevanti i rapporti del maestro Miserachs con “ambienti” francesi e operante nella Cappella Giulia.

Sarebbe stata una «lavoratrice laica» fintasi appartenente ad una Associazione Cattolica a individuare e a conquistare gradualmente la fiducia di Emanuela, venendo a conoscenza delle sue attività, e assicurandole dei favoritismi come musicista nei riguardi dell’attività della Cappella Musicale e della Cappella Giulia grazie alle sue conoscenze nella Prefettura della Casa Pontificia. La donna le avrebbe chiesto di non mettere al corrente nessuno di questo suo interessarsi presso le suddette entità per non vanificare le sue iniziative nel favorirla452M. Accetti, Memoriale, 2014.

Lo stesso Accetti ha sostenuto di aver incontrato Emanuela diverse volte prima della scomparsa, la prima all’uscita di scuola nel giardino limitrofo alla scuola Convitto nazionale Vittorio Emanuele II e, l’ultima (a 24 ore dal finto sequestro), nell’ipogeo della chiesa di Sant’Agnese in Agone453in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

La Orlandi avrebbe dovuto portare con sé il giorno della scomparsa la tessera personale della scuola, così da portare in seguito gli inquirenti e la stampa a attenzionare il palazzo di Sant’Apollinare454in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

 

La data scelta sarebbe stata il 22 giugno 1983 in quanto Giovanni Paolo II si sarebbe recato al Senato Accademico polacco, per questo fu deciso di ambientare l’incontro con tra l’uomo della Avon e la Orlandi davanti al Senato italiano, in Corso Rinascimento, consapevoli del non funzionamento delle telecamere (non ricorda però se le disattivarono loro). Inoltre, il numero 22 avrebbe dovuto ricordare la sezione 22 di antiterrorismo della Staatssicherheit e la tessera dell’avv. Ortolani presso la Loggia P2455M. Accetti, Memoriale, 2014.

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Secondo gli accordi presi con la ragazza, Emanuela sarebbe dovuta provenire da via Zanardelli, cioè dal Palazzo di Giustizia, ma non lo fece e si sarebbe imbattuta in una complice, cioè «la compagna dell’Istituto Convitto Nazionale che stazionava in Corso Rinascimento, e la quale la corresse indirizzandola a percorrere l’interno di piazza Navona per poi riprendere Corso Rinascimento dalla parte opposta».

Emanuela sarebbe così arrivata da corso Vittorio. Una Bmw parcheggiata (codice della Germania Federale) dal colore sgargiante (colore che avrebbe ricordato l’auto nella quale fu assassinato Pecorelli) guidata da Enrico De Pedis, avrebbe fatto delle manovre appena individuata la ragazza, accostandosi in contromano e in doppia fila al centro della strada. Questo per attirare l’attenzione di eventuali testimoni e produrre un identikit per far credere che il sequestro fosse opera della Magliana456M. Accetti, Memoriale, 2014.

De Pedis sarebbe sceso dall’auto e avrebbe simulato un incontro con Emanuela, mostrandole un tascapane azzurro con una “A” (codice dell’Aeronautica italiana, di cui alcuni membri avrebbero fatto parte della fazione avversa) con alcuni prodotti cosmetici. La “A” avrebbe anche ricordato la “Avon”, industria con sede a New York (oltre alla Polonia e Russia), diocesi del card. O’Connor che, assieme a Macioce, avrebbe influito sulla politica dello Ior457M. Accetti, Memoriale, 2014.

Un altro codice legato alla “Avon” sarebbe il significato celtico di “fiume”, ad indicare alla fazione della controparte la testimonianza della ragazza del Convitto, istituto lungo le sponde del fiume Tevere. La “A”, infine, avrebbe rappresentato l’”agenzia A”, «un opuscolo sociopolitico che lavorava anche negli interessi della DDR, e che in vari precedenti numeri si era già occupato di criticare la gestione dell’Istituto Opere di Religione»458M. Accetti, Memoriale, 2014.

L’incontro tra De Pedis e la Orlandi sarebbe stato fotografato dallo stesso Accetti, sempre in compagnia di Ulrike. Il fotografo avrebbe indossato sotto il giubbotto gli stessi abiti indossati da De Pedis, portando anche lo stesso taglio e pettinatura. Si sarebbe infatti sostituito a lui in caso di riconoscimento da parte di qualcuno, con un motociclista nei paraggi pronto a prelevarlo459M. Accetti, Memoriale, 2014.

Finito il “finto incontro”, Emanuela si sarebbe diretta verso la scuola mentre Accetti avrebbe consegnato il rullino fotografico a De Pedis, il quale si sarebbe allontanato con la moto, lasciando la BMW al centro della strada.

Qui sarebbe avvenuto un secondo finto incontro, quello tra Emanuela e un esponente dei Focolari Idealisti turchi, vicino alla fazione. Sarebbe stato lo stesso fatto incontrare anche a Mirella il giorno della sua sparizione: «Si trattava di un estremista islamico tra i tanti rifugiati in Europa, ce n’erano in Germania, Svizzera, Francia, che aveva orientamento diverso, rispetto ai vari Agca o Celebi si poteva considerare di sinistra. Fecero da tramite i nostri referenti della nunziatura in Turchia e il sindacato di polizia Pol-Der, lo stesso che aveva intercettato le voci di attentato. Fu lui a pedinare la Gugel due anni prima. Agca, riconoscendolo nelle foto accanto a Mirella ed Emanuela, si sarebbe convinto che i sequestri erano stati realmente eseguiti da un’organizzazione filosovietica, quindi con l’intento dimostrato di ottenere da lui la ritrattazione delle calunnie sui bulgari, di cui avrebbe beneficiato grazie al tentativo di liberarlo»460in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 102.

Dopo aver fotografato anche questo incontro, Accetti avrebbe fatto avere ad Agca, tramite un agente corrotto da De Pedis, le fotografie, facendogli credere che il “sequestro” fosse stato organizzato con l’aiuto dei turchi461M. Accetti, Memoriale, 2014.

Terminato anche il secondo incontro, la Orlandi sarebbe entrata (appositamente in ritardo) nella scuola di musica. L’entrata in ritardo della Orlandi quel giorno è stata confermata da Laura Casagrande (oltre che dal maestro Loriano Berti e dalla direttrice suor Dolores)462R. Pera, Emanuela Orlandi – E questo è solo l’inizio, Giustizia, 18/07/23.

In una telefonata che UCCR ha avuto con Accetti nel gennaio 2016, l’uomo ha dichiarato dopo gli incontri con De Pedis e il turco, «mi presentai io a chiedere dove fosse la Sala Borromini per confondere le acque e la possibilità di un identikit». I due agenti (Bosco e Sambuco) «avevano assistito a questa scena» con De Pedis, al quale «mi sono sostituito io -chiaramente loro non è che avessero l’occhio fisso sulle nostre mosse- per incidere meglio nella memoria, e gli ho chiesto: “Dov’è la Sala Borromini?”. Non ricordo se al vigile o al poliziotto, oltretutto c’erano anche altri impiegati, credo del Senato».

 

Qui sotto il confronto tra l’identikit fornito da Alfredo Sambuco e Enrico De Pedis:

 

Qui sotto il confronto tra l’identikit fornito da Alfredo Sambuco e Marco Accetti:

 

Analizziamo questa sequenza descritta da Accetti.

Secondo il giudice Fernando Imposimato, la cui convinzione è che il doppio rapimento sia stato opera premeditata della Stasi, la ragazza di corso Rinascimento sarebbe stata Fabiana Valsecchi.

Il nome venne fatto da Fabrizio Peronaci nel primo incontro che ebbe con Marco Accetti: mentre quest’ultimo ricostruiva l’accaduto di fronte al Senato, Peronaci domandò: “conosci la Valsecchi?”. L’uomo, colto di sorpresa, avrebbe risposto: “Da chi l’hai saputo? Chi te l’ha detto?”463F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 111.

 

Una volta uscita da scuola, Emanuela avrebbe dovuto telefonare a casa senza trovare i genitori (il padre Ercole, essendo d’accordo, non avrebbe dovuto farsi trovare a casa), per poi comunicare alle compagne un consiglio sull’accettare o meno la proposta di lavoro. Tuttavia la «lavoratrice laica» dell’Associazione avrebbe segnalato l’imprevista presenza di una sorella a casa Orlandi, così tramite una compagna della scuola di musica complice della fazione, comunicarono a Emanuela di telefonare alla sorella informandola dei codici “Avon” e “375”.464M. Accetti, Memoriale, 2014.

La cifra appositamente esagerata di 375000 lire avrebbe ricordato la data della prima apparizione della Madonna di Fatima: 13-5-1917. Il codice “Sorelle Fontana” avrebbe invece significato l’abitazione di mons. Celata, posta un portone prima della sede dell’atelier, presso il Collegio De Merode. Il prelato sarebbe stato incaricato di allontanare Marcinkus dallo Ior collaborando con il SISMI, guidato da Santovito e Francesco Pazienza. “Sala Borromini” significava l’abitazione di quest’ultimo, posta vicino a piazza dell’Orologio, laddove si diceva incontrasse persone vicine a De Pedis.

Il codice composito significava: un’azione (“sfilata”) di monsignor Celata (“Sorelle Fontana”) con Pazienza (“Sala Borromini”), questo connubio avrebbe osteggiato la politica dello Ior465M. Accetti, Memoriale, 2014.

Il secondo appuntamento con la Orlandi sarebbe stato alle 7 di sera (altro codice da sommare con le 15:30, l’orario in cui fu fermata Mirella: 13-5-1917, data di Fatima). A lei si sarebbe avvicinata la compagna dell’istituto Convitto (già operativa nel primo incontro e che non sarebbe mai stata a conoscenza del coinvolgimento di De Pedis) con la quale si sarebbero recate verso piazza Navona, dove salirono a bordo di un’auto con finta targa del Vaticano, al cui interno ci sarebbe stato un sosia di un prelato della fazione avversa (segretario del Comitato Organizzativo per l’Anno Giubilare della Redenzione del 1983).466M. Accetti, Memoriale, 2014.

Il cosiddetto “prelato della fazione avversa” sarebbe stato mons. Liberio Andreatta, all’epoca 42enne e negli ultimi anni responsabile dell’Opera romana pellegrinaggi. Dopo l’ordinazione sacerodtale del 1969, fu inserito nella diocesi di Tarquinia e Civitavecchia. Nel 1983 divenne effettivamente segretario di Presidenza del Comitato per il Giubileo Straordinario, poi passò all’Opera romana pellegrinaggi con incarichi di vertice.

Accetti riferisce che mons. Andreatta «era in cima all’elenco dei religiosi avversati»467in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 120, «verso di lui esercitammo notevoli pressioni, in quanto nella diocesi di Tarquinia si era occupato di innumerevoli realtà edilizie compiendo varie scorrettezze legali»468M. Accetti, Memoriale, 2014. In particolare, aggiunse Accetti, «le illegalità in materia immobiliare nell’Alto Lazio, di cui avemmo qualche resoconto, portavano a certi rapporti tra il suddetto prelato e un faccendiere noto in ambienti della banda della Magliana, Ernesto Diotallevi»469in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 120.

Una volta giunti a Porta Sant’Anna, l’amica avrebbe atteso fuori dalla Porta per distrarre eventuali parenti della Orlandi che fossero rientrati a casa (stessa cosa avrebbe fatto la ragazza dell’Associazione Cattolica presso piazza di Sant’Egidio, monitorando la sorella Federica) mentre la Orlandi sarebbe entrata verso il cortile Sisto V, chiedendo a quanti testimoni possibili dove potesse rintracciare il prelato vicino a Marcinkus (che, nel ricatto ideato dalla fazione avrebbe portato Emanuela nell’appartamento di Marcinkus). Tutto ciò sarebbe stato fotografato da Accetti stesso.470M. Accetti, Memoriale, 2014.

Dopo essere risalite a bordo, le ragazze sarebbero state condotte nei pressi di Villa Lante al Gianicolo, dove la Orlandi sarebbe entrata mentre la ragazza del convitto sarebbe rientrata a casa471M. Accetti, Memoriale, 2014.

 

Quanto è verificabile di tutto ciò?

E’ uno dei pochi casi nel racconto di Accetti in cui dagli elementi forniti si giunge al nome di un personaggio ancora vivente, ovvero mons. Liberio Andreatta. Il quale, come abbiamo visto, avrebbe fatto parte della fazione avversa a quella “progressista” e filo-sovietica di Accetti, e verso il quale furono operate molte pressioni per presunte irregolarità edilizie.

Bisognerebbe domandare a mons. Andreatta riscontro di queste parole, tuttavia una recente inchiesta giornalistica ha effettivamente attribuito al prelato un grande fiuto per gli affari edilizi

L’idea di Emanuela Orlandi che rientra a Porta Sant’Anna, nei pressi di casa sua, e fa domande ai passanti è davvero poco credibile. A maggior ragione se tale episodio non ha prodotto testimoni emersi in questi anni.

In realtà, il racconto di Accetti coincide perfettamente con quanto disse nel 1993 in un’intervista a Il Tempo il card. Silvio Oddi: «Posso dire solo quello che a suo tempo ascoltai in ambiente ecclesiastico e che molti sanno. Emanuela quel pomeriggio, finita la lezione di musica, tornò a casa, all’interno della Città del Vaticano. Fu vista arrivare a bordo di un’automobile di lusso, che non attraversò la soglia di Sant’Anna, restando ferma all’esterno, su via di Porta Angelica».

La sorella di Emanuela, Federica, smentì la ricostruzione affermando di essere rimasta a casa e di non aver mai visto Emanuela tornare472citata in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 282.

Successivamente il prelato volle precisare che «erano chiacchiere ascoltate per strada, da qualcuno che parlava della scomparsa di Emanuela Orlandi, come in quei giorni facevano un po’ tutti dalle parti di San Pietro».

Secondo Marco Accetti però, «la testimonianza a posteriori del Card. Oddi la ritengo non veritiera, in quanto la ragazza era sempre accompagnata dall’altra compagna del Convitto e di questo non vi è traccia nel resoconto di Sua Eminenza. Comunque il Cardinale era quindi a conoscenza del reale episodio, e lo avrà menzionato per un suo qualche motivo personale di cui non sono a conoscenza»473M. Accetti, Memoriale, 2014.

Una contraddizione apparente nel racconto del reo-confesso è che quel giorno Emanuela insistette molto per farsi accompagnare dal fratello in moto alla scuola di musica, litigarono a tal punto che Emanuela se ne andò sbattendo la porta. Come conciliare questo con il fatto che avrebbe dovuto di lì a poco incontrare alcune persone e partecipare in gran segreto ad un “finto sequestro”?

Nel 2013, Pietro Orlandi obiettò proprio questo nel confronto televisivo che ebbe con Marco Accetti, il quale rispose: «Per rispettare gli orari». Il reo-confesso è tuttavia apparso in difficoltà rispetto all’obiezione fornitagli. Qui sotto il video:

 

Il giornalista Fabrizio Peronaci, propenso a credere nella versione di Accetti, ha interpretato il comportamento di Emanuela come una ricerca inconscia di protezione da parte del fratello474F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

 

Marco Accetti continua il racconto spiegando che Emanuela, ospitata in una stanza affittata all’istituto religioso Villa Lante della Rovere al Gianicolo, sarebbe dovuta rientrare a casa molto tardi, dopo che la fazione avesse avuto una copia della denuncia di sparizione (ottenibile grazie a un agente corrotto da De Pedis), da mostrare ad Agca assieme alla fotografia della Orlandi con il turco dei Focolari Idealisti e alla fotocopia della tessera della scuola di musica475M. Accetti, Memoriale, 2014.

Sarebbe stata scelta Villa Lante in quanto «luogo vicino all’abitazione della giornalista Sterling, che tutti ritenevano responsabile della costruzione fasulla delle accuse ai bulgari» grazie a rapporti con esponenti della Cia e con l’avvocato di Agca476in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

La denuncia arrivò solo il giorno successivo, in concomitanza con la notizia che la Commissione Bilaterale, voluta dal Segretario di Stato Card. Casaroli con personalità del governo italiano per indagare sulle finanze dello Ior, non avrebbe consegnato la relazione il 30/06/1983, come invece promesso. Così avrebbero deciso di trattenere Emanuela per usare la sua “scomparsa” anche in tale direzione477M. Accetti, Memoriale, 2014.

Dal 23/06 sarebbe iniziata una competizione tra le due fazioni e tentativi di trattative, con la complicità di alcuni articoli di giornale: avrebbero fatto pubblicare il caso della 127 caduta nel fiume per comunicare alcuni codici mentre un loro complice della Stasi al giornale Il Tempo, di nome “Ecce Homo”, fece pubblicare il 25/06 una lettera che Agca scrisse un anno prima al card. Oddi, riportante la frase “spero che qualcosa accadrà in futuro, che qualcuno mi risponda dal Vaticano”, appaiata ad un articolo sulla Orlandi478M. Accetti, Memoriale, 2014.

Nello stesso giorno “Pierluigi” (codice di mons. Pierluigi Celata) telefonò a casa Orlandi parlando di “scappatella”, un gesto di apertura nella trattativa con la fazione opposta.

Emanuela sarebbe rimasta a Villa Lante quattro giorni, Accetti sostiene che avrebbe indossato una salopette con camicia bianca e scarpe da ginnastica basse, con scritto a penna il nome “Emanuela” (tessuto che sarebbe stato da loro tagliato).

La descrizione dei vestiti è importante in quanto il testo dei manifesti dell’epoca parlò solo di jeans, lo si legge nel piccolo trafiletto che uscì su Il Tempo il 24/06/1983, due giorni dopo la scomparsa («indossa un completo jeans e una maglietta a maniche corte bianche»), nonché fu confermato anche l’amica Raffaella Monzi.

Pietro Orlandi confermò tuttavia le parole di Accetti: «Mia sorella indossava una salopette, certo. Anzi, precisamente, dei jeans con delle bretelline. Il nome sulle scarpe, onestamente, non lo ricordo»479P. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

Accetti ha sostenuto anche di aver passeggiato con Emanuela nel centro di Roma nei mesi di luglio e agosto 1883480G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44, «una volta andammo nella zona del Ghetto e parlammo di un progetto di film. Quando usciva dal luogo in cui l’avevamo portata, le facevamo indossare una parrucca»481in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

Per quanto riguarda Claire Sterling, la donna fu la prima, insieme a Paul Henze, capo centro della CIA ad Ankara, a parlare effettivamente della pista bulgara relativamente all’attentato al Papa. E’ anche vero che viveva con il marito a Trastevere, circa 2km da Villa Lante, in via San Francesco di Sales482F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, pp. 75, 177. Ubicazione confermata in maniera indipendente dal giudice Rosario Priore483R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 28.

Non c’è dubbio sul fatto che la giornalista americana Sterling avesse dato indicazioni precise ad Agca su come avrebbe dovuto comportarsi, fu stato confermato nel 2005 anche dal giudice Rosario Priore484R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 28.

 

Il 26/06/83 Emanuela sarebbe stata trasferita sul litorale romano in un appartamento presso Tor Vaianica a bordo di un camper e in compagnia di due ragazze. Accetti ha ricordato che la ragazza «voleva capire, certo, chiedeva cosa ne pensassero i genitori. Noi le ripetevamo che la famiglia sapeva. D’altra parte non è che le fu detto: dovrai stare fuori mesi. Doveva essere una cosa breve, che poteva concludersi da un’ora all’altra»485in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 134.

Il fotografo l’avrebbe incontrata con una certa regolarità dal 22 giugno fino alla fine del 1983. «Non si spostò mai da Roma e dal litorale, dove abitò in due appartamenti. Molte volte dormì in un camper. Le consentivamo di suonare il flauto, le comprammo un pianoforte. Lei sapeva che suo padre era d’accordo con non tornasse a casa, perché aveva avuto dei problemi che, grazie al suo momentaneo allontanamento, sarebbero stati risolti. All’inizio si sentiva un po’ come un’eroina, tra noi si era instaurato anche un certo affetto»486in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

La Orlandi sarebbe stata usata in tutto questo periodo per esercitare pressioni a favore del proscioglimento di Antonov e, grazie al secondino corrotto da De Pedis, sarebbero stati mostrati a Agca documenti che attestavano si trattasse di un vero sequestro mascherato da finta scappatella, facendogli credere che il Papa, per liberare la Orlandi, avrebbe chiesto al Presidente della Repubblica Pertini la cortesia di conferire la grazia per lui. Pertini sarebbe stato già sensibilizzato dal sequestro della Gregori487M. Accetti, Memoriale, 2014.

Il 28/06/83 Agca iniziò la ritrattazione sui bulgari inficiando la sua credibilità, il telefonista “Mario” (codice di “Mario Aglialoro”, probabile mandante dell’omicidio Calvi) chiamò casa Orlandi parlando di “scappatella”, per mostrare alla controparte la volontà di non compiere scandali purché si fossero accettate le richieste e rafforzare la trattativa interna. Tuttavia, la relazione della Commissione sullo Ior sarebbe stata rimandata generando sospetti nella fazione, per questo Emanuela e Mirella sarebbero state trattenute in attesa di comprenderne il motivo.

II 3/7/83 arrivò il primo appello di Giovanni Paolo II il quale parlò di sequestro, Accetti ritenne che «il Papa non sia stato realmente informato compiutamente, ma portato su piste confondenti, quale un’operazione di terrorismo ordito da un paese oltrecortina. Coloro che hanno prodotto l’appello intendevano, a nostro avviso, sottrarsi alla nostra minaccia di rivelare pubblicamente la “realtà” relativa al “sequestro”, rendendolo a loro volta pubblico. Ci anticipano nella nostra intenzione, sia pur virtuale, rendendolo di pubblico dominio. È anche un modo di dichiarare che non accettano le nostre istanze»488M. Accetti, Memoriale, 2014.

La ritrattazione di Agca avvenne e la Orlandi avrebbe dovuto tornare, se non che il 30 giugno 1983 l’esito della Commissione per lo IOR venne ufficialmente rinviato sine die. Il 3 luglio 1983 arrivò l’appello del Papa: «Coloro che hanno prodotto l’appello intendevano sottrarsi alla nostra minaccia di rivelare la ‘realtà’ relativa al ‘sequestro’, rendendolo a loro volta pubblico. Ci anticipano nella nostra intenzione, sia pur virtuale. Dichiarano in questo modo che trattasi di un qualcosa di ‘esterno’, un rapimento qualunque, cosicché il Vaticano risulta estraneo, senza alcuna responsabilità. È anche un modo di dichiarare che non accettano le nostre istanze», (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).

La Orlandi sarebbe stata trasferita in un appartamento nel quartiere di Monteverde.

Perché la scelta di Torvajanica e Monteverde? Accetti nel 2013 ha spiegato che ciò avrebbe portato gli inquirenti verso abitazioni legate alla Magliana, ritenendo «la stessa unica responsabile del sequestro. Sarebbe parso un rapimento a scopo di estorsione tra i tanti che gli stessi elementi criminali avevano già compiuto nella città di Roma»489M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.

Relativamente ai luoghi di “Monteverde” e “Torvajanica”, nel 2013 Accetti ha sostenuto che la telefonata di “Mario” sarebbe in gran parte secretata e «non è mai stata rivelata integralmente dagli inquirenti, e se ne conoscono pubblicamente solo alcuni passaggi». Nella lunga parte secretata si annuncerebbe «gran parte di quanto si sarebbe verificato nei mesi seguenti». Si parlerebbe, ad esempio, di “Monteverde” e di “Tor Vaianica”490M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013. “Torvajanica” fu usato anche dal primo telefonista, “Pierluigi”, dicendo di chiamare da un ristorante di quella cittadina.

Tra i vari domicili della Magliana si sarebbe scelto quello di Monteverde in quanto vicino alla residenza di mons. Franco (sottoposto del card. Oddi) e di Marcinkus, che sarebbero stati residenti a Villa Stricht, in via della Nocetta. Un’allusione che i due prelati «potessero avere la disponibilità di tale appartamento e di essere a conoscenza della segregazione della Orlandi». L’appartamento di Torvajanica, invece, si trovava vicino alla villa del giudice Santiapichi, futuro presidente della Corte d’Assise sull’attentato al Papa491M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.

Come già detto, Accetti avvalora anche la testimonianza di Sabrina Minardi in quanto la donna citò proprio queste due località come luoghi di detenzione della Orlandi. «Non si può immaginare che la Minardi possa aver avuto accesso a tali verbali secretati. Né si può ritenere che tra tanti quartieri di Roma e tante località marittime possa essersi verificata una mera, fortuita coincidenza nell’essere citati da entrambi i personaggi, “Mario” e la Minardi»492M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.

L’uomo ha però evitato di confermare la proprietaria dell’appartamento nel quartiere “Monteverde” indicati dalla Minardi (cioé Daniela Mobili, come confermato dagli inquirenti), per coerenza «alla mia intenzione di non fare alcuna chiamata di correità»493M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.

La Magliana, in cambio di questa «limitata partecipazione logistica e di copertura, avrebbe ottenuto principalmente come interscambio alcune entrature all’interno della Città del Vaticano per alcune loro esigenze di investimento finanziario»494M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.

Valutazione:
Sabrina Minardi riferì effettivamente che la Orlandi sarebbe stata prima segregata in una casa di sua proprietà a Torvajanica, in via Rumenia 123 (Pomezia) e poi in via Pignatelli 13, nel quartiere Monteverde, in un appartamento di Daniela Mobili e Vittorio Sciattella, con la complicità di Danilo Abbrucciati. Le carceriere sarebbero stata due donne delle pulizie, Maria Adelaide Eugenia Cassi e Maria Luisa Melchiorri495G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 34.

La Procura effettuò queste verifiche:
Danilo Abbrucciati morì prima della sparizione di Emanuela;
– Daniela Mobili possedeva effettivamente l’appartamento in via Pignatelli 13, contenente un locale sotterraneo con una grotta ricavata dal sottosuolo (le analisi scientifiche della grotta non portarono alcun risultato circa la detenzione della Orlandi)496G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 13, 14;
– Daniela Mobili (compagna di Abbrucciati) si trovò in carcere dal 1982 al 1984497G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 13, 14;
– Maria Luisa Melchiorri, deceduta nel 2009, fu trovata presente nell’appartamento della Mobili in via Pignatelli 13 (mentre la Mobili era detenuta) durante una perquisizione498G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 14, la donna ammise la circostanza soltanto dopo contestazione, sostenendo di aver poi lasciato l’appartamento in disponibilità della suocera della Mobili499G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 16. La Mobili negò di conoscere la Melchiorri500G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 15;
– Maria Adelaide Eugenia Cassi, deceduta nel 2002, fu effettivamente legata in passato a Roberto De Pedis, deceduto nel 1988 e zio di Enrico501G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 16;

Il 5/7/83 la fazione avrebbe deciso di ufficializzare gradualmente il sequestro facendo comparire il telefonista “l’Amerikano” (con la voce di Thomas Macioce, il vero responsabile della politica dello Ior a favore di Solidarnosc). Il primo livello fu riferirlo solo alla Sala Stampa Vaticana (sequestro per ottenere liberazione Agca, ultimatum il 20/07 per lo “scambio” con Emanuela), le richieste non furono accettate e perciò si passò alla famiglia (a cui fecero sentire un audio con la voce di Emanuela) e infine alla stampa502M. Accetti, Memoriale, 2014.

Questa gerarchizzazione dell’intervento dei sequestratori non è originale, trova conferma in un articolo de l’Unità datato 05/10/1983, nel quale si rende nota la rilettura della vicenda dagli occhi del giudice Domenico Sica:

«Pochi giorni dopo il rapimento di Emanuela arriva il primo messaggio al Vaticano, un messaggio “particolare”, mai diffuso dalla stampa. Il Vaticano tace, ma il giorno dell’Angelus Papa Wojtyla lancia il primo appello. E’ il “segno” chiesto dai rapitori per l’apertura delle trattative; di che tipo non si sa. Ci sono altri contatti segreti con la Santa Sede. Ma evidentemente la trattativa sta per arenarsi, perché i rapitori decidono di far intervenire la stampa. E utilizzano i canali dell'”Ansa”, per garantire la massima diffusione delle loro farneticanti richieste: cioè la liberazione di Alì Agca e degli altri turchi coinvolti nell’inchiesta sull’attentato al Papa. La Santa Sede sa bene che in realtà i turchi non c’entrano nulla e la richiesta è un’altra. Arriva quindi l’ultimatum del 20 luglio. Il Vaticano fa di tutto per riattivare le trattative ma i rapitori puntano troppo in alto».

 

Accetti riferì che la telefonata dell'”Amerikano” agli Orlandi fu fatta dai Parioli e la registrazione di EManuela sarebbe stata eseguita dopo la sua sparizione. Per quanto riguarda il fischio del treno che si sente in sottofondo, sarebbe stato registrato in precedenza per depistare gli inquirenti503in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 176.

L’8/07/83 Agca rilanciò le accuse verso i bulgari, secondo Accetti fu perché la trattativa non era più occulta e non avrebbe avuto possibilità di successo. Così Emanuela e Mirella furono trattenute ulteriormente per fare comprendere ai giudici popolari della Corte d’Assise un legame con l’esito del processo504M. Accetti, Memoriale, 2014.

Accetti dichiarò che sarebbe stato «contrario a proseguire, avrei preferito rimandarle a casa. Non era bontà. Temevo che saremmo stati scoperti, arrestati»505in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 137.

In quel giorno avvenne la telefonata alla compagna di musica di Emanuela, Laura Casagrande, in cui il telefonista disse che Emanuele era fuori dal territorio italiano: «Per alludere che possa trovarsi in territorio della Città del Vaticano», ha spiegato Accetti506in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 136.

La Orlandi intanto sarebbe rimasta nell’appartamento nel quartiere Monteverde, «parlavamo di fotografia e di musica, suo grande interesse. Le promettemmo che l’avremmo aiutata a coronare un sogno, suonare nella cappella Giulia. E poi pensava alla ripresa della scuola, studiava sui libri che ci chiedeva e le portavamo, suonava il flauto e un piccolo pianoforte verticale, che le mettemmo a disposizione. Ricordo anche che ricamava, la vidi più volte con ago e filo». Sia lei che Mirella, sostiene Accetti, «non conoscevano i fatti reali, i nostri nomi, le nostre fattezze. Io indossavo sempre una parrucca, portavo lenti a contatto marroni. Una volta ero Paolo, un’altra Ivan, nome un po’ sinistroide, o Fabio, a seconda delle esigenze. Paolo perché così mi chiamò una volta un prelato, conoscendo la mia predilezione per l’immagine carismatica di papa Paolo VI»507in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 138.

E’ la seconda volta che emerge il (presunto) desiderio di Emanuela nel suonare nella cappella Giulia. La prima volta le avrebbe promesso un favoritismo la ragazza dell’Associazione Cattolica, complice di Accetti, che conquistò la sua fiducia in Vaticano. Sarebbe utile che i familiari della Orlandi confermassero o meno questo vivo desiderio di Emanuela, sicuramente nato precedentemente al sequestro.

Rispetto ai vari nomi che Accetti avrebbe cambiato agli occhi di Emanuela, appare senza senso in quanto la ragazza lo avrebbe comunque riconosciuto dalla voce, dalla struttura corporea, dai modi di fare e dalle fisionomie somatiche.

Inoltre, come ha sottolineato Fabrizio Peronaci508in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p.138, il nome “Paolo” non è nuovo: nella testimonianza di Sabrina Minardi509in R. Notarile, Segreto criminale, Newton Compton 2010, la donna disse che le venne caricata in macchina Emanuela, la quale «era frastornata, confusa. Piangeva, rideva. Le avevano tagliato i capelli in maniera oscena. Trascinava le parole, nominava un certo Paolo e mi chiese se la stessi portando da lui».

E’ la seconda volta che il racconto di Accetti collima con quello della Minardi.

Il 4/8/83 si sarebbe attivata anche la fazione avversa (con l’aiuto del SISMI) a quella di Accetti tramite il primo comunicato del gruppo “Turkesh”, nel quale si accostò per la prima volta il caso Gregori a quello Orlandi. Furono chieste notizie su Mirella e la fazione “progressista” accettiana avrebbe interpretato il “codice” in questo modo: se non avessimo più coinvolto il Vaticano tramite la Orlandi occupandosi solo pubblicamente della Gregori lo Stato del Vaticano, sarebbero stati favoriti sulla ritrattazione verso Antonov510M. Accetti, Memoriale, 2014.

Nel settembre 1983 comparvero una serie di comunicati spediti da Boston e dagli USA, sarebbero stati scritti da una ragazza e spediti da un’altra (l’ex moglie di Accetti, Eleonora Cecconi) con l’intendo di «spostare l’attenzione dalla Repubblica Bulgara al territorio statunitense». Il Sisde sarebbe stato a conoscenza di questo tentativo di depistaggio e avrebbe creato il gruppo “Phoenix”, minacciando la fazione di Accetti con il codice 158 e citando la pineta e il ristorante di Torvajanica511in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 140.

Per forzare l’ottenimento della grazie presidenziale per Agca, la fazione avrebbe fatto circolare un video nella pineta di Castel Porziano, mettendo in evidenza la vicinanza alla residenza estiva del capo dello Stato e filmando Mirella Gregori (consenziente), poi un’arma calibro 357 (3-5-17, codice di Fatima) e la targa di Castel Porziano. Alla fine il suono di un sparo fuori campo512in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 143.

Il 20 ottobre arrivò l’appello di Pertini: «Ho sempre sostenuto una linea di estrema fermezza nella lotta al terrorismo, contro ogni trattativa o cedimento. Oggi, senza allontanarmi da questa linea, di fronte all’angosciata richiesta delle famiglie, e in particolar modo della signora Gregori, madre di Mirella, rivolgo l’invito ai rapitori a rilasciare immediatamente queste giovani e formulo l’auspicio che un raggio di pietà illumini il loro animo».

Secondo Accetti la frase “in particolar modo” dimostrerebbe che il capo dello Stato, dopo che per mesi si era prevalentemente parlato di Emanuela, fu costretto a spostare l’attenzione sull’altra ragazza513in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 146.

Il 20 dicembre 1983 Marco Accetti venne arrestato e condotto in carcere per l’omicidio del piccolo José Garramon, quella sera si stava dirigendo a Ostia dopo che aver visitato Emanuela nel camper ubicato nei pressi della villa del giudice Santiapichi. Dopo l’incidente, mentre Accetti si farà arrestare, la complice tedesca Ulrike avrebbe raggiunto nuovamente il camper portando l’auto negli ex stabilimenti De Laurentis su via Pontina, «un posto che noi conoscevamo bene, lo stesso dove anni dopo nascosi il flauto. Tra i due teatri di posa c’era una struttura con i camerini, comodi, arredati, perfetti per dormire. Noi avevamo appoggiato una scala all’esterno. Bisognava solo stare attenti al sistema d’allarme, azionato nell’atrio, ma non nei corridoi»514in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 158.

Emanuela avrebbe passato quella notte in quel luogo, poi fu detto ad Accetti che sarebbe stata portata a Roma. «Io ero già in carcere, da allora il mio racconto va preso con beneficio d’inventario»515in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 158, ha sostenuto.

L’allontanamento di Emanuela Orlandi sarebbe dovuto durare poche ore, il tempo di far presentare la denuncia di scomparsa ai famigliari, presentando codici ad Agca per costringerlo a ritrattare la pista bulgara. Tuttavia, come spiegato sopra, circostanze non dipendenti dalla volontà degli organizzatori dei finti sequestri avrebbero fatto rimandare il rientro516G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

Accetti finì in carcere nel dicembre 1983 e non avrebbe più avuto contatti diretti con Emanuela. Sostiene che la sua fazione gli comunicò che non potendo più tenerla in Italia per questioni di sicurezza, sarebbe stata trasferita all’estero. «Mi fu detto in modo lapidario: “Stanno bene fuori, meglio non farle rimpatriare, si creerebbe uno scandalo inutile”».

Da quanto ha saputo, Emanuela sarebbe stata ospitata qualche giorno a Milano da un italiano convertito all’Islam, il quale avrebbe allestito in casa sua una piccola comunità e un luogo di preghiera. Poi si sarebbe diretta vicino a Parigi, a Neauphle le Chateau. Il viaggio sarebbe stato fatto in compagnia dello stesso turco (di orientamento di sinistra) che avrebbe partecipato al finto sequestro davanti al Senato nel giorno della sua scomparsa. A Neauphle le Chateau avrebbe risieduto soltanto per gli anni 1984 e 1985 con un passaporto iraniano517G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44 518in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 161.

Il turco che avrebbe accompagnato Emanuela sarebbe stato Oral Celik (lo stesso Accetti in un’altra occasione escluse Musa Serdar Celebi519in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 102)?

Emanuela avrebbe assunto il nome di Fatima, «nel 1984, in Olanda, fu albergata in pertinenza cardinal Felici, che in Francia operava in modo reazionario contro i prelati ‘indipendenti’ francesi. Fu posizionata, ospitata. Il fatto risale ai primi mesi del 1984. Io ero in carcere, lo venni a sapere dopo. Per fare una pressione sul cardinale Felici, che era un reazionario tremendo, si collocò la Orlandi in una residenza provvisoria, di laici a lui riferibili, Non ricordo in che città, ma immagino fosse la capitale. Basta andarsi a vedere la biografia del cardinale. Però, onestamente non sono sicurissimo che fosse proprio Emanuela, anzi…quasi certamente era una sosia… Ma la sostanza non cambia. A noi per sollevare uno scandalo bastava poter dire: la Orlandi ha dormito qui, in una pertinenza di quel monsignore che ci sta dando fastidio, e abbiamo le foto che lo attestano»520in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 162.

La tesi che la Orlandi fosse stata ospitata in un casa a Parigi la sostennero anche i “Lupi Grigi”.

Il giudice Rosario Priore ha infatti ricordato che nel 1986 la polizia italiana, francese e tedesca convergerono sulla capitale francese nella ricerca dell’abitazione. Yalcin Ozbey (collaboratore dei servizi tedeschi) avrebbe dovuto prendere informazioni da Oral Celik, il quale non si presentò e il tentativo andò a vuoto. Furono comunque individuate due case, una a Boulevard de Strasbourg e l’altra a Rue de Roquette, ma non si ebbe mai nessuna prova concreta521Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, p. 38.

Il magistrato Ferdinando Imposimato, a lungo occupatosi dell’attentato al Papa e del caso Orlandi, oltre a confermare le coperture della Francia a favore di Oral Celik mentre era oggetto di un mandato di cattura da parte italiana per l’attentato a Wojtyla, ha sostenuto che fosse stato «in qualche modo implicato anche nel sequestro di Emanuela Orlandi, come ha riferito a me un suo amico, detenuto con lui in un carcere francese»522F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 12.

Di Parigi ha parlato in Procura sorprendentemente anche Dany Astro, presentatasi agli inquirenti nel 2013 dopo Marco Accetti. Ha riferito di essere compagna di Accetti dal 2001, raccontando che nel 2012 l’uomo l’avrebbe incaricata di consegnare una lettera ad un arabo o un orientale della moschea centrale di Parigi523G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45.

Ciò sarebbe avvenuto dopo la morte di Oscar Luigi Scalfaro. Ricordiamo che la segreteria particolare dell’ex presidente emerito della Repubblica, ministro dell’Interno dall’agosto 1983 (quindi capo dei servizi segreti), era ubicata nello stesso complesso di S. Apollinare e allo stesso piano della scuola di musica pontificia Ludovico Da Victoria in cui Emanuela andava a scuola di musica e da dove poi sparì).

La lettera consegnata da Dany Astro all’arabo di Parigi avrebbe portato all’incontro con tre donne, le quali furono messe dalla Astro in contatto telefonico con Accetti. In una tra queste, ha riferito, avrebbe riconosciuto Emanuela Orlandi524G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45.

 

Analisi e verifiche

La testimonianza di Dany Astro è incredibilmente controversa.

La donna è probabilmente la ragazza bionda che viene ripresa dalle videocamere a fianco di Accetti il giorno della sua presentazione in Procura. La deposizione ai magistrati della testimonianza della Astro in cui racconta di aver riconosciuto la Orlandi a Parigi è quindi stata senz’altro concordata con Accetti, il quale però riferisce di non sapere nulla della sorte della Orlandi.

Accetti sta mentendo oppure pensa che la sua stessa compagna si sia sbagliata? Ma allora perché ha acconsentito a tale deposizione? Gli inquirenti hanno mai chiesto all’uomo di confermare o meno quanto riferito da Dany Astro?

«Escludo siano state uccise», afferma Accetti. «L’omicidio comporta un rischio immenso, perché se si trova il corpo l’assassino può pentirsi o essere individuato, e non vedo il movente. L’unico potrebbe essere la tacitazione testimoniale, ammazzarle per impedire che rivelino chi furono i sequestratori… Ma anche questo è improbabile, laborioso, perché le giovani coinvolte sono state molte. Io stesso conducevo 5 o 6 ragazze, e poi c’erano le amiche di Emanuela e Mirella. Per stare tranquilli bisognava sopprimerne 1 5 o 1 6, un po’ troppe, no? Ci sono tanti modi per tenere lontana una persona, ad esempio dire che un tuo ritorno potrebbe significare la morte di tua sorella, di tua madre. Con il trascorrere degli anni mi sono convinto che ci sia stata una forzatura, un farle stare bene, un usare una pressione perché dimenticassero il proprio nucleo familiare, il contesto sociale, e si abituassero alla nuova vita» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).

 

6.9 Marco Accetti e altre vittime coinvolte.

Dalle indagini svolte su Marco Accetti a seguito dell’omicidio di José Garramon nel 1983 e dalla perquisizione di casa sua, emersero ritagli di giornalini per giovani riportanti annunci per richiesta di scambio poster o amici di penna525G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46, e che l’uomo, in qualità di fotografo, era solito avvicinare e contattare giovani adolescenti per offrire loro una partecipazione ai suoi lavori artistici.

Inoltre, l’area frequentata da Accetti per tali proposte (corso Vittorio, via dei Coronari ecc.) era la stessa percorsa solitamente da Emanuela Orlandi, aveva infatti un laboratorio a ridosso di piazza dell’Orologio e dell’oratorio Borromini, vicino alla Sala Borromini citata da Emanuela nella telefonata prima di scomparire.

Questo dettaglio convinse nel 2016 il giornalista Pino Nicotri, da sempre ostile al racconto di Accetti, della sua sospettabilità nell’adescamento di Emanuela, facendo anche notare che l’uomo della Avon chiese alla ragazza di farsi prima autorizzare dai genitori, stesso modo di operare di Accetti.

 

Qui sotto l’importante riscontro su Marco Accetti e il ruolo degli adolescenti:

 

Ma chi furono le persone fermate da Accetti o utilizzate da lui in qualche modo?


 

Paola Diener.

Nel settembre 1983, Paola Diener (33 anni) sarebbe stata “attenzionata” dalla fazione di Accetti con lo scopo di influire sui lavori della Commissione dello IOR che avrebbe dovuto consegnare i risultati il 30/09/83. Sarebbe stato Accetti stesso a occuparsene.

Diener era figlia di uno svizzero, Joseph Diener, responsabile dell’archivio segreto vaticano, abitante in via Gregorio VII, strada che avrebbe condotto al luogo dove «avevamo situato la virtuale “villetta” prestata a monsignor Marcinkus»526in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 141.

Ecco come Accetti descrive i fatti su Paola Diener:

«Avrebbe dovuto essere una “testimone”» degli atti pedofili che sarebbero avvenuti in questa villetta, «proprio per la vicinanza della sua abitazione. Per comprendere se la ragazza avesse edotto i propri genitori dell’iniziale parziale proposta fattale, posizionammo una microspia presso la sua abitazione. E per accedere al palazzo ci fingemmo clienti di uno studio di agopuntura cinese, posto al primo piano. All’interno dell’abitazione, sita al piano terra, riscontrammo la presenza di un piccolo cane che ci intralciò nel nostro lavoro, che comunque portammo a termine. La ragazza non fece cenno alcuno alla famiglia, ma comunque non si dimostrò idonea alle nostre aspettative»527in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 141.

 

E’ sorprendente la conoscenza dettagliata delle circostanze esposte da Accetti.

Effettivamente dai documenti si rileva che il padre, Joseph Diener, era capo-custode dell’archivio vaticano. Inoltre, il dettaglio sul cane è stato riscontrato 30 anni dopo, il meccanico del palazzo vicino ricordò: «È vero, i Diener avevano un cagnolino. Lo vedevo spesso nel loro terrazzo»528citato in F. Peronaci, Emanuela Orlandi e la ragazza (oggi 59enne) che rivendicò il sequestro: ecco perché i messaggi da Boston portano ai veri rapitori, Corriere della Sera, 01/08/2023.

La donna fu però trovata morta il 5/10/1983 a causa di un incidente domestico sotto la doccia: «Sorprendentemente, leggendo i quotidiani, ne riscontrammo l’improvvisa morte dovuta a una folgorazione per elettricità, mentre la stessa era all’interno della vasca da bagno. Ritenemmo il fatto assolutamente accidentale, ma lo sfruttammo per far
credere che fosse nostra opera, citandolo in uno dei comunicati. L’incidente si era verificato durante il Sinodo dei Vescovi, ed anche di questa coincidenza se ne fece uso. Fotografammo il viso presso la camera ardente e lo mostrammo a chi di dovere»
529in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 141.

L’uomo ha spiegato che il nome della Diener sarebbe stato usato il 20/10/83 dai giudici bulgari a Rebibbia per minacciare Agca di uccidere la sorella Fatma così come «accaduto con la Diener», della quale sarebbero stati prodotti documenti attestanti il finto “omicidio”. Ad Agca sarebbe stata mostrata la foto del corpo della Diener, esposta nella camera ardente, con allegato l’articolo che ne annunciava la morte attraverso la corrente elettrica530M. Accetti, Punto 4 (indizi e prove), 17/12/2013.

Anche agli inquirenti, Accetti ha raccontato che qualche giorno prima della morte la donna sarebbe stata avvicinata in quanto persona legata al Vaticano e pertanto elemento di suggestione nei confronti dei prelati. Il ritrovamento il 13/05/2001 (anniversario apparizioni di Fatima) del teschio nella chiesa di San Gregorio VII, localizzata nell’omonima via, sarebbe stato un codice che avrebbe richiamato questo avvenimento531G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45 532M. Accetti, Tre giornalisti, 10/09/2014.

Relativamente a tale teschio, ritrovato il 13/05/2001 (anniversario delle apparizioni di Fatima e dell’attentato al Papa) all’interno del confessionale della chiesa di San Gregorio VIII, gli accertamenti medico legali conclusero che apparteneva a una donna fra i 25 e i 35 anni, morta circa 25 anni prima del ritrovamento533G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 52 (nel 1976). Un’età anagrafica coincidente effettivamente con quella di Paola Diener alla sua morte: 33 anni.

Infine, un riferimento alla morte della Diener sarebbe stato incluso in un comunicato arrivato da Boston il 28/10/1983, in cui si parlava di una «cittadina soppressa il 5 ottobre, a causa della reprensibile condotta vaticana»534in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 141. Che il comunicato parlasse proprio di Paola Diener non è scritto in nessun atto giudiziario, in nessun libro e in nessun articolo, Accetti è stato il primo a parlarne.

 

Verso fine novembre 1983, Marco Accetti fermò per strada Stefano Coccia.

Secondo quanto ha riferito in Procura, determinante nella scelta sarebbe stato il numero civico del negozio del padre: il 351, richiamo dell’apparizione di Fatima (13-5-1917), e il fatto che abitava vicino alla fermata dell’autobus con capolinea San Pietro, stazione che collegava la Orlandi, la Gregori e Caterina Gillespie (un’altra ragazza da lui fermata, ne parliamo più sotto).

Accetti ha spiegato che lui e una ragazza tedesca, presumibilmente Ulrike, la giovane donna fiancheggiatrice della Stasi sempre presente nel sequestro Orlandi-Gregori, fermarono Stefano in Corso Vittorio Emanuele, fotografandolo di nascosto «e facendo credere a un ecclesiastico che il minorenne ci avesse rilasciato alcune confidenze riguardo il comportamento del prelato in questione», si parla di mons. Marcinkus, capo dello Ior.

L’incontro è stato confermato nel giugno 1984 dallo stesso Stefano Coccia535G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 46, 48: «Nel novembre 1983, mentre nei pressi della gioielleria di mio padre guardavo una vetrina di giocattoli, fui avvicinato da due giovani, un uomo e una donna. Erano le sette di sera. Mi dissero che lavoravano per una rivista e chiesero se ero disposto a farmi fotografare, perché ero bellino. Lei era bionda».

Nel 2013 Coccia ha confermato quanto già detto in precedenza, spiegando di essere stato fermato in Corso Vittorio da una ragazza in compagnia di un ragazzo con al collo una macchina fotografica professionale e che i due, con modi gentili, gli proposero di fare delle fotografie e che avrebbe potuto guadagnare molto facendo con loro fotoromanzi e servizi fotografici sulla moda presso uno studio fotografico sito in via dei Coronari. Lui rispose che avrebbe chiesto il permesso al padre che aveva una gioielleria poco distante, ma i due anziché seguirlo al negozio preferirono lasciargli il numero per un successivo contatto telefonico. Suo padre però strappò il foglietto dicendogli di non accettare niente dagli sconosciuti536G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 48

Agli atti risulta il nome di Patrizia De Benedetti, l’ex fidanzata ma Accetti sostenne: «Fui io a fare quel nome perché non potevo dire chi fosse la ragazza bionda, e nominai la Patrizia perché già era comparsa nell’inchiesta, ripromettendomi in un secondo tempo, nel caso, di ritrattare»537in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 105.

Stefano Coccia ha quindi proseguito ricordando: «Mi chiesero il numero di telefono e lo scrissi su un pezzo di carta. Il giovane mi diede il suo. Poi andai nel negozio e raccontai quel che era successo. Mio padre strappò il foglietto e mi raccomandò di non dare ascolto agli estranei. Non vidi mai più quella coppia. Successivamente ricevetti una telefonata da voce maschile e matura, che mi chiese se ero Stefano e io risposi di sì. Lui abbassò il ricevitore»538in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 105.

Il contatto di Stefano venne trovato nella casa di Accetti quando fu perquisita in seguito all’omicidio di Garramon.

 

Due giorni prima dell’omicidio di Garramon, Accetti fermò Caterina Gillespie (16 anni).

Lo ha confermato la donna stessa nel 2013, spiegando di averlo conosciuto assieme a sua sorella, di avergli presentato i suoi genitori i quali hanno poi posarono per lui per delle fotografie. Gillespie ha riferito inoltre che nel marzo 2013, il mese stesso in cui Accetti è comparso pubblicamente, l’uomo l’ha contattata nuovamente dicendo di voler organizzare una mostra in Svizzera e di volere l’autorizzazione all’utilizzo della foto fatta ai suoi genitori539G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 48.

Tra il 1982 e il 1984 Gillespie partecipò con il Teatro dell’Opera di Roma ad alcune rappresentazioni teatrali.

Accetti ha sostenuto di aver tentato di coinvolgere Gillespie in false accuse di pedofilia contro mons. Marcinkus (cioé che il prelato incontrasse minorenni in un inesistente villino vicino la stazione San Pietro) in quanto «si vociferava che il presidente dello Ior avesse all’epoca, o avesse avuto in passato, una simpatia per Catherine Deneuve»540citato in F. Peronaci, Nel giallo due ragazze di nome Caterina. “Servivano a ricattare Marcinkus, Corriere della Sera, 11/01/2014, una diva del cinema dell’epoca.

Questo fu il motivo per cui avrebbe fermato in via Nomentana (la stessa via in cui abitava Mirella Gregori) Caterina Gillespie, «una giovane straniera. Il mio gruppo voleva usarla per ricattare alti prelati, un po’ come la Orlandi e la Gregori, senza però arrivare al sequestro. Non è strano che poche settimane dopo un’altra Caterina venga assassinata in circostanze oscure?»541citato in F. Peronaci, Nel giallo due ragazze di nome Caterina. “Servivano a ricattare Marcinkus.

Accetti fa riferimento al misterioso omicidio (mai risolto) di Catherine Skerl, avvenuto il 21/01/1984 (un mese dopo aver conosciuto Gillespie). «Seppi della morte violenta della Skerl in carcere, in quanto il mese precedente ero stato coinvolto in un incidente che costò la vita a un ragazzino, e la coincidenza mi turbò: capii subito che l’omicidio era stato compiuto dalla fazione a noi opposta»542citato in F. Peronaci, Nel giallo due ragazze di nome Caterina. “Servivano a ricattare Marcinkus.

Un altro motivo per cui sarebbe stata scelta la Gillespie fu che per recarsi a scuola, la ragazza prendeva lo stesso autobus di Mirella Gregori543G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

Sosia della Orlandi. Una volta uscito di prigione, MFA ha proseguito la sua attività. Nonostante, come dice, non sapesse nulla sulla sorte della Orlandi e della Gregori (se non che erano all’estero), nel 1987-1988 usò delle sosia die Emanuela con lo scopo, ha scritto di esercitare pressioni perché Thomas Macioce non diventasse presidente dello IOR (poiché avrebbe proseguito l’operato di Marcinkus).

Una di queste sosia della Orlandi, Flaminia Cruciani, venne portata nel maggio 1987 ad un convegno nella sala del Campidoglio, evento frequentato «da molti esponenti legati alla società sportiva di calcio Lazio, tra cui mio zio Agostino D’Angelo, che della stessa società fu un alto dirigente». Lo scopo era proporre alla controparte, in cambio della rinuncia di Macioce, di far testimoniare la Orlandi che la sua sparizione non riguardava il Vaticano ma la malavita romana, «inerente a certi infinitesimali ambienti della società Lazio». Per questo la sosia venne fotografata «con determinati personaggi presenti, e le stesse immagini poi prodotte a chi di dovere». Curioso che lo zio di MFA fosse legato alla Lazio considerando il comunicato del 17/11/83 in cui si chiamava in causa proprio un calciatore di questa società calcistica.

Un’altra, Priscilla Morini, effettivamente molto somigliante ad Emanuela, venne fotografata nel 1988 davanti al collegio San Giuseppe Istituto De Merode, accanto alla Maison delle Sorelle Fontana. «Vi era il processo d’appello del cosiddetto attentato al Papa, per cui la stessa fu fotografata in un locale ubicato in una traversa di via Veneto, a ricordare l’agenzia di stato bulgara Balkan Air, nella quale operava il Dot. Sergej Antonov». La Morini è stata interrogata in Procura confermando di aver incontrato MFA in quel periodo e confermando i luoghi in cui l’uomo ha detto di averla fotografata.

In ultimo, nel 1993, un’ulteriore controfigura della Orlandi, Ornella Carnazza, compagna di Accetti dal 1990 al 1996, «fu adoperata in quanto vi era in atto il coinvolgimento dell’allora sovrastante Bonarelli. Nell’impiego di tale ultima ragazza vi fu anche il contrastare un personaggio del Servizio d’Informazioni della Sicurezza Democratica (Sisde) che, nei nostri sospetti, poteva aver operato, per quanto riguarda il coinvolgimento del giovane Josè Garramòn. Alcune fotografie furono eseguite presso l’istituto St. George’s, frequentato nel 1983 dal ragazzino. Il momento era propizio in quanto in quei mesi il Sisde era esposto a
un’inchiesta giudiziaria, con gravi accuse ad alti dirigenti, e ciò lo rendeva fragile di fronte a eventuali pressioni»
.

Iva Skybova. Alla domanda del giornalista Fabrizio Peronaci se oltre alla ragazza tedesca Ulrike, ci sono state altre complici straniere, MFA ha risposto: «Ehm, una cecoslovacca. La agganciai in piazza San Pietro, Iva Skybova. Era bionda, aveva 1 8 anni, ma ne dimostrava molti meno. Pochi mesi dopo la morte di Oddi, la portai con me in Egitto, nel gennaio 2002, per fare alcune operazioni. Diciamo dei riscontri, delle conferme presso alcune persone residenti al Cairo, vicine al cardinale defunto, che lì era stato nunzio per anni» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).

Federica Orlandi. Anche lei, poco tempo prima della sparizione di Emanuela, venne avvicinata da un uomo che le propose di fare la comparsa in un film. Il 14/02/16 UCCR ha chiesto a Pietro Orlandi se quest’uomo assomigliava ad Accetti, ci ha risposto: «Fu svolta un’indagine, interrogata la persona, era uno che effettivamente cercava comparse».

 

6.3 Marco Accetti, il padre e i suoi familiari.

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Dopo aver parlato di massoneria, P2, di Licio Gelli e Ortolani occorre sottolineare che Marco Accetti è figlio di Aldo, schedato come iscritto nell’Archivio Giovanni Alliata di Montereale, fondata dal principe siciliano Giovanni Francesco Alliata di Montereale.

E’ possibile che Accetti abbia usato delle conoscenze del padre per entrare in certi ambienti? La madre di José, Maria Luisa Garramon, ha sostenuto che il padre «ha pagato sempre tutto», probabilmente riferendosi ai risarcimenti e alle spese legali sostenuti da Accetti.

In questo video viene accennato il legame tra Aldo Accetti e la massoneria.

Il particolare contrastante è che mentre il padre Aldo Accetti, Giovanni Francesco Alliata di Montereale, Licio Gelli e Ortolani erano esponenti della massoneria di destra, Marco Accetti ha sempre rivendicato la sua appartenenza a sinistra e alla fazione vaticana filo-sovietica. Ha quindi rinnegato le idee politiche del padre?

Ascoltato dagli inquirenti nel 2013, il padre e la sorella Laura Accetti, hanno testimoniato che Marco era stato particolarmente colpito dalla scomparsa della Orlandi, sorprendendolo a scrivere lettere anonime, fare telefonate e ritagliare articoli di cronaca fin dal 1983, giustificandosi con il fatto che lo faceva solo per gioco. Tale ossessione sarebbe stata oggetto anche di discussioni in famiglia544G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

Negli Atti si legge anche che Laura Accetti, psicologa e psicanalista, ha riferito anche una confidenza di Marco nel 1983 sul fatto che avrebbe saputo tutto della vicenda della Orlandi, in particolare del fatto che lei e la Gregori erano scappate all’estero. Inoltre, le avrebbe raccontato di aver predisposto delle lettere anonime e di aver chiesto a Eleonora Cecconi di spedirgliele da Boston, dove lei si recava spesso. Le avrebbe anche mostrato un flauto di plastica azzurro e un orologio affermando che glieli avrebbe dati la Orlandi545G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

La sorella non avrebbe dato peso a tutto questo ritenendole invenzioni, sensazione condivisa anche dalla madre Silvana Fassoni, anch’essa ascoltata dagli inquirenti. Sempre Laura Accetti ha infine aggiunto che nel 2012 le avrebbe confidato l’intenzione di volersi presentare in Procura per evitare di essere arrestato546G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

Dalle intercettazioni ai suoi familiari nelle telefonate tra loro, Marco Accetti viene ritenuto inattendibile e incline a inventarsi storie e situazioni particolari riferibili a Emanuela Orlandi per la quale, dice il padre Aldo Accetti, avrebbe una vera ossessione.

In una telefonata con un amico, il padre Aldo afferma: «Purtroppo Marco queste uscite sue, sparate, ce le ha da quando è venuto fuori il caso Orlandi…la vicenda dell’Orlandi, lui l’ha colpito questa faccenda, e scrive lettere anonime che lui sa tutto sulla Orlandi, sa questo, sa questo, sa questo…non tengono conto che queste qua sono farneticazioni…e allora si inventa le cose più strane…su questa storia sono vent’anni che va avanti…che scrive lettere…quel flauto è un pezzo di ferro che avrà trovato…infatti lo ha fatto ritrovare in questo capannone a Cinecittà dove lui va sempre a recuperare la roba…ma tu l’hai visto quanta roba ha portato lì?»547citato in G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

La sorella Laura, intercettata al telefono con un’amica, riguardo al fratello Marco afferma: «Stiamo parlando di una persona gravemente disturbata». Parlando con la madre, invece, dice: «E’ un circo, è un circo, non è possibile che non si siano resi conto che dice cavolate…il problema è un altro…ne parlavo oggi con Barnà anche lui dice che questi non vogliono la verità, questi vogliono il circo! La verità non gliene frega niente, l’importante è che ci mangino sopra…quella ci fa una trasmissione con quella intervista»548citata in G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

Per quanto riguarda la deposizione dell’ex moglie, Eleonora Cecconi, la donna ha sostenuto che dopo la fine del loro breve matrimonio (maggio 1982 – giugno 1983), Accetti le avrebbe detto che conosceva la Gregori e la Orlandi, e che avrebbe seguito quest’ultima il giorno prima della scomparsa dalla scuola di musica a casa. Avrebbe anche fatto telefonate relative al caso Orlandi da alcune cabine, senza precisarne il motivo. La Cecconi non ne avrebbe parlato con nessuno ritenendole frasi fatte per smanie di protagonismo549citata in G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

Pur confermando di essersi recata a Baston a trovare il fartello, ha escluso di aver inviato delle lettere per conto di Marco Accetti. La donna sarebbe infine stata dal reo-confesso poco prima della sua comparsa pubblica il quale, pensando che lei abitasse ancora a Roma, le avrebbe segnalato l’apertura di una palestra che sarebbe stata utile alla sorella disabile.

Nel 2013, pochi giorni dopo la comparsa di Accetti, le due lettere di cui abbiamo già parlato contenevano un’intimazione chiara: “Non cantino le due belle more per non apparire come la baronessa”. Ad esse era allegata la foto di un teschio umano con la scritta “Eleonora De Bernardi, Morta in Campagna, Lì 23 agosto 1854”. Il nome della Cecconi è proprio Eleonora.

In risposta a tali dichiarazioni, Marco Accetti precisò: «Quando mettevo al corrente alcune ragazze del mio coinvolgimento nel caso in oggetto, non era per una qualche ostentazione, ma per chiedere la collaborazione delle stesse. Alcune condivisero e parteciparono, altre come nel caso della mia parente dimostrarono un distacco, per il quale desistii dal raccontare oltre»550M. Accetti, Flauto dolce, 21/05/2015.

 

Nel 2013 gli inquirenti ascoltarono anche un’altra ex moglie, Ornella Carnazza, la quale ha ricordato a sua volta che Accetti le parlò della Orlandi. La donna non avrebbe dato peso pensando si trattasse di vanteria. Relativamente all’intercettazione del 1997 in cui la donna lo minacciò di rivelare il suo coinvolgimento con il caso Orlandi, ha invece detto di non ricordarne il contenuto («non ricordo la telefonata e non so dire a che cosa io mi riferissi con quelle espressioni»), nonostante le fosse stato letto il testo della telefonata551G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 46, 48.

 

Tre dei suoi famigliari hanno infine riferito la presenza di abusi sessuali nell’infanzia/adolescenza di Marco Accetti, in particolare:

  • La madre Silvana Fassoni ha riferito che quando si trovavano ancora in Libia, il figlio Marco fu quasi violentato da un lavorante della villa a fianco e che, Marco stesso le disse che alcuni suoi compagni dei collegi che frequentò furono oggetto di attenzioni omosessuali552G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47;
  • L’ex moglie Eleonora Cecconi ha riferito che Accetti le avrebbe raccontato di aver subito un atto di violenza sessuale in Libia (lo stesso riferito dalla madre) e di essere stato oggetto di attenzioni sessuali mentre frequentava il collegio553G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47;
  • L’ex fidanzata Patrizia De Benedetti ha riferito che Accetti stesso le avrebbe raccontato di essere stato oggetti di violenze sessuali mentre si trovava nel collegio in via Cassia554G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 48;

 

6.7 Marco Accetti e la morte di Catherine Skerl.

 

Catherine Skerl (detta Katy), 17 anni, fu trovata morta per strangolamento il 21 gennaio 1984 in un vigneto di Grottaferrata. Fu strangolata nella notte tra il 20 e il 21 gennaio con la cinghia del suo borsone, preparato per andare il giorno dopo sulla neve con l’amica Angela Liguori, con cui aveva appuntamento in via Tuscolana. Non subì violenza sessuale.

In quel periodo Marco Accetti si trovava agli arresti domiciliari per l’omicidio di José Garramon e quando venne a conoscenza della notizia sarebbe rimasto turbato in quanto «capii subito che l’omicidio era stato compiuto dalla fazione a noi opposta»555citato in F. Peronaci, Nel giallo due ragazze di nome Caterina: «Servivano a ricattare Marcinkus», Corriere della Sera, 27/11/2014.

La responsabilità sarebbe stata della fazione opposta alla sua (quella anticomunista) e lo avrebbe capito dal fatto che Katy frequentava una scuola non distante dal Convitto di Emanuela, era fortemente anticlericale e attivista comunista556F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, l’ultimo fidanzato di Katy Skerl: «Alla festa era tesa, scappò via. Poi scattò la trappola», Corriere della Sera, 13/04/2023, orientamento affine a quello della fazione accettiana, era figlia di Peter Skerl, regista di film ad alto contenuto erotico (codice della “pedofilia” di alcuni ecclesiastici)

Inoltre, la morte di Skerl sarebbe stata una “risposta” agli incontri di Accetti con altri giovani con lo scopo di operare ricatti verso la fazione opposta. Vediamo come:

  • Novembre 1983, Accetti e Ulrike avvicinano Stefano Coccia (12 anni)
  • 20 dicembre 1983, Accetti investe accidentalmente e uccide in circostanze non chiare José Garramon (12 anni)
  • 18 dicembre 1983, Accetti avvicina e conosce Caterina Gillespie (svizzera, bionda, 16 anni)
  • 21 gennaio 1984, viene trovata morta Catherine Skerl (serba, bionda, 17 anni appena compiuti)

Skerl aveva effettivamente lo stesso nome, età e colore dei capelli di Caterina Gillespie, entrambe straniere. «Sia il giovane Garramòn sia la Skerl ci apparvero due risposte al nostro aver coinvolto adolescenti affinché testimoniassero, seppur falsamente, contro membri dell’altra parte»557citato in F. Peronaci, Nel giallo due ragazze di nome Caterina: «Servivano a ricattare Marcinkus», Corriere della Sera, 27/11/2014, disse Accetti.

Ad ammazzare la Skerl, ha detto Accetti in un’altra occasione, «è stato qualche laico criminale legato al Vaticano, per interessi economici»558in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 160. Il motivo alla base di tutto sarebbero stati i soldi dell’Ambrosiano che lo Ior, con a capo Marcinkus, si rifiutava di consegnare.

La sua interpretazione sarebbe ulteriormente dimostrata dal fatto che proprio a Grottaferrata «avevano sede l’associazione Pro Fratribus di monsignor Hnilica, molto attiva nella raccolta di fondi in chiave anticomunista, e la villa dell’avvocato Ortolani, anche lui nostra controparte»559citato in F. Peronaci, Nel giallo due ragazze di nome Caterina: «Servivano a ricattare Marcinkus», Corriere della Sera, 27/11/2014.

Ricordiamo che nel 2013 due lettere anonime giunte alla sorella della Gregori e a una compagna di Emanuela recitavano così: «Non cantino le due belle more per non apparire come la baronessa e come il ventuno di gennaio martirio di Sant’Agnese con biondi capelli nella vigna del signore». Caterina Skerl aveva i capelli biondi come la Sant’Agnese della lettera. E proprio come nella lettera fu uccisa il 21 gennaio in una vigna.


 

Marco Accetti e la tomba vuota di Katy Skerl.

Nel settembre 2015 Marco Accetti ha rivelato dei particolari inediti riguardo a Catherine Skerl560M. Accetti, Cenotafio – Una eventuale tomba vuota, 08/09/2015.

Nel 2005 alcuni membri della fazione opposta alla sua, avendo appreso della sua intenzione a presentarsi in Procura, avrebbero temuto l’emergere dei nomi dei responsabili dell’omicidio di Catherine Skerl, per questo «si adoperarono a sottrarre uno degli elementi che poteva legare il caso della ragazza a quello delle Orlandi- Gregori».

Quando la Skerl fu deposta nella bara, infatti, una ragazza avrebbe assistito alla preparazione del feretro per «comprendere se la Skerl fosse persona conosciuta o meno dal nostro gruppo». La donna avrebbe visto un elemento addosso alla Skerl e il dettaglio venne «usato in un comunicato del 1984, ed attribuito alla Orlandi. Conosco il luogo romano dove tale bene è occultato, e lo potrei rivelare ai magistrati se mai manifestassero l’intenzione di apprenderlo»561M. Accetti, Cenotafio – Una eventuale tomba vuota, 08/09/2015, ha sostenuto Accetti.

Questo elemento sarebbe la camicetta bianca con cui fu vestita la salma, con l’etichetta riportante “Frattina 1982”, nome che effettivamente comparve nel comunicato del 22/11/84 del “Fronte Turkesh”: “Via Frattina 1982”562P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, pp. 122, 123.

«Per impossessarsi di tale elemento», ha proseguito Accetti, nel 2005 alcune persone avrebbero simulato di essere operai del cimitero, avrebbero smurato il fornetto della Skerl prelevando la bara come se si trattasse di una traslazione, lasciando all’interno della tomba un codice, ovvero «una maniglia che svitarono alla stessa cassa raffigurante un angelo».

Oltre a nascondere un elemento di collegamento tra la Skerl e la Orlandi, tra i motivi del trafugamento vi sarebbe stata anche l’intenzione di esercitare alcune pressioni.

L’avvocato di Accetti, Giovanni Luigi Guazzotti, presentò anche un esposto all’allora capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, chiedendo anche di stabilire la datazione dell’effrazione del loculo e periziare il materiale con cui fu richiuso nel 2005 il muretto interno e la lapide563F. Peronaci, Orlandi, esposto-denuncia a Pignatone sulla tomba di Katy Skerl, Corriere della Sera, 17/11/2015.

In una nostra intervista a Accetti nel febbraio 2016, il reo-confesso aggiunse che la camicia si sarebbe trovata «dentro Cinecittà, c’è una ricostruzione scenografica ed è messa là dentro. Quella della Skerl è una cosa grave, lì non c’è proprio più la cassa! Ci sono i segni sulla lapide perché, mi hanno riferito, si poteva soltanto rompere per togliere la cassa. E si vede che è stata rotta».

La scenografia in questione sarebbe quella del film “Habemus Papam” di Nanni Moretti, in alto, nel colonnato del Bernini. Tale scenografia in realtà non esiste più, ma avrebbe soggetti molto analoghi a quelli del film di Sorrentino.

A tale notizia vi sono state diverse reazioni sui social, Accetti ha indicato in particolare «un personaggio losco, molto losco, che tiene una pagina sulla Skerl, che fa di tutto per rendermi non credibile e che si è affrettato a dire “no, no, c’è stato un restauro”. Non è vero assolutamente, quando morì Wojtyla e quando mi dissero che era stata trafugata andai subito ed era così com’è. Va periziato il materiale con cui è stata chiusa e si vedrà che è di dieci anni fa. Lì dentro c’è solo una maniglia. E’ sparita una cassa, per farlo non si può scavalcare il muro ed è un’azione che non può essere quella di un mitomane: aprire un fornetto, richiuderlo e portarsi via la cassa. Sono le stesse persone che mandarono quelle lettere [nel 2013, NDA], che hanno fatto questo, persone con cui ho avuto anche contatti».

Nel luglio 2022, ben sette anni dopo l’esposto di Marco Accetti, gli inquirenti hanno effettivamente verificato che la tomba della Skerl era vuota. La lapide, posta nel Riquadro 115, n° 84, Fila 2 del cimitero monumentale Verano, è stata smurata e la cassa di legno è sparita. All’interno, come preannunciato da Accetti, è stata recuperata solo una maniglia d’ottone. Sul lato destro c’erano segni di effrazione e di intonacatura, come se qualcuno avesse smurato la lapide e poi l’avesse ricollocata al suo posto.

Sul caso è intervenuta anche Patrizia De Benedetti, ex fidanzata di Accetti e accusata più volte da lui di essere coinvolta nel caso Orlandi tramite la scrittura dei comunicati. Secondo la donna, la bara sarebbe stata rubata dallo stesso Accetti:

«Sono coinvolta emotivamente nella vicenda di Katy per il dispiacere che provo e che prova la cugina per quel trafugamento. Un trafugamento di bara che un mitomane millantatore ha causato. E se quel millantatore sapeva che la bara non c’era più nel fornetto c’è un’unica semplice e logica motivazione: come faceva il tizio a sapere che la bara non c’era più? Chi l’ha rubata quella bara?»564P. De Benedetti, Dichiarazione su Facebook, 03/07/2023.

 

Intervistato in merito alla scoperta, Accetti ha risposto: «C’è chi pensa che io, proprio io che ho denunciato il furto della bara, sia lo stesso che l’abbia fatta sparire. Impossibile, sarebbero servite altre 2 o 3 persone. Altri 2 o 3 mitomani, dei maniaci».

L’uomo aggiunse anche ulteriori dettagli: «La bara è stata portata via di mattina, alle prime luci dell’alba, quando non ci sono visitatori. È stata portata in un altro luogo pubblico, un luogo consono. La maniglia? Lo avevo detto. Il maglione? So dov’è. Ma non dirò più niente. So in quale posto portarono il feretro nel 2005. Ma ormai è troppo tardi. Facciamo che sia stato solo un sogno. Se sono soddisfatto per aver avuto ragione? No, nessuna. Ora sul serio. Non aggiungerò altro. È troppo tardi, quel treno ormai è passato»565citato in B. Tominic, La sparizione della bara di Katty Skerl e i presunti collegamenti con il caso di Emanuela Orlandi, Fanpage, 22/07/2022.

L’1 agosto 2022, un mese dopo il ritrovamento del loculo vuoto della Skerl, proprio negli studi di Cinecittà è divampato un incendio. La notte seguente Accetti ha pubblicato un messaggio sui social: «La scenografia in questione, che rappresentava la facciata della basilica, non è stata mai smontata, ed oggi è incendiata»566citato in G. Zanotti, Katy Skerl e l’incendio a Cinecittà per nascondere altri misteri?, Nuova Società, 02/08/2022.


 

Katy Skerl e la telefonata al fidanzato.

Nel 2023 il fidanzatino dell’epoca di Katy Skerl, Francesco Morini, ha ricordato che il giorno della scomparsa vide la giovane «tesa, nervosa, un po’ assente. Attorno alle 18.30 mi disse che doveva andarsene, per dormire dalla sua amica Angela, con la quale il giorno dopo aveva programmato una gita sulla neve, a Campo Felice. Infatti aveva con sé un grande borsone. Fu categorica: io provai a insistere per accompagnarla, mi preoccupavo perché era già buio, ma lei continuava a ripetere “no, voglio andare da sola”. Mi ingelosii, sospettai di un altro ragazzo. Esserci lasciati male, dopo una discussione, è ancora un mio grande cruccio»567F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, l’ultimo fidanzato di Katy Skerl: «Alla festa era tesa, scappò via. Poi scattò la trappola», Corriere della Sera, 13/04/2023.

«Tanta insistenza nel voler andare via da sola», ha riflettuto l’ex fidanzato, «può dimostrare che aveva un appuntamento con colui che poi si è rivelato l’assassino, o con qualcuno che la consegnò al killer. Il fatto che fu strangolata ma non sottoposta a violenza sessuale mi porta a escludere l’ipotesi del maniaco»568F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, l’ultimo fidanzato di Katy Skerl: «Alla festa era tesa, scappò via. Poi scattò la trappola», Corriere della Sera, 13/04/2023.

Quella stessa notte del 21/01, quando ancora Morini non era a conoscenza della morte della Skerl, avrebbe ricevuto una telefonata a casa sua a cui rispose la madre. Una volta riattaccata la cornetta, la donna disse a Morini: «Era una ragazza che chiedeva aiuto, si sarà sbagliata».

Considerando che la morte della Skerl è stata collocata tra le 21 e le 22, mentre la telefonata risale all’1 di notte, «o i medici legali hanno sbagliato nel collocare l’ora della morte a fine serata del sabato, ma mi pare difficile; oppure quella telefonata è stata fatta volontariamente, con l’obiettivo di depistare, di far pensare che Katy era ancora viva e non già morta strangolata nella vigna»569F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, l’ultimo fidanzato di Katy Skerl: «Alla festa era tesa, scappò via. Poi scattò la trappola», Corriere della Sera, 13/04/2023.


 

Katy Skerl e la compagna figlia del complice di Agca.

Alla fine degli arresti domiciliari nel 1986, Accetti si sarebbe recato al liceo frequentato dalla Skerl e avrebbe conosciuto Ligeia Studer, una compagna di scuola. «Tra noi nacque anche una storia d’amore, durata tre mesi»570in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 160.

Tale relazione avrebbe avuto come scopo quello di far credere alla controparte vaticana che la Studer avesse rivelato notizie sull’accaduto alla Skerl, tuttavia «loro non abboccarono». Ligeia Studer sarebbe stata «scelta per ulteriori somiglianze, quali l’altezza, il colore dei capelli, simili alle “altre Catherine”. Inoltre frequentava una scuola di danza, come la Catherina Gillespie»571M. Accetti, Punto 5 (indizi e prove) – Catherine, 11/01/2014.

Nel 2014 è emerso un singolare legame tra la Skerl e l’attentato di Agca, probabilmente fortuito.

Una compagna di classe della Skerl, interrogata dal giornalista Fabrizio Peronaci, si ricordò che un’altra compagna della stessa classe era Snejna Vassilev, figlia di Zhelio Vassilev, funzionario dell’ambasciata poi a processo come complice di Alì Agca. Snejna, subito dopo l’attentato al Papa, rientrò in patria con la famiglia mentre Vassilev venne assolto, come gli altri bulgari sospettati di complicità con Agca572F. Peronaci, Katy Skerl, la svolta 30 anni dopo. Spunta la pista bulgara: uccisa per «vendetta», Corriere della Sera, 20/01/2014.

Prima che l’articolo uscisse, Peronaci chiese a Accetti, stando attento a non instradarlo nella risposta, se ricordasse un profilo particolare tra le compagne della Skerl. L’uomo lo sapeva già: «Si, la bulgara che stava in classe della Skerl, non ricordo se era figlia di Antonov o di Vassilev. L’ho saputo in carcere, dall’idealista turco con cui dividevo la cella»573in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 160, ovvero Musa Serdar Celebi.


 

La nonna di Katy Skerl testimone oculare dell’omicidio di Aldo Moro.

Nel 2023 il giornalista Fabrizio Peronaci ha reso pubblica una vecchia pista, poi abbandonata per mancanza di prove, sull’indagine di Emanuela Orlandi la quale ravvisava analogie tra i messaggi dei sequestratori della cittadina vaticana, l'”Amerikano” e il “Fronte Turkesh”, e quelli dei brigatisti che rapirono Aldo Moro (1978). Un certo uso del gerundio, il ritmo sincopato, alcune locuzioni574F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, spunta il caso Moro: la nonna di Katy Skerl fu testimone in via Fani, Corriere della Sera, 03/07/2023.

Già nel 1983, l’agenzia Ansa rilevò un’assonanza tra il comunicato del 20/7/83 dell'”Amerikano” e il linguaggio brigatista: «Il gerundio usato nella seconda parte del messaggio (“pervenendo alla soppressione del 20 luglio”) è significativo e ha un precedente nel comunicato n. 9 delle Brigate rosse (“eseguendo la sentenza”), diffuso durante il sequestro Moro»575F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, spunta il caso Moro: la nonna di Katy Skerl fu testimone in via Fani, Corriere della Sera, 03/07/2023.

Una seconda assonanza è una locuzione famosa ai tempi del sequestro Moro, riproposta più volte dai rapitori di Emanuela: «La nota personalità». Nel 1978 divenne di dominio pubblico quando con tale frase la polizia confermò il corpo di Moro al ministro dell’Interno Francesco Cossiga. 7 anni dopo, i registi dell’azione Orlandi-Gregori inserirono più volte la locuzione “nota personalità” nelle rivendicazioni firmate “Fronte Turkesh”576Komunicato XXX, 27/11/1985 577Messaggio del 3/12/1985.

Tra i registi dell’operazione-Orlandi avrebbe potuto esserci un’ammiratore o un emulatore delle Brigate rosse? Oppure un terrorista rosso in persona?

Un’apparente conferma del legame tra Orlandi e Moro sarebbe proprio Katy Skerl, si è scoperto578F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, spunta il caso Moro: la nonna di Katy Skerl fu testimone in via Fani, Corriere della Sera, 03/07/2023 infatti che la nonna paterna Eleonora Skerl fu testimone oculare del rapimento di Aldo Moro579Verbale di polizia, 16/03/1978. Il 16/03/1978 era affacciata al suo appartamento di via Stresa 96, all’angolo di via Fani, e vide i brigatisti uccidere Moro e la sua scorta e poi scappare su due auto diverse.

La morte di Katy Skerl, giovane comunista, sarebbe quindi legata a Emanuela Orlandi (tramite Marco Accetti), all’attentato al Papa (tramite compagna di classe, figlia di un presunto complice di Agca) e al caso Moro (la nonna paterna testimone oculare).

Semplici coincidenze e suggestioni?


 

Marco Accetti e il caso di Alì Estermann.

Il 21/03/1999 Marco Accetti è apparso per la prima (e ultima) volta in televisione partecipando ad una puntata di “Domenica In” nell’occasione di una gara di sosia, imitando Roberto Benigni e vincendo la competizione. Nell’occasione si fece chiamare Alì Estermann580G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

Sempre agli Atti è segnalato che a seguito della trasmissione si recò negli Stati Uniti venendo arrestato in quanto si spacciò come il vero Benigni581G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

Marco Accetti ha fornito una spiegazione a questo sostenendo che nel 1998 e nel 1999 avrebbe ricevuto delle minacce telefoniche da parte di una persona riconosciuta vicina agli ambienti di monsignor Bruno della diocesi di New York (la fazione vaticana opposta alla sua). Tale individuo avrebbe preteso la restituzione di materiale fotografico che lo avrebbe ritratto durante determinate azioni negli anni precedenti e che Accetti lo avrebbe seppellito nel 1983 nei pressi di Santa Maria di Galeria582in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 169. Secondo Accetti, l’uomo potrebbe essere anche l’autore delle due lettere ricevute dalla Monzi e dalla sorella di Mirella nel 2013 (“Non cantino le due belle more”).

Il posto non si sarebbe trovato nella cittadina moderna, ma nell’Antica Galeria, un sito archeologico medievale: «Ricordo che c’erano degli anfratti, delle cavernette, dove nascondemmo alcune scatole metalliche», contenevano «documenti, atti, carte compromettenti su qualche prelato. Ma niente di speciale. Basta, c’è il riserbo istruttorio»583in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 169.

Nella stessa località, Accetti si sarebbe nuovamente recato nel 1986 con uno dei due idealisti turchi, presenti nel processo per l’attentato»584M. Accetti, Devianza e manipolazione Rai. – Prima presentazione., 06/06/2013. Si riferisce a Musa Serdar Celebi. A conferma di ciò ha chiesto alla magistratura di rintracciare il turco, «non deve essere difficile, vive ancora a Francoforte»585in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 169.

Oltre a quanto rilevato dagli inquirenti, avrebbe anche chiamato la trasmissione “Chi l’ha visto?” imitando il modo di parlare del prelato americano586M. Accetti, Devianza e manipolazione Rai. – Prima presentazione., 06/06/2013.

Per quanto riguarda il nomignolo utilizzato a “Domenica In” (Alì Estermann), avrebbe significato questo: «Era un modo di intimidire occultamente, attraverso la sintesi tra colui che spara, Agca, e colui che muore, il comandante delle guardie svizzere. Mi recai in New York dove cercai di far pressioni nell’ambiente della suddetta diocesi e presso alcune conoscenze di Mons. Cheli, spacciandomi direttamente per l’attore in questione, affinché l’interesse della stampa locale ed italiana avrebbe ancor più accentuato le stesse pressioni»587M. Accetti, Devianza e manipolazione Rai. – Prima presentazione., 06/06/2013.

 

Alessia Rosati. Nel 2015, dopo l’archiviazione del caso, ha fatto emergere la vicenda di Alessia Rosati, ragazzina scomparsa il https://www.uccronline.it/2013/09/23/emanuela-orlandi-analisi-di-tutte-le-ipotesi-di-soluzione-del-caso/#rosaticon lo scopo di denunciare l’irresponsabilità della Procura nell’aver preso questa scelta senza indagare. Ha collegato la misteriosa sparizione della Rosati alle turbative che investirono nel 1993 il Servizio per le informazioni e la sicurezza (Sisde), per le quali si necessitava di operare pressioni verso alcuni membri: «e secondo uno dei nostri moduli di operare, abbisognavamo di una ragazza con estrazione di sinistra, per chiederle di collaborare nell’esercizio di queste pressioni». MFA avrebbe così individuato nel centro sociale “Hai visto Quinto?” la 21enne Alessai Rosati (che aveva contatti assidui con esponenti di Autonomia operaia, nella sede di via dei Volsci), approcciandola tramite l’invito a partecipare ad un lungometraggio: «essendo questa una maggiorenne, a differenza delle precedenti ragazze, le dissi il mio nome reale e le fornii il numero di telefono. Questo alla presenza di una sua amica, che se rintracciata non può che confermare».

La Rosati, scrive MFA, «era solita trovarsi in un piazzale situato al termine di via Val Padana, sedersi su quelle panchine e frequentare il centro sociale posto nello stesso slargo. Questo era anche il luogo dove ci conoscemmo ed apparentemente scomparì. Su questa scena si apriva il portone di una delle abitazioni in cui ho vissuto con la mia compagna di venti anni, la stessa ragazza che poco tempo dopo sarà intercettata mentre telefonicamente nominava l’ Emanuela Orlandi». Ovvero Ornella Carnazza. In seguito MFA le avrebbe rivelato il progetto che sarebbe dovuto durare pochi giorni: esercitare pressioni contro alcuni elementi del Sisde, coinvolti nello scandalo dei fondi neri scoppiato l’anno precedente, facendo balenare un loro possibile coinvolgimento nella sparizione della ragazza. Il suo allontanamento da casa, scrive l’uomo, fu «spiegato da una lettera fatta pervenire alla stessa amica che fu presente nel momento in cui non fece ritorno presso la sua famiglia», un desdierio di libertà -come nelle prime telefonate per la Orlandi- e la presenza di un ragazzo, come per la Gregori-. E, come fu per ambedue, la presenza di un’amica negli ultimi momenti che ne precedevano la scomparsa. La Rosati scomparve il 23 luglio 1994, giorno sarebbe dovuta partire per un viaggio in Umbria assieme ai genitori. «Alessia Rosati si prestò al nostro piano», dice MFA, «tanto che nei primi giorni dormì da me, in via Val Padana, dove vivevo con la mia compagna, e frequentò il mio studio fotografico, in via Chisimaio. Giravamo con una A112 e su un motorino, adottando alcuni accorgimenti per evitare che i familiari la riconoscessero, nel caso li avesse incrociati per strada». Inoltre, prosegue, «continuammo ad incontrare vari compagni [del comunismo romano, nda] del mio e del suo ambiente. Faccio appello a costoro a presentarsi alle autorità e confermare». Tuttavia dopo circa dieci giorni la ragazza «non fece ritorno al mio studio fotografico dove risiedeva. Alcune persone che la conoscevano e con noi collaborarono, improvvisamente si negarono come intimoriti». Alessia Rosati scomparve davvero. Precisato meglio: «Da un giorno all’altro Alessia non tornò. Ricordo che la aspettai invano una sera, proprio in via Chisimaio. Tentai di informarmi con i compagni che erano al corrente dell’azione, ma si volatizzarono, nessuno ne volle sapere più nulla». Ovvero, secondo MFA, venne realmente rapita.

C’è tuttavia una contraddizione nel racconto di MFA: in un articolo sostiene che a scrivere all’amica sarebbero stati i rapitori: «ho sempre pensato che i responsabili di tale scomparsa abbiano scelto come destinataria della lettera proprio tale amica, per farci comprendere che sapevano di quel nostro primo incontro», sospettando che gli autori della scomparsa siano gli stessi omicidi della Skerl. In un secondo articolo, invece sostiene di aver invitato lui a inviare la lettera: «Insieme ad Alessia ed altri, concordammo il suo andarsene di casa, spiegato da una lettera fatta pervenire alla stessa amica che fu presente nel momento in cui non fece ritorno presso la sua famiglia».

La lettera, scritta certamente da Alessia e spedita da Roma, contiene un errore abbastanza clamoroso: Alessia scrive all’amica: «lunedì sarei dovuta anche partire per andare in quel paese di merda e tu sai quanto lo odio…». Invece la partenza era prevista per sabato pomeriggio, non per lunedì. Lapsus o errore voluto? A noi sembra più quest’ultimo, dato che nel finale della lettera “l’errore” viene ribadito, quasi a sottolinearlo: «Mi dispiace che non ci vediamo, ma tanto sarebbe rimasta solo domenica». La madre di Alessia ha anche rivelato: «Fummo io e mio marito a scoprire che l’amica di Alessia aveva mentito. Mise a verbale di averla salutata alle 12.45 e non che passò pure lei da casa nostra, dove non c’era nessuno. Fu una vicina, che la incrociò con mia figlia nel palazzo, a raccontarcelo. Ma perché Claudia disse una menzogna? Intendeva coprire Alessia? Cosa voleva nasconderci? Ricordo che nelle prime concitate ore, quando proposi all’amica di Alessia di cercarla in via dei Volsci, dove c’era Radio Onda Rossa, lei insistette perché non andassi. Fu molto decisa. “Vado io, voi girate nel quartiere”. Un comportamento strano ». Hanno anche aggiunto: «In effetti nei giorni successivi al mancato ritorno a casa ci giunse voce che Alessia era stata vista in zona».

Il 31 ottobre 2015 MFA ha lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica della famiglia Rosati, dicendo loro di essere un conoscente di Alessia e di avere notizie da produrre, chiedendo di essere richiamato. La famiglia non lo ha richiamato ma ha portato il nastro registrato alla trasmissione “Chi l’ha visto?” che lo ha mandato in onda senza però dare molta credibilità a MFA. Il quale commenta: «Il paradosso è che quando inquadrano il luogo dove la ragazza è scomparsa, appare proprio il portone della mia abitazione di allora». MFA invita a rintracciare l’amica, il nome è Claudia, e l’agenda telefonica della Rosati sulla quale sarebbe appuntato il suo numero telefonico. Aggiungendo: «Alcune persone degli ambienti del comunismo romano di quel periodo conoscono l’accaduto», invitando più volte ad indagare in tal senso.

Sosia della Orlandi. Una volta uscito di prigione, MFA ha proseguito la sua attività. Nonostante, come dice, non sapesse nulla sulla sorte della Orlandi e della Gregori (se non che erano all’estero), nel 1987-1988 usò delle sosia die Emanuela con lo scopo, ha scritto di esercitare pressioni perché Thomas Macioce non diventasse presidente dello IOR (poiché avrebbe proseguito l’operato di Marcinkus).

Una di queste sosia della Orlandi, Flaminia Cruciani, venne portata nel maggio 1987 ad un convegno nella sala del Campidoglio, evento frequentato «da molti esponenti legati alla società sportiva di calcio Lazio, tra cui mio zio Agostino D’Angelo, che della stessa società fu un alto dirigente». Lo scopo era proporre alla controparte, in cambio della rinuncia di Macioce, di far testimoniare la Orlandi che la sua sparizione non riguardava il Vaticano ma la malavita romana, «inerente a certi infinitesimali ambienti della società Lazio». Per questo la sosia venne fotografata «con determinati personaggi presenti, e le stesse immagini poi prodotte a chi di dovere». Curioso che lo zio di MFA fosse legato alla Lazio considerando il comunicato del 17/11/83 in cui si chiamava in causa proprio un calciatore di questa società calcistica.

Un’altra, Priscilla Morini, effettivamente molto somigliante ad Emanuela, venne fotografata nel 1988 davanti al collegio San Giuseppe Istituto De Merode, accanto alla Maison delle Sorelle Fontana. «Vi era il processo d’appello del cosiddetto attentato al Papa, per cui la stessa fu fotografata in un locale ubicato in una traversa di via Veneto, a ricordare l’agenzia di stato bulgara Balkan Air, nella quale operava il Dot. Sergej Antonov». La Morini è stata interrogata in Procura confermando di aver incontrato MFA in quel periodo e confermando i luoghi in cui l’uomo ha detto di averla fotografata.

In ultimo, nel 1993, un’ulteriore controfigura della Orlandi, Ornella Carnazza, compagna di Accetti dal 1990 al 1996, «fu adoperata in quanto vi era in atto il coinvolgimento dell’allora sovrastante Bonarelli. Nell’impiego di tale ultima ragazza vi fu anche il contrastare un personaggio del Servizio d’Informazioni della Sicurezza Democratica (Sisde) che, nei nostri sospetti, poteva aver operato, per quanto riguarda il coinvolgimento del giovane Josè Garramòn. lcune fotografie furono eseguite presso l’istituto St. George’s, frequentato nel 1983 dal ragazzino. Il momento era propizio in quanto in quei mesi il Sisde era esposto a
un’inchiesta giudiziaria, con gravi accuse ad alti dirigenti, e ciò lo rendeva fragile di fronte a eventuali pressioni»
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Iva Skybova. Alla domanda del giornalista Fabrizio Peronaci se oltre alla ragazza tedesca Ulrike, ci sono state altre complici straniere, MFA ha risposto: «Ehm, una cecoslovacca. La agganciai in piazza San Pietro, Iva Skybova. Era bionda, aveva 1 8 anni, ma ne dimostrava molti meno. Pochi mesi dopo la morte di Oddi, la portai con me in Egitto, nel gennaio 2002, per fare alcune operazioni. Diciamo dei riscontri, delle conferme presso alcune persone residenti al Cairo, vicine al cardinale defunto, che lì era stato nunzio per anni» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).

Federica Orlandi. Anche lei, poco tempo prima della sparizione di Emanuela, venne avvicinata da un uomo che le propose di fare la comparsa in un film. Il 14/02/16 UCCR ha chiesto a Pietro Orlandi se quest’uomo assomigliava ad Accetti, ci ha risposto: «Fu svolta un’indagine, interrogata la persona, era uno che effettivamente cercava comparse».

 

6.8 Il caso Orlandi e i continui riferimenti a Fatima.

Il 13-5-1917 a Fatima si verificò l’inizio delle apparizioni della Madonna a tra bambini, Lucia (10 anni), Jacinta (7 anni) e Francisco (9 anni).

Nel 1944, la veggente Lucia consegnò a Pio XII il testo di un messaggio segreto ricevuto da Maria (i famosi “segreti di Fatima) e, in particolare il terzo segreto (o terza parte del messaggio unico) avrebbe dovuto essere letto e rivelato solo nel 1960. Tuttavia, sia Giovanni XXIII nel 1959, che Paolo VI nel 1965 lessero il testo ma non ritennero opportuno rivelarlo, fu Giovanni Paolo II nel 2000 a divulgarne il contenuto.

Il Terzo Segreto di Fatima riferiva la visione di un vescovo vestito di bianco, presumibilmente il Papa, insieme a vari religiosi salire una montagna ripida, attraversando una città in rovina e giungendo in cima, dove si trovava una grande Croce di tronchi grezzi, ai cui piedi Si prostrò. Venne però ucciso -assieme a tutti i religiosi e i laici presenti- da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce. Sotto le braccia della Croce c’erano due Angeli ognuno con un innaffiatoio di cristallo nella mano, nei quali raccoglievano il sangue dei Martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavano a Dio.

Cosa c’entra Fatima con il caso Orlandi?

Apparentemente nulla, tuttavia dal giorno della sparizione (23/06/1983) fino a oggi, i riferimenti ai numeri 13 (o solamente 3) – 5 – 17 (o solamente 7) sono stati onnipresenti.

Innanzitutto occorre ricordare che l’attentato a Giovanni Paolo II avvenne proprio nell’anniversario di Fatima, il 13-5-1981, colpito da Alì Agca, la cui sorella si chiama Fatma (per il misterioso caso del destino, la donna che bloccò Agca subito dopo aver sparato e gli impedì di esplodere altri colpi si chiamava suor Letizia, il cui nome secolare era Lucia Giudici).

Il più conosciuto possibile riferimento del caso Orlandi a Fatima fu la cifra totalmente sproporzionata che Emanuela riferì alla sorella a poche ore dalla scomparsa, sostenendo che gliele avrebbe offerte un uomo della Avon per distribuire volantini in una sfilata. Si trattava di 375.000 lire.

Il 10/8/83 in una lettera sgrammaticata giunta all’Ansa il “Fronte Turkesh” ribadì la liberazione di Agca e l’intervento del Papa in suo favore in cambio di Emanuela. Fu quindi aggiunta una serie di numero, 17-13-17 seguiti da XXX. Cifre allora completamente incomprensibili da chiunque.

 

6.8 Marco Accetti e le conclusioni dei magistrati nel 2015.

Il 30 settembre 2015 la Procura ha archiviato il caso sentenziando che «la personalità di Accetti è caratterizzata da smania di protagonismo e di pubblicizzazione della propria immagine, con una spasmodica ricerca di accesso ai media e della loro costante attenzione»588G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 50.

I magistrati hanno quindi scritto:

«E’ nell’ambito di tale personalità che vanno inquadrate e spiegate le iniziali dichiarazioni spontanee, che vanno inquadrati e spiegati gli interrogatori assistiti e gli appunti allegati, la ricostruzione delle sparizioni di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, il contesto nel quale dette sparizioni vengono inserite, infine il ruolo che gli si attribuisce, tutti elementi (fantasiosamente) costruiti su dati di fatto a lui decisamente noti, che però in concreto -per una sua scelta consapevole- non hanno consentito e non consentono riscontri che corroborino le vicende raccontate, sia perché non vi è una concreta individuazione delle persone che sarebbero state protagoniste della vicenda ed avrebbero agito assieme a lui, sia perché i limitati approfondimenti investigativi praticabili hanno avuto esito negativo. Il riferimento è al flauto e al ruolo di telefonista che egli si è attribuito»589G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 50.

Secondo la Procura, l’opinione dei genitori e della sorella confermano questa tesi590G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 50.

Gli inquirenti riconoscono però «che la profonda conoscenza dei fatti dimostrata sembra andare oltre quella che può avere un semplice appassionato del caso. Ed è anche vero che i familiari e la ex moglie Eleonora Cecconi hanno riferito che fin da subito Accetti si sia interessato al caso Orlandi, avendolo mentre scriveva lettere ed effettuava telefonate anonime in merito, dimostrando quindi un forte coinvolgimento emotivo con il caso. E tuttavia, non vi è alcun serio riscontro probatorio che le lettere e le telefonate siano quelle effettivamente pervenute alla famiglia Orlandi, alla famiglia Gregori, allo studio dell’avvocato Egidio e al Vaticano»591G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 50.

Come spiegare però la approfondita conoscenza della vicenda da parte di Accetti? La Procura rispose così:

«Si spiega del tutto verosimilmente per essere stato l’Accetti molto vicino alle carte del caso Orlandi e alle numerose pubblicazioni esistenti sull’argomento, dimostrando di aver esaminato in modo puntuale e dettagliato quanto è stato pubblicato negli anni, soprattutto degli atti processuali del vecchio processo. E ciò riceve conferma dalla circostanza secondo la quale costui è stato in grado di fornire indicazioni precise sul contenuto di gran parte delle telefonate effettuate con l’indicazione addirittura delle cabine dalle quali sono state fatte, indicazioni presenti negli atti dell’istruttoria formale e quindi a conoscenza delle parti fin dal 1997, mentre ha dimostrato di conoscere poco e ha fornito indicazioni assai meno precise su particolari che non sono stati oggetto di pubblicazioni»592G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 51.

La Procura non ritenne rilevante nemmeno l’intercettazione tra lui e la Carnazza, tenendo anche conto che «lo stesso indagato apostrofa l’interlocutrice come “pazza”, qualificando come farneticante quanto da lei minacciato»593G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 51.

La conclusione ufficiale dei magistrati è che la vicenda descritta da Marco Accetti va ritenuta «frutto di un lavoro di sceneggiatura scaturito dallo studio attento di atti e informazioni scaturite negli anni da parte di un soggetto con spiccate smanie di protagonismo»594G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 51.

La magistratura è arrivata a queste conclusioni dopo un lungo periodo di indagine, tuttavia il profilo di folle mitomane da loro descritto difficilmente combacia con il comportamento e l’attitudine di Marco Accetti. Se davvero il reo-confesso avesse vissuto oltre trent’anni di vita ossessionato del solo caso Orlandi (solo quello?), studiando ogni dettaglio e costruendo anno dopo anno un racconto complesso in cui collegare tra loro in maniera piuttosto geniale diversi casi tra loro indipendenti (Orlandi, Gregori, Rosati, Skerl, Diener, Agca, Bonarelli ecc.) non sarebbe un semplice mitomane ma una persona totalmente disturbata, impossibilitata a una normale vita sociale.

Gli stessi inquirenti hanno attestato la presenza di vari mitomani e persone ossessionate dal caso Orlandi, come Giorgio Malpetti e Luca Bianchi. In entrambi i casi, i loro disturbi psichiatrici si palesarono istantaneamente tanto che non furono nemmeno iniziate delle indagini nei loro confronti595G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 52. 55.

Al contrario, Marco Accetti oltre alla “smania di protagonismo” non ha manifestato particolari disturbi agli occhi degli inquirenti. Non solo è stato ascoltato numerosissime volte, non solo ha prodotto un racconto complesso e stratificato, a tratti inverosimile, ma lo ha fatto mantenendo una certa coerenza, logica e razionalità. Lo si evince anche nelle risposte più che opportune e contestualizzate che ha offerto nel corso degli anni a chi dubitava della sua partecipazione. Senza contare, come abbiamo già notato, tutte le coincidenze biografiche che nessun altro mitomane avrebbe potuto dimostrare di avere.

 

I PUNTI FORTI DELLA TESI DI MARCO FASSONI ACCETTI

1) Racconto organico: al di là della verità o meno, per la prima volta dalla scomparsa delle due ragazze viene presentata una ricostruzione sensata in linea generale, un racconto organico che fa luce sui tanti aspetti misteriosi e mai capiti, dando soluzioni verosimili (credibili è una parola troppo impegnativa), sulle quali hanno lavorato inutilmente decine di investigatori in decine di anni. Una stratificazioni di obiettivi, di messeinscena, un “gioco” finito però male, con la sparizione reale delle due ragazze. Anche il senso dell’immenso sforzo di depistaggio ha avuto luce: non si è voluto tanto coprire due probabili omicidi (o sparizioni), ma un’intensa e nascosta attività ricattatoria ai danni del Vaticano e dello Stato italiano da parte della malavita organizzata, servizi segreti deviati e ideologhi di varie estrazioni. Il racconto di MFA illumina il caso Orlandi-Gregori, il caso Garramon, il caso di Caterina Skerl e il caso di Alessia Rosati. La conoscenza dettagliata di MFA di eventi risalenti a decine di anni fa Sarebbe tutto il frutto di un decennale lavoro di archiviazione e studio da parte di MFA? L’obiezione è valida, lo vedremo più sotto, tuttavia è riuscito a spiegare in modo inedito e covincente eventi misteriosi, come mai nessun inquirente e/o giornalista ha mai fatto. Inoltre l’ipotesi del “finto sequestro” non è così peregrina se si pensa che emerse nella requisitoria del 5/08/97 da parte del procuratore generale Giovanni Malerba, il quale avvalorò l’ipotesi di un allontanamento volontario di Emanuela e Mirella, ingannate dai sequestratori, e un successivo allontanamento contro la loro volontà.

 

2) Collegamento date Agca-Orlandi-Garramon.
-Il 22 giugno 1983 sparisce Emanuela Orlandi.
-Il 25 giugno 1983 (tre giorno dopo) appare inspiegabilmente su Il Tempo una lettera inviata nel settembre 1983 (nove mesi prima) da Agca al card. Oddi, nel quale il turco si dichiara pentito e dice di aspettare una risposta dal Vaticano (MFA sostiene che fu la sua fazione a far uscire questo articolo, un messaggio per Agca per dirgli che la promessa fattagli due anni prima era stata mantenuta, il rapimento di una cittadina vaticana, e ora toccava a lui contraccambiare inficiando il processo).
-Il 29 giugno 1983 (una settimana dopo la sparizione di Emanuela e quattro giorni dopo l’articolo su Il Tempo), Agca ritratta improvvisamente (come riportano le cronache di allora) le sue accuse di complicità nell’attentato al Papa, inficiando il processo. Collaborava dal dicembre 1981.
-Il 27 novembre 1983 compare il comunicato “Phoenix” che minaccia i telefonisti citando la “pineta”.
-Fine novembre 1983 MFA ferma nei pressi del numero 351 di corso Vittorio Emanuele II, dove ha la gioielleria il padre, il dodicenne Stefano Coccia, come ha confermato quest’ultimo ai magistrati. Corso Vittorio Emanuele II 351 si trova a qualche metro di distanza da Ponte Vittorio Emanuele, citato -tra tutte le vie e i ponti di Roma- dal secondo telefonista che ha chiamato casa Orlandi, “Mario”. Convitto nazionale Vittorio Emanuele II è anche il nome della scuola che frequentava Emanuela Orlandi al momento della sparizione.
-Il 20-21 dicembre 1983 (un mese dopo) MFA viene coinvolto in un misterioso incidente investendo il dodicenne (stessa età di Coccia) José Garramon proprio nei pressi di una pineta, frequentante lo stesso istituto frequentato in passato da MFA. L’incidente avviene vicino al luogo dell’incidente abitava il giudice Severino Santiapichi, che avrebbe presieduto la Corte d’Assise sull’attentato al Papa da parte di Agca e, altra coincidenza.
-Il 21 dicembre 1983, il giorno dopo l’incidente (come ha fatto notare MFA), ottenne gli arresti domiciliari Sergej Antonov, uno dei bulgari accusati da Agca (MFA sostiene che il giorno dopo sul giornale “l’Unità” gli articoli riportanti il fatto della pineta e l’uscita di Antonov appariranno pubblicati nella stessa pagina, in realtà uscirono il 22 dicembre 1983 e non sulla stessa pagina, ma uno a pag. 3 e l’altro pag. 14. Un errore che non avrebbe fatto un archiviatore seriale di notizie secondo le accuse che gli vengono rivolte).


 

Le intercettazioni.

In tempi non sospetti, in un’intercettazione telefonica del 04/04/1997 tra Accetti e l’ex compagna, Ornella Carnazza.

Negli atti si legge che a seguito di una discussione animata riguardante l’affidamento della figlia Daphne, l’ex compagna gli rese noto di avere il telefono sotto controllo e lo minacciò di raccontare per telefono alcune circostanze riguardanti Emanuela Orlandi596G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.

Ecco le testuali parole di Ornella Carnazza: «Il mio telefono l’hanno messo sotto controllo. E adesso io comincerò a raccontare per telefono tutte le cose di una certa ragazza…di tutte le cose che tu hai fatto con questa ragazza…Emanuela, chi è Emanuela? Io continuo a dire i nomi per telefono se tu non mi fai parlare…allora parliamo di Emanuela Orlandi e di quello che vuoi fare con lei?». Accetti sembrò imbarazzato, cercando di interrompere la donna.

In una seconda telefonata, poco distante dalla prima, la scena si ripeté: la donna, venendo interrotta, tornò a dire: «E allora parliamo di Emanuela….se tu cominci a fare i ricatti io divento più bastarda di te, sai dove vado..ti rovino a te e tutto quanto….».

Nel seguente video la ricostruzione della telefonata presa dagli Atti della Procura:

 

Ornella Carnazza, interrogata nel 2013, ha riferito di ricordare che Accetti le parlò della Orlandi all’inizio della loro relazione ma disse di non ricordarne il contenuto («non ricordo la telefonata e non so dire a che cosa io mi riferissi con quelle espressioni»), nonostante le fosse stato letto il testo della telefonata597G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.

La giustificazione della Procura a non ritenerlo un elemento probatorio in quanto lo stesso Accetti avrebbe accusato la donna, durante la telefonata, di “essere pazza” lascia davvero perplessi.

La non conferma della Carnazza (così come farà l’ex moglie, Eleonora Cecconi) ricorda la minaccia apparsa pochi giorni prima della comparsa di Accetti in Procura: “Non cantino le due belle more…”.

A tal proposito, Accetti ha scritto: «Solo in quest’anno 2013 ho appreso di questa remota intercettazione, ben dopo 17 anni. Se fossi veramente estraneo al caso, non si comprenderebbe come già nel lontano 1996 una persona si sia espressa, pur privatamente, raccontando del mio coinvolgimento, ed in quegli anni non ero certo in contatto con alcuna realtà mediatica per cercare di “apparire” sotto il presunto impulso di protagonismo, come molti mi accusano. E son trascorsi, mi ripeto, ben 17 anni.»598M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 13/11/2013.


 

Boston.

Tra il 27 settembre 1983 e i primi di gennaio 1984 dalla città di Boston arrivarono alcuni comunicati relativi al caso Orlandi al corrispondente della Cbs, Richard Roth.

Rispetto a questi, il reo-confesso Marco Accetti ha scritto: «Una ragazza le scrisse in Roma ed un’altra le spedì da Boston. Non confermo se si trattava o meno della mia ex-moglie»599M. Accetti, Devianza e manipolazione Rai. – Prima presentazione., 06/06/2013.

L’ex moglie di Accetti si chiama Eleonora Cecconi (matrimonio contratto dal maggio 1982 al giugno 1983600G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 46, 47), la donna fu già interrogata nel 1983 dai carabinieri che indagavano sulla morte di Josè Garramòn, la quale dichiarò: «Mi trovavo a Boston, presso l’abitazione di mio fratello Alessandro, che è in America da sette anni per motivi di studio, in 75 Winter St. Natick Mass. Lì sono rimasta dal 20 novembre al 22 dicembre 1983, quando ho fatto ritorno in Italia».

Alla domanda su quando vide o sentì l’ultima volta «suo marito Marco», la donna rispose: «Qualche giorno prima che partissi. Preciso altresì che da mio fratello in America sono stata anche dal 2 agosto al 10 novembre 1983, ininterrottamente».

La Cecconi confermò così di essersi recata nella città di Boston a trovare il fratello proprio nel periodo in cui partirono da lì le lettere sulla Orlandi, escludendo però di essere stata lei a spedirle per conto di Marco Accetti601G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

La sorella di Accetti, Laura (compagna di scuola della Cecconi), ha riferito in Procura che nel 1983 suo fratello le avrebbe detto di aver scritto delle lettere e aver chiesto a Eleonora Cecconi di spedirgliele da Boston, dove si recava. Lei non ritenne veritieri questi racconti602G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

Il giornalista Fabrizio Peronaci ritiene la Cecconi «una testimone di fatti non marginali. Si sposarono nel maggio 1982 e, dopo il viaggio di nozze a Venezia, andarono a vivere nell’ufficio del suocero. Subentrarono litigi, resistenze della famiglia di lei. La primavera seguente saranno di fatto già separati, però – e ciò pesa nell’inchiesta – resteranno amici almeno per tutto il 1983, nell’intera fase calda del doppio rapimento»603in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 96.

Nel 2023 le attenzioni degli inquirenti si sarebbero concentrate su Patrizia De Benedetti come l’autrice delle lettere, già interrogata dagli inquirenti nel 2013 e indagata (poi assolta) con Accetti nel 1983 nel caso Garramon604F. Peronaci, Emanuela Orlandi e la ragazza (oggi 59enne) che rivendicò il sequestro: ecco perché i messaggi da Boston portano ai veri rapitori, Corriere della Sera, 01/08/2023. La donna ha sempre negato di essere mai stata partecipe.

Già nell’ottobre 1983, un esame grafologico sulla lettere dei sedicenti rapitori dell’epoca stabilì con certezza che la grafia con cui fu scritta la lettera fatta ritrovare dall'”Amerikano” a Castelgandolfo il 04/09/83 con allegata la fotocopia degli spartiti di musica che Emanuela aveva nello zaino il giorno della sparizione, era la stessa del contorto comunicato spedito da Boston e arrivato il 28/09/83 nella sede romana della “CBS News”.

Il legame con Boston fu ritenuto talmente credibile anche dalla stampa dell’epoca che addirittura si sospettò che lì vi fosse il centro operativo dell’operazione Orlandi.

Secondo la perizia grafica voluta dal giudice Domenico Sica nel 1983, il messaggio partito da Boston, la lettera recapitata alla mamma di Mirella Gregori l’8 settembre e quello infilato il 4 settembre nel furgone della Rai furono vergati dalla stessa mano.

 

Qui sotto abbiamo realizzato un confronto tra i messaggi recapitati da Boston, dal quale si conferma che furono scritti dallo stesso autore (o autrice!).

Lo si evince dall’identica scrittura delle parole “soppressione” e dalla stessa forma della lettera “s”. Inoltre, risulta uguale la scrittura di “Alì” (comunicati 22/10 e 27/10), la cui iniziale è identica a quella di “Agostino” (comunicato 28/10).

 

Nel luglio 2013 la grafologa Sara Cordella, analizzando a sua volta la scrittura del comunicato arrivato da Boston, ha rilevato che il segno grafico che si osserva «si trova soprattutto nelle scritture femminili».


 

I codici.

Secondo il racconto di Marco Accetti, il cuore del caso Orlandi e di quello Gregori sarebbero i codici utilizzati che avrebbero dovuto far intendere alla fazione opposta i termini delle presunte trattative.

Effettivamente non possiamo negare che vi sia una certa coerenza e ripetitività degli stessi codici e, allo stesso tempo, serva un enorme e quasi incredibile sforzo creativo per “inventare” questi codici analizzando i due casi a posteriori, come alcuni credono possa aver fatto Accetti.

Ecco i principali codici citati da Accetti e legati alla sparizione di Emanuela e Mirella:

  • -1-3-5-7 ➡ la vicenda è effettivamente costellata da questi numeri che avrebbero dovuto richiamare la data dell’apparizione di Fatima (13-5-17). L’ora della sparizione di Mirella fu le 15.30 (anagramma-sciarada di 13-5), la Orlandi telefona a casa alle 7 della sera (anagramma-sciarada di 17, da completarsi con l’orario di Mirella); l’età del telefonista “Mario” erano 35 anni, mentre quella di “Pierluigi” era 17 («ne devo compiere 17», disse); Emanuela telefonò a casa raccontando di un’offerta di lavoro pagata 375 mila lire; il gruppo “Phoenix” lasciò dei proiettili Magnum calibro 357 in un’edicola vicino all’istituto Giuseppe De Merode (frequentato da MFA) il 13/11/83; Stefano Coccia venne fermato alle 7 del pomeriggio da Accetti e Ulrike davanti al negozio del padre, al numero 351; Fatima come Fatma, la sorella di Agca.
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  • Vittorio Emanuele II ➡ il Convitto Vittorio Emanuele II era il nome della scuola della Orlandi; era la via della scuola frequentata da Raffaella Gugel, l’Istituto tecnico commerciale “Vincenzo Gioberti”; il telefonista “Mario” dice di possedere un bar a Ponte Vittorio Emanuele II; Stefano Coccia viene fermato da Accetti e Ulrike in corso Vittorio Emanuele II (a pochi metri da Ponte Vittorio Emanuele II);
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  • De Merode-Pierluigi-Sorelle Fontana-Borromini ➡ Pierluigi era il nome del primo telefonista che chiamò casa Orlandi poche ore dopo la scomparsa e che venne minacciato da “Phoenix”; mons. Pier Luigi Celata era il direttore spirituale dell’istituto De Merode nel 1967, frequentato da Accetti (nonché segretario di Agostino Casaroli) e abitante sopra la Maison delle “Sorelle Fontana”, citata nella telefonata di Emanuela. Effettivamente mons. Celata ebbe rapporti con Francesco Pazienza, collaboratore del SISMi e “Sala Borromini” indicava la casa di Pazienza alle spalla della sala, in cui si diceva incontrasse De Pedis. Secondo quanto mise nero su bianco lo stesso Pazienza605F. Pinotti, I poteri forti, 2011, nella sua autobiografia, mai smentita, mons. Celata avrebbe costituito un punto di riferimento per il Sismi, in particolare nel contrastare la figura di Marcinkus alla guida dello Ior, attraverso scandali da creare ad hoc606F. Pazienza, Il disubbidiente, 1999 e sostenne di essere stato indirizzato da monsignor Celata su indicazione di Giuseppe Santovito, il generale piduista che guidava il Sismi607citato in S. Livadiotti, I senza Dio, 2013; “Phoenix” lasciò dei proiettili Magnum calibro 357 in un’edicola vicino all’Istituto Giuseppe De Merode; Marco Accetti nel 1988 fotografò Priscilla Morini (“sosia” della Orlandi?) davanti all’istituto Giuseppe De Merode;
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  • Senato-Polonia ➡ Emanuela sparì davanti al Senato proprio nel giorno in cui Giovanni Paolo II, nel suo viaggio in Polonia, fece un incontro al Senato Accademico polacco di Cracovia; il giornalista Richard Roth, scelto come destinatario di molti comunicati riguardanti la Orlandi, dal 16 al 23 giugno 1983 era in Polonia al seguito del Papa;
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  • Maria Vittoria ➡ questo codice non è mai stato citato da Marco Accetti, non sappiamo se sia una coincidenza che si tratti sia del nome della mamma di Gregori (Maria Vittoria Arzeton) che quello della segretaria personale di mons. Marcinkus dal 1971 al 1990608R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 185.
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  • Avon ➡ secondo Marco Accetti il nome “Avon” avrebbe ricordato la traduzione “fiume” in lingua celtica, per indicare alla controparte la testimonianza della ragazza del Convitto, istituto lungo le sponde del fiume Tevere609M. Accetti, Memoriale, 2014. Lo riteniamo un codice piuttosto debole, molto più suggestivo il fatto che avrebbe indicato l’anagramma della fondazione pontificia Nova, che gestiva l’obolo per le opere caritatevoli, e dunque anche parte dei fondi destinati alla Polonia.

 

Marco Accetti ha parlato di questo uso esasperato dei codici: «I codici dovevano essere molti ed esprimersi in forme esasperate, a volte anche gotiche. In tal modo si rendevano inverosimili all’indagine di un eventuale inquirente, alla curiosità di un possibile giornalista, che li avrebbero per l’appunto considerati eccessivi, implausibili, o comunque ne sarebbero stati depistati».

Invece, ha proseguito l’uomo, «ogni codice raccontava l’origine di un evento, le nostre intenzioni. L’usarli era una forma di pressione verso l’altra parte. Un modo di dire loro che realtà delicate e riservate diventavano pubbliche, ma momentaneamente sotto scrittura cifrata. E che, se non fossero state corrisposte le nostre richieste, avremmo potuto spiegare pubblicamente quel che il codice occultava, e ciò non era certo interesse della controparte»610in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 171.

Tuttavia, ha scritto, «il codice firmava un’azione, un gesto. Agli esponenti della nostra controparte, il significato veniva spiegato attraverso missive anonime, che permettevano di interpretare integralmente ogni scrittura cifrata, man mano che i fatti si evolvevano. I nostri interlocutori, a cui doveva giungere il significato di ogni azione, non avrebbero dovuto pensare a coincidenze, tutto doveva ricondurre a una stessa matrice».


 

Le fermate dell’autobus di San Pietro.

Tutte le persone che MFA ha citato nel suo racconto sembrano effettivamente collegate dall’autobus che faceva capolinea alla stazione di San Pietro. Scrive MFA: «Nella piazza della stazione San Pietro vi era il capolinea di un autobus che compiva un tragitto lungo il quale noi dovemmo scegliere gli adolescenti che nelle loro testimonianze fittizie avrebbero dovuto dire di aver preso quell’autobus per raggiungere» una villetta usata da un prelato vicino al Presidente Mons. Marcinkus, che rimandava a Villa Stricht, dove effettivamente abitava il capo dello Ior. «Nel suo tragitto poteva virtualmente essere preso dalla Emanuela Orlandi, che abitava nelle vicinanze. Il bus passava innanzi la gioielleria del padre del dodicenne Stefano C., posta in Corso Vittorio Emanuele II; raggiungeva la Nomentana, strada nei pressi della quale, sulla stessa direttrice di sinistra erano poste le abitazioni di Mirella Gregori, della Catherina Gillespie e della Catherina Skerl, le quali potevano raggiungere la fermata del suddetto mezzo con altri autobus percorrenti la stessa via Nomentana». Sono collegamenti effettivi, coincidenze. Un’altra coincidenza, avendo citato la stazione di San Pietro, è una una telefonata dell’Amerikano del 5 luglio 1983, nella quale si sentono distintamente alcuni fischi di treno in sottofondo.


 

Le abitazioni di Marco Accetti.

L’area di Roma è di 1.285 km², eppure al tempo della sparizione di Mirella Gregori, MFA abitava assieme alla moglie Eleonora C in via Goito 24, dove il padre Aldo Accetti aveva un ufficio. «Qui attrezzai una stanza a laboratorio di fotografia, uscendo dal portone, a sinistra, si poteva tener d’occhio l’ingresso della scuola media di via Montebello, frequentata da Mirella, e da una compagna da noi coinvolta nell’azione». Si parla di duecento metri dal bar dei Gregori, all’angolo tra via Montebello e via Volturno (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Stessa coincidenza per quanto riguarda Alessia Rosati: MFA abitava allora esattamente di fronte al luogo in cui la ragazza venne vista l’ultima volta prima di scomparire. Anche Alessia, come la Skerl, era militante comunista, anche lei allontanatasi -secondo la lettera che ha inviato all’amica Claudia- per un bisogno di libertà, le stesse motivazioni che riportarono i primi due telefonisti, “Pierluigi” e “Mario” per giustificare la “scappatella” di Emanuela. Anche nel caso della Rosati c’è un’amica, Claudia, a vederla per l’ultima volta come Raffaella Monzi (per Emanuela) e Sonia De Vito (per Mirella). Amica su cui cadono pesanti sospetti (da parte dei genitori di Alessia), così come caddero su Sonia De Vito.


 

La comparazione della voce tra Accetti e i telefonisti.

Dopo aver comparato la voce di Marco Accetti con quella dell'”Amerikano” e del telefonista “Mario”, la Procura ha riconosciuto una similitudine soggettiva611G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 49, concludendo tuttavia sull’impossibilità nel comparare le voci a causa dell’eccessivo tempo trascorso che ha modificato il suo l’apparato fonoarticolare. Similitudine, dunque, ma non effettiva attribuibilità.

Anche nel confronto di voci realizzato da UCCR risulta una forte similitudine con il telefonista “Mario” e con il telefonista “l’Amerikano”. Pur non essendo esperti, rileviamo lo stesso timbro vocale, le stesse pause (ehmm…), la stessa accelerazione ad inizio frase seguita da un rallentamento, la stessa abitudine ad interrompere continuamente l’interlocutore, la stessa gestione autoritaria della conversazione. Al di là della voce in sé (quella attuale di Accetti si è abbassata di tono ed ha acquisito più raucedine), il modo di parlare e di esprimersi risultano fortemente compatibili.


 

I collegamenti tra le vittime.

MFA effettivamente avvicinò ragazzi e ragazze prima e dopo la sparizione di Mirella ed Emanuela e una di queste, due giorni prima del suo arresto, fu Caterina Gillespie, stessa età, stesso nome e cognome straniero di Caterina Skerl, morta misteriosamente un mese dopo l’incontro tra MFA e Caterina Gillespie. Cosa simile è accaduta dopo l’incontro, verso la fine di novembre 1983, tra MFA e il dodicenne Stefano Coccia (confermato da quest’ultimo): esattamente un mese dopo dopo MFA investe accidentalmente nella pineta il dodicenne Josè Garramòn. Coccia viene fermato in via Vittorio Emanuele a Roma, nella sua telefonata “Mario” dice di possedere un bar -come il padre della Gregori- a ponte Vittorio Emanuele, proprio nei pressi della via in cui sarà fermato Coccia. La Skerl fu, come Alessia Rosati, militante comunista e iscritta alla Fgci (Alessia frequentava invece i centri sociali), compagna di classe di un funzionario dell’ambasciata finito sotto processo (poi assolto) come complice di Alì Agca, è stata trovata morta a Grottaferrata, dove effettivamente aveva sede l’associazione Pro Fratribus di monsignor Hnilica, molto attiva nella raccolta di fondi in chiave anticomunista, in via Corso del Popolo 40 (G. Galezzi, F. Pinotti, “Wojtyla segreto”, Chiarelettere 2011, p.45). La Orlandi, la Gregori, la Gillespie e il (negozio del padre) Coccia abitavano tutti nei pressi della direttrice dell’autobus che ha la stazione di San Pietro come capolinea. MFA frequentava lo stesso istituto di José Garramon e abitava vicino sia a Alessia Rosati che a Mirella Gregori, entrambe hanno un’amica fortemente sospettata di reticenza (Claudia per Alessia e Sonia De Vito per Mirella). Un’amica, come per Mirella e Alessia, è l’ultima persona che ha visto Emanuela Orlandi. MFA ha affermato che il ragazzo del quale fecero innamorare Mirella, fiancheggiatore della Stasi, era svizzero, Mirella lo conobbe l’estate prima in vacanza: «Era biondo, svizzero, del cantone tedesco, parlava un po’ d’italiano. Era davvero bello. Anche lui, come Ulrike, fiancheggiatore della Stasi. Cose del genere non devono stupire, all’epoca capitavano con facilità… È estate, uno straniero aggancia una ragazza e lei lo trova irresistibile. Lui magari le dice che è finlandese, svedese, e lei ci crede, s’innamora. Decidono di stare insieme». Antonietta Gregori, sorella di Mirella, nel 2013 ha risposto così alla domanda su dov’erano stati in vacanza nell’estate 1982: «Dovrei controllare le foto, ammesso che ne trovi. Di certo eravamo tutti e quattro insieme, con mamma e papà. Doveva essere Francia o Svizzera» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Alla baronessa Rotschild arrivò, un giorno dopo la sua sparizione nel 1980, un telegramma firmato Roland, anagramma di Orlandi. Il padre di Catherine Gillespie si chiama Ronald James Gillespie. Ronald, ancora una volta anagramma di Orlandi.


 

Approfondita conoscenza, enormi rischi e presenza mediatica.

La conoscenza dettagliata di MFA di numerosi eventi risalenti a decine di anni fa è strabiliante, quasi unica. Così come la conoscenza di tantissime nomine vaticane, anche di secondo o terzo livello, ruoli di diplomatici, prelati e monsignori della Curia romana e della Segreteria di Stato tra gli anni ’80 e ’90, con tanto di loro abitudini e retroscena. Ha mostrato di conoscere gli uffici usati per particolari compiti dal Servizio Militare di allora, un residence situato in via Panama, in Roma, di un ufficio presso vicolo del Cinque a Trastevere e di un appartamento in via del Governo Vecchio (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Ha parlato anche di dettagli dell’arredo di alcune case di questi prelati, come la moquette gialla del cardinal Caprio o l’esistenza di una casa-museo di un dilpomatico del Consiglio per gli Affari pubblici nel Palazzo dell’Arciprete ecc. Non si può liquidare tutto dicendo che avrebbe studiato tutto a posteriori. Dove? Su quali articoli comparvero queste notizie? In quali atti? Internet allora non esisteva e oggi, ovviamente, questi dettagli non sono presenti sul web. Ma anche se fosse, a che scopo inserire nel caso Orlandi tutti questi inutili particolari e dettagli? Oltretutto con l’enorme rischio di essere smentito su questi dettagli, facilmente verificabili (la salopette e le scarpe da ginnastica di Emanuela su cui c’era scritto il suo nome, la telefonata tra lui e Antonietta Gregori in cui lei lo scambiò per un collaboratore dell’avvocato Egidio ecc.). Lo stesso rischio preso con il flauto: se sapeva o dubitava non essere appartenuto alla Orlandi, lo avrebbe fatto ritrovare con tanto di matricola leggibile e possibili contaminazioni? E se fossero emerse tracce appartenenti a qualcuno diverso dalla Orlandi? E se i familiari avessero conservato il numero di matricola del flauto? Come faceva MFA a sapere che gli esiti della scientifica non avrebbero purtroppo fornito alcun risultato utile? Mancava il tamponcino, tuttavia tracce di Dna potevano trovarsi in qualunque parte del flauto, come ad esempio il beccuccio. «Se io fossi un falsario», ha commentato MFA, «mi sarei procurato oltre il flauto anche quest’asticella per la pulizia, e l’avrei messa nella custodia, dopo averla ripulita ed invecchiata per non farvi trovare la saliva, così come avrei fatto con il flauto».

Ha obiettato Accetti a chi non crede al flauto: «se mai fosse stato nelle mie intenzioni produrre un falso, avrei dovuto, oltre il procacciarmi uno strumento dell’epoca fornito dei necessari elementi formali, riprodurre anche uno stato di usura relativo agli anni trascorsi. Pulirne radicalmente l’interno ed ogni altra parte per assicurarmi che non si potesse rintracciarne alcun DNA collegabile con il reale proprietario. Ma le esigue tracce biologiche rinvenute dalla perizia dimostrano che il flauto non è stato interamente sterilizzato, per cui avrei “rischiato”, nel qual caso queste tracce fossero state identificate, di essere ritenuto un millantatore ed avrei già sin dall’inizio invalidato tutto quel che in seguito avrei dichiarato. Inoltre ho consegnato il flauto riportante la sua matricola e marca, e la famiglia poteva ancora essere in possesso del certificato originale. Nella consapevolezza che anche uno strumento musicale comprato già usato può comunque essere ancora dotato del documento di certificazione. Per cui se i dati riportati sul flauto non fossero stati autentici, mi avrebbero potuto smentire. Se fosse stato quindi un “falso” avrei dovuto abradere la parte riportante i suddetti dati, potendo dichiarare che tale procedura fu effettuata all’epoca dei fatti per non permettere, in caso lo strumento fosse stato rintracciato presso una nostra pertinenza, di verificarne l’origine». Il maestro di flauto di Emanuela, Loriano Berti, ha ricordato che la ragazza aveva un flauto Yamaha, non un Rampone e Cazzani come quello fatto ritrovare. Pietro e Natalina Orlandi, tuttavia, «appena se lo sono rigirato tra le mani, hanno concluso che è molto simile, se non identico, a quello posseduto da Emanuela. Il produttore Rampone e Cazzani, che Pietro ha contattato tramite lo stesso negoziante del quartiere Prati dal quale suo padre lo acquistò, in base ai dati riportati e al numero di matricola ha confermato che è stato fabbricato prima del 1983. Lo stesso Pietro ha trovato, tra i vecchi album di famiglia, la foto di un saggio di fine anno scolastico. Sua sorella in piedi, concentrata nell’esecuzione del brano, e sul pavimento, ben visibile, la custodia: i segni di usura agli spigoli sono ben visibili, la foderatura è dello stesso punto rosso» (“Il Ganglio”, Fandango libri 2014).

All’interno di una ricostruzione verosimile, Accetti ha inserito episodi controprudcenti per la loro inverosimiglianza, come il fatto che avrebbe passeggiato per Roma con Emanuela, la quale avrebbe indossato una parrucca. Se fosse falso, perché dirlo? Uno che riesce genialmente ad inventare una storia del genere, non si accorge che è un particolare che mina la credibilità generale della ricostruzione? Inoltre ha collegato il caso Orlandi ad altrettanti misteri d’Italia, quali quello della baronessa Rothschild, quello della Skerl, della Rosati ecc., ma anche a noti furti d’arte. Una scelta folle, che insinua l’idea del mitomane. Solo un maniaco avrebbe potuto compiere questi enormi studi, sprecare un’infinità di tempo per trovare (trovandoli!) collegamenti tra codici, suoi fatti biografici e notizie di cronaca, studiare nomine, ruoli e abitudini di decine di ecclesiastici quasi sconosciuti degli anni ’80-’90, prendersi enormi rischi ingolfando il racconto con un’infinità di dettagli irrilevanti, fare accuse ben precise ai suoi complici o persone a conoscenza dei fatti (a Patrizia D.B., a Eleonora C., a Ornella C., a suo padre Aldo A., alla sorella Laura A. ecc.): tutto questo per cosa? Soldi? Non ne ha avuti, né cercati. La Procura sostiene che si tratta di «un soggetto con spiccate smanie di protagonismo». Eppure un mitomane, affetto da smanie di protagonismo, non aspetta 30 anni per apparire pubblicamente al mondo, dato che i familiari hanno testimoniato che fin dal 1983 MFA si occupava del caso, di cui era rimasto colpito. MFA ha raggiunto: «Come anche l’accusa che io eserciti una “mania di protagonismo” confligge con il fatto che, pur vivendo in un sistema mediatico che offre innumerevoli occasioni di apparire, io non sono mai “apparso” se non in alcuni fatti del lontano 1999, nonostante abbia avuto negli anni innumerevoli inviti a comparire in varie trasmissioni della Rai e di Mediaset. E tutto questo è documentato». Ha osservato lui stesso: «se fossi veramente pervaso da una “smania di apparire” non avrei rifiutato l’offerta di scrivere congiuntamente un libro da parte dei giornalisti Dino Marafioti, Fiore De Rienzo, Fabrizio Peronaci, Pino Nazio. Chieder loro per aver conferma». Non sembra affatto ricercare un protagonismo esasperato e non ha compiuto gesti scenici per catalizzare su di sé l’attenzione e mantenersi al centro dell’opinione pubblica. Nelle interviste pubbliche che ha rilasciato è ben capace di intendere e volere, sa rispondere in modo preciso, originale e con cognizione di causa, così come abbiamo appurato nella telefonata di quasi due ore avuta con lui nel gennaio 2016. Non ci è affatto parso di essere al telefono con un maniaco, come invece dovrebbe essere se avesse inventato tutto questo. Ha chiesto inolte ai magistrati di essere messo a confronto con suo padre, con le donne che hanno negato la loro partecipazione, con il poliziotto Bosco e con il proprietario dell’albergo Isa, da lui contattato nell’81 per prenotare la stanza per Alì Agca. Proprio il suo comportamento sembra essere un argomento a favore.

2) Ha avuto la fortuna, nonostante si sia preso enormi rischi (il flauto e i numerosi dettagli secondari che ha rivelato, come la scritta “Emanuela” sulle scarpe della ragazza il giorno in cui sparì), di non essere mai stato smentito, nessuno ha mai dimostrato in modo chiaro che almeno un particolare che ha rivelato è certamente falso. Lui stesso ha scritto: «Se la Procura dovesse ritenere tutti gli indizi da me prodotti non altro che frutto di mere coincidenze, dovrebbe intanto quantificarle e constatare che si tratta di un numero veramente elevato, e le troppe coincidenze sono indizi. Se mi si ritiene un abile sceneggiatore, altrettanto mi si deve riconoscere la ripetuta e ripetuta fortuna, che in quei anni ottanta si siano verificate una serie impressionante di concatenazioni casuali che sembrano andare tutte univocamente in una direzione».

Laura Accetti, la sorella, ha anche ricordato che mentre lui era agli arresti domiciliari, vide un flauto azzurro di plastica e un orologetto che lui disse averli ricevuti dalla Orlandi. Leggendo queste dichiarazioni, MFA ha scritto: «ciò mi ha permesso di ricordare che nella borsa dell’Emanuela vi era presente un flauto dolce, di color azzurrino o bianco. E quanto dichiaro è verificabile, interrogando la famiglia e i docenti e compagni della scuola di musica della ragazza. Questa del flauto dolce è un’ informazione mai emersa, minore. Che probabilmente familiari e compagni non rammentavano. Giornalisti ed inquirenti li contattino ed appurino».


 

Biografia.

Oltre agli enormi rischi che si è assunto, va rilevato che Accetti, se fosse un millantatore, è anche un uomo incredibilmente fortunato.

Parliamo di “fortuna” in quanto la sua biografia, da quanto è emerso in questi anni, lo colloca da sola al centro del caso Orlandi senza che sia necessario credere a tutto il suo racconto delle fazioni.

Ecco gli elementi oggettivi della sua biografia legati alla Orlandi/Gregori che nessun altro può “vantare”:

  • La ex moglie Eleonora Cecconi ha un fratello a Boston e si trovava proprio lì (da sua ammissione) nei giorni in cui da lì partivano i comunicati;
  • Un’intercettazione telefonica nel 1997 in cui la ex moglie lo minaccia di parlare della Orlandi;
  • La sua abitazione era a pochi metri da quella di Mirella Gregori nel periodo in cui è sparita;
  • La sua abitazione era a pochi passi dal luogo in cui è stata vista l’ultima volta Alessia Rosati;
  • Ha frequentato lo stesso istituto elementare (il St. George’s) frequentato da José Garramon al momento dell’incidente;
  • Ha frequentato alle medie l’istituto De Merode con direttore spirituale mons. Pierluigi Celata, il prelato che diventò diplomatico in Vaticano, che ha lo stesso nome del telefonista “Pierluigi” e che abitava sopra le Sorelle Fontana, citate nella telefonata di Emanuela alla sorella Federica il 22/06/83. L’istituto De Merode si trova in piazza di Spagna, nello stesso luogo in cui avevano la maison le “Sorelle Fontana”612N. Misani, Giovanna, Micol, Zoe Fontana, L’Enciclopedia delle donne. Vicino allo stesso istituto il gruppo “Phoenix” il 13/11/83 lasciò dei proiettili Magnum calibro 357. Il cappellano dell’Istituto De Merode era padre Salvatore Pappalardo613Biografia del card. Salvatore Pappalardo, Enciclopedia Treccani (confermato anche da Accetti), a questo religioso l’8/7/1983 venne consegnata una cassetta con lo voce registrata attribuita a Emanuela Orlandi;
  • Ha una voce compatibile e sovrapponibile a quella dell'”Amerikano” e a quella del telefonista “Mario”;
  • Dalle indagini su di lui dopo l’omicidio di Garramon nel 1983 e dalle escussioni nel 2013 di Caterina Gillespie e Stefano Coccia, emerse che Accetti era solito avvicinare giovani ragazze e ragazzi e proporre loro delle fotografie614G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 48. Non solo, ma l’area frequentata da Accetti per proporre a giovani di posare nei suoi film o fotografie (corso Vittorio, via dei Coronari ecc.), come nel caso di Stefano Coccia, è la stessa percorsa da Emanuela. Il suo laboratorio era infatti a ridosso di piazza dell’Orologio e dell’oratorio Borromini, nome citato dal vigile Sambuco nella sua testimonianza. Il dettaglio ha portato, nel 2016, il giornalista Pino Nicotri a convincersi della sospettabilità di Marco Accetti perlomeno nell’adescamento di Emanuela, facendo anche notare che l’uomo della Avon chiese alla ragazza di farsi prima autorizzare dai genitori, stesso modo di operare di Accetti.

Quante persone nel 1983 a Roma (o anche tra tutte quelle vissute nel mondo tra il 1980 e il 2016) possono “vantare” dati biografici così coincidenti con il caso Orlandi? Nessuna.


 

Misteri risolti in maniera geniale.

Che la ricostruzione di Accetti, al di là della sua autenticità, sia geniale lo dimostra la spiegazione illuminante che riesce a dare degli elementi finora rimasti inspiegabili.

a) Comportamento assurdo dei telefonisti e dei comunicati: non si volle mai provare con chiarezza la detenzione di Emanuela, bastava una foto, eppure si elencarono infiniti dettagli e particolari, risultati veri, e fotocopie di documenti e spariti che aveva con sé quel giorno. Tanta fatica quando bastava una foto, perché? Perché erano codici, i loro interlocutori non erano né gli inquirenti, né la famiglia, né la stampa, ma qualcun altro con cui dialogavano, sfruttando la cassa di risonanza dei media. Lo dimostra anche l’insistenza assolutamente inedita dei telefonisti affinché i media pubblicassero i loro messaggi e comunicati, invece che chiedere pagamenti per i riscatti.

b) Voce di Emanuela: venne riportata su un nastro fatto trovare dall’Amerikano: «Prova. Convitto nazionale Vittorio Emanuele secondo. Dovrei fare il terzo liceo staltr’anno…scientifico». Frase registrata e fatta ascoltare ai familiari più volte. La voce è la sua, venne riconosciuta, Emanuela non aveva mai parlato di un’intervista prima della scomparsa, nemmeno i compagni. Il giornalista Pino Nicotri sostiene che la frase ripetuta più volte potrebbe essere stata pronunciata da Emanuela durante la puntata di Tandem a cui partecipò nel maggio 1983, o nelle presentazioni prima o dopo l’entrata in studio. Ipotesi peregrina, a quella puntata venne invitata tutta la classe di Emanuela, dunque era ridondante che lei si presentasse come studentessa del Convitto nazionale Vittorio Emanuele II. Oltretutto, nessuno dei suoi compagni, una volta saputa la comparsa di questa “prova” dopo la sparizione di Emanuela, ha mai fatto presente che quella frase fosse stata detta da Emanuela durante la trasmissione televisiva. Anche a loro avrebbero dovuto fare la stessa domanda prima o dopo l’entrata in studio, eppure nessuno ha collegato le cose evidentemente perché nessuno chiese loro singolarmente che scuola facessero, poiché era inutile: avevano invitato proprio quella classe di quella scuola. Venne realizzata dopo. Davvero strana come “prova”, tutti si sarebbero aspettati: “Ciao mamma e papà, sono Emanuela e sto bene, non vi preoccupate”. Per decenni investigatori e giornalisti si sono chiesti perché una “prova” del genere. Non era una “prova”, il racconto di Accetti lo spiega e risolve: «La frase della Orlandi significava: accettate le richieste, in modo che tutto possa terminare entro i primi di settembre, in tempo per l’inizio dell’anno scolastico, altrimenti riferirò fatti compromettenti. Lo spettro da noi agitato era la pedofilia. La telefonata fu fatta dai Parioli. La registrazione con la voce della ragazza fu eseguita dopo il 22 giugno. Il rumore del treno, registrato in precedenza, serviva a depistare gli inquirenti». Ovvero era un codice alla controparte, solo così effettivamente si spiega. «Io la ragazza l’ho frequentata trentadue anni fa e l’ho vista per mesi, quella è proprio la sua voce, questa voce un po’ cantilenante che aveva, un po’ lagnosetta. Ma le pare che noi presentiamo la voce di un’altra, in modo che la famiglia ci smentisce da subito? Lei disse quella frase una sola volta, io avevo un registratore a due piste e ripetei più volte quella frase in modo che fosse chiaro a chi ascoltasse. Venne registrata in un appartamento al chiuso, infatti non ci sono rumori di fondo, le voci dei compagni della scuola ecc.» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Può essere falso, ma non si può dire che è l’unica soluzione adeguata. E l’ha data soltanto Accetti.

c) Pedinamenti appariscenti e comportamento dell’uomo davanti al Senato: un altro mistero che non si è mai chiarito è perché l’uomo visto dai testimoni oculari Sambuco e Bruno avesse tutta l’intenzione di essere notato. Pensiamo al luogo in cui avvenne il dialogo con Emanuela (davanti al Senato!), al colore dell’auto. Giulio Gangi infatti dirà: «tutto fa pensare che l’uomo della BMW voleva essere notato: dal colore squillante della sua auto al fatto che avesse parcheggiato la vettura in direzione contraria al senso di marcia, al posto prescelto, cioè proprio di fronte all’ingresso del Senato» (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 22). Lo stesso dicasi per le persone che seguirono Emanuela prima della sua sparizione. Lo ha testimonianto la sorella Cristina e alcuni amici di Emanuela (Garbiella e Paola Giordani, Cristina Franzè, Angelo Rotatori e Andrea Bevilacqua), alcuni uomini seguivano il gruppo -tra cui c’era Emanuela- il 16 giugno 1983 in zona Prati, loro se ne accorsero e pensarono si trattasse di semplici corteggiatori (Rapporto operativo, quinta sezione di Roma, 18 luglio 1983, p.7). Tre giorni dopo, il 19/07/83, gli stessi amici si trovavano in via dei Corridori, quando a loro si avvicinò una macchina di colore bianco con a bordo due giovani. Il passeggero, sui venti-venticinque anni, biondo, capelli corti e ondulati, senza barba né baffi, indicò Emanuela, dicendo: “Eccola!” (testimonianza di Gabriella e Paola Giordani al Reparto operativo dei carabinieri di Roma, 14 luglio 1983). Anche loro volevano evidentemente essere notati e questo collima con la versione di Marco Accetti dell’organizzazione di un finto sequestro.

 

Prove secondarie


 

Regista e sceneggiatore.

Le competenze artistiche di MFA, sceneggiatore e regista, erano proprio quelle necessarie ad inscenare il “finto sequestro”, secondo il suo racconto, e tutta la messinscena successiva. Era certamente la persona adatta a cui affidare tutto questo: l’organizzazione, i codici, i luoghi, gli orari, i depistaggi ecc. Lavorare con la fotografia gli dava oltretutto l’alibi di poter fermare ragazzi e ragazze -possibili futuri complici nelle sue losche operazioni- con la scusa di servizi fotografici. Questo, tuttavia, è anche un punto a suo sfavore come riferiremo sotto. Le frasi “montate” a ripetizione potevano essere state registrate in qualunque momento prima della sparizione di Emanuela, di certo non sono una prova: perché non fare parlare la ragazza ad un semplice registratore al posto di fare questo montaggio? Inoltre, per realizzarlo allora occorrevano due registratori (ma è un’operazione difficile) o un banco professionale da sala d’incisione e fu montato da qualcuno che aveva dimestichezza di quegli apparecchi (“Dodici donne un solo assassino”, pag. 23).


 

Alì Estermann.

Il 21/03/1999 MFA appare per la prima (e ultima) volta in televisione partecipando ad una puntata di “Domenica In” imitando Roberto Benigni (esattamente il giorno in cui vinse l’Oscar), presentandosi come Alì Estermann. Un nomignolo assolutamente fuori dal contesto della trasmissione televisiva e completamente assurdo, una via di mezzo tra Alì Agca e Alois Estermann (guardia svizzera morta misteriosamente in Vaticano nel 1998). Seguì un viaggio a New York dove attirò l’attenzione della stampa facendo credere di essere il vero Benigni. Comparso all’improvviso e poi sparito di nuovo nel nulla. MFA avrebbe un’ossessione maniacale per il Vaticano o le vicende clericali? Bisognerebbe spiegare perché allora questo fu l’unico episodio pubblico in trent’anni, nonostante diversi casi di cronaca abbiano coinvolto il Vaticano (oltre al fatto che la Corte d’Assise nel 1983 escluse malattie psichiche e anomalie del carattere).


 

b) Il padre di Accetti e le testimonianze della famiglia.

Abbiamo già sottolineato che Aldo Accetti, padre di Marco, è risultato essere vicino alla massoneria di destra, iscritto nell’Archivio Giovanni Alliata di Montereale, congregazione fondata dal principe siciliano Giovanni Francesco Alliata di Montereale.

Inoltre, un’intercettazione del padre, Aldo Accetti, rivela che MFA ha fatto loro dichiarazioni assurde soltanto sul caso Orlandi e non su altri casi di cronaca o fatti slegati da questo: «», dice il padre in una telefonata ad un amico. E’ una conferma del fatto che prima del momento del suo arresto, a causa dell’incidente nella pineta, MFA si era interessato al caso (e solo a questo) in modo approfondito. Le opinioni dei familiari sono importanti (ne parleremo nei “punti deboli”) tuttavia è possibile che non abbia mai voluto raccontare loro la portata del suo reale coinvolgimento, facendo soltanto alcuni accenni, probabilmente per tutelarsi, per tutelare loro oppure sapendo di non essere preso sul serio. Una scarsa comunicazione con i suoi stretti familiari è dimostrata dalle parole della madre che ha rivelato di sapere poco anche del caso Garramon, cioè dell’incidente che è costato al figlio due anni di prigione.


 

Filippo Picchetti.

Legato al punto precedente c’è anche un aspetto legato a tale Filippo P. (il nome per esteso lo si trova qui) Nel febbraio 2015 MFA ha infatti scritto di aver individuato su Facebook “Filippo P.”: «Costui è in realtà una donna che partecipò ai noti fatti. Nel timore che io potessi nel futuro chiamarla in correità» cerca di farlo passare per bugiardo. Non che questo possa influire in tribunale, ma certamente può avere un peso nel “tribunale popolare” che da anni alimenta e tiene vivo il caso Orlandi. Effettivamente tale “Filippo P.” mostra un acceso risentimento verso MFA, così come dimostra di conoscere molto bene il suo passato e anche i fatti di cui si parla, spesso accusandolo di essere un fascista -al contrario di quanto dice MFA-, ricordando suoi trascorsi biografici. MFA ha risposto a questa accusa scrivendo: «ebbi una relazione per anni con Patrizia D. B., conoscevamo entrambi i rispettivi genitori e a volte dormivamo insieme nelle rispettive abitazioni. Come si concilia che una ragazza di estrema sinistra e sensibile come lei condividesse la sua vita con un fascista tanto pericoloso e delinquente quale il Filippo P. mi definisce?». MFA ritiene che proprio la donna appena citata si nasconda dietro al profilo di “Filippo P.” e lo stesso lo pensano diversi utenti e anche il giornalista Fabrizio Peronaci, che infatti la chiama “Patrizia” e minaccia di pubblicare in un gruppo Facebook la sua fotografia. Se si ritengono vere le supposizioni dei due, la Procura ha verificato che Patrizia D.B., nota come militante di estrema sinistra, ha avuto una relazione con MFA dal 1979 al 1982, storia poi ripresa nel 1983 tanto che la donna venne fermata assieme a lui il 21/12/83 dopo l’investimento di Garramon, avendolo accompagnato a recuperare il furgone. Interrogata recentemente in Procura, si legge che «non ha fornito elementi utili» sul caso Orlandi.

Il giornalista Pino Nicotri ha rivelato tuttavia che Patrizia D. B. avrebbe «demolito il racconto di Fassoni Accetti, ridotto a parto della sua fervida fantasia, con una lunga e dettagliata deposizione al magistrato Giancarlo Capaldo, alla quale hanno fatto seguito alcuni incontri con me». Ma questa “lunga e dettagliata” deposizione non compare, purtroppo, nella sentenza di archiviazione. In particolare negli incontri con Nicotri, Patrizia D. B. ha affermato che la notte in cui vennero arrestati, MFA non sapeva chi fosse il giudice Santiapichi e tanto meno dove abitasse, lo avrebbe appreso soltanto durante l’interrogatorio con il magistrato Domenico Sica, chiamato dai carabinieri perché titolare all’epoca delle inchieste sul terrorismo rosso. Infatti i due sarebbero stati sospettati di essere “brigatisti”. Eppure, oltre a non riuscire a giustificare in modo credibile l’assenza di qualunque rapporto firmato, nemmeno una sola citazione della presenza del magistrato Domenico Sica nel verbale di quella notte, la donna ha sostenuto che l’interrogatorio del magistrato sulla politica e sui brigatisti andò avanti «per quasi due ore chiedendomi anche se conoscevo Severino Santiapichi e il motivo per cui ero andata vicino casa sua». Soltanto verso le 7.30 del mattino «nel ri-raccontare la mia giornata del 20 dicembre, io spontaneamente parlai del furgone guasto dell’Accetti, rottosi nel pomeriggio in pineta», l’attenzione così si spostò sull’investimento di Garramon, trovarono il furgone e arrestarono MFA. Sembra davvero inverosimile che la donna abbia dovuto raccontare più volte il motivo della loro presenza in quella zona, come dice, e soltanto due ore dopo abbia accennato al fatto che erano lì per recuperare il furgone. Eppure non aveva nulla da nascondere dato che, come ha detto, quella notte non sapeva nulla dell’incidente provocato da MFA. Allora perché non parlare subito dell’unico motivo per cui era nella zona, ovvero il semplice e innocente recupero del furgone del suo compagno a causa di un guasto al motore? “Filippo P.” ci ha comunicato che Patrizia D.B. parlò soltanto dopo due ore del furgone «perché inizialmente il Marco Accetti le aveva “consigliato di mentire” per affrettare i tempi del fermo data la notte alta, e quindi di evitare di parlare del furgone accidentato e di dire semplicemente che “erano una coppia in cerca di intimità”».

Se sono corretti i sospetti di MFA e Peronaci sulla vera identità di tale Filippo P., bisognerebbe riflettere sul perché Patrizia D.B. (suonatrice di flauto traverso, come Emanuela), legata sicuramente a MFA proprio nel periodo in cui sparì la Orlandi, voglia cercare di screditare in modo così forte e determinato l’attendibilità dell’uomo. Nel fascicolo della Procura si legge: Accetti «ha contratto matrimonio con Eleonora Cecconi il 25 maggio 1982 dalla quale si è separato di fatto nell’estate 1983; dal 1979 fino al giorno del matrimonio con la Cecconi ha intrattenuto una relazione con Patrizia D.B., relazione che poi è proseguita dopo la separazione dalla Cecconi, tanto che si trovava in sua compagnia in occasione dell’arresto per l’investimento di José Garramon. Che MFA e Patrizia D.B. fossero in ottimi rapporti nel periodo dell’incidente nella pineta è la stessa donna a dichiararlo nel primo interrogatorio in qualità di testimone: «Escludo nel modo più assoluto che Marco abbia tendenze omosessuali, lui ha sempre avuto molto successo con le donne. Io gli sono particolarmente affezionata. Siamo riusciti a mettere una pietra sulla sua esperienza matrimoniale e siamo tornati a stare insieme, anche se come amici, non come amanti» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Patrizia D.B. cercò dunque di allontanare da lui i sospetti di pedofilia verso Garramon, una testimonianza che produrrebbe soltanto una persona in buoni rapporti. E che lo rimasero, almeno fino al novembre 1983, è dimostrato da un altro fatto: agli atti compare di nuovo il nome di Patrizia D.B. come la ragazza che, assieme a Accetti, fermò Stefano Coccia: «Ennesima menzogna», afferma MFA, «fui io a fare quel nome perché non potevo dire chi fosse la ragazza bionda, e nominai la Patrizia perché già era comparsa nell’inchiesta, ripromettendomi in un secondo tempo, nel caso, di ritrattare». Dunque Accetti fa il nome di Patrizia D.B. per coprire la bionda Ulrike, eppure non esiste alcuna querela per calunnia da parte di Patrizia D.B. nei suoi confronti. Erano dunque d’accordo? (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).

Come è stato fatto notare da alcuni membri del gruppo Facebook in cui è comparso tale “Filippo P.”, l’utente è molto preoccupato che non venga fatto il nome di PDB mentre è meno preoccupato di se stesso. Eppure se si digita “Filippo Picchetti” su Google, compare l’articolo di Accetti in cui Picchetti viene accusato di non essere un profilo reale ma di nascondere il complice di un rapimento. Certamente PDB avrebbe tutto l’interesse per querelare per diffamazione Marco Fassoni Accetti, ma anche Picchetti dovrebbe farlo poiché c’è una chiara lesione del suo diritto di onore e reputazione. Eppure non lo ha mai fatto, aumentando i sospetti verso la sua vera identità. Il 24/03/16 ha tuttavia sostenuto di aver querelato Accetti, ma quest’ultimo ha smentito e infatti Picchetti non ha mostrato la copia della presunta denuncia. Il fatto che tale Filippo Picchetti non abbia mai agito in sede legale contro Marco Accetti certamente è un elemento che rafforza i sospetti che si tratti di un profilo falso, così come lo stesso Accetti ha più volte ribadito.


 

Il teschio e le lettere del 2012-2013.

Tre mesi prima della comparsa di MFA, il 21 dicembre 2012 sul colonnato di San Pietro a Roma è stato rinvenuto un teschio, mentre pochi giorni dopo la sua comparsa, Raffaella Monzi e Antonietta Gregori hanno ricevuto una lettera anonima contenente una minaccia: “Non cantino le due belle more per non apparire come la baronessa e come il ventuno di gennaio martirio di S. Agnese con biondi capelli nella vigna del Signore”. I riferimenti sono alla baronessa de Rothschild e a Caterina Skerl, entrambe persone che MFA ha collegato nelle sue deposizioni con il caso Orlandi (facendo notare che il telgramma arrivato alla baronessa, seppur già scomparsa, era firmato Roland, anagramma di Orlandi, e che a Grottaferrata, luogo di morte della Skerl il 21/01/83, aveva sede l’associazione Pro Fratribus di monsignor Hnilica, anticomunista, attiva nel finanziamento a Solidarnosc). C’è anche la foto di un teschio umano con la scritta “Eleonora De Bernardi, Morta in Campagna, Lì 23 agosto 1854”, stesso nome della ex moglie di MFA, Eleonora C, che Accetti ha indicato come colei che spediva le lettere da Boston (dove si recò effettivamente in quel periodo a trovare il fratello, cfr. Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Il teschio è custodito (e fotografato) nei sotterranei di Santa Maria dell’Orazione e Morte, in via Giulia. Accetti ci ha riferito che è la stessa via in cui avrebbe abitato proprio Eleonora (cfr. telefonata del gennaio 2016). I magistati hanno concluso che l’autore delle lettere è lo stesso che ha lasciato il teschio a San Pietro. E’ stato lo stesso MFA per prepararsi la scena? Lui ha negato, sospettando che a scriverle potrebbe essere state spedite dalla persona che lo ha minacciato nel 1998 -a causa di questo fatto MFA ha imitato Benigni sulla Rai chiamandosi Alì Estermann-, riconducibile agli ambienti di monsignor Bruno della diocesi di New York, il quale cercherebbe di imitare il suo modo di parlare, «forse è sempre lui ad aver scritto le due lettere anonime che minacciavano le ragazze testimoni, lettere che riconducono ai codici da noi adottati negli anni ‘80 ed al mio stilema fotografico».

Effettivamente è inverosimile che MFA abbia voluto davvero preannunciarsi in modo tanto plateale per accreditarsi come testimone credibile, guarda caso proprio due giorni prima la sua apparizione, facendo credere che vi sia qualcuno intimorito dalle sue rivelazioni tanto da intimare “le due belle more” a non parlare. Un’idea controproducente, se fosse lui l’autore: un mitomane ossessionato dal caso Orlandi fin dal 1983 (testimoniato dai familiari), aspetterebbe 30 anni nell’anonimato costruendo un’intricata ma comunque verosimile storia (tant’è che non è stato subito liquidato dai magistrati, che hanno impiegato diverso tempo a studiare le sue rivelazioni senza però mai arrivare ad accertarle, anche a causa della mancanza di altri testimoni) per poi apparire nel 2013, cadendo nella colossale ingenuità di farsi anticipare due giorni prima dalle lettere e, tre mesi prima, da un teschio. Oltretutto, ci ha fatto notare proprio lui: «Nel 2013 qualcuno ha lasciato un altro teschio sotto il colonnato di San Pietro, un mese prima che io mi presentassi [in realtà si tratta del 21/12/12, tre mesi prima, nda], un luogo altamente monitorato dalle telecamere. Loro [gli inquirenti, nda] hanno quindi l’immagine di chi ha deposto quel fardello e non se n’è mai saputo niente. Colui che ha posto il teschio certamente sa delle due lettere. C’è un’omissione, una copertura» (telefonata del gennaio 2016). Se non è stato Accetti a lasciare teschio e lettere, come effettivamente sembra, esiste allora qualcuno che teme il suo racconto e intima ai testimoni di non parlare? Perché questo qualcuno cita tutti gli elementi chiave (sottoforma di codice, nello stile della fazione di Accetti) del racconto che farà Accetti di lì a poco? La morte della baronessa e della Skerl; la testimone Eleonora (citando il suo nome e fotografando il teschio posizionato nella stessa via in cui lei viveva, almeno secondo quanto ci ha riferito Accetti); la parola “fiume” cioè l’Avon; via Frattina cioè la camicia della Skerl; il numero 4 che spesso ritorna nei codici verso Agca (seppur non lo abbiamo ritenuto significativo), il 4 dicembre 1979 fu la data dell’uccisione da parte delle forze armate saudite degli assaltatori della Mecca; l’Amerikano attraverso la citazione degli spartiti fatti da lui ritrovare; la foto con l’attentato al Papa, elemento centrale per Accetti. Se non è stato Accetti, è possibile che l’autore abbia reso pubblici gli elementi chiave della ricostruzione che avrebbe fatto Accetti di lì a poco, tentando così di far credere che sia stato proprio il supertestimone a scrivere le lettere, per rendersi credibile? Un modo dunque per screditarlo?

Una cosa non è comunque chiara: il teschio fatto ritrovare a San Pietro il 21 dicembre 2012, è stato posizionato presumibilmente nella notte tra il 20 e il 21, esattamente come lui nella notte tra il 20 e il 21 dicembre 1983 ha investito Garramon ed è stato arrestato. Tuttavia, Accetti, ha sempre dichiarato di essersi deciso a presentare soltanto nel marzo 2013, dopo l’elezione pontificia del non curiale Papa Francesco. Il presunto minacciatore come faceva a sapere che Accetti si sarebbe presentato nel marzo 2013? Nessuno poteva sospettare che Benedetto XVI avrebbe rinunciato al ministero petrino nel febbraio. E’ stata una coincidenza? Accetti voleva già presentarsi, anche prima del cambio di pontefice, e il minacciatore ne è venuto a conoscenza? Oppure, ipotesi inquientante, l’autore del gesto sapeva che Accetti era pronto a presentarsi già nel 2005 se non fosse stato eletto un pontefice curiale, è poi venuto a conoscenza delle intenzioni di Benedetto XVI di “dimettersi” di lì a poco (segreto pontificio rivelato soltanto a tre persone) e ha minacciato Accetti preventivamente, temendo l’elezione di un pontefice non curiale nel conseguente conclave? In ogni caso, alla fine del ragionamento, riteniamo che la comparsa di quelle lettere sia una prova a suo favore.


 

Il camper.

In più occasione Marco Accetti ha sostenuto che Emanuela, dopo il finto sequestro, sarebbe stata spostata da un luogo all’altro e ospitata a bordo di un camper in varie aree di Roma.

«Il camper per noi era un elemento strategico, ci consentiva di agire senza destare sospetti», ha dichiarato615in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

La targa del camper sarebbe stata «riferibile alla Germania occidentale e a bordo due tedeschi, muniti di falsi passaporti degli Stati Uniti»616in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 135, 136. Una dei due tedeschi era la ragazza bionda della Stasi, nome in codice Ulrike.

Al momento non c’è modo di provarlo, tuttavia c’è un dettaglio a favore di questa tesi di cui nessuno ha mai parlato (siamo i primi a farlo).

Nella relazione della polizia scientifica del 30/07/1983 sull’audiocassetta fatta ritrovare dai presunti sequestratori con le (presunte) sevizie rivolte ad una donna da parte di tre uomini, verranno analizzati in maniera dettagliata i rumori di sottofondo.

All’inizio dell’audio i periti della polizia percepiscono il rumore di un motore di un’auto Diesel nelle vicinanze oppure, affermano, tale rumore d’auto si troverebbe già nella ripresa cinematografica «perché effettuata in un camper con motore diesel».

Ritennero questa seconda ipotesi la più probabile rispetto alla registrazione dell’audio nella stanza di un’abitazione, in quanto «dopo l’accelerazione dell’auto vi è il rumore di un oggetto che cade, dovuto allo spostamento del camper (o roulotte)». Un’altra prova fornita è l’assenza di rumori di passi.

Accetti ha letto questo dettaglio di questa relazione e l’ha usato per inserire il camper nel suo racconto inventato? Non si può escludere, tuttavia il reo-confesso dopo la sua comparsa raramente ha parlato dell’audiocassetta e mai ha citato questo particolare di questa relazione per rispondere alle tante richieste da parte degli inquirenti e dei giornalisti di comprovare la sua testimonianza.

E’ un dettaglio apparentemente così insignificante che nessun giornalista o studioso del caso Orlandi se n’è mai accorto fino ad oggi, oltre a noi. Lo riteniamo per questo un punto a favore dell’autenticità delle parole di Accetti.

Una nota relativa a questa audiocassetta è contenuta nelle parole di Accetti, il quale riferì che la voce di un prelato vicino a Marcinkus fu registrata e inserita nell’audio come “montaggio” con la voce della Orlandi. Tuttavia, la voce del monsignore, montata ad arte, sarebbe stata esclusa dalla copia resa pubblica alla stampa ed inquirenti italiani, mentre la copia originale sarebbe stata usata esclusivamente per pressioni “interne”617M. Accetti, Memoriale, 2014.

 

I PUNTI DEBOLI DELLA TESI DI MARCO FASSONI ACCETTI


 

Le conclusioni della Procura di Roma.

Il 30 settembre 2015 la Procura ha archiviato il caso sentenziando che il racconto di Accetti sarebbe «frutto di un lavoro di sceneggiatura scaturito dallo studio attento di atti e informazioni scaturite negli anni da parte di un soggetto con spiccate smanie di protagonismo»618G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 51.

I magistrati ritennero infatti che Accetti avrebbe consultato ed esaminato in maniera puntuale e dettagliata le carte del caso Orlandi e le pubblicazioni esistenti sull’argomento, risultando preciso nella descrizione degli elementi oggetto di pubblicazioni e decisamente più vago rispetto a ciò che non è mai emerso pubblicamente.


 

Rimorsi di coscienza.

Nella sua ricostruzione Accetti, seppur facendo pochi nomi, coinvolge decine e decine di persone, tra ecclesiastici, arcivescovi, faccendieri, ex 007 deviati, monaci, sacerdoti lituani (vicini a mons. Bačkis) e francesi, membri laici della giunta del Governatorato, vicini al defunto marchese Sacchetti, una serie di ragazze, italiane e non, amiche e compagne di scuola delle scomparse, le fidanzate del supertestimone, l’ex compagno di classe di Accetti del San Giuseppe De Merode, figlio di un diplomatico in cordiali rapporti con monsignor Silvestrini (che avrebbe messo a disposizione un appartamento in pieno centro dove incontrare Agca alla vigilia dell’attentato), la bionda Ulrike fiancheggiatrice della Stasi, il ragazzo svizzero con cui si sarebbe allontanata Mirella, l’infiltrato nella redazione de “Il Tempo” ribattezzato Ecce Homo, le guardie penitenziarie corrotte che mandavano messaggi ad Agca, qualche esponente della Magliana, l’idealista turco che avrebbe incontrato Mirella ed Emanuela il giorno della scomparsa, la guardarobiera di Palazzo Barberini, pagata dalla sua fazione ecc. Di molti personaggi Accetti ha descritto abitudini, ruoli, fatti biografici dunque loro si sono riconosciuti, ma noi non possiamo riconoscerli. Molti sono morti, altri sono in vita. La maggior parte non sarebbe accusata di nulla, non ha commesso reati gravi e potrebbe solo confermare parti del racconto, quelle che lo riguardano. Sarebbe un piccolo contributo di verità.

Eppure, tra tutti essi, nessuno/a -a parte lui- leggendo le rivelazioni di Accetti, riconoscendo l’utilità del suo piccolo o grande ruolo all’interno di un complesso scenario di pressioni e ricatti, ha avuto un rimorso di coscienza, -come mai lo ha avuto in questi trent’anni-, decidendo di autodenunciarsi o, semplicemente, corroborando i racconti di Accetti, impietosendosi davanti alle famiglie delle giovani che sono rimaste vittime di questo ganglio occulto. Parlando delle amiche e delle sodali di Accetti, l’uomo ci ha criticato: «Voi scrivete che poiché queste donne, oggi, poiché sono madri di famiglia non malavitose dovrebbero sentire ancor di più la voce della coscienza. E’ invece vero il contrario: la donna di cinquant’anni, madre di famiglia con figli, non va ad esporsi facendo sapere che quando aveva 18-20 anni partecipò alla scomparsa di due ragazze, mettendo a repentaglio i figli e il loro futuro. Il vostro è un parallogismo terribile» (telefonata del gennaio 2016). L’obiezione è valida, è un altro punto di vista. Rimane da spiegare il mancato rimorso di coscienza di tutte le altre persone, sopratutto quelle che hanno avuto ruoli minori, assolutamente secondari e limitatissimi nel tempo. Sono sottoposti a minacce? Al “non cantino le belle more”? Perché allora MFA non ha avuto paura? A lui non è accaduto nulla, eppure non è certo introvabile.


 

Porta Sant’Anna.

In tutto il racconto di Marco Accetti ci sono alcuni elementi assolutamente poco credibili che minano l’autenticità delle sue parole.

Il primo tra questi è il fatto che dopo essere stata prelevata dal Senato, Emanuela assieme a una sua compagna sarebbero state portate su un’auto di lusso davanti a Porta Sant’Anna e la stessa Orlandi sarebbe entrata all’interno per recarsi al cortile Sisto V e chiedendo a quante più persone possibili dove rintracciare un certo ecclesiastico vicino a mons. Marcinkus.

Se davvero fosse accaduto è impossibile che nessuno l’abbia vista, lo stesso Pietro Orlandi ha giustamente osservato: «Bisogna passare davanti alle guardie svizzere, poi alla parrocchia di Sant’Anna, salire la scala e arrivare in cima, all’ingresso dello Ior, dove la sua presenza sarebbe stata notata. È matematicamente impossibile che in un paesetto come il Vaticano nessuno l’abbia vista».

La sensazione è che l’episodio non sia vero e Accetti l’abbia inserito nel racconto per giustificare le parole riferite dal card. Silvio Oddi nel 1993, quando raccontò di aver visto entrare in Vaticano Emanuela Orlandi a bordo di un’auto di lusso: «L’ho vista andare a casa, tornare e risalire in automobile…»619citato in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 282. Successivamente il prelato smentì: «Erano chiacchiere ascoltate per strada, da qualcuno che parlava della scomparsa di Emanuela Orlandi, come in quei giorni facevano un po’ tutti dalle parti di San Pietro».

Se il fatto fosse vero avrebbe certamente generato decine di testimoni, anche perché proprio quello sarebbe stato lo scopo. Sorprende che Accetti abbia potuto inserire nel suo elaboratissimo racconto un elemento così oggettivamente e palesemente impossibile.


 

La lettera di Alessia Rosati.

Nel descrivere le vicende legate alla scomparsa di Alessia Rosati, Accetti ha sostenuto che, dopo la sua scomparsa, a scrivere all’amica Claudia sarebbero stati i rapitori: «Ho sempre pensato che i responsabili di tale scomparsa abbiano scelto come destinataria della lettera proprio tale amica, per farci comprendere che sapevano di quel nostro primo incontro»620M. Accetti, L’esistenza di un’altra Emanuela Orlandi, 22/10/2015.

Poco tempo dopo tale affermazione, in un secondo articolo, Accetti ha sostenuto di aver invitato lui la Rosati ad inviare tale lettera: «Insieme ad Alessia ed altri, concordammo il suo andarsene di casa, spiegato da una lettera fatta pervenire alla stessa amica che fu presente nel momento in cui non fece ritorno presso la sua famiglia»621M. Accetti, Alessia Rosati giudiziariamente, 09/11/2015.

Si tratta di due versioni incompatibili e su un elemento tutt’altro che marginale. Come può essersi semplicemente confuso o dimenticato? Quella lettera era il fulcro di tutto il presunto finto rapimento.


 

Regista e sceneggiatore.

Le competenze artistiche di Marco Accetti come regista e sceneggiatore, oltre a essere un argomento a favore, possono essere lette anche come punto a suo sfavore in quanto, effettivamente, potrebbe averle sfruttate per “inventare” un racconto abbastanza solido attingendo notizie da articoli, pubblicazioni e atti processuali aggregandovi fantasia, variazioni personali e dati inediti, appositamente inverificabili, proprio per non sembrare semplicemente un forte appassionato del caso.

D’altra parte è stata anche la conclusione della Procura di Roma con l’archiviazione nel 2015622G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 50, 51: da un canovaccio (articoli e atti processuali) ad un copione.

Certo, l’obiezione non riesce a spiegare l’enorme mole di coincidenze (punto 2 degli argomenti a favore), collegamenti e dati, a volte inediti, portati alla luce da Accetti, tuttavia ciò viene ridimensionato se si tiene conto che l’uomo dal 2008 al 2010 ha frequentato assiduamente, due o tre volte la settimana, la postazione internet della biblioteca di Villa Leopardi, a pochi metri da casa sua, in compagnia della sua collaboratrice, Dany Astro623P. Nicotri, Mistero Orlandi. Silvana Fassoni madre di Marco Accetti: Come si fa a credergli?, BlitzQuotidiano, 05/05/2014.

Occorre anche dire che Accetti ha voluto rispondere a ciò: «E’ un falso che io potessi frequentare quel luogo tanto assiduamente, e se mai esiste un qualunque testimone che possa smentirmi, si presenti in procura come già detto, e lo dichiari. Dimostrerò con le mie testimonianze che frequentavo quel luogo sporadicamente, e non certo tutti i mesi. Consultavo, come ho sempre fatto, vari testi storici di cui avvalermi per le ricostruzioni altrettanto storiche dei miei lavori foto-cinematografici»624M. Accetti, Strategia di Pietro Orlandi, 27/11/2014.

Per quanto riguarda l’uso dei computer, «fui io a dichiarare innanzi a molteplici persone e rivolgendomi proprio al suddetto responsabile della struttura, che ero solito usare anche la postazione internet, allo scopo di avere alcuni contatti con persone, la cui traccia non desideravo restasse presso il mio personale computer»625M. Accetti, Strategia di Pietro Orlandi, 27/11/2014.


 

Parola d’onore.

Marco Accetti non ha mai voluto rivelare i nomi dei suoi complici e delle persone che hanno preso parte della vicenda (in particolare coetanee di Emanuela usate per conquistarne la fiducia e prelati qualificabili come officiali maggiori di seconda classe), limitandosi a fare loro un appello a presentarsi spontaneamente.

Ha giustificato questo comportamento così: «Esistono pochi valori sacri nella vita, e la parola è tra questi. Quando uno l’ha data, anche in tempi remoti, deve mantenerla»626in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 18.

Il non tradire la parola data è certamente una virtù, anche se rivelare nomi e dati concreti significherebbe risarcire -seppur parzialmente- la vita di due ragazze scomparse a causa sua (secondo il suo racconto). Ha contribuito a tradire due (e molte più) vite di innocenti e ora si fa scrupoli a tradire la parola data ai suoi complici (malfattori, oltretutto, poiché complici di un crimine)? Voleva tenerle lontane solo qualche ora? Eppure il gioco diventò un incubo e queste ragazze hanno perso la loro vita, anche per colpa dei suoi piani.

A livello morale non c’è paragone tra il tradire la parola da a complici di un misfatto e mantenere due famiglie (Orlandi e Gregori) schiacciate sotto il macigno della frustrazione per il totale buio sulla sorte delle due ragazze, accrescendo inoltre la loro sofferenza per un uomo che dice di sapere e non vuole parlare per “rispettare la parola data”. Possibile che la parola d’onore “tra gentiluomini” valga più della possibile fine della straziante situazione di tutte queste persone (compresa la madre di Emanuela)?

Infine, la parola data vale forse per i suoi sodali. Non certo per la presunta fazione nemica, quella “conservatrice” e patteggiante per Marcinkus, Gelli, Ortolani, elementi del SISDE e i vari ecclesiastici anticomunisti e filo-americani. Secondo il suo racconto, la fazione nemica avrebbe provocato l’omicidio di José Garramon e lo avrebbe fatto incarcerare e perseguire dalla giustizia. Perché non rivela i loro nomi? Certamente non ha alcuna parola d’onore con loro.


 

Prove materiali e fotografiche.

Pur evitando di fare nomi dei suoi sodali per rispettare la parola data, Marco Accetti potrebbe produrre almeno una delle innumerevoli fotografie che disse di aver scattato, anche senza mostrare persone che vuole evitare di coinvolgere. Ad esempio le fotografie di Emanuela Orlandi mentre entra a Porta Sant’Anna dopo la sparizione o una foto del camper nella pineta di Castel Porziano ecc..

Queste sarebbero prove determinati e non chiamerebbero in causa nessun complice. Ha fatto ritrovare quello che dice essere il flauto di Emanuela, sul quale però è stato impossibile risalire alle tracce di Dna. Potrebbe sapere dove sono i vestiti di Mirella Gregori, che li cambiò nel bagnò dei De Vito il giorno della sparizione?

Accetti a questo ha risposto: «Tenere foto o altro sarebbe stato folle, era materiale compromettente, alla prima perquisizione lo avrebbero trovato. Mi sono liberato di tutto, eccetto il flauto, che ho conservato per usarlo nei miei allestimenti e nascosi in un trovarobe dell’ex stabilimento De Laurentis, in quanto se fosse stato trovato sarebbe stato scambiato per un oggetto di scena»627in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 100.

Sappiamo che non è vero in quanto lui stesso ha sostenuto di aver sotterrato «documenti, atti, carte compromettenti su qualche prelato» in alcune scatole metalliche presso il sito archeologico medievale nei pressi di Santa Maria di Galeria628in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 169. E’ impossibile pensare che non abbia tenuto alcuna inedita prova documentale, flauto a parte, di tutta la pluridecennale attività ricattatoria che avrebbe imbastito dagli anni ’70.


 

Sensazione del collage.

Leggendo le lunghe dichiarazioni di Marco Accetti non si può negare ciò che i magistrati hanno concluso. Ovvero la netta sensazione in determinati momento di essere di fronte a un enorme collage, ovvero che l’abile sceneggiatore sia stato in grado di unire i fili di tutte le piste investigative e le notizie di cronaca che sono emerse in questi anni, aggiungendo qua e là numerosi dettagli precisi impossibili da verificare, con lo scopo di dare credibilità al tutto.

Ecco quindi che Accetti ha raccolto nel suo racconto la pista sessale (“una copertura”), quella internazionale (Agca, la Stasi e i bulgari), la Banda della Magliana (De Pedis e i suoi uomini come manovalanza), la testimonianza del card. Oddi (Emanuela rientra in Vaticano), la Bmw verde metallizzato riferita dal vigile Sambuco, il tascapane (azzurro, però) mostrato a Emanuela, i sospetti su Raoul Bonarelli, la Mercedes targata Città del Vaticano di cui ha parlato la Minardi ecc.

Un lavoro enorme, piuttosto improbabile, lo riconosciamo. Ma, d’altra parte, come attestano i suoi familiari, il suo interesse (o “ossessione”) per questo caso a partire dal 1983 (quindi ha avuto 30 anni per assemblare il collage).

Infine, è bizzarro e manicheo gioco delle parti che Accetti attribuisce alle due contrapposte fazioni vaticane. Una sostanzialmente “buona”, la sua, quella “progressista”, che semplicemente avvicinava i vari adolescenti e li fotografava e l’altra, quella “cattiva”, che puntualmente li uccideva. Così sarebbe avvenuto, ad esempio, per José Garramon e Catherine Skerl.


 

L’opinione su di lui dei suoi famigliari.

Secondo la deposizione del padre, Aldo Accetti, e della sorella, Laura Accetti, Accetti sarebbe stato particolarmente colpito dalla sparizione della Orlandi, tanto da essere stato visto scrivere lettere anonime, effettuare telefonate e ritagliare articoli di giornale in merito, giustificandosi dicendo di farlo solo per gioco. I familiari parlano di “ossessione”629G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

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Il padre Aldo, la sorella Laura Accetti e la madre, Silvana Fassoni, hanno ritenuto tutto il racconto frutto della fantasia di Marco.

I famigliari lo avrebbero semplicemente coperto per non farlo condannare? Non si può escludere, tuttavia queste opinioni provennero da intercettazioni di telefonate private ed è davvero poco probabile che i suoi familiari siano stati tutti così abili (e coraggiosi, perché avrebbero dichiarato il falso in Procura) a sapere di essere intercettati e gestire le varie telefonate in modo da non far trapelare la verità, dipingendolo solo come mitomane.

 

 

5.3 Conclusioni sulla pista di Marco Accetti.

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Dopo questa approfondita analisi delle rivelazioni di Marco Accetti, riteniamo errata la volontà della Procura ad archiviare il caso, decisione a cui si è opposto Giancarlo Capaldo, magistrato che ha seguito le indagini e ha interrogato a lungo Accetti, almeno prima di essere estromesso dal caso nel 2015.

Il reo-confesso ha fornito una complessa, stratificata e intricata ricostruzione dei fatti, offrendo collegamenti inediti (ad esempio, in alcun comunicato o atto processuale viene collegata la morte di Paola Diener con il comunicato del 28/10/83 in cui si parlò di una “cittadina soppressa il 5-10-83”).

Pur con tutti i limiti e le contraddizioni del suo racconto, evidenziate nei “punti deboli”, riteniamo che Accetti abbia fornito la pista più verosimile mai emersa finora sulla sparizione di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori.

Liquidare Accetti come una persona semplicemente ossessionata dal caso Orlandi che negli anni ha elaborato tale racconto studiando libri, articoli e carte processuali si scontra con il suo completo silenzio pubblico e mediatico fino al 2013.

Certamente la sua ricostruzione manca di elementi comprovanti, tuttavia la sua biografia personale presenta troppe coincidenze storiche con la vicenda oggetto del suo racconto, tanto da aiutarlo facilmente a smarcarsi dall’accusa rivoltagli dai magistrati e da tutti coloro che lo ritengono un mitomane.

 
 

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7. L’IPOTESI DELLA REGIA UNICA

Ci sono pochi argomenti a sostegno e contro la tesi della regia unica, ovvero l’ipotesi secondo cui dietro a tutto -anche a Marco Fassoni Accetti- vi sia una regia occulta che detta i tempi, che porta inizialmente gli inquirenti e i media verso la pista del terrorismo manovrando e ricattando Alì Agca, il quale collabora e poi improvvisamente farnetica per rendersi inattendibile. Stratifica il depistaggio con sigle e comunicati, con incidenti e morti misteriose. Quando il processo del caso Orlandi-Gregori va verso l’archiviazione (1997), ecco che nel 1995 tenta -seppur senza successo- di aprire il filone della Banda della Magliana con un’informativa sulla tomba di De Pedis nella Basilica di Sant’Apollinare. Nel 1998 avviene la morte misteriosa della guardia svizzera Alois Estermann in Vaticano, nell’aprile 2005 riesce a gettare l’attenzione sul coinvolgimento di De Pedis tramite la sua tomba nella Basilica a fianco della scuola di musica di Emanuela. Nel marzo 2008 fa comparire Sabrina Minardi, “supertestimone” che si autoaccusa di complicità nella sparizione della Orlandi, mischiando secondo il grande copione, racconti verosimili ad altri platealmente sbagliati, rendendosi inattendibile e inaccusabile proprio come fece Agca, ma, tuttavia, portando il caso nuovamente sulle prime pagine dei giornali.

L’attenzione si esaurisce verso la fine del 2012, spegnendosi dopo l’infruttuosa perquisizione della tomba di De Pedis e della Basilica di Sant’Apollinare. Ed ecco all’inizio del 2013 la comparsa di Marco Fassoni Accetti, che riaccende di nuovo i riflettori sul caso con un racconto verosimile e inverosimile, che impedisce di verificare le dichiarazioni fatte portando quindi all’archiviazione del caso nel 2015, dopo due anni di spasmodica attenzione mediatica al caso Orlandi. Anche lui sarebbe una pedina di questa regia occulta (come la Minardi, come Luigi Gastrini e i tanti che in questi anni si sono accusati o hanno accusato qualcuno), che da 30 anni tiene aperto questo caso e tuttavia ne impedisce la soluzione, come se avesse l’interesse ad utilizzarlo come un mezzo di pressione e ricatto. E’ lo stesso MFA infatti a citare l’esistenza di suoi responsabili o superiori a cui obbediva durante i depistaggi post-sparizione: «I vertici, a noi elementi operativi, chiesero quindi di interrompere le pressioni in corso nella pineta…».

Certamente il comportamento di Agca va in questa direzione: perché l’attentatore turco continua a farsi passare come pazzo a distanza di anni dalla fine del processo, anche dopo la sua scarcerazione, anche oggi che non ha più interessi personali da ottenere. Continua ad obbedisce ad una regia nascosta? Se si pensa inoltre alle lettere arrivate a Raffaella Monzi e Maria Antonietta Gregori il 25 marzo 2013, potrebbe essere un messaggio in codice proprio a Marco Fassoni Accetti, invitandolo a presentarsi con il flauto: lo si deduce dal riferimento nella lettera agli spartiti del musicista Hugues, che vennero trovati il 4/09/83 grazie ad una telefonata dell”Amerikano”, il quale li fece trovare in una busta in via Porta Angelica. Su una pagina c’è il riferimento alla basilica di Santa Francesca Romana, dove «il pontefice celebra la Via crucis». Fassoni Accetti racconterà alla Procura che il flauto allora venne nascosto in quella basilica, ma non fu trovato dagli agenti di polizia che vi andarono. Sempre che il racconto corrisponda alla verità, potrebbe essere che l’autore della lettera del 25 marzo 2013 citi gli spartiti di Hugues per alludere al messaggio dell'”Amerikano” del settembre 1983 attraverso il quale si voleva portare alla luce il flauto di Emanuela, indicando a Fassoni Accetti -autore di questo messaggio- il momento adatto per comparire con il flauto? Potrebbe essere che lui abbia obbedito, facendolo trovare sotto una formella della Via crucis -parola citata nel messaggio dell’Amerikano del 04/09/83- utilizzando a sua volta questo particolare come un possibile codice di risposta? Potrebbe essere il teschio di tal “Emanuela De Bernardi”, che compare nel negativo della lettera arrivata il 25/03/13, una forma di minaccia a Emanuela Cecconi, ex moglie di Fassoni Accetti, perché non riferisca notizie che lo coinvolgano con certezza nel caso?

L’uomo che in questi tredici anni ha seguito passo dopo passo le indagini sul caso è Nicola Cavaliere, che all’epoca dei fatti lavorava alla squadra mobile di Roma. Il dirigente di polizia ritiene che questa enorme incertezza sul “caso Orlandi” sia voluta: «Gli organizzatori hanno probabilmente ancora oggi interesse a tirare fuori la vicenda in determinati momenti per tenere sulle corde certi ambienti. Si vuole che qualcuno resti sempre allertato sul caso, nonostante sia passato così tanto tempo». Nell’agosto 2008 Cavaliere dirà che tutti i messaggi e le rivendicazioni accumulatesi nel corso degli anni «ebbi il sospetto che in prevalenza provenissero da uno stesso ambiente, la cui attività sembrava tesa sopratutto ad intralciare il nostro lavoro. Chi non conosce quegli anni, quelle realtà, difficilmente può capire cosa si muovesse dietro le quinte di questa vicenda, quali e quanti fossero gli intrecci e le compromissioni» (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 24)

Ovviamente è una ipotesi assolutamente teorica e inverosimile che tuttavia potrebbe essere avanzata da coloro che sono convinti dell’esistenza di una regia occulta interessata a tenere sotto i riflettori il caso Orlandi-Gregori senza però giungere alla sua soluzione, muovendo i fili attraverso messaggi in codice e apparizioni di personaggi-pedine che si autoaccusano (probabilmente anche loro sotto ricatto o minacce) e che rivelano racconti mischiando parti di verità -utili a rendere il racconto verosimile, minimamente corroborato da piccole prove, ed eventualmente utilizzabile per mandare messaggi e codici a terzi- a elementi che rendano la persona inattendibile, anche a causa dell’impossibilità a dimostrare fino in fondo quanto raccontano. Noi non riteniamo che sia così, tuttavia finché non ci sarà la parola “fine” è bene non perdere di vista nemmeno questa ipotesi, seppur remota e complottista.

Accetti ha letto migliaia di articoli, sentenze e documenti sul caso Orlandi, sull’attentato al Papa e su tutti i filoni paralleli di cui ha parlato (Alessia Rosati, Katy Skerl, la baronessa Rotschild ecc.) per poi impadronirsene e inventare il racconto delle fazioni vaticane, porsi al centro di esso e autodenunciarsi alla Procura?

Sarebbe un comportamento a dir poco patologico e, pur ci sia a volte la sensazione che possa aver preso spunto dagli atti e da vari articoli giornalistici sui diversi casi, bisogna considerare una cosa importante. Noi stessi abbiamo cercato di documentarci su tutto questo per la redazione di questo dossier, l’indagine è stata svolta in equipe, abbiamo impiegato moltissimo tempo e lo abbiamo fatto in un contesto storico totalmente digitalizzato.

Accetti, invece, avrebbe dovuto studiarsi da solo migliaia di pagine a vari gradi di attendibilità, cercando elementi a lui utili per creare un racconto infinitamente complesso, all’interno del quale collegare creativamente tra loro i vari dettagli (codici, luoghi ecc.) e, con capacità logiche fuori dal normale, trasformare a proprio vantaggio centinaia di particolari appartenenti a vari casi di cui ha parlato. Il tutto non essendo un nativo digitale e in un’epoca molto meno informatizzata rispetto ad oggi.

Possiamo assicurare che è quasi impossibile studiare tutte le fonti dei casi contenuti all’interno del racconto di Accetti e, anche ammettendo che il reo-confesso abbia effettivamente potuto farlo, ci sarebbe sempre stata la possibilità di un fatale errore, di aver tralasciato una o più fonti che lo avrebbe platealmente smentito. Nemmeno un ricercatore universitario o un cosiddetto “topo d’archivio” riuscirebbe a inventare un racconto tanto originale, tanto stratificato e così complesso studiando migliaia di carte e inglobandole genialmente in un racconto totalmente inedito.

Tutto questo, inoltre, avendo anche la “fortuna” di avere un timbro di voce sovrapponibile a quello di due telefonisti e tutti i dati biografici di cui abbiamo parlato.

PISTA DELL’ALLONTANAMENTO VOLONTARIOI

 

1) Cinismo.

Per chi sostiene l’allontanamento volontario delle ragazze, pur con l’inganno, dovrebbe spiegare come hanno potuto restare lontane da casa, osservare indifferenti la sofferenza della famiglia, ignorare gli innumerevoli e strazianti appelli, apprendere dai media la morte dei genitori (il padre di Emanuela e la madre di Mirella) senza mai dare una minima notizia.

Si sarebbero spaventate nel veder catapultata la loro “scappatella” in mondovisione? Può essere vero nel primo periodo, ma questo non giustifica la lunga lontananza. Non ci sono elementi per ritenere che Emanuela e Mirella fossero un mostro di insensibilità e nulla accadde all’interno delle loro famiglie per giustificare l’assenza trentennale.

Non regge l’ipotesi che siano rimaste lontane da casa per lungo tempo in maniera volontaria.

 

2) Il lungo periodo di assenza.

E’ possibile che la loro lunga assenza sia dovuta al ricatto, magari con la minaccia di colpire i familiari in caso di loro ritorno?

Anche in questo caso è possibile sostenerlo nel primo periodo ma è poco credibile che entrambe le giovani, oggi donne adulte, non siano mai riuscite in oltre trent’anni a mettersi in contatto in maniera nascosta con qualche amico, parente o giornalista. La cronaca riporta talvolta casi di totale segregazione durata anche diversi anni ma sono casi rarissimi in Italia e bisognerebbe sostenerli per due persone sparite nello stesso periodo di tempo.

Anche in questo caso non regge l’ipotesi che nel lungo periodo siano rimaste lontane da casa per paura di ricatti o minacce.

 
 

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8. CONCLUSIONI

E’ difficile tirare conclusioni di fronte allo scenario descritto in questo dossier. Il maggior problema che è emerso è che tutte le ipotesi principali, come si è visto, hanno abbastanza luce da non poter essere messe da parte e abbastanza buio da non poter essere avvalorate con certezza. Parliamo della (1) ipotesi dell’allontamento volontario seguito da una probabile morte delle ragazze, probabilmente legata al successivo inserimento di elementi esterni, autori del depistaggio, intenzionati a sfruttare il caso e intenzionati affinché a Emanuela e Mirella accadesse davvero qualcosa perché rimanessero lontane da casa. Non può essere esclusa l’ipotesi (2) della Banda della Magliana, interessata a ricattare il Vaticano per recuperare il denaro investito nel Banco Ambrosiano (che escluderebbe però Mirella Gregori), più interessante (3) l’ipotesi della “pista internazionale”, legata alla ostpolitik vaticana e all’intervento dei servizi segreti dell’Est affinché Agca ritrattasse le accuse di complicità dell’attentato verso i bulgari./p>

Abbiamo dato ampio spazio sopratutto (4) alla tesi di Marco Fassoni Accetti che ha in qualche modo riunito tutte e tre le precedenti tesi: allontanamento volontario, seppur sotto inganno, delle ragazze -la cui sorte è sconosciuta anche a lui stesso-, con la complicità degli uomini di De Pedis a causa di interessi comuni (lo Ior), il cui obiettivo principale era la ritrattazione di Agca e la politica estera del Vaticano verso i Paesi comunisti. Quest’ultima, come si è capito leggendo il dossier, per tutti i motivi che abbiamo presentato la riteniamo l’ipotesi più verosimile in quanto il racconto organico dell’uomo riesce effettivamente a resistere ai “punti deboli” che, comunque, non mancano nemmeno alla sua ricostruzione. Per ultimo non ci sentiamo nemmeno di escludere (5) l’ipotesi della “regia unica”, sopratutto osservando la puntualità della comparsa di tesi e supertestimoni proprio nel momento in cui il caso Orlandi perdeva di attenzione mediatica.

Questo dossier rimarrà in continuo aggiornamento e seguirà l’evolversi della vicenda e la comparsa di nuove rivelazioni o precisazioni su quanto sopra esposto. Nell’augurio comune che si raggiunga una definitiva verità, qualunque verità sia, su questo caso che da trent’anni addolora i familiari di Emanuela e Mirella e sconcerta chiunque provi ad approfondirlo.

 

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Il vero pensiero di Tommaso d’Aquino sulle donne e sull’aborto

pensiero di san tommaso San Tommaso sulla donna. Un errore della natura? Quale concezione ne aveva Tommaso d’Aquino? Sosteneva l’aborto in quanto rifiutava l’infusione dell’anima al concepimento? In questo dossier chiariremo una volta per tutte queste false convinzioni.

 

Esiste un’opinione assai diffusa, purtroppo talvolta anche tra i cattolici, secondo cui oggi San Tommaso d’Aquino disapproverebbe l’attuale insegnamento del Magistero della Chiesa Cattolica sull’aborto.

Egli sostenne infatti che l’anima spirituale non venga infusa al momento del concepimento, e pertanto, si argomenta, avrebbe approvato l’aborto non essendo questo, secondo la sua dottrina, la soppressione di un essere umano. In realtà questa opinione si basa su una lettura superficiale dei testi dell’Aquinate, non informata da una chiara comprensione delle fondamentali questioni metafisiche e teologiche che sottendono le tesi qui discusse. Per comprendere la posizione tomista è necessario introdurre preliminarmente alcuni concetti fondamentali che l’Aquinate mutua direttamente da Aristotele, relativi in particolare alla dottrina sull’anima e alle teorie sulla riproduzione dei mammiferi. Non è possibile in questa sede una disamina dettagliata delle ricerche dello Stagirita, e ci si deve limitare ad un sunto schematico che sia di utilità al profano.

Quanto spiegheremo ci permetterà infine di chiarire anche un altro comune equivoco, esposto più avanti, relativo all’opinione di Tommaso sulla donna.

 

 
 
 
 

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1. ARISTOTELE: SULL’ANIMA E LA NASCITA DI UN NUOVO INDIVIDUO

Secondo la metafisica aristotelica la sostanza sensibile (l’esistenza di sostanze soprasensibili non è qui in discussione) è sinolo, ossia unione, di forma e materia. La forma (eidos) esprime la natura, l’essenza di un certo ente. Ogni ente ha un’essenza, ovvero il che cos’è l’essere di quel dato ente (to ti en einai, quod quid erat esse); l’essenza è ciò che viene espresso nella definizione, ed è quindi il contenuto strutturante per cui un certo ente è proprio quello che è; così ad esempio un cerchio è un certa figura che ha una serie di proprietà prese nella loro unità che lo costituiscono come tale; l’essenza è ciò per cui un cerchio è un cerchio, ciò per cui un uomo è un uomo e così via (è necessario dare questi esempi per comprendere attraverso l’analogia, perché quando si enunciano i principi primi, come appunto l’essenza, non si dispone di concetti più generali con cui si possa dare una definizione univoca). La forma è quindi atto, ovvero ciò per cui un dato ente esiste attualmente secondo una data essenza. La materia invece è il sostrato che riceve una data forma e fa sì che essa esista concretamente in un dato individuo, come la creta può ricevere la forma di un vaso o di una statua; ma l’analogia con la creta non deve essere spinta troppo in là, infatti ancor prima di ricevere la forma, ad esempio, di un vaso, la creta esiste già in qualche altra forma, mentre la materia, considerata come principio metafisico, è solo potenza rispetto alle forme. La materia quindi non può esistere senza la forma, e le forme necessitano di un sostrato da attuare (ripetiamo che qui non sono in discussione le sostanze soprasensibili, ossia immateriali), e pertanto la sostanza, intesa come ciò che sussiste per sé, è il sinolo di materia e forma.

La dottrina aristotelica sull’anima è compresa all’interno del fondamentale quadro teoretico appena esposto: per il Filosofo infatti l’anima è la forma di un corpo fisico organico; forma nel senso metafisico sopra introdotto, ma una forma particolare, ovvero ciò per cui i viventi vivono ed esercitano le funzioni che sono loro proprie. Non tutti gli enti sono viventi, ma solo quelli che sono in-formati, strutturati, attuati in modo da avere in sé il principio del proprio sviluppo, del proprio movimento, del proprio agire e dell’autoconservazione; la forma dei viventi è ciò che chiamiamo anima.

Aristotele prosegue poi la sua analisi distinguendo nell’anima tre parti, sulla base delle funzioni da esse presiedute: 1) l’anima vegetativa, le cui funzioni sono nascita, nutrizione e crescita; 2) l’anima sensitiva, da cui dipendono movimento e nutrizione; 3) l’anima intellettiva, propria solo dell’uomo e che fonda la capacità di conoscere, di giudicare e di scegliere liberamente. Si deve però stare attenti a non commettere l’errore di ritenere che gli animali abbiano due anime distinte o che l’uomo ne abbia tre, infatti per un animale le funzioni di nutrizione e sviluppo saranno diverse da quelle analoghe per una pianta; le funzioni vegetative dipenderanno quindi da quelle sensitive. In parole povere le funzioni di un’anima superiore includono quelle di un’anima inferiore. Aristotele stesso scrive: «È lo stesso caso quello delle figure e quello dell’anima, perché sempre nel termine seguente è contenuto in potenza il precedente e riguardo alle figure e riguardo agli esseri animati: per esempio, nel quadrato il triangolo, nell’anima sensitiva la nutritiva.» (De anima II 3, 414 b 30)

Quanto esposto finora è un discorso essenzialmente metafisico, che non dipende dalle particolari conoscenze scientifiche dell’epoca, e che pertanto conserva intatta nel tempo la sua validità. Arrivando invece agli aspetti propriamente biologici, con riferimento al trattato De generatione animalium, per la generazione di un nuovo individuo è necessaria l’unione del seme maschile, che il Filosofo identifica con lo sperma, e del seme femminile, identificato con il mestruo. Secondo Aristotele il seme sarebbe il residuo, ovvero il prodotto ultimo del processo di nutrizione; l’ultimo prodotto necessario all’organismo sarebbe il sangue, poi da questo, con un ulteriore processo di trasformazione, verrebbe prodotto il seme. Nelle donne quest’ultimo processo non avverrebbe però in modo completo, dal momento che esse sarebbero più deboli e quindi dotate di meno calore, ed è questa differenza che spiegherebbe l’origine della diversità tra il seme maschile e quello femminile. Dal fatto che il mestruo è simile al sangue e che esso viene espulso quando non avviene la fecondazione, Aristotele deduce che il seme maschile sarebbe l’unico elemento attivo del processo di riproduzione, ovvero il portatore della forma (cioè dell’anima) la quale attuerebbe e controllerebbe la generazione e lo sviluppo del nuovo individuo. Il seme femminile sarebbe invece la materia informata dall’atto del seme maschile e che conterrebbe solo le forme femminili che ovviamente non potrebbero derivare dal seme maschile.

Usando un’analogia, Aristotele dice che il seme maschile e quello femminile starebbero in rapporto tra loro come il vasaio con la creta del vaso. Ad ogni modo entrambi i semi non possono produrre nulla da soli, ma è solo dalla loro unione che si genera il nuovo individuo, che quindi inizia ed esistere dal momento del concepimento. All’inizio solo le funzioni dell’anima vegetativa sono in atto, ma negli animali esistono già in potenza le funzioni dell’anima sensitiva, e nell’uomo quelle dell’anima intellettiva, perché sin dal primo momento è in atto un individuo della stessa specie dei genitori ed il cui sviluppo è già orientato alla piena attuazione delle sue caratteristiche e funzioni proprie.

 

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2. TOMMASO D’AQUINO: SULL’ANIMA E LA NASCITA DI UN NUOVO INDIVIDUO

Tommaso accetta le dottrine aristoteliche, ma deve conciliarle con le verità della fede cristiana concernenti direttamente l’uomo, in particolare con il fatto che l’anima umana sia spirituale, e quindi incorruttibile, e che essa sia generata direttamente da Dio. Per quanto riguarda il secondo aspetto, una preoccupazione importante del Dottor Comune è quella di respingere il cosiddetto traducianismo, ovvero la dottrina secondo la quale l’anima deriverebbe dai soli genitori senza il concorso divino, e che Tommaso definisce eretica. Nelle Summa Theologiae (Iª q. 118 a. 2 co.) scrive:

«Trattandosi però di una sostanza immateriale, essa non può venire causata per generazione, ma solo per creazione da parte di Dio. Quindi, ammettere che l’anima intellettiva è causata dal generante, equivale ad ammettere che essa non è sussistente e che, per conseguenza, si corrompe alla corruzione del corpo. È perciò eretico affermare che l’anima intellettiva si trasmette mediante il seme.»

Secondo l’Aquinate allora è necessario ammettere che nel corso dello sviluppo del feto si susseguano diverse forme (anime): prima un’anima vegetativa, poi un’anima sensitiva, ed infine, quando lo sviluppo sia sufficiente a ricevere l’anima intellettiva, questa venga infusa direttamente da Dio:

«Dobbiamo perciò concludere che, al sopraggiungere d’una forma più perfetta, si opera la corruzione della forma precedente, poiché la generazione di un essere implica sempre la corruzione di un altro essere, tanto nell’uomo che negli animali: e questo avviene in maniera che la forma seguente abbia tutte le perfezioni della precedente, e qualche cosa in più. Così, attraverso varie generazioni e corruzioni, si giunge all’ultima forma sostanziale, tanto nell’uomo quanto negli altri animali. E ciò si vede anche sensibilmente negli animali generati dalla putredine. Quindi bisogna affermare che l’anima intellettiva è creata da Dio al termine della generazione umana, con la scomparsa delle forme preesistenti, e che essa è insieme sensitiva e nutritiva.» (ST Iª q. 118 a. 2 ad 2)

È invece contenuta nei Commenti alle Sentenze di Pietro Lombardo la frequentemente citata opinione tomista secondo cui «il concepimento del maschio non si compie fino al quarantesimo giorno, come dice il Filosofo nel nono libro del De animalibus, mentre quello della femmina fino al novantesimo.» (Super Sent., lib. 3 d. 3 q. 5 a. 2 co.). Ma questo non è certamente un passo cruciale per la comprensione dell’opinione di Tommaso sul problema dell’infusione dell’anima, ed inoltre è anche una sua interpretazione piuttosto libera del testo originale aristotelico che parla dei primi movimenti e non si riferisce affatto all’animazione del feto: «Nel caso comunque sia stato concepito un maschio, i primi movimenti hanno luogo attorno al quarantesimo giorno per lo più verso il lato destro, quelli della femmina invece nel lato sinistro verso il novantesimo giorno.» (Historia Animalium, tr. it. di Mario Vegetti (a cura di), in Aristotele, Opere biologiche, cit., pp. 129-482, p. 405)

Si vede così che le tesi di Tommaso sull’infusione dell’anima sono motivate da ragioni del tutto estranee all’attuale problema dell’aborto e non è quindi corretto introdurle nel dibattito senza riflessione e precisazioni. In particolare sappiamo per certo che Tommaso non accettasse la liceità dell’aborto, infatti, sempre nei Commenti alle Sentenze di Pietro Lombardo (lib. 4 d. 31 q. 2 a. 3 expos.), scriveva che praticare un aborto fosse un peccato grave, anche se non quanto l’omicidio, e che fosse equiparabile al praticare dei malefici.

Alla luce delle attuali conoscenze scientifiche sullo sviluppo dell’embrione (non discusse qui) non è più possibile sostenere che avvengano successivi processi di informazione nel corso dello sviluppo, e si deve così affermare che un nuovo essere umano sia già generato al momento del concepimento, e che il suo sviluppo sia fin da principio organizzato ed orientato ad attuarne tutte le funzioni proprie, come in fondo affermava già l’originale dottrina aristotelica, alla quale si può ragionevolmente supporre Tommaso avrebbe pienamente aderito se avesse potuto avere migliori conoscenze di embriologia.

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3. TOMMASO D’AQUINO: SULLA DONNA

I concetti illustrati in questa disamina ci permettono anche di smascherare uno dei più frequenti tentativi di denigrazione del pensiero e della figura dell’Aquinate, ovvero la pretesa di farlo passare per un personaggio superficiale, superato e misogino attribuendogli, senza nulla spiegare e nulla aggiungere, la seguente affermazione: «Le femmine nascono a causa di un seme guasto o di venti umidi». Certamente il tentativo di screditare in questo modo, basandosi su una frase, uno dei più grandi e prolifici filosofi della storia, è intellettualmente inconsistente, è un’operazione disonesta che può funzionare solo approfittando dell’eventuale ignoranza dell’ascoltatore. Ad ogni modo è sempre bene chiarire tutto nel dettaglio, e così faremo.

La frase citata è effettivamente tratta dalla Summa Theologiae, ma non è direttamente attribuibile a Tommaso, tuttavia per capire è necessario introdurre ancora qualche nozione. Tutti gli articoli della Summa hanno la stessa struttura, composta da quattro sezioni: 1) Videtur quod (sembra che), ovvero una tesi erronea che sembrerebbe esser vera sulla base di un serie di argomenti; ad esempio “sembra che Dio non esista” e di seguito una serie di ragioni a sostegno di ciò. 2) Sed contra (ma al contrario), ovvero un argomento contrario a quanto esposto nel videtur quod. 3) Respondeo: questa è la parte più importante in cui Tommaso fornisce una spiegazione di carattere generale e confuta la tesi del videtur quod; ad esempio le famose cinque vie per dimostrare l’esistenza di Dio vengono esposte proprio nel respondeo. 4) Soluzione delle difficoltà, in cui gli argomenti del videtur quod vengono esaminati singolarmente e confutati. In linea del tutto generale è quindi errato attribuire a Tommaso le opinioni espresse nel videtur quod, che sono invece quelle che poi egli andrà a criticare, confutare o precisare.

Nell’articolo 1 della questione 92 della prima parte della Summa, il videtur quod recita: «Sembra che non ci fosse bisogno di produrre la donna nella prima costituzione del mondo». Il primo argomento a sostegno di questa tesi è il seguente: «Dice il Filosofo che “la femmina è un maschio mancato”. Ora, nella prima costituzione del mondo non doveva esserci niente di mancato e di difettoso. Perciò la donna non doveva essere creata allora.» 

Torniamo per un attimo ad Aristotele che, sempre nel trattato sulla generazione degli animali, spiega che il seme maschile, in quanto unico elemento attivo nel processo di riproduzione, tenderebbe a produrre un nuovo individuo simile a sé, ovvero un altro maschio. Per spiegare la generazione delle femmine è quindi necessario supporre che qualche fattore esterno concorra in qualche modo ad alterare l’azione del seme maschile, ed ecco perché la femmina sarebbe un maschio mancato. Contrariamente ad una vulgata tanto spesso ripetuta quanto errata, non è affatto vero che la scienza aristotelica non si fondi su un’ampia base osservativa ed empirica; è però vero che lo Stagirita, assieme ad osservazioni scrupolose sue e di altri naturalisti, accolga anche fatti aneddotici propri del sapere popolare. Così tra le varie ipotesi proposte come fattori determinanti per la generazione delle femmine, Aristotele ammette la possibilità che possa influire anche il tipo di vento che soffia al momento del concepimento. Quelle di Aristotele erano, all’epoca di Tommaso, le tesi scientifiche più accreditate.

Queste spiegazioni scientifiche del tempo quale problema ponevano ad un teologo quale era l’Aquinate? Sappiamo che la fede cristiana afferma che l’uomo e la donna sono stati creati entrambi in stato di grazia, e quindi di perfezione; ma se, come insegna la scienza aristotelica, la donna è per natura un maschio incompiuto, ossia un essere imperfetto, allora sembra che la fede cristiana sia sbagliata, perché sarebbe contraddittorio ammettere che la donna sia stata creata nella prima origine del mondo quando tutto avrebbe dovuto invece essere perfetto. Il quesito quindi è eminentemente teologico, e le tesi scientifiche vengono prese per buone senza questionare nel merito, così come, genericamente parlando, fanno ancora oggi i teologi. Quindi Tommaso, nella soluzione delle difficoltà, accetta la teoria aristotelica, ed ammette pertanto che, considerando il meccanismo della sua generazione, la femmina sia un maschio mancato; ma, argomenta poi, nell’ordine universale della natura la donna è necessaria, perché la riproduzione può avvenire solo dall’incontro di maschio e femmina, e perciò secondo la sua propria essenza anche la donna, in quanto donna, è perfetta.

Proponiamo quindi al lettore il respondeo e la soluzione della difficoltà, concludendo così la nostra disamina:

«Era necessario che in aiuto dell’uomo, come dice la Scrittura, fosse creata la donna: e questo, non perché gli fosse di aiuto in qualche altra funzione, come dissero alcuni, poiché per qualsiasi altra funzione l’uomo può essere aiutato meglio da un altro uomo che dalla donna, ma per cooperare alla generazione. Vi sono infatti dei viventi, che non hanno in se stessi la virtù attiva di generare, ma sono generati da un agente di specie diversa; e sono quei vegetali e quegli animali, che, privi di seme, vengono generati, in una materia adatta, dalla sola virtù attiva dei corpi celesti. – Altri invece possiedono unitamente la virtù attiva e quella passiva della generazione, e sono le piante che nascono dal seme.

Infatti nelle piante non c’è funzione vitale più nobile della generazione: perciò è giusto che la virtù attiva della generazione si trovi in esse sempre unita a quella passiva. – Invece negli animali perfetti la virtù attiva della generazione è riservata al sesso maschile, e la virtù passiva, al sesso femminile. E siccome gli animali hanno delle funzioni vitali più nobili della generazione, negli animali superiori il sesso maschile non è sempre unito a quello femminile, ma solo nel momento del coito; come per indicare che il maschio e la femmina raggiungono nel coito quella unità che nella pianta è perpetua per la fusione dell’elemento maschile con quello femminile, sebbene nelle varie specie prevalga ora l’uno ora l’altro. – L’essere umano poi è ordinato a una funzione vitale ancora più nobile, cioè all’intellezione. A maggior ragione dunque si imponeva per lui la distinzione delle due virtù, mediante la produzione separata dell’uomo e della donna, i quali tuttavia si sarebbero uniti nell’atto della generazione. Per questo, dopo la creazione della donna, la Scrittura aggiunge: “Saranno due in una sola carne”.»

 «Rispetto alla natura particolare la femmina è un essere difettoso e manchevole. Infatti la virtù attiva racchiusa nel seme del maschio tende a produrre un essere perfetto, simile a sé, di sesso maschile. Il fatto che ne derivi una femmina può dipendere dalla debolezza della virtù attiva, o da una indisposizione della materia, o da una trasmutazione causata dal di fuori, p. es., dai venti australi che sono umidi, come dice il Filosofo. Rispetto invece alla natura nella sua universalità, la femmina non è un essere mancato, ma è espressamente voluto in ordine alla generazione. Ora, l’ordinamento della natura nella sua universalità dipende da Dio, il quale è l’autore universale della natura. Perciò nel creare la natura egli produsse non solo il maschio, ma anche la femmina.» (Summa Theologiae)

 

Francesco Santoni

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Cristianesimo e schiavitù: l’abolizione iniziò nel Medioevo

Quando venne davvero abolita la schiavitù? In che rapporti il primo cristianesimo si pose nei confronti degli schiavi? Vi fu un’evoluzione di pensiero? La Chiesa approvò la schiavitù e quando iniziò a condannarla? Quanto era diffusa e legittimata la schiavitù nelle società pre-cristiane? Con questo dossier (continuamente in aggiornamento) rispondiamo a queste e tante altre domande, facendo parlare i principali accademici che si sono occupati del tema.

Uno degli studi più importanti in lingua italiana sulla storia della schiavitù è senza dubbio l’opera di Jean Andreau, direttore del dipartimento di Storia presso la Scuola di studi superiori in scienze sociali di Parigi, e Raymond Descat, professore di storia all’Università di Bordeaux. «E’ nel corso dell’Alto Medioevo», scrivono, «che si sono prodotti i cambiamenti più importanti e che si è definitivamente usciti, in Europa occidentale, dalla società schiavista» (J. Andreau e R. Descat, Gli schiavi nel mondo greco e romano, Il Mulino 2006, p.222). Ecco dunque che tramite questo dossier analizzeremo le ragioni per cui i due storici francesi sono arrivati a tale conclusione.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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1. QUALI ACCUSE AL CRISTIANESIMO SULLA SCHIAVITU’?

Iniziamo considerando brevemente quali accuse vengono rivolte solitamente ai cristiani e alla Chiesa. Ad essi alcuni moderni hanno rimproverato di non aver saputo impedire lo schiavismo, tradendo il messaggio evangelico dell’eguaglianza tra gli esseri umani. Versioni più estreme rinfacciano addirittura alla Chiesa di aver teorizzato la diseguaglianza tra le razze, legittimando così l’istituto dello schiavismo. Sotto accusa solitamente finiscono il comportamento di Gesù Cristo, le parole di San Paolo, dei Padri della Chiesa e di Tommaso d’Aquino, l’esistenza della schiavitù nel Medioevo, le parole dei Pontefici durante il Colonialismo e infine alcune affermazioni di Papa Pio IX.

Alcuni storici, pur riconoscendo che la schiavitù scomparve effettivamente nel X secolo, in pieno Medioevo, sostengono che però questo avvenne in maniera indipendente dagli sforzi della Chiesa cattolica. «Il cristianesimo non condannò la schiavitù, le diede un buffetto», ha scritto ad esempio George Duby, docente di Storia del Medioevo al Collège de France (G. Duby, Le origini dell’economia europea, Laterza 1978, p. 32).

 
 

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2. SCHIAVITU’ PRIMA DEL CRISTIANESIMO


Osserviamo quale concetto di schiavitù era presente prima del cristianesimo, concentrandoci sulla legge mosaica presente nell’Antico Testamento e sul mondo greco-romano.

 

SCHIAVITU’ NELL’ANTICO TESTAMENTO

Occorre premettere che la schiavitù ovviamente precede di gran lunga il popolo d’Israele ed è sempre stata presente in tutti gli imperi antichi e le società sufficientemente ricche da potersela permettere. Se ci concentriamo specificamente sugli ebrei, osserviamo che in diversi casi l’Antico Testamento sembra effettivamente tollerare la pratica della schiavitù umana, per lo meno la presuppone, accettandola socialmente. Tuttavia uno dei maggiori profeti, Isaia, afferma chiaramente: «Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri» (Is 61,1).

Occorre comunque ricordare che ai tempi dell’A.T., la schiavitù era differente da quella che abbiamo in mente oggi: essa non era basata sulla razza, sulla nazionalità o sul colore della pelle, ma aveva più a che fare con una condizione sociale. Le persone, ad esempio, si vendevano come schiave quando non riuscivano a pagare i loro debiti o a provvedere alla propria famiglia, alcuni sceglievano effettivamente di essere schiavi in modo che tutti i loro bisogni fossero soddisfatti dal loro padrone. Tuttavia nel popolo ebraico precristiano non c’è mai un concezione dello schiavo come “essere umano inferiore”, anzi vi è anche la condanna esplicita della schiavitù razziale, ad esempio quella sperimentata dagli Ebrei in Egitto, subita proprio per essere ebrei (Esodo 13:14).

In generale, se si vanno a leggere le volte in cui l’A.T. tratta della schiavitù, vengono fornite delle istruzioni su come dovrebbero essere trattati gli schiavi, ma senza bandirne la pratica. Ad esempio si insegna ad offrire loro dei privilegi: «Nessun profano mangerà le offerte sante; né l’ospite di un sacerdote né il salariato potrà mangiare le offerte sante. Ma una persona che il sacerdote avrà comprato con il proprio denaro ne potrà mangiare, e così anche lo schiavo che gli è nato in casa: costoro potranno mangiare il suo cibo» (Lv 22, 10-11). E ancora: «Non consegnerai al suo padrone uno schiavo che, dopo essergli fuggito, si sarà rifugiato presso di te. Rimarrà da te, in mezzo ai tuoi, nel luogo che avrà scelto, in quella città che gli parrà meglio. Non lo opprimerai» (Dt 23,16). Di nuovo un altro esempio: «il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te» (Dt 5, 14). Le stesse promesse rivolte a tutti gli uomini, sono rivolte anche agli schiavi: «Anche sopra gli schiavi e sulle schiave in quei giorni effonderò il mio spirito» (Gl 2,3)

In Israele, come si è detto, era ammessa la schiavitù, però a determinate condizioni e, per la prima volta nella storia, apparve un principio di difesa dei diritti degli schiavi: «Quando tu avrai acquistato uno schiavo ebreo, egli ti servirà per sei anni e nel settimo potrà andarsene libero, senza riscatto […]. Quando un uomo colpisce l’occhio del suo schiavo o della sua schiava e lo acceca, darà loro la libertà in compenso dell’occhio. Se fa cadere il dente del suo schiavo o della sua schiava, darà loro la libertà in compenso del dente […]. Se il bue colpisce con le corna uno schiavo o una schiava, si darà al suo padrone del denaro, trenta sicli, e il bue sarà lapidato» (Es 21, 1-37). E ancora: «Se un tuo fratello ebreo o una ebrea si vende a te, ti servirà per sei anni, ma il settimo lo lascerai andare via da te libero. Quando lo lascerai andare via da te libero, non lo rimanderai a mani vuote. Gli farai doni dal tuo gregge, dalla tua aia e dal tuo torchio. Gli darai ciò di cui il Signore, tuo Dio, ti avrà benedetto» (Dt 15, 12-14).

Pertanto dunque, come si nota l’Antico Testamento ha condannato la schiavitù ma l’ha anche tollerata come struttura sociale ed economica già esistente, volendola tuttavia regolamentare affinché gli schiavi, laddove ce ne fossero stati, venissero trattati in modo umano e amorevole.

 

SCHIAVITU’ NELL’ANTICA GRECIA

Pur con tutto lo splendore della loro filosofia, i greci non superarono i limiti morali del mondo antico. Anzi, l’eminente storico e specialista della schiavitù, Moses Israel Finley, ha scritto che «i greci e i romani costituirono le prime vere società schiaviste, diventando pesantemente dipendenti dall’impiego su larga scala del lavoro degli schiavi sia nelle campagne che nelle città» (M.I. Finley, Economia e società nel mondo antico, Laterza 1984, p. 67). L’economia di tutte le città-stato greche si basava su una massiccia presenza di schiavi e l’apogeo del loro splendore coincise con il periodo in cui gli schiavi superarono i cittadini liberi, come ha riportato anche il celebre storico americano William Linn Westermann: «in molte città, Atene compresa, probabilmente gli schiavi erano più numerosi dei cittadini liberi. Persone le famiglie di condizione modesta spesso ne possedevano due o tre» (W.L. Westermann, Athenaeus and the Slaves of Athens, Harvard Studies in Classical Philology 1941, p. 451).

Per gli Antichi Greci si era schiavi per nascita, per marcato acquisto di stato civile o per perdita della libertà. Gli schiavi, non potendo partecipare alla vita della polis, a causa della loro stessa condizione, non erano propriamente uomini, infatti per essa non erano soggetti, ma oggetti di diritti. Il padrone aveva sullo schiavo autorità di sovrano e di giudice e poteva infliggergli punizioni corporali anche gravi (anche un marchio a fuoco sulla fronte in caso di furto o fuga). Come confermato dallo storico e sociologo delle religioni Rodney Stark: «Lo schiavismo era una caratteristica quasi universale della civiltà». Roma e la Grecia antica prevedevano un uso estensivo del lavoro degli schiavi, considerati oggetti, beni di proprietà, e come tali, privi di qualsiasi diritto e sottoposti all’arbitrio più totale da parte dei padroni. Seneca ne possedeva moltissimi grazie alla sua immensa ricchezza e quando consigliava un trattamento umano degli schiavi era principalmente per il bene morale del padrone, non per il valore intrinseco dello schiavo.

 

Aristotele riteneva lo schiavo un “oggetto con l’anima” (“instrumenti genus vocale”), confutava coloro che ritenevano la schiavitù ingiusta e cercava di dimostrare che essa è invece necessaria e addirittura utile agli stessi schiavi (Aristotele, Politica, Libro I, 1253 a/1255 a).

In “Politica” si legge:

«Il termine “oggetto di proprietà” si usa allo stesso modo che il termine “parte”: la parte non è solo parte d’un’altra cosa, ma appartiene interamente a un’altra cosa: così pure l’oggetto di proprietà. Per ciò, mentre il padrone è solo padrone dello schiavo e non appartiene allo schiavo, lo schiavo non è solo schiavo del padrone, ma appartiene interamente a lui […]. Dunque, quale sia la natura dello schiavo e quali le sue capacità, è chiaro da queste considerazioni: un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo: e appartiene a un altro chi, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà: e oggetto di proprietà è uno strumento ordinato all’azione e separato» (Politica, I, 1254a 14 ss.).

La schiavitù fa parte per Aristotele dello stato perfetto: lo stato si compone di case e la casa perfetta è formata di liberi e di schiavi, la schiavitù è secondo natura (M. Sordi, Paolo a Filemone o della schiavitù, Jaca Book 1987, p. 28). Alla sua morte, le proprietà personali di Aristotele comprendevano quattordici schiavi (C. Freeman, The Greek Achievement: The Foundation of the Western World, Penguin Books 1999, p.121).

Platone era contrario al porre in schiavitù i suoi compagni “elleni” (greci), ma nella sua repubblica ideale gli schiavi “barbari” (stranieri) avevano un ruolo essenziale, compivano tutto il lavoro produttivo. Le sue regole sul trattamento degli schiavi erano brutali perché riteneva che la natura crea “persone servili” che non possiedono le capacità mentali per far proprie la virtù o la cultura, adatte solo a servire. Platone arriva alla giustificazione della schiavitù muovendo dalla schiavitù spirituale: come è giusto sottomettere alla parte divina che è nell’uomo il bestiale che è dentro di lui, così è giusto che colui che non riesce a comandare all’animale che è nel suo interno sia schiavo di colui nel quale comanda la parte divina (Rep. ix, 589 d/590 c/d), egli afferma che non è un danno per lo schiavo sottostare al comando, lo schiavo lo è per natura e la schiavitù diventa un fatto etnico e naturale (M. Sordi, Paolo a Filemone o della schiavitù, Jaca Book 1987, p. 26). Lo stesso Platone possedeva cinque schiavi, come si evince dal suo testamento (R. Schalaifer, Greek Theories of Slavery from Homer to Aristotle, Harvard Studies in Classical Philology, n. 47, 1936, pp- 165-204; D.B. Davis, Il problema della schiavitù nella cultura occidentale, Società Editrice Internazionale 1975, p- 96).

Non risulta che mai nessun filosofo greco si sia mai levato contro la schiavitù, come ricordato dal sociologo statunitense Rodney Stark: «Nessun filosofo greco fu abbastanza “illuminato” da condannare la schiavitù. La condanna dovette attendere la nascita del cristianesimo: a quanto si sa, la prima presa di posizione per una generale abolizione della schiavitù in qualsiasi parte del mondo sarebbe avvenuta dopo un millennio, nell’Europa medievale» (R. Stark, La vittoria dell’Occidente, Lindau 2014, p. 49). Nemmeno Epitteto, filosofo ed ex schiavo, ha mai criticato tale istituzione come ingiusta. Anche lui la vide come uno sviluppo del destino ed un risultato della cieca e grande catena di causa ed effetto. La schiavitù, per Epitteto e gli Stoici, apparteneva alla categoria del “non dipende da noi”.

 

SCHIAVITU’ NELL’ANTICA ROMA

Anche nel mondo romano la schiavitù era ampiamente praticata, soprattutto aumentò col procedere delle conquiste in guerra. Lo stato servile aveva origine dalla nascita o dalla perdita della libertà e il diritto sottoponeva lo schiavo all’illimitato arbitrio del padrone. La situazione era certamente migliore rispetto ai Greci: la schiavitù non era per natura ma per diritto positivo, si potevano liberare gli schiavi a determinate condizioni, c’era un freno sociale verso la crudeltà dei padroni nei loro confronti (orientato verso l’utile che potevano dare e verso il controllo sociale) anche se i padroni mantenevano il diritto di vita e di morte sugli schiavi (M. Sordi, Paolo a Filemone o della schiavitù, Jaca Book 1987, p. 29-35).

Marco Porcio Catone fu l’unico a permettere, tra i suoi servi, rapporti sessuali. Pur tuttavia a pagamento, ed intascandone il prezzo. Al di là di ciò, gli «schiavi erano tra le personae alieno iure subiectae: e questo, come ricorda Gaio (Dig. I,6,1,1), non solo presso i romani, ma apud omnes peraeque gentes, comportava che i padroni avessero diritto di vita e di morte sugli schiavi presso tutte le genti» (M. Sordi, Paolo a Filemone o della schiavitù, Jaca Book 1987, p. 34,35). Il diritto romano considerava lo schiavo come oggetto di diritto ma, pur essendo astrattamente classificato fra le cose, era pur sempre un homo dotato di intelligenza e di volontà, distinguendosi così dalle cose materiali (come invece considerava Aristotele). Questo tuttavia non comportò cambiamenti pratici sostanziali, tanto che lo storico romano Tacito racconta che quando uno schiavo assassinava un padrone, trecento o quattrocento schiavi venivano massacrati (Annali, libro 14,34). In Italia, all’apogeo dell’impero romano, c’erano 2/3 milioni di schiavi (il 35-49% della popolazione) (M. Bloch, La servitù nella società medievale, La Nuova Italia 1993, p.3).

 
 

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3. GESU’ E LA SCHIAVITU’

Quei pochi uomini che nella storia hanno accusato qualcosa a Gesù Cristo, lo hanno fatto riferendosi alla sua non condanna diretta della schiavitù. Si ricorda, ad esempio, l’episodio del servo malato del centurione (Lc 7,2), quando Gesù guarisce il servo senza liberarlo o senza ammonire il padrone per l’averlo messo in schiavitù. Effettivamente non vi sono parole di Gesù di Nazareth contro la condizione morale della schiavitù, ma d’altra parte non si è mai nemmeno soffermato sulla condizione etico-morale della prostituzione o degli uomini che ne usufruivano, né ha mai condannato chi maltrattava gli animali. E, chi volesse proseguire, potrà rivendicare che nemmeno ha guarito tutti i malati di Gerusalemme, lasciando che molti suoi concittadini morissero nella fame e nella miseria. Se si guarda i suoi tre anni di vita pubblica, Gesù non ha mai inteso modificare direttamente le istituzioni sociali e nemmeno fondare un codice civile, ma ha semplicemente mostrato agli uomini se stesso: si è fatto accompagnare da prostitute, ha mangiato assieme a ladri e peccatori, si è avvicinato ai lebbrosi, ha trattato gli schiavi allo stesso modo dei padroni (guarendoli, per l’appunto), ha rispettato le donne e i bambini (tutte cose per nulla scontate allora) ecc. Se si guarda al messaggio di Gesù si intuisce subito la sua attualità ancora oggi, questo perché egli si rivolgeva agli uomini di allora come si sarebbe rivolto a noi. Ha inteso comunicare un messaggio eterno, il senso della vita, non soltanto utile in un contesto temporale circoscritto.

E’ vero dunque, non ha mai accennato alla condizione specifica della schiavitù ma, tuttavia, ha cambiato la storia invitando gli uomini a imitarlo: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri» (Gv 15; 12-17). Ha inoltre insegnato l’uguaglianza tra gli uomini, tutti fratelli perché figli di Dio, e a considerare l’altro quanto se stessi, perciò, dato che nessuno vorrebbe essere schiavo, non dovrebbe ritenere nessuno uno schiavo: «Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi» (Mc 12;31). Gesù inoltre ha valorizzato più volte la condizione umile del servitore, usandola come analogia di sé stesso: «chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10, 43-45).

Per lo stesso motivo, non si può condannare Gesù perché non ha parlato mai della guerra e della pace, perché ha dato un insegnamento ben più grande: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra […]. Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli […]. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?» (Mt 5; 38-47). L’insegnamento di Gesù non è anzitutto la proposta di una società nuova, ma di un uomo nuovo, di una coscienza nuova, di una nuova concezione di Dio e dell’umanità da cui può sorgere una civiltà nuova: nessunva volontà di prendere il potere con il fine utopico di eliminare il male dalla terra, nessuna similitudine alla rivoluzione francese e comunista. Il biblista Mauro Pesce, storico del cristianesimo, ha riconosciuto: «Gesù non è un fondatore di società come sarà Maometto, non affronta tutti i problemi della società, individua soltanto dei punti su cui fare leva attraverso i quali l’intera società può essere ripensata e, forse, riorganizzata» (M. Pesce, C. Augias, Inchiesta su Gesù, Mondadori 2006, p. 22)

E’ evidente dunque che la profondità del suo messaggio andava, e va, ben oltre i limiti temporali in cui venne pronunciato, tanto che i principali abolizionisti dell’epoca moderna si giustificano con il messaggio evangelico (a partire da Martin Luther King). Prendendo sul serio il suo insegnamento, chiunque -dal contadino al politico- ha potuto dedurne e trarne un insegnamento di comportamento sociale e capire -come accadde, infatti- che la schiavitù è ed era incompatibile con il pensiero cristiano. Questo è tanto vero che anche gran parte dei non credenti riconosce comunque il valore del suo messaggio, ad esempio Natalia Ginzburg, la quale scrisse: «Il crocifisso rappresenta tutti perché prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono eguali e fratelli di tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei, neri e bianchi» (L’Unità, 22/10/1988). Infine, la novità radicale del Nuovo Testamento, come spiegato dalla storica Marta Sordi, è sul piano religioso: «Per l’uomo che serve Dio e fa la sua volontà, sia egli libero o schiavo, si apre una prospettiva nuova, al di là di ogni speranza umana: egli non è più servo, ma amico» (M. Sordi, Paolo a Filemone o della schiavitù, Jaca Book 1987, pp. 49)

 
 

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4. CRISTIANESIMO PRIMITIVO E SCHIAVITU’

Dopo Gesù, la schiavitù non è certo cessata di colpo. Non sarebbe nemmeno stato possibile: gran parte del sistema economico romano, come abbiamo visto, si basava sullo schiavismo, ed anche dal punto di vista strettamente psicosociale la sua eliminazione avrebbe causato una ribellione violenta.

Tuttavia, gran parte degli storici è ormai concorde nel sostenere che la divulgazione del messaggio cristiano contribuì notevolmente alla sparizione di tale pratica. L’Enciclopedia Treccani, ad esempio, afferma: «A determinare la decadenza della schiavitù contribuirono le idee morali dello stoicismo e del cristianesimo, diffondendo il concetto che anche lo schiavo è un uomo», anche se «accettarono tuttavia pienamente la schiavitù come istituto sociale e come elemento indispensabile dell’economia del lavoro». Ed è effettivamente stato così: i primi cristiani nonostante predicassero e vivessero l’uguaglianza tra gli uomini imparata da Gesù, non avevano ancora il potere di stravolgere l’ordine sociale vigente e poterono limitarsi solo a raccomandare il buon trattamento degli schiavi.

Il Cristianesimo, pur non mettendo subito in discussione la struttura della società, pose lentamente e gradualmente dentro di essa una società diversa. Fu in particolare la dottrina del libero arbitrio insegnata da Gesù (ma anche dall’Antico Testamento, come Dt 30,19-20) a produrre un cambiamento di mentalità nei primi cristiani: ognuno è libero e responsabile delle proprie azioni ed in base ad esse sarà giudicato, il Dio cristiano (al contrario degli dèi greci) premia la virtù e punisce il peccato. L’ammonizione di Gesù: “Và e non peccare più”, sarebbe impossibile se l’uomo fosse prigioniero del fato, come ritenevano esserlo gli antichi greci. Il libero arbitrio fu al centro del pensiero di Sant’Agostino (354-430 d.C.): «Chiunque desidera vivere con giustizia e onorabilità, può farlo» (De libero arbitrio, libro III, cap. 1), il quale lo spiegò in termini di compatibilità con l’onniscenza divina in pieno contrasto con la filosofia greca: «Sia che Dio conosce tutte le cose prima che avvengano, sia che facciamo con il nostro libero arbitrio quello che sappiamo e sentiamo debba essere da noi fatto soltanto perché lo vogliamo. Ma che tutte le cose provengano dal fato noi non lo diciamo; al contrario affermiamo che nulla accade per via del fato» (La città di Dio, libro V, cap. 9). Così il principio di libertà alla base del pensiero cristiano chiamò in causa la legittimità di tutte le strutture e usanze sociali che la limitavano, in particolar modo la schiavitù.

L’insegnamento del libero arbitrio e di un Dio cristiano che salva tutti, schiavi compresi, portò all’opera di conversione degli schiavi e spinse la Chiesa primitiva, quando possibile, ad acquistare la loro libertà (papa Callisto, morto nel 223, fu uno schiavo). Lo storico francese Pierre Bonnassie espose così la questione: «Uno schiavo veniva battezzato e aveva un’anima. Era dunque indiscutibilmente un uomo» (P. Bonnassie, From Slavery to Feudalism in South-Western Europe, Cambridge University Press 1991, p. 30). Una volta battezzati, il clero cominciò a fare pressioni sui padroni perché dessero la libertà ai loro schiavi in quanto «azione estremamente lodevole» (M. Bloch, La servitù nella società medievale, La Nuova Italia 1993, p. 14). Ha spiegato lo scrittore cattolico Vittorio Messori: «Il concetto di “persona” fu il grimaldello evangelico che pian piano scardinò la tranquilla sicurezza del mondo classico che fosse “naturale” la distinzione tra uomini “veri” (i cittadini liberi) e quelli che chiamavano “strumenti parlanti” (gli schiavi)» (V. Messori, Qualche ragione per credere, Ares 2008, pag. 101). Lo storico francese Marc Bloch ha confermato: «Non era poco l’avere detto allo “strumento provvisorio di voce” (instrumentum vocale) dei vecchi agronomi romani: “Tu sei un uomo” e “Tu sei un cristiano”». Questo principio ispirò anche «la legislazione filantropica» di alcuni imperatori (M. Bloch, La servitù nella società medievale, La Nuova Italia 1993, p. 19).

 

SAN PAOLO. Leggendo le lettere di San Paolo, si capisce che egli dà precedenza alla libertà dal peccato piuttosto che alla libertà fisica. A che vale, infatti, essere uomini liberi, ma schiavi del peccato? Molto meglio essere schiavi, ma liberi dal peccato. Non era in suo potere il sovvertire fisicamente la società, non aveva la forza per una rivolta. La Chiesa ha sempre voluto appellarsi alle singole menti e i singoli cuori, come spiega lo scrittore Francesco Agnoli: «non si dovrebbe imputare a San Paolo la “colpa” di non essere stato un Marx, uno Lenin, uno Stalin, un Pol Pot, convinto che la società si ricrei con la “lotta di classe”, la “violenza levatrice della storia”, i gulag per chi non comprende e la dittatura di chi ha “ragione”. Gli uomini di Chiesa comprendevano bene che una società in cui una persona su tre è schiava, e senza diritti, non può mutare pelle completamente, in poco tempo, senza contraccolpi sociali devastanti. Instillare negli schiavi un senso di ribellione violenta e urgente avrebbe portato solo fiumi di sangue e forse al peggioramento della loro stessa condizione!» (F. Agnoli, Inchiesta sul cristianesimo, Piemme 2010, p.83). Il cristianesimo ha inizialmente accettato la società così com’era, determinando la sua trasformazione attraverso, e solo attraverso, le singole anime.

Per questo, San Paolo si rivolge direttamente agli schiavi stessi (già questa una cosa inedita), invitandoli a vivere con dignità la loro condizione, chiedendo di non odiare i loro padroni, di rispettarli, poiché anch’essi figli di Dio e in questo modo, praticando l’insegnamento cristiano, diventare più “liberi” dei padroni. Ecco un esempio:

«Schiavi, obbedite ai vostri padroni terreni con rispetto e timore, nella semplicità del vostro cuore, come a Cristo, non servendo per farvi vedere, come fa chi vuole piacere agli uomini, ma come servi di Cristo, facendo di cuore la volontà di Dio, prestando servizio volentieri, come chi serve il Signore e non gli uomini. Voi sapete infatti che ciascuno, sia schiavo che libero, riceverà dal Signore secondo quello che avrà fatto di bene. Anche voi, padroni, comportatevi allo stesso modo verso di loro, mettendo da parte le minacce, sapendo che il Signore, loro e vostro, è nei cieli e in lui non vi è preferenza di persone» (Ef 6, 5-7). E ancora: «Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato. Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; anche se puoi diventare libero, approfitta piuttosto della tua condizione! Perché lo schiavo che è stato chiamato nel Signore è un uomo libero, a servizio del Signore! Allo stesso modo chi è stato chiamato da libero è schiavo di Cristo. Siete stati comprati a caro prezzo: non fatevi schiavi degli uomini! Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato» (1Cor 7, 21-22).

Lo storico della Chiesa Norbert Brox ha osservato che questo continuo rivolgersi agli schiavi di San Paolo è per comunicare il messaggio che anch’essi «sono idonei per conformarsi all’ideale evangelico più puro, ma capaci inoltre di contribuire allo splendore della vita cristiana collettiva. Nessun cristiano è così spregevole che non possa in questa maniera onorare Dio» (N. Brox, Le Lettere Pastorali, Morcelliana 1970). L’Apostolo delle genti mostra loro il concetto cristiano di libertà: gli schiavi chiamati “nel Signore” sono liberti del Signore (1 Co 7, 22), così le distinzioni sociali esterne perdono la loro importanza. E infatti: «Quelli che si trovano sotto il giogo della schiavitù, stimino i loro padroni degni di ogni rispetto, perché non vengano bestemmiati il nome di Dio e la dottrina. Quelli invece che hanno padroni credenti, non manchino loro di riguardo, perché sono fratelli, ma li servano ancora meglio, proprio perché quelli che ricevono i loro servizi sono credenti e amati da Dio. Questo devi insegnare e raccomandare» (1Tm 6,1). Il senso di questa affermazione è la richiesta al servo di non ribellarsi al padrone non cristiano perché questi non abbia un cattivo concetto della dottrina cristiana; chi poi ha padroni credenti li serva con più dedizione essendo essi fratelli e cari a Dio.

Allo stesso modo San Paolo si rivolge anche ai padroni:

«Voi, padroni, date ai vostri schiavi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone in cielo» (Col 4,1). Così la fratellanza condivisa dai cristiani appare di fatto incompatibile con la schiavitù, lo si capisce nel caso dello schiavo fuggitivo Onesimo. Paolo si rivolge a Filemone, padrone dello schiavo, di riaccogliere Onesimo «non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo» (Fm 1,16). Non si occupa di stravolgere la società e non si propone, con coscienza moderna, la revisione critica dei rapporti sociali, ma si rivolge ai singoli uomini, ai padroni e agli schiavi perché ognuno si impegni ad essere un vero cristiano. Mentre la società del suo tempo ancora considerava gli schiavi alla stregua degli oggetti, la sua è una lenta pedagogia perché il cambiamento avvenga all’interno dell’uomo: solo così tutta la società saprà mutare capendo che tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio. «Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito» (1Cor 12,13). Ed infine: «Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 26-28).

La storica Marta Sordi ha osservato: «Se la libertà e la vera nobiltà sono solo quelle dell’anima, ogni distinzione tra gli uomini è destinata a cadere […]. E’ questa la profonda distinzione tra il pensiero paolino e quello stoico […]. La vera novità, giova ripeterlo, è nel rapporto nuovo che schiavo e padrone hanno con Dio, e che trasforma la comune schiavitù della condizione umana davanti alla Fortuna nel razionale ossequio ad un Dio che libera chi lo serve per amore» (M. Sordi, Paolo a Filemone o della schiavitù, Jaca Book 1987, pp.51-55)

 

SAN GREGORIO DI NISSA (335-395 d.C.). San Gregorio è uno dei Padri della Chiesa che denuncia apertamente la schiavitù come contraria alla legge di Dio:

«”Ebbi in dominio schiavi e schiave, con molta famiglia”, dice. Vedi l’ostentazione arrogante! Quelle parole sono una ribellione a Dio; noi sappiamo, infatti, dalla Scrittura che tutte le cose servono unicamente a quel potere che è al di sopra di tutto. Pertanto, colui che si arroga ciò che appartiene a Dio, e attribuisce a creature della propria specie il potere di credersi padroni di uomini e di donne, che cosa fa se non insolentire contro la natura, considerandosi creatura diversa da quelle che gli sono soggette? “Ebbi in dominio schiavi e schiave”. Così tu condanni alla schiavitù l’uomo che è dotato di natura libera e indipendente, e fai una legge contraria a Dio, perché sconvolgi la legge di natura che procede da lui. Perché tu sottoponi al giogo della schiavitù chi è stato plasmato dal suo creatore per signoreggiare la terra e per esercitare il comando; in questo modo tu resisti e contraddici all’ordinamento divino […]. Ebbi in dominio schiavi e schiave!”. Ma dimmi, ti prego, a quale prezzo li hai comprati? Dove hai potuto trovare nelle cose un valore corrispondente al prezzo dell’umana natura? Quanto hai speso per l’acquisto di una creatura che è immagine di Dio? Con quali bilance hai pesato una natura che fu creata da Dio? Poiché Dio disse: “Facciamo l’uomo ad immagine e similitudine nostra”. L’uomo che è fatto a somiglianza di Dio e che ha ricevuta da Dio il dominio su tutta la terra e su tutte le cose che sono sopra la terra, chi è che lo vende, e chi è che lo compra? Soltanto Dio potrebbe fare questo, anzi, sarei per dire, non lo potrebbe neppure Dio, perché “Dio non si pente dei suoi doni”. Dio dunque non ridurrebbe mai in schiavitù la natura umana, egli che, spontaneamente, quando eravamo già caduti in schiavitù, ci rivendicò alla libertà. E se Dio non riduce in schiavitù chi è libero, chi sarà mai che pretende un potere superiore a quello di Dio? [ …]. Ti inganni, se credi che un libello e una convenzione scritta ti facciano padrone di una creatura che è immagine di Dio. O stoltezza! Se il contratto perirà, se lo scritto sarà corroso dai tarli o cancellato dall’umidità, donde trarrai le prove del tuo dominio? Da quanto è sotto la natura umana non vedo aggiungersi a te altro che il nome di padrone. Infatti, il tuo potere che cosa ha aggiunto alla tua persona? Non il potere sul tempo, né alcun altro privilegio. Tu e lo schiavo siete nati ugualmente da una natura umana, vivete allo stesso modo, siete dominati dalle stesse passioni dell’anima e del corpo, come la mestizia e l’allegrezza, la gioia e la tristezza, il piacere e il dolore, l’ira e lo sdegno, l’infermità e la morte. In tutte queste cose c’è forse qualche differenza fra schiavo e padrone? Non traggono essi il respiro alla stessa maniera? Non guardano il sole ad un modo? Non si conservano parimenti in vita alla condizione di nutrirsi? Non è simile in entrambi la struttura dei visceri? Dopo la morte, non diventano cenere entrambi? Non è ad essi comune il giudizio, il premio, la pena? E poiché sei in tutto simile agli altri uomini, dove poggi, di grazia, la tua superiorità, ti che, essendo uomo, presumi di avere dominio sull’uomo?» (Gregorio di Nissa, In Eccl. homil IV, citato in G. Barbero, Il pensiero politico cristiano, Torinese 1962, pp. 351-352).

Gregorio di Nissa «non soltanto riteneva che, dinnanzi a Dio, gli schiavi fossero uguali agli uomini liberi, ma considerava il possesso di schiavi un peccato, e un peccato molto grave» (J. Andreau e R. Descat, Gli schiavi nel mondo greco e romano, Il Mulino 2006, p.177)

 

SANT’AMBROGIO (340-397 d.C.). Un altro Padre della Chiesa che, prendendo atto del diffuso uso della schiavitù, ne svuota il contenuto suggerendo ai credenti di realizzare il riscatto:

«Non ci dirà forse il Signore: “Perché hai permesso che tanti poveri morissero di fame? Certamente tu avevi dell’oro, dovevi quindi procurare gli alimenti. Perché tanti schiavi furono messi in vendita e, non riscattati, furono uccisi dal nemico? Sarebbe stato meglio per te conservare corpi di creature viventi piuttosto che vasi di metallo”. A questi argomenti non si può dare risposta. Che cosa potresti infatti obiettare? […]. Come è bello quando da parte della Chiesa si liberano moltitudini di schiavi e quando si può dire: “questi li ha redenti Cristo!”. Ecco l’oro che può essere oggetto di onore, ecco l’oro di Cristo che libera dalla morte, ecco l’oro che redime il pudore e conserva la castità! Io dunque preferirei consegnarvi degli uomini liberi piuttosto che consegnarvi l’oro» (Ambrogio, De officiis ministrorum II, 8, pp. 136-142, citato in G. Barbero, Il pensiero politico cristiano, Torinese 1962, pp. 425-27).

 

SAN GIOVANNI CRISOSTOMO (344-407 d.C.). San Giovanni Crisostomo assume una posizione del tutto rivoluzionaria, negando la base economica della schiavitù e esortando i padroni a insegnare agli schiavi un mestiere, per renderli così economicamente autosufficiente e poi renderli liberi:

«Perché (i ricchi) hanno molti servi? Come bisogna guardare soltanto al bisogno per quanto si riferisce al vestire e al mangiare, così bisogna comportarsi anche per quanto concerne i servi. Quale bisogno ne abbiamo? Nessuno! Un solo padrone non dovrebbe avere più di un servo: o meglio, due o anche tre padroni, dovrebbero avere un solo servo. Se questo ti sembra pesante, guarda a coloro che non ne hanno alcuno, e tuttavia fruiscono di un servizio più facile e più spedito. Poiché Dio ci fece in modo che ciascuno bastasse a curare sé stesso, anzi, a prendersi cura anche del prossimo. Se tu non credi, ascolta le parole di Paolo: “Alle mie necessità e a quelle di coloro che sono con me hanno provveduto queste mie mani”. Egli, che fu maestro di tutte le genti e fu degno dei cieli, non arrossiva di provvedere a innumerevoli servizi; ma tu stimi indecoroso, se non ti muovi circondato da una turba di schiavi, e non pensi che proprio questo, massimamente, ti disonora. Dio ci ha dato mani e piedi affinché non avessimo bisogno di servi. E non è certo il bisogno che introdusse nel mondo gli schiavi, altrimenti insieme con Adamo sarebbe stato creato anche uno schiavo. La schiavitù è la pena del peccato e il presso della disobbedienza, ma la venuta di Cristo ha sciolto anche questo. Infatti in Cristo “non c’è né schiavo né libero. Perciò non è necessario avere uno schiavo: e, se fosse necessario, ne basterebbe uno solo, al massimo due. Che cosa vogliono significare questi sciami di servi? Giacché i ricchi procedono alle terme e nel foro a guisa di mercanti di pecore o di commercianti di schiavi. Ma io non intendo imbastire una discussione minuta. Tienti, se vuoi, anche un secondo servo. Se però ne aduni un gran numero, non venirmi a dire che tu fai questo per motivi di filantropia: tu lo fai per servire ai tuoi piaceri. Se tu agisci davvero per prenderti cura di loro, non occuparli al tuo servizio, ma, dopo averli comprati ed avere insegnato loro un mestiere, affinché possano bastare a se stessi, affrancali. Quando tu li fai battere con la verga, quando li fai mettere in carcere, non è certo un’opera di pietà la tua. So bene che io sono molesto ai miei uditori, ma che debbo fare? Questo è il compito che mi è stato affidato, e non cesserò di parlare, sia che le mie parole ottengano un qualche risultato, sia che non lo ottengano» (G. Crisostomo, Epist. I ad Cor. 40, 5 citato in G. Barbero, Il pensiero politico cristiano, Torinese 1962, 514-515).

 

SANT’AGOSTINO (354-430 d.C.). Nella Lettera 10, promemoria di Agostino al Santo Fratello Alipio, egli si oppone fermamente alla schiavitù e alla tratta degli schiavi:

«Le autorità o i funzionari pubblici, con l’impegno dei quali potrebbe essere fatta osservare questa legge o qualunque altra promulgata su quest’argomento, hanno il dovere di provvedere che l’Africa non venga più oltre svuotata dei suoi abitanti indigeni e che una sì gran folla di gente d’ambo i sessi, trascinata via a truppe e a frotte come da un fiume che scorre senza tregua, non perda la propria libertà personale peggio che divenendo prigioniera dei barbari. In effetti dalla schiavitù, in cui sono tenuti dai barbari, viene riscattato un gran numero di prigionieri, mentre quelli che sono deportati nelle province d’oltremare non trovano nemmeno l’aiuto per venir riscattati; eppure si resiste ai barbari quando una spedizione militare romana è condotta valorosamente e con successo affinché i romani non restino prigionieri dei barbari. Chi mai, al contrario, resiste a codesti mercanti non di animali quali che siano ma di uomini, non di barbari di qualunque specie ma di cittadini romani delle province? A cotesti mercanti, sparsi dappertutto affinché nelle mani di coloro, che promettono ricompense in danaro, siano condotte, in ogni dove e da ogni dove, persone rapite con la forza o ingannate con tranelli, chi mai resiste in nome della libertà romana, non dico della libertà comune, ma della stessa libertà personale? Tocca ora alla tua santa Prudenza pensare a qual punto imperversi siffatta deportazione di sventurati lungo il restante litorale [dell’Africa], se così ardente l’avidità, così mostruosa è l’audacia dei Galati qui a Ippona ove, per la misericordia di Dio, sta in guardia, per quel poco che vale, la vigilanza della Chiesa, grazie alla quale vengono liberati degli sventurati da tale schiavitù e i mercanti di simili merci vengono puniti assai meno gravemente – è vero – che non dalla severità della suddetta legge, ma tuttavia vengono colpiti con la perdita dei soldi sborsati per acquistarli. In nome della carità cristiana ti supplico di far sì che io non abbia scritto invano alla Carità tua. I Galati infatti hanno i loro patroni, per mezzo dei quali reclamano come loro proprietà coloro che il Signore ha liberato per opera della Chiesa anche quando sono stati già restituiti ai loro familiari, che li ricercavano e a questo scopo erano venuti da noi con lettere dei loro vescovi. Al momento in cui dettiamo queste righe quei tali hanno cominciato a molestare alcuni fedeli, nostri figli, presso i quali erano rimasti alcuni di essi, dato che la Chiesa non è in grado di sostentare tutti coloro ch’essa libera; e sebbene sia giunta una lettera di un’autorità, di cui essi avrebbero potuto aver paura, non hanno cessato per nulla di reclamare».

Sempre Agostino, nel suo De Civitate Dei spiega che i padroni, in verità, «sono a servizio di coloro ai quali apparentemente comandano. Lo prescrive l’ordine naturale perché in questa forma ha Dio ha creato l’uomo: l’essere ragionevole, creato a Sua immagine, fosse il padrone soltanto degli esseri irragionevoli, non l’uomo dell’uomo, ma l’uomo del bestiame» (libro 19, parr. 14-15).

Gli storici francesi Jean Andreau e Raymond Descat scrivono: «La cura manifestata dal vescovo Agostino nel lottare contro simili abusi (la riduzione in schiavitù dei bambini rapiti, N.d.A.) che lo scandalizzano e nel far rispettare la legalità, è molto rappresentativa dell’intervento attivo della gerarchia ecclesiastica in tale ambito. Occorre tenerne conto quando ci si interroga sugli atteggiamenti della Chiesa di fronte alla schiavitù» (J. Andreau e R. Descat, Gli schiavi nel mondo greco e romano, Il Mulino 2006, p.216)

 

TOMMASO D’AQUINO. San Tommaso d’Aquino analizzato la morale nei rapporti umani, sostenendo che la schiavitù è in opposizione al diritto naturale e deducendo che tutte le “creature razionali” hanno diritto alla giustizia. Non ha trovato alcuna base naturale per la riduzione in schiavitù di una persona piuttosto che un’altra, rimuovendo ogni possibile giustificazione per la schiavitù in base alla razza o religione. D’Aquino ha distinto anche due forme di “sudditanza” o autorità, giuste e ingiuste: la prima si verifica quando il padrone produce un vantaggio e beneficio ai suoi sudditi. La forma ingiusta di soggezione, invece, è quella della schiavitù, in cui il sovrano gestisce il soggetto per il suo vantaggio. Per chi volesse ulteriormente approfondire il pensiero di Tommaso in questo senso, consigliamo lo studio del filosofo Hector Zagal: Aquinas on Slavery: An Aristotelian Puzzle (Universidad Santo Tomás 2003).

 

SANTA BATILDE (626-670 d.C.). Nel VII secolo la Chiesa addirittura proclamò santa la schiava britannica Batilde, divenuta sposa e poi vedova di Clodoveo II, re dei Franchi, la quale sfruttò la sua posizione per organizzare una campagna che ponesse fine alla tratta degli schiavi e per riscattare coloro che si trovavano in schiavitù.

 

PONTEFICI CRESCIUTI COME SCHIAVI. Secondo Tacito, «gli schiavi non avevano religione, o avevano solo religioni straniere» (Annali, XIV), certamente erano esclusi dalle funzioni religiose perché le avrebbero contaminate (Cicerone, “Ottavio”, XXIV). Al contrario il cristianesimo ha da subito predicato l’assoluta uguaglianza religiosa, una radicale novità. La Chiesa non guardò mai alla condizione sociale dei fedeli, offrendo a tutti gli stessi sacramenti. Numerosi chierici ebbero un’origine servile e la stessa Cattedra di San Pietro è stata occupata da uomini che erano stati schiavi, come Pio I (100-150 d.C.) e Papa Callisto I (180-222 d.C.).

 

TOMBE DEGLI SCHIAVI CRISTIANI. Interessante notare anche che nei cimiteri cristiani non vi era alcuna differenza tra le tombe degli schiavi e quelli dei liberi, al contrario dei sepolcri pagani in cui era sempre sottolineata la condizione servile con un’iscrizione (le tombe erano isolate). Addirittura sono state trovate tombe di schiavi onorati con un sepolcro più pretenzioso di altri fedeli liberi, come quello di Ampliatus nel cimitero di Domitilla (cfr. Bulletin of Christian Archaeology, 1881, pp. 57-54, and pl. III, IV). Ciò è particolarmente vero nel caso di schiavi martiri: ad esempio, le ceneri di due schiavi, Protus e Hyacinthus, bruciati vivi durante la persecuzione di Valeriano, sono state avvolte da un sudario di tessuto oro (cfr. Bulletin of Christian Archaeology, 1894, pag 28).

 

IMPERATORI CRISTIANI. Sotto gli imperatori cristiani la condanna al maltrattamento degli schiavi divenne ogni giorno più marcata. Occorre comunque dire che il diritto civile in schiavitù rimase indietro rispetto alle esigenze del cristianesimo («Le leggi di Cesare sono una cosa, le leggi di Cristo un’altra», scrive S. Girolamo in “Ep. lxxvii”), tuttavia si nota un forte progresso in questo senso. L’eliminazione improvvisa della schiavitù, come detto sopra, non era possibile poiché gran parte del sistema economico romano si basava sulla schiavitù e la sua condanna avrebbe causato seri problemi di ordine sociale per qualsiasi imperatore.

L’imperatore Costantino cercò di raggiungere due obiettivi molto importanti: favorire la liberazione del maggior numero di schiavi possibile da parte dei padroni tramite quello che viene definito “favor libertatis” e migliorare la condizione esistenziale degli schiavi che non ottenevano la libertà. Diede molto risalto nella sua attività legislativa alla cosiddetta “libertà per ricompensa” che prevedeva la liberazione dello schiavo che denunciava all’autorità pubblica delitti quali la coniazione di monete false oppure gli omicidi, i rapimenti, diede grande impulso ai processi di affrancamento per motivi religiosi emanando una legge che imponeva ai padroni ebrei di vendere gli schiavi cristiani alla Chiesa. Infine, Costantino stabilì in sedici anni (a differenza dei venti previsti da Diocleziano) il periodo necessario all’acquisto della libertà da parte dello schiavo. Per quanto riguarda i provvedimenti adottati da Costantino per migliorare la condizione servile ed eliminare abitudini molto crudeli, egli abolì la loro crocifissione, ribadì il divieto di castrazione imponendo altrimenti la confisca dello schiavo, eliminò il marchio a fuoco impresso sulla fronte degli schiavi condannati a combattere nelle arene come gladiatori o ai lavori forzati nelle miniere. Inoltre, impedì che le famiglie costituite da schiavi venissero separate riconoscendo il valore morale, materiale e religioso di tali famiglie come voleva la Chiesa cattolica. Infine Costantino in una costituzione del 326 invitò i padroni a non vendere i propri schiavi. A tale riguardo Costantino scrisse: «Tolerabilius est servos mori suis dominis quam servire extraneis».

Sotto il regno di Giustiniano la legislazione imperiale cristiana raggiunse il suo più alto livello programmatico in quanto l’imperatore affermò più volte che la schiavitù era contraria al diritto naturale. Egli si rese conto che non potendo abolire la schiavitù per ragioni di vario tipo, era necessario limitare il numero degli schiavi e rendere sempre più umana la loro condizione esistenziale applicando i principi etici del cristianesimo. Riconosceva che la dottrina cristiana era incompatibile con l’esistenza della schiavitù, ma d’altra parte si rendeva conto che i tempi non erano ancora maturi per abolirla come il diritto naturale richiedeva. Tuttavia M. Melluso, in La schiavitù nell’età giustinianea, spiega che «Giustiniano cerca sicuramente di dare una dimensione più “umana” alla schiavitù, continuando nell’opera di erosione dell’istituto quale si era radicato nella società di epoca classica» (pag. 296).

 

Almeno inizialmente, hanno scritto Jean Andreau e Raymond Descat, «la Chiesa non ha sconvolto ogni cosa, ma ha attenuato alcuni degli aspetti più negativi della schiavitù, ha combattuto gli abusi più palesi. Si è interessata particolarmente al riscatto dei prigionieri e si è opposta alla riduzione in schiavitù, con l’inganno o con la forza, di uomini e donne liberi» (J. Andreau e R. Descat, Gli schiavi nel mondo greco e romano, Il Mulino 2006, p.149). Diffondendosi via via, il Cristianesimo poté cominciare, attraverso i suoi valori morali, ad attenuare le dure leggi e le abitudini severe del mondo romano per migliorare le condizioni degli schiavi. Ad esempio, in seguito alle invasioni barbariche, documenti dal V al VII secolo sono pieni di casi di prigionieri delle città conquistate e destinati al la schiavitù, che la Chiesa ha redento e rimandato a migliaia nei rispettivi Paesi (E. Lesne, Hist de la propriété ecclésiastique en France, 1910, pp 357-69). Tutto questo senza “colpi di stato” o manifestazioni di piazza, ma dimostrando quanto fosse più umano imitare l’esempio del comportamento di Gesù Cristo. Lo ha spiegato il filosofo Cornelio Fabro: «La Chiesa si adoperò in tutti i tempi per emancipare coloro che per diritto di guerra o per altri motivi erano divenuti schiavi. Non meno efficace fu l’influsso della morale e della spiritualità cristiana sulla cause prossime della schiavitù […]. Il movimento di liberazione continuò in tutto il Medioevo e si estese alle genti barbariche del Nord che accettavano l’influsso della Chiesa e del diritto romano fino a far scomparire in pratica la schiavitù antica e a concepire nuove forme di dipendenza più consone alla crescente consapevolezze della dignità dell’uomo» (C. Fabro, Studi cattolici, n.66, settembre 1966).

 
 

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5. MEDIOEVO E SCHIAVITU’

L’opera della Chiesa fu quella di trasformare gradualmente lo schiavo in servo, e, quando possibile, in uomo completamente libero. Infatti, durante il Medioevo nell’Europa cristiana la schiavitù cessò gradualmente di essere praticata (ricomparve solo nel 1600): «E’ nel corso dell’alto medioevo», hanno scritto gli storici francesi J. Andreau e R. Descat, «che si sono prodotti i cambiamenti più importanti e che si è definitivamente usciti, in Europa occidentale, dalla società schiavista» (J. Andreau e R. Descat, Gli schiavi nel mondo greco e romano, Il Mulino 2006, p.222)

Sebbene tutti gli storici concordino sul fatto che alla fine del X secolo la schiavitù era di fatto scomparsa dall’Europa, alcuni hanno negato che ciò fosse dipeso dal cristianesimo (ad esempio Robert Fossier o Gorges Duby) sostenendo che lo schiavismo divenne poco remunerativo rispetto al progresso tecnologico. E’ una tesi in linea con il marxismo ma non con la realtà economica, tanto da essere smentita e capovolta da innumerevoli studi di economisti come The Economics of Slavery and Other Studies (A.H. Conrad & J.R. Meyer, in Econometric History, Aldine 1958) e Time on the Cross: The Economics of American Negro Slavery (R.W. Fogel & S.L. Engerman, 2° vol., Little Brown 1974). Richard Ainley Easterlin, eminente professore di Economia all’Università della California del sud, ha ad esempio fato notare che perfino quando scoppiò la guerra di Secessione americana (1861-1865), negli stati del Sud la schiavitù «era la più remunerativa modalità di produzione» (R.A. Eastrerli, Regional Income Trends 1840-1850, MCGraw-Hill 1961, p. 525-547). La storia dimostra che la schiavitù è sempre stata conveniente per i padroni, anche se non lo fu per la società in generale, la quale ottiene maggiori benefici dalla manodopera libera. Per questo il superamento dello schiavismo diede all’Europa un vantaggio immenso sul resto del mondo.

La prima volta in cui la schiavitù fu eliminata nel mondo fu durante i cosiddetti “Secoli bui”. Nel Medioevo, infatti, i padri della Chiesa estesero i sacramenti agli schiavi e diversi Concili cattolici chiesero di migliorare notevolmente le condizioni di benessere degli schiavi, proseguendo il lento lavoro di erosione di questo istituto, ad esempio: invocarono la protezione del maltrattato schiavo che si è rifugiato in una chiesa o a cui sia stata data la libertà in chiesa (Concilio di Orange canone 7, Orléans 511 d.C., 538 d.C., 549 d.C. e Concilio di Epone, 517 d.C.); penitenze per il padrone che abbia battuto lo schiavo/a provocandogli/le un danno (Concilio di Elvira, 305 d.C.) la validità del matrimonio contratto con piena conoscenza tra le persone libere e gli schiavi (Concilio di Verberie, 752 d.C. e di Compiègne, 759 d.C.); il riposo per gli schiavi nella domenica e nei festivi giorni (Concilio di Auxerre, 578 d.C., di Ruen, 650 d.C.; del Wessex, 691 d.C., di Berghamsted, 697 d.C.), il divieto per gli ebrei di possedere schiavi cristiani (Concilio di Orléans, 541 d.C., di Mâcon, 581 d.C., di Clichy, 625 d.C., di Toledo, 589 d.C., 633 d.C., 656 d.C.), la soppressione del traffico di schiavi (Concilio di Chalon-sur-Saône, tra 644 e 650 d.C.), il divieto di riduzione di un uomo libero in schiavitù (Concilio di Clichy, 625 d.C.) e scomunica di chi attenta alla libertà delle persone (Concilio Lugdunense, 566 d.C.), vendita di vasi sacri e di beni della Chiesa per la redenzione e il riscatto di alcuni schiavi (Concilio Agatense, 506 d.C. e concilio Matisconense, 585 d.C.). In particolare fu soprattutto la validità del matrimonio misto, riconosciuto dalla Chiesa medievale, ad aver avuto una grande importanza, tanto che nel VII secolo le unioni miste (soprattutto uomo libero e donna schiava) erano molto comuni. L’esempio più noto sono le nozze celebrate nel 649 tra il re dei Franchi Clodoveo II e la schiava cristiana Batilde, la quale ereditò il regno e promosse una campagna contro il commercio di schiavi: dopo la morte (680 circa) Papa Niccolò I (858 – 867) la canonizzò come santa

Molto chiaro il giudizio di Harold J. Barman, professore alla Harvard Law School: «Sotto l’influenza del cristianesimo, a anche in virtù delle idee stoica e neoplatonica recepite dalla filosofia cristiana […], nel diritto relativo agli schiavi fu dato loro il potere di ricorrere a un magistrato in caso di abuso dei poteri da parte del padrone e addirittura, in alcuni casi, di rivendicare il diritto di libertà se il padrone si comportasse crudelmente, moltiplicando le forme di manomissione degli schiavi e permettendo loro di acquisire diritti alla parentela con uomini liberi» (H.J. Barman, Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, Il Mulino 2006, p.179). Della medesima opinione anche Guido Clemente, docente di Storia romana all’Università di Firenze: «Fu dunque assai importante la pratica e l’incidenza di alcuni movimenti culturali, come stoicismo e cristianesimo, per introdurre mitigazioni in aspetti particolari del trattamento degli schiavi […], la pratica dell’affrancamento fu favorita dall’ampliamento delle procedure consentite (ad esempio l’affrancamento davanti al vescovo), ma rimasero gli obblighi verso il padrone anche se i vincoli giuridici certamente si attenuarono» (G. Clemente, Guida alla storia romana, Mondadori 2008, pp. 362-363).

Lentamente la schiavitù si trasformò nella cosiddetta “servitù della gleba” (cioè “della terra”): erano contadini a cui un proprietario terriero forniva un appezzamento e un’abitazione in cambio di lavoro nei suoi campi, non erano più dei “beni”. Avevano diritti ereditari legati alla terra, non potevano essere espropriati, erano protetti dai signori o feudatari (così venivano chiamati i proprietari terrieri) e un sostanziale grado di discrezionalità. Sposavano chi volevano e le loro famiglie non erano soggette a vendita o dispersione. Pagavano degli affitti che permettevano loro di poter controllare tempi e ritmi del lavoro. I loro obblighi erano limitati e più simili al lavoro dipendente che alla schiavitù. Il feudatario non aveva potestà sulla vita del contadino, ma poteva solo comandarlo durante il lavoro nei campi come servo della gleba. La Chiesa non condannò la servitù della gleba, ma contribuì in modo determinante a umanizzarla: da istituto che garantiva al feudatario diritto di vita e di morte, essa divenne un contratto che garantiva al servo una serie di sicurezze (al punto che, nell’Alto Medioevo, erano frequentissime le richieste di divenire servo). Questa forma di servitù poteva essere anche volontaria nel senso che le persone potevano “vendere” il loro lavoro per un periodo di tempo (servitù a contratto). Anche i monasteri e le abbazie usufruirono spesso di questi servizi dei servi della gleba, spesso rappresentando una vera garanzia di sopravvivenza per i contadini in quanto assicurò loro un minimo di sicurezza. Secondo il Domesday Book, alla fine del XI secolo il 12% della popolazione dell’Inghilterra era costituito da contadini liberi, mentre il 35% erano servi (D. McGarry, Medieval History and Civilization, Macmillan 1976, p. 242).

Con l’inizio del XIV secolo aumentò la proporzione tra contadini liberi e servi e la servitù della gleba sparì con l’arrivo della peste nera, quando il lavoro dei contadini divenne preziosissimo e i contratti d’affitto erano sempre più a loro vantaggio. Il sociologo Rodney Stark ha spiegato: «I proprietari accettarono di fornire sementi, buoi o cavalli e migliori abitazioni, il tutto ad affitti più bassi» (R. Stark, La vittoria dell’Occidente, Lindau 2014, p. 242). Mentre lo storico medievista Jim Bolton ha notato: «Il cambiamento arrivò, quasi inesorabilmente, e arrivò perché gli eventi economici dell’ultimo quarto del XIV secolo, e soprattutto quelli risultanti da un’improvvisa diminuzione della popolazione, diedero ai contadini affittuari un irresistibile potere contrattuale. Verso il 1380 gli sforzi dell’aristocrazia di riproporre la servitù della gleba erano ampiamente falliti di fronte alla resistenza degli affittuari e al realismo economico» (J. Bolton, “The World Upside Down”: Plague as an Agent of Economic and Social Change, Stamford 1996, p. 49)

La specialista francese Régine Pernoud, curatrice del Musée des Archives nationales ha spiegato:

«Il servo medievale è una persona, trattata come tale; il suo padrone non ha su di lui il diritto di vita e di morte che gli riconosceva il diritto romano. D’altronde molto più che una categoria giuridica precisa, la servitù è una condizione, legata a un modo di vita essenzialmente rurale e terriero; ubbidisce a imperativi agricoli, e prima di tutto alla necessaria stabilità che implica e abbisogna la coltivazione d’una terra. Nella società che i secoli VI-VII vedono nascere, la vita va organizzandosi intorno al suolo che nutre e il servo è colui da cui si esige la stabilità: è tenuto ad abitare nel feudo e a coltivarlo, perché se è vero che gli è vietato di lasciare que­sta terra, però egli sa che ne riceverà anche la sua parte di messe. In altri termini, il signore del fondo non lo può espellere, non più di quanto il servo possa “svignarsela”. È questo vincolo intimo dell’uomo con la terra di cui vive, che costituisce il servaggio, perché, per il resto, il servo della gleba ha tutti i diritti dell’uomo libero: può sposare, fondare una famiglia, e la sua terra, dopo la sua morte, passerà ai figli, come pure tutti i beni che egli avrà potuto acquistare. Il signore, notiamo bene, per quanto su una scala del tutto diversa, evidentemente, ha tuttavia gli stessi obblighi del servo, infatti non può né vendere, né alienare, né disertare la sua terra. La situazione del servo, come vediamo, è radicalmen­tente diversa, e senza comune misura con quella dello schiavo» (R. Pernoud, Medioevo, un secolare pregiudizio, Bompiani 2001, pp. 88-90).

Alla fine del VIII secolo Carlo Magno si oppose alla schiavitù, seguendo l’esempio delle autorità ecclesiastiche, a partire dai Pontefici. E’ nota l’opera Via Regia dell’abate Smaragdo di Sain-Mihiel, dedicata proprio a Carlo Magno, in cui si legge: «Clementissimo re, vieta che possa esserci anche un solo schiavo nel tuo regno». All’inizio del IX secolo il vescovo Agobardo di Lione tuonava: «Tutti gli uomini sono fratelli, tutti invocano lo stesso Padre, Dio: lo schiavo e il padrone, il ricco e il povero, l’ignorante e il dotto, il debole e il forte. Nessuno è stato innalzato al di sopra dell’altro. Non c’è schiavo o libero, ma in ogni cosa e sempre c’è solo Cristo» (cfr. (P. Bonnassie, From Slavery to Feudalism in South-Western Europe, Cambridge University Press 1991, p. 54). Così ha commentato lo storico Marc Bloch: ben preso «nessuno più dubitò che la schiavitù fosse di per sé contraria alla legge divina» (M. Bloch, La servitù nella società medievale, La Nuova Italia 1993, p. 11). Nel XI secolo sia San Vulstano di Worcester che Sant’Anselmo si batterono per eliminare le ultime vestigia della schiavitù, tanto che «da quel momento in poi, nessun uomo, nessun vero cristiano in nessun caso poté più legittimamente essere considerato proprietà di un altro uomo» (M. Bloch, La servitù nella società medievale, La Nuova Italia 1993, p. 30).

Nell’Europa medievale la schiavitù comunemente intesa finì «solo perché la Chiesa estese i suoi sacramenti a tutti gli schiavi e poi riuscì a proibire la schiavitù per i cristiani (e gli ebrei). Nel contesto dell’Europa medioevale, quella proibizione divenne effettivamente un’abolizione universale» (R. Stark, La Vittoria della Ragione, Lindau 2008, pag. 57). Già nell’anno 1102 il Concilio cattolico di Londra vietò severamente il traffico di schiavi definendolo “nefarium negotium” cioè un traffico infame (cfr. La Civiltà cattolica, Anno secondo, Volume VII, edizioni La Civiltà cattolica, 1851, p.67). L’abolizione della schiavitù nell’Europa cristiana, inoltre, comportò anche un conseguente progresso industriale, dato che gli uomini furono costretti a procurarsi energia tramite le macchine. Questo non accadde nelle civiltà orientali e islamiche, dove secondo alcune fonti tra il 650 d.C. ed il 1905 si ridussero in schiavitù circa 18 milioni di abitanti dell’Africa, di cui 5 milioni nel periodo tra il 1500 e il 1900. Lo storico e specialista francese Olivier Pétré-Grenouilleau ha indicato l’inizio della schiavitù nera con l’espansione islamica del VII secolo: «È un dato di fatto, nessuno può dire se la tratta si sarebbe potuta sviluppare anche in seguito, senza questo avvio. Il mondo musulmano, d’altra parte, non reclutava certo soltanto schiavi neri. Per tutta la sua storia, esso attinse ampiamente anche dai Paesi slavi, dal Caucaso e dall’Asia centrale». A partire dal VII secolo, «il jihad e la costituzione di un impero musulmano sempre più vasto portarono all’aumento considerevole di manodopera servile» (La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale, Il Mulino 2006). In India, inece, le leggi sanscrite di Manu trattano della schiavitù nel I secolo a.C, nel 1841 c’erano in India 8 o 9 milioni di schiavi, mentre nel Malabar la percentuale di schiavi raggiungeva il 15 % della popolazione. Nel suo celebre La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale (Il Mulino 2006), l’ordinario di Storia all’Università della Bretagna e dell’Istituto di Scienze politiche di Parigi, Olivier Grenouilleau, ha chiaramente spiegato che «il principio cristiano — l’idea secondo la quale tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio — ha potuto aiutare a minare le fondamenta del sistema schiavistico» (pp. 212-213), individuando le origini dell’abolizionismo nella tradizione cristiana (in particolare nel 1462 con la condanna da parte di Papa Pio II alla schiavitù dei neri con la lettera Rubicensem).

Un autore non cattolico e al di sopra di ogni sospetto, Léon Poliakov, storico ebreo dell’antisemitismo e del genocidio ebraico, nel suo volume Il mito ariano, scrive: «La tradizione giudaico-cristiana era “antirazzista” e antinazionalista e senza dubbio le stratificazioni, le barriere sociali del Medio Evo favorirono l’azione esercitata dalla Chiesa nel senso del suo ideale: tutti gli uomini erano uguali davanti a Dio […]. Per questo l’antropologia della Chiesa ha sempre giocato un ruolo di un freno estremo alle teorie razziste» (Poliakov, Il mito ariano, Editori Riuniti 1999, pp. 370-371).

 
 

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6. CHIESA, SCHIAVITU’ E COLONIALISMO

Finché la fede fu un fattore incidente nella vita pubblica la Chiesa poté avere voce in capitolo e incidere in senso umanizzante sulla legislazione e i comportamenti dell’umanità europea; man mano che tale incidenza diminuiva, dal tardo Medioevo e progressivamente attraverso il Rinascimento, la Riforma protestante e infine l’Illuminismo, la società si regolò su altri principi, più neopagani e naturalistici. Proprio in questo periodo, infatti, riemerse drammaticamente il problema della schiavitù sopratutto legata alle conquiste coloniali. Occorre però ricordare che non è corretto sostenere che il colonialismo introdusse la schiavitù nel nuovo mondo infatti, come faceva notare lo storico John Thornton, la schiavitù era intrinseca «in molte, se non in tutte, le società pre-coloniali» (J. Thornton, L’Africa e gli africani nella formazione del mondo atlantico, 1400-1800, Il Mulino 2010, p. 27), dagli Incas nel sud del continente agli indiani della costa nord-occidentale del Pacifico, fino all’Africa. La schiavitù non era solo a vita ma anche ereditaria, come dimostra l’antropologo Leonald Donald dell’University of Victoria: «I padroni avevano un potere fisico assoluto sui loro schiavi, e se volevano potevano anche ucciderli» (L. Donald, Aboriginal Slavery on the Northwest Coast of North America, University of California Press 1997, p. 33-34).

La società occidentale ricominciò così a praticare lo schiavismo non appena si allentò il legame dei popoli con la religione cattolica, tanto che il sociologo e storico Rodney Stark afferma: «Lo spirito dei tempi era -con l’eccezione della Chiesa cattolica- favorevole alla tratta degli schiavi» (R. Stark, For the Glory of God, Princeton University Press 2003, pag. 359). Come già notato in un dossier specifico sul tema, anche in questo caso la Chiesa cattolica fu l’unica voce a levarsi contro la schiavitù nel Nuovo Mondo attraverso una serie di bolle dei Papi del XVI secolo, purtroppo ben poco ascoltate a causa dello scarso potere temporale su cui potevano contare. «In questo periodo i papi godevano di ben poco potere tra spagnoli e portoghesi. Gli spagnoli comandavano su gran parte dell’Italia e nel 1527 avevano persino saccheggiato Roma», osservò l’eminente Kenneth Scott Latourette, presidente dell’American Historical Association. «In base al trattato che ne conseguì», proseguì Latourette, «fu dichiarato illegale persino pubblicare i decreti papali in Spagna o nei possedimenti spagnoli senza l’approvazione del re, e il re di spagna nominava tutti i vescovi spagnoli. Quando, a Rio de Janeiro, i gesuiti lessero pubblicamente una bolla papale contro la schiavitù, una folla inferocita attaccò il locale collegio dei gesuiti e ferì molti sacerdoti. Quando poi un tentativo analogo di pubblicizzare la condanna papale della schiavitù venne fatta a Santos, i gesuiti furono espulsi dal Brasile. Infine, tutti i gesuiti furono violentemente cacciati dall’America Latina e successivamente dalla Spagna» (K.S. Lotourette, A History of Christianity, vol. 2, HarperSanFrancisco 1975, p. 944). Tuttavia, ha concluso il sociologo americano Rodney Stark, «anche se nel Nuovo Mondo le bolle contro la schiavitù furono ignorate, gli sforzi della Chiesa cattolica portarono ad un trattamento degli schiavi meno brutale nei Paesi cattolici che in quelli protestanti» (R. Stark, Il trionfo dell’Occidente, Lindau 2014, p. 353). Fidel González Fernández, storico della Chiesa, ha osservato infatti che i Paesi protestanti, contrariamente a quanto si pensa, furono i maggiori organizzatori della tratta degli schiavi.

Con il sorgere dell’Illuminismo e l’ancora più debole voce della Chiesa, le cose andarono ancora peggio. Lo scrittore cattolico Vittorio Messori ha commentato: «D’altro canto il razzismo biologico -sconosciuto e incomprensibile nella tradizione cristiana- riappare puntualmente proprio quando l’Occidente rifiuta il vangelo e passa a nuovi culti, come quello della Scienza. E, con il razzismo, nella cultura post-cristiana ritorna pure la schiavitù: mi è sempre sembrato significativo che Voltaire abbia investito buona parte dei suoi lauti redditi come intellettuale di corte proprio in una società di navigazione negriera, che assicurava cioè il trasporto degli schiavi africani verso l’America» (Qualche ragione per credere, Ares 2008, pag. 101). Lo storico del razzismo, Léon Poliakov, ha spiega infatti che «Voltaire non esitò a diventare azionista di un’impresa di Nantes per la tratta dei negri, investimento eminentemente remunerativo» (L. Poliakov, Storia dell’antisemitismo, La Nuova Italia 1976, vol III, pag. 122). E’ stata però la storica francese Régine Pernoud, specialista del Medioevo e curatrice del Musée des Archives nationales, a spiegare meglio le cose: «In Francia è una donna, la regina cattolica Batilde, a chiudere l’ultimo mercato di schiavi nel 650. Il superamento della schiavitù è un fatto dì importanza capitale, che non viene sottolineato adeguatamente da nessun libro di testo scolastico. Forse perché qualcuno potrebbe trovarsi in imbarazzo se gli si chiedesse di spiegare perché l”’oscuro” Medioevo ha abolito la schiavitù e il 1500 l’ha introdotta di nuovo […] ed essa assume il massimo spessore sociale e politico nel 1700, cioè proprio nel secolo dei lumi!» (R. Pernoud, intervista a cura di Massimo Introvigne, “Il Medioevo: l’unica epoca di sottosviluppo che ci abbia lasciato delle cattedrali”, Cristianità, Anno XIII, n. 117, dicembre 1984, p. 11).

Avendo già approfondito il rapporto tra cattolicesimo e schiavitù in questo periodo storico, rinviamo al dossier già pubblicato, in cui citiamo i Pontefici e le direttive della Chiesa contro la schiavitù e in difesa dei popoli conquistati. Particolarmente significativa a questo proposito la nota battaglia di Mbororè svoltasi nell’attuale Brasile, dove i Gesuiti collaborarono con i Nativi per respingere i colonialisti europei.

 
 

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7. PIO XI E LA SCHIAVITU’

Molti polemisti anticristiani citano frequentemente il documento “Instructio 1293” (Collectanea, Vol. 1, pp. 715-720) di papa Pio IX, scritto nel 1866, in cui verrebbe incoraggiato l’istituto della schiavitù. Viene citato questo passaggio in particolare: «La schiavitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina. Possono esserci molti giusti diritti alla schiavitù e sia i teologi che i commentatori dei canoni sacri vi hanno fatto riferimento. Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato».

Il testo è volutamente estrapolato e tradotto male dal latino, questo il testo originale:

«La servitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina. Possono esserci molti giusti diritti alla servitù e sia i teologi che i commentatori dei canoni sacri vi hanno fatto riferimento…Non è contrario alla legge naturale e divina che un servo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato. Il venditore dovrebbe chiaramente esaminare se il servo messo in vendita sia stato giustamente o ingiustamente privato della sua libertà e che il compratore non possa fare nulla che potrebbe danneggiare la vita, la virtù o la fede cattolica del servo» (Instructio 1293).

Il termine “servitù”, dopo l’esperienza della servitù della gleba nel Medioevo, indicava ovviamente coloro i quali si trovano in servitù penale (come ad esempio carcerati che sono costretti al lavoro) o quelli in servitù volontaria, contrattata (chi liberamente per motivi economici mette a disposizione di qualcuno la sua libertà). Anche nella Summa Theologica, San Tommaso utilizza il termine servus indicando il “servo della gleba” e non lo schiavo. Lo stesso fece Francesco Petrarca, utilizzando il termine italiano servitude (proveniente dal latino servitudo) in un contesto che non riguardava la schiavitù ma i servigi, anche di natura artistica, resi ad un signore (in questo caso la sua dipendenza dal cardinale Colonna). Il testo dell’istruzione di Pio IX è datato nel secolo XIX: non può quindi trattarsi di un latino classico ma di un latino che ha ereditato i significati che ha acquisito in età medioevale e moderna.

Il predecessore di Pio IX, Gregorio XVI, si occupò invece proprio della schiavitù nella bolla In Supremo (1839), scrivendo:

«Elevati al supremo fastigio dell’Apostolato, ed esercitando senza alcun Nostro merito le veci di Gesù Cristo, Figlio di Dio, che per la sua eccelsa carità si è fatto uomo e si è degnato di morire per la redenzione del mondo, abbiamo ritenuto essere compito della Nostra pastorale sollecitudine adoperarci per distogliere completamente i fedeli dall’indegno mercato dei Neri e di qualsiasi altro essere umano […]. Col trascorrere del tempo, essendosi dissipata più ampiamente la caligine delle superstizioni barbariche ed essendosi mitigati i costumi anche dei popoli più selvaggi sotto l’influsso della carità cristiana, si arrivò al punto che da diversi secoli non ci sono più schiavi presso moltissimi popoli cristiani. Ma poi, e lo diciamo con immenso dolore, sono sorti, nello stesso ambiente dei fedeli cristiani, alcuni che, accecati dalla bramosia di uno sporco guadagno, in lontane e inaccessibili regioni ridussero in schiavitù Indiani, Negri e altre miserabili creature, oppure, con un sempre maggiore e organizzato commercio, non esitarono ad alimentare l’indegna compravendita di coloro che erano stati catturati da altri […]. Noi, ritenendo indegne del nome cristiano queste atrocità, le condanniamo con la Nostra Apostolica autorità: proibiamo e vietiamo con la stessa autorità a qualsiasi ecclesiastico o laico di difendere come lecita la tratta dei Negri, per qualsiasi scopo o pretesto camuffato, e di presumere d’insegnare altrimenti in qualsiasi modo, pubblicamente o privatamente, contro ciò che con questa Nostra lettera apostolica abbiamo dichiarato».

Il successore di Pio IX, Leone XIII condannò a sua volta «il giogo della schiavitù», spiegando che «i Brasiliani intendono eliminare ed estirpare completamente la vergogna della schiavitù. Tale volontà popolare fu assecondata con lodevole impegno sia dall’Imperatore, sia dall’augusta sua figlia, nonché da coloro che governano lo Stato, con salde leggi promulgate e sancite a tal fine. Quanta consolazione Ci arrecasse tale evento, fu da Noi esternato nello scorso gennaio all’ambasciatore imperiale presso di Noi: aggiungemmo inoltre che avremmo Noi stessi indirizzato una lettera ai Vescovi del Brasile in favore degli infelici schiavi […]. Ora, fra tante miserie, è da deplorare duramente la schiavitù a cui da molti secoli è sottoposta una parte non esigua della famiglia umana, riversa nello squallore e nella lordura, contrariamente a quanto in principio era stato stabilito da Dio e dalla Natura».

Nonostante questo, durante la sentenza del caso Dred-Scott nel 1857, la Corte Suprema americana stabilì che «i neri, a norma delle leggi civili, non sono persone» (A. Socci, La Guerra contro Gesù, Rizzoli 2011, pag. 56).

 
 

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8. CONCLUSIONE

Per tutto quello che abbiamo visto in questo dossier che il filosofo ebreo Karl Lowith ha potuto concludere: «Il mondo storico in cui si è potuto formare il “pregiudizio” che chiunque abbia un volto umano possieda come tale la “dignità” e il “destino” di essere uomo, non è originariamente il mondo avente le sue origini nel Rinascimento, ma il mondo del Cristianesimo, in cui l’uomo ha ritrovato attraverso l’Uomo-Dio, Cristo, la sua posizione di fronte a sé e al prossimo» (K. Lowith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, Einaudi 1949).

Oltre ad aver analizzato una parte della storia della schiavitù, abbiamo anche risposto alle accuse spesso rivolte alla cristianità, mostrando che il pensiero cristiano promosso dalla piccola Chiesa primitiva e da quella medioevale, ha contribuito enormemente alla sparizione della schiavitù. Lo ha fatto senza rivoluzioni, senza propaganda ma con una lenta pedagogia, facendo penetrare negli uomini il giudizio nuovo sulla realtà portato da Cristo e attendendo che esso maturasse.

Certamente molti cristiani, sacerdoti, vescovi (e anche un paio di pontefici: nel 1488 Papa Innocenzo VIII ha accettato un dono di un centinaio di schiavi mori dal re Ferdinando d’Aragona, lo stesso Pontefice aveva anche violato la castità essendo padre di otto figli maschi e altrettante figlie) hanno disatteso il messaggio cristiano e avuto un parere positivo sulla schiavitù. Tuttavia, come ha scritto il cardinal Ratzinger: «Tutti i peccati dei cristiani nella storia non derivano dalla loro fede nel Cielo, ma dal fatto che non credono abbastanza nel Cielo».

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Sant’Agostino e le false citazioni sulle donne inferiori o la terra piatta

Sant’Agostino e le frasi sulle donne. Davvero le riteneva inferiori all’uomo? O responsabili del peccato originale? E realmente credeva che la terra fosse piatta? No, tuttavia esistono numerose false citazioni a lui attribuite, inesistenti sui testi originali.

 

Uno dei più noti cavalli di battaglia del movimento anticristiano/anticlericale è senza dubbio l’esposizione di un florilegio di citazioni attribuite ai Padri e Dottori della Chiesa, che per l’assurdità e la ripulsa suscitata dai loro contenuti, dovrebbero immediatamente render manifesta la vacuità e l’inciviltà della religione cristiana, con tutti i suoi duemila anni di storia. Chiunque legga queste frasi dovrebbe porsi la domanda: se la religione cristiana non è allora altro che una tale accozzaglia di sciocchezze, come ha fatto a resistere e diffondersi per oltre duemila anni, ed essere ancora oggi accettata da tanta gente? Purtroppo nella maggior parte dei casi, questo interrogativo non emerge, accontentandosi di credere che la religione sia una cosa da ignoranti e incivili.

Chi invece decide di andare a verificare sui testi dei rispettivi autori, scopre che queste attribuzioni sono falsificazioni, in pochi casi inventate di sana pianta e molto spesso frasi estrapolate da veri testi ed opportunamente alterate, così da poter mettere in bocca ai vari autori ciò che si vuole loro far dire. Un accanimento particolare è rivolto verso Sant’Agostino, proprio per la sua importanza nella Chiesa. Di seguito mostriamo, testi alla mano, cosa veramente abbia scritto il Dottore della Chiesa limitandoci ad una raccolta di testi che possa fungere da utile fonte primaria (al lettore interessato spetta l’eventuale approfondimento). Ne approfitteremo anche per mostrare come si falsa l’immagine di Sant’Agostino nemico della donna e della sessualità.

 

 
 
 
 
 
 
 
 

1) «Se si dimostrasse che la Terra è rotonda, tutto il cattolicesimo cadrebbe in errore»
Citazione completamente inventata, non si trova in nessuna delle opere di Agostino. Chiunque può verificarlo, esiste infatti il sito www.augustinus.it che riporta la sua Opera Omnia, sia nell’originale latino che nella traduzione italiana. Nel sito è presente un motore di ricerca che permette di cercare dei termini all’interno di tutti i testi, e chiunque può verificare che quelle frasi (anche cercando delle varianti, per esempio solo “terra tonda”, “terra sferica” ecc.) non sono presenti in nessuna opera.

Inutile ricordare che Agostino, nel suo “Genesi ad litteram”, mostrava di considerare chiaramente la Terra come pianeta sferico, come chiunque nel Medioevo:

«Dato infatti che l’acqua ricopriva ancora tutta la terra, nulla impediva che su una faccia di questa massa sferica d’acqua producesse il giorno la presenza della luce e che nell’altra faccia l’assenza della luce producesse la notte che, a cominciar dalla sera, succedesse sulla faccia dalla quale la luce s’allontanava verso l’altra faccia» (Libro I, 12.25)

 

2) «Le donne dovrebbero essere segregate, perché sono la causa delle involontarie erezioni degli uomini santi»
Citazione completamente inventata, vale lo stesso discorso fatto per la precedente. Verificare l’inesistenza di questa frase sul motore di ricerca dell‘Opera Omniawww.augustinus.it

 

3) «La donna è un essere inferiore, che non fu creato da Dio a Sua immagine. Secondo l’ordine naturale, le donne devono servire gli uomini»
Si tratta di una citazione estrapolata dal contesto e modificata a dovere, così da poter attribuire a Sant’Agostino una concezione della donna inaccettabile per chiunque. In realtà, andando a leggere il testo originale, si scopre subito come l’autore avesse tutt’altre idee, e tranquillamente dicesse che la donna, in quanto essere umano, è immagine di Dio esattamente come il maschio. Il testo originale, che riportiamo qui sotto, è tratto da De Trinitate XII 7, nel quale sono omesse, per non confondere le idee, le parti in cui si parla specificamente della Trinità (il testo completo è comunque scaricabile qui). Agostino scrive:

«Dunque non dobbiamo intendere che l’uomo è stato creato ad immagine della Trinità suprema, cioè ad immagine di Dio, nel senso che questa immagine si riscontri in una trinità di persone umane: tanto più che l’Apostolo dice che l’uomo (vir, maschio) è immagine di Dio e per questo gli proibisce di velarsi il capo, mentre ordina alla donna di farlo. Dice infatti: “L’uomo non deve velarsi il capo, perché è l’immagine e la gloria di Dio. La donna invece è la gloria dell’uomo”. Che dire di questo? […]. Ma vediamo bene come l’affermazione dell’Apostolo secondo cui non la donna, ma l’uomo è immagine di Dio, non sia contraria a ciò che è detto nel Genesi: “Dio fece l’uomo, lo ha fatto ad immagine di Dio; lo ha fatto maschio e femmina e li ha benedetti”. Secondo il Genesi è la natura umana in quanto tale che è stata fatta ad immagine di Dio, natura che si compone dei due sessi e quindi non esclude la donna, quando si tratta di intendere l’immagine di Dio. Infatti, dopo aver detto che Dio ha fatto l’uomo ad immagine di Dio, aggiunge: “Lo fece maschio e femmina”, o distinguendo diversamente: “li fece maschio e femmina”. Come può dunque l’Apostolo dire che l’uomo (vir) è immagine di Dio e per questo non deve velarsi il capo, ma che la donna non lo è per cui deve velarsi il capo? Il motivo è, ritengo, quello che ho già indicato, quando ho trattato della natura dello spirito umano: la donna è con suo marito immagine di Dio, cosicché l’unità di quella sostanza umana forma una sola immagine; ma quando è considerata come aiuto, proprietà che è esclusivamente sua, non è immagine di Dio; al contrario l’uomo, in ciò che non appartiene che a lui, è immagine di Dio, immagine così piena ed intera, come quando la donna gli è congiunta a formare una sola cosa con lui […]. Chi dunque potrebbe pretendere di escludere le donne da questa partecipazione, dato che esse sono nostre coeredi della grazia e visto che l’Apostolo dice in un altro passo: “Voi siete infatti tutti figli di Dio per mezzo della fede in Cristo Gesù, perché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più né Giudeo, né Greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina, perché siete tutti uno solo in Gesù Cristo?”. Si dovrà dunque pensare che le donne che credono hanno perduto il loro sesso? No, ma poiché si rinnovano ad immagine di Dio, là dove non entra il sesso, perciò, ivi stesso ove il sesso non entra, l’uomo è stato fatto ad immagine di Dio, cioè nella sua anima spirituale. Perché allora l’uomo non deve velare il suo capo perché è immagine e gloria di Dio, mentre la donna deve velarlo, perché è gloria dell’uomo, come se la donna non si rinnovasse nella sua anima spirituale, che si rinnova nella conoscenza di Dio secondo l’immagine di Colui che l’ha creata? Perché, essendo la donna differente dall’uomo per il suo sesso, poté giustamente raffigurarsi nel velo del suo capo quella parte della ragione che si abbassa a dirigere le attività temporali. L’immagine di Dio non risiede se non nella parte dello spirito dell’uomo che si unisce alle ragioni eterne, per contemplarle ed ispirarsene, parte che, come è manifesto, possiedono non solo gli uomini, ma anche le donne(De Trinitate XII 7)

Abbiamo qui sopra sottolineato un passo che mette bene in evidenza la pari dignità di uomo e donna, smentendo così ancora una volta quanti ignorantemente sostengono che la dottrina cristiana sarebbe misogina. Nel seguente passo si ricorda l’importanza della fedeltà, cui sia l’uomo che la donna sono chiamati allo stesso modo:

«Ci si domanda anche per solito se si deve parlare di matrimonio, quando un uomo e una donna, entrambi liberi da altri legami coniugali, si uniscono non per procreare figlioli, ma solo per soddisfare la reciproca intemperanza, ponendo però tra di loro la condizione che nessuno dei due abbia rapporti con altra persona. In un caso del genere forse parlare di matrimonio non sarebbe fuor di proposito, purché essi osservino vicendevolmente questa condizione fino alla morte di uno dei due e purché, anche non essendosi uniti a questo scopo, tuttavia non abbiano escluso la prole, come avviene invece quando la nascita di figli non è desiderata o addirittura è evitata con qualche pratica riprovevole. Ma se mancano i due elementi della fedeltà e della prole, o anche uno solo di essi, non vedo in qual maniera potremo chiamare matrimonio simili unioni. In effetti, se un uomo si unisce temporaneamente con una compagna, finché non ne trovi da sposare un’altra all’altezza della sua condizione sociale ed economica, nell’intenzione è un adultero, e non con quella che intende trovare, ma con questa con la quale vive maritalmente, pur non essendo unito a lei da matrimonio. Perciò anche la donna che conosce ed accetta questa situazione mantiene un rapporto senz’altro impudico con colui al quale non è congiunta dal patto coniugale» (“Sulla dignità del matrimonio”, 5.5)

In un altro passaggio Agostino ribadisce chiaramente la pari dignità dei coniugi nel matrimonio:

«A ciò si aggiunge che mentre essi si rendono a vicenda il debito coniugale, anche quando esigono questo dovere in maniera piuttosto eccessiva e sregolata, sono tenuti comunque alla reciproca fedeltà. E a questa fedeltà l’Apostolo attribuisce un diritto tanto grande da chiamarla potestà, quando dice: “Non è la moglie che ha potestà sul proprio corpo, ma il marito; allo stesso modo non è il marito che ha potestà sul proprio corpo, ma la moglie”. La violazione di questa fedeltà si dice adulterio, quando, o per impulso della propria libidine, o per accondiscendenza a quella altrui, si hanno rapporti con un’altra persona contrariamente al patto coniugale. Così si infrange la fedeltà, che anche nelle cose più basse e materiali è un grande bene dello spirito, e perciò è certo che essa dev’essere anteposta perfino alla conservazione fisica, sulla quale si fonda la nostra vita temporale» (“Sulla dignità del matrimonio”, 4.4)

 

4) «Non c’è nulla che io debba fuggire più del talamo coniugale, niente getta più scompiglio nella mente dell’uomo delle lusinghe della donna, e di quel contatto dei corpi senza il quale la sposa non si lascia possedere».
Questo genere di citazioni viene utilizzato anche da persone indicate come autorità intellettuali, come nel caso di Eva Cantarella, giurista e docente di diritto romano e greco, la quale scrive questa citazione in un suo articolo per il “Corriere della Sera”, aggiungendo che «è con Agostino, forse, che il cristianesimo raggiunge l’apice della misoginia. La conversione è vista da Agostino come liberazione dal desiderio, dalle tentazioni della carne, e lo stato di grazia può essere raggiunto solo esorcizzando la donna». La citazione è vera, ma del tutto decontestualizzata, è tratta dai “Soliloquia”, opera giovanile di un Agostino da poco convertito. Occorre ricordare che Agostino aveva condotto da giovane una vita dissoluta, e che il suo percorso di conversione si articolò in cinque tappe: la lettura dell’“Hortensius” di Cicerone; l’adesione al Manicheismo; la fase scettica; lo studio della filosofia neoplatonica; infine l’incontro con Sant’Ambrogio a Milano. L’“Hortensius” è un’opera di Cicerone ormai andata perduta, e la maggior parte dei frammenti di essa conosciuti sono proprio nelle opere di Agostino. In quel testo Cicerone spiegava la virtù della moderazione, ovvero del desiderio razionalmente ordinato, come condizione necessaria per raggiungere la vita beata. Il saggio, che dedica la sua vita alla ricerca della sapienza, deve evitare i vizi ed assecondare i suoi desideri solo secondo ragione.

Nel “De Trinitate”, XIV 9. 12, Agostino riporta un passo dell’“Hortensius” e dal suo commento (punto 9) emerge chiaramente che emerge chiaramente l’ideale della saggezza e della virtù che Agostino perseguì per tutta la vita, e che già era delineato nei giovanili Soliloquia. Se andiamo infatti a leggere il contesto da cui è tratta la citazione 4) scopriamo proprio che in esso viene esposta la virtù della moderazione che il saggio deve acquisire; ideale della moderazione che del resto sappiamo essere tipico di tutta la tradizione filosofica greca.

Riportiamo allora, nel dialogo tra la Ragione e Agostino, la parte riguardante il rapporto con la donna (l’intero testo,  Soliloquia I 9.16 – 10.17, lo si può leggere qui) dal quale si vede chiaramente come sia insostenibile una lettura femminista che pretenderebbe mostrarci un Agostino misogino:

«-Ragione: “Non desideri le ricchezze?”.
-Agostino: “No e da tempo. Difatti ora io ho trentatré anni e sono decorsi già quattordici anni dacché ho cessato di desiderarle. E da esse non ho richiesto altro, se eventualmente furono disponibili, che il vitto necessario e l’onesta utilità. Bastò un solo libro di Cicerone a persuadermi che le ricchezze non si devono in alcuna maniera desiderare, ma se si hanno devono essere amministrate con molta saggezza e cautela”.
-Ragione: “E gli onori?”.
-Agostino: “Confesso che ho cessato di desiderarli ora e proprio in questi ultimi giorni”.
-Ragione:E prender moglie? Non ti avvince talvolta il pensiero di una donna bella, pudica, di buoni costumi, istruita o che possa per lo meno essere da te facilmente istruita? Porterebbe inoltre, giacché disprezzi le ricchezze, quel tanto di dote che non la renda in alcun modo di peso alle tue occupazioni liberali, specialmente se speri o sei certo che da lei non avrai alcuna molestia?”.
-Agostino: “Per quanto tu la voglia far apparire con bei colori e ornarla di tutte le doti, ho stabilito che niente più debba fuggire che l’uso della donna. Sento che nulla priva maggiormente della propria sicurezza un’anima virile che le carezze della donna e quel contatto dei corpi senza di cui non si può dire di aver moglie. Pertanto se spetta ai doveri del saggio, motivo che ancora non ho appurato, aver figli ed educarli, chiunque usa il matrimonio soltanto a questo scopo, mi pare che sia da ammirare ma in nessuna maniera da proporsi come esempio. Mi pare che fare una simile esperienza comporta più rischio che possibilità d’esito felice. Pertanto ritengo che per la serenità della mia anima giustamente e vantaggiosamente mi sono imposto di non desiderare, non cercare e non prender moglie“.
-Ragione: “Io adesso non ti sto chiedendo che cosa ti sei imposto, ma se sei ancora combattuto ovvero se hai superato perfino il desiderio. Si tratta infine della guarigione dei tuoi occhi”.
-Agostino:Non cerco affatto certe soddisfazioni e non le desidero, che anzi le ricordo con orrore e con disprezzo. Che vuoi di più? E questo è un bene che cresce per me di giorno in giorno; infatti quanto più aumenta la speranza di vedere la Bellezza di cui sono fortemente acceso, tanto più verso di lei si volgono l’amore e il desiderio”. 
-Ragione: “E quale preoccupazione hai per la bontà del cibo?”. 
-Agostino: “Non mi attirano le vivande che ho stabilito di non gustare, ma confesso che durante il pasto prendo diletto da quelle che non ho escluso. Esse tuttavia, viste o assaggiate, possono essere sottratte senza turbamento dello spirito. E quando mancano del tutto, il desiderio non è poi tanto forte da introdursi come ostacolo ai miei pensieri. Ma smettila di rivolgermi domande sul cibo e le bevande, ovvero sui bagni e sugli altri diletti del corpo. Da essi chiedo soltanto quanto può esser di vantaggio alla conservazione della salute».  (Soliloquia I 9.16 – 10.17)

Si vede quindi come Agostino non insista in alcun modo sulla donna o sulla sessualità, ma ci esponga in generale l’ideale della moderazione cui deve tendere l’uomo saggio.

 

5) «Poiché non avete altro modo di avere dei figli acconsentite all’opera della carne solo con dolore, poiché è una punizione di quell’Adamo da cui discendiamo».
Tutto quanto detto fino ad ora è valido pure per la citazione 5), anch’essa strumentalmente decontestualizzata dalla Cantarella a sostegno delle sue tesi. La citazione 5) è tratta dal Discorso 51 e nel contesto Agostino parla sia del desiderio di cibo che della sessualità, dimostrando così di non avere alcuna particolare ossessione per le donne, contrariamente a quanto vorrebbe far credere la studiosa. Nel nutrirsi e nell’attività sessuale non c’è niente di sbagliato, perché esse sono attività naturali e necessarie all’uomo. Il male nasce piuttosto dalla concupiscenza associata ad esse e che è conseguenza del peccato originale. Ecco il testo:

«Due sono le azioni fisiche in virtù delle quali sussiste il genere umano; azioni alle quali le persone sagge e sante si abbassano spinte dal dovere, mentre gli stolti vi si gettano spinti dalla concupiscenza. Una cosa è infatti abbassarsi a un’azione per dovere, un’altra cosa è cadervi per passione. Quali sono queste due azioni, grazie alle quali sussiste il genere umano? Riguardo a noi stessi la prima azione è quella relativa al prendere il cibo (che non può prendersi senza un certo piacere carnale), cioè il mangiare e il bere; se quest’azione non la si facesse si morirebbe. Con questo solo sostegno del mangiare e del bere si conserva il genere umano secondo le leggi della propria natura; ma con esso gli uomini si sostentano solo per quanto riguarda la loro persona; alla loro discendenza invece non provvedono col mangiare e col bere, ma col prendere moglie. Perché infatti sussista il genere umano è necessario anzitutto che gli uomini vivano, ma poiché non possono certamente vivere sempre nonostante tutte le cure che si vogliano avere per il corpo, è logico avere la precauzione che, a coloro che muoiono, succedano altri che nascono. Di fatto, al dire della Scrittura, il genere umano è simile alle foglie che rivestono un albero, ma un albero sempreverde come l’ulivo o l’alloro o un altro di tal genere; siffatti alberi non sono mai privi della loro chioma, eppure non hanno sempre le medesime foglie. In effetti, come dice ancora la Scrittura, il sempreverde ne fa spuntare alcune ma ne fa cadere altre, poiché quelle che nascono man mano succedono a quelle che cadono; l’albero infatti fa sempre cadere le foglie, ma ne rimane tuttavia sempre rivestito. Allo stesso modo anche il genere umano ogni giorno, per il sopraggiungere di coloro che nascono, non avverte la diminuzione derivante da coloro che muoiono e in tal modo, nella misura che gli è consentita, il genere umano sussiste in tutte le sue specie; e come sugli alberi si vedono sempre le foglie, così la terra si vede sempre piena d’uomini. Se invece gli uomini morissero soltanto, e non ne succedessero altri, come alcuni alberi perdono tutte le loro foglie, così la terra rimarrebbe spopolata del tutto. […]

[…]Poiché dunque questi due sostegni, di cui abbiamo parlato a sufficienza, son necessari alla conservazione del genere umano, l’uomo sapiente, prudente e fedele si abbassa ad entrambi spinto dal dovere, non vi cade spinto dalla sensualità. Quanti si precipitano con voracità a mangiare e a bere, riponendo in ciò tutta la loro vita, come fosse la ragione stessa per cui si vive! Essi infatti, pur mangiando per vivere, credono di vivere per mangiare. Costoro sono biasimati da ogni persona sapiente e soprattutto dalla divina Scrittura come mangioni, ubriaconi, ghiottoni, poiché il loro Dio è il ventre. Ciò che li spinge a mettersi a tavola è solo l’appetito carnale e non il bisogno di rifocillarsi. Costoro perciò si precipitano sui cibi e sulle bevande. Coloro invece che vi si abbassano solo per il dovere di vivere, non vivono per mangiare ma mangiano per vivere. Se pertanto a tali persone prudenti e temperanti fosse data la possibilità di vivere senza mangiare e bere, con quanta gioia accoglierebbero questo beneficio, per non essere costretti neppure ad abbassarsi a cose a cui non hanno mai avuto l’abitudine di precipitarsi! In tal modo sarebbero sempre elevati verso il Signore e le loro elevazioni non sarebbero abbassate dalla necessità di ristorare il deperimento del corpo. In qual modo pensate che il santo Elia ricevesse un piccolo orcio d’acqua e una focaccia di pane, che doveva bastargli come alimento per quaranta giorni? Lo prese certo con gran gioia, perché mangiava e beveva solo per il dovere di conservarsi in vita e non perché schiavo dell’ingordigia. Prova, se ti è possibile, a offrire un tal beneficio a un individuo che, simile ad un animale nella stalla, pone tutta la sua delizia e la sua felicità nella buona tavola! Egli avrà in orrore il tuo beneficio, lo respingerà lontano da sé, lo reputerà un castigo. Così pure avverrà per quanto riguarda l’amplesso coniugale; i sensuali cercano le proprie mogli solo per questo e perciò a mala pena si accontentano delle proprie. Volesse poi il cielo che, se non son capaci o non vogliono sopprimere la sensualità, non la lasciassero progredire oltre i limiti prescritti dal debito coniugale e oltre i limiti concessi alla debolezza umana! Se a un tale individuo tu chiedessi davvero: “Perché prendi moglie?”, forse, spinto dalla vergogna, ti risponderebbe: “Per aver figli”. Se però uno, al quale egli fosse disposto a prestar fede senza alcuna esitazione, gli dicesse: “Dio è in grado di darti dei figli e te li darà anche se non ti unirai nella carne a tua moglie”, allora verrebbe messo per davvero alle strette e ammetterebbe che non è per aver figli che cerca la moglie. Confessi dunque la propria debolezza; prenda pure ciò che, come pretesto, diceva di prendere per dovere.

Così i santi Patriarchi, uomini di Dio, cercavano d’aver figli e desideravano di ottenerli. A quest’unico scopo si univano in matrimonio con le donne e si accoppiavano con esse, per l’unico fine di procreare figli. Fu questo il motivo per cui fu permesso loro d’aver più mogli. Se a Dio piacesse una libidine senza freni, a quel tempo avrebbe anche permesso che una sola donna avesse più mariti, come a un sol uomo era permesso d’aver più mogli. Perché dunque tutte le donne caste non avevano più di un marito, mentre un sol uomo poteva avere più mogli? Solo perché un solo uomo abbia più mogli per avere un gran numero di figli, mentre una sola donna non potrà dare alla luce un numero tanto maggiore di figli quanto maggiore sarà il numero dei suoi mariti. Ecco perché, fratelli, se i nostri Patriarchi si univano in matrimonio e si accoppiavano con le donne al solo scopo di procreare dei figli, avrebbero provato una gran gioia se avessero potuto averli senza l’atto carnale poiché per averli non vi si gettavano spinti dalla sensualità, ma vi si abbassavano spinti dal dovere. Giuseppe dunque non era forse padre perché aveva avuto il figlio senza la concupiscenza carnale? Tutt’altro! La castità cristiana non pensi affatto ciò che non pensava neppure quella giudaica! Amate le vostre mogli, ma amatele castamente. Desiderate l’atto carnale solo nei limiti necessari per procreare figli. E poiché non potete averne in altra maniera, abbassatevi a quell’atto con dolore. Si tratta di un castigo meritato da Adamo, dal quale noi abbiamo origine. Non dobbiamo vantarci d’un nostro castigo. È un castigo inflitto a colui che meritò di generare per la morte, poiché a causa del peccato divenne mortale. Dio non eliminò tale castigo perché l’uomo si ricordasse da dove è richiamato e dove è chiamato e cercasse l’amplesso ove non è alcuna corruzione. (Discorso 51)

Inoltre nello stesso discorso, Agostino si dimostra consapevole (e ciò non sorprende se si tiene conto della vita dissoluta che egli condusse da giovane) di come sia difficile vivere nella continenza, e di come tutto quanto detto sia un’ideale cui tendere; ideale cui tutti sono certamente chiamati, ma con indulgenza verso la debolezza dell’uomo.

«Dovete dunque, fratelli miei, comprendere da quanto detto quale giudizio la Scrittura formuli di quei nostri padri, i quali erano uniti in matrimonio solo allo scopo d’aver prole dalle loro mogli. Difatti essi che, in ragione dei tempi e dell’usanza del loro popolo, avevano anche più mogli, le tenevano in modo talmente casto, che non consentivano alla concupiscenza carnale se non per procreare, tenendole davvero in onore. Chi d’altronde brama la carne della propria moglie più di quanto prescriva il limite (ossia il fine di mettere al mondo dei figli), agisce in contrasto con le tavole in base alle quali ha preso in moglie la donna. Le tavole vengono lette, e lette al cospetto di tutti quelli presenti al rito; iniziano: “Allo scopo di procreare figli” e si chiamano “Tavole matrimoniali”. Supponiamo che le donne fossero date e ricevute in mogli per uno scopo diverso; chi darebbe, senza vergogna, la propria figlia in preda alla sensualità d’un individuo? Vengono dunque lette le tavole matrimoniali perché i genitori non debbano arrossire quando danno una figlia in matrimonio, perché siano suoceri e non mezzani. Che si legge dunque nelle tavole? “Allo scopo di procreare figli”. A sentire le parole delle tavole la faccia del padre si rischiara e si rasserena. Osserviamo la faccia del marito che prende la donna in moglie. Anche il marito dovrebbe arrossire di prenderla con altro scopo, se arrossisce il padre di darla per uno scopo diverso. Se però non riescono a contenersi, esigano il debito (l’abbiamo già detto una volta); ma non si spingano più in là del proprio debitore. Sia la moglie che il marito aiutino a vicenda la propria debolezza. Egli non vada con un’altra né lei con un altro (cosa questa da cui deriva il termine “adulterio”, come per dire: “con un altro”). Anche se si oltrepassano i limiti del contratto matrimoniale, non si oltrepassino i limiti del letto coniugale. Non è forse peccato esigere dal coniuge il debito in misura superiore all’esigenza di procreare figli? È certo un peccato, ma un peccato veniale. L’Apostolo afferma: “Questo però ve lo dico per condiscendenza. Parlando poi di questo problema, dice: Non rifiutatevi l’un l’altro se non di mutuo accordo e per un certo tempo al fine di dedicarvi alla preghiera, e poi tornate a stare insieme, affinché Satana non vi tenti a causa della vostra incontinenza”. Paolo inoltre, perché non avesse l’aria di comandare ciò che diceva solo per condiscendenza (una cosa è infatti comandare alla virtù e un’altra condiscendere alla debolezza), soggiunge subito: “Questo però lo dico per condiscendenza, non per comando”. Poiché vorrei che tutti fossero come sono io. Come se dicesse: “Non vi comando di farlo, ma sarò indulgente verso di voi se lo farete” (Discorso 51).

Di solito si accusa Agostino di guardare solo alla dimensione procreativa del matrimonio. Riportiamo dunque una serie di testi relativi alla sessualità nel matrimonio, dai quali emerge un’immagine di Agostino del tutto diversa da quella che Eva Cantarella e altri cercano di divulgare. Il testo seguente è tratto da “I costumi dei Manichei”, 18-65 e l’insistenza sulla sessualità da parte di Agostine nasce dalla necessità di rispondere agli errori dei Manichei, che considerando il corpo un prodotto del demonio, ritenevano malvagia la procreazione, ovvero la produzione di ulteriori corpi. Il matrimonio era quindi giustificabile, secondo i Manichei, al solo fine dell’attività sessuale senza scopi procreativi. Sant’Agostino risponde invece che la bontà del matrimonio sta proprio nel fine di generare figli:

«Resta il sigillo del seno, a proposito del quale la vostra castità è molto dubbia. Infatti proibite non l’accoppiamento, ma, come molto tempo fa ha detto l’Apostolo, proprio il matrimonio, che è la sola onesta giustificazione dell’accoppiamento. Al riguardo non dubito che voi griderete e mi renderete odioso col dire che raccomandate e lodate in modo particolare la castità perfetta, ma che non per questo proibite il matrimonio. Ai vostri uditori, che occupano tra voi il secondo grado, infatti è consentito di prendere moglie e di tenerla con sé. Ma dopo che avrete dette queste cose a gran voce e con grande sdegno, vi rivolgerò più benevolmente questa domanda: non siete voi a ritenere che generare i figli, per cui le anime si legano alla carne, è un peccato più grave dello stesso accoppiamento? Non siete voi che solevate raccomandarci di fare attenzione, per quanto è possibile, al tempo nel quale la donna, dopo le mestruazioni, fosse atta a concepire e durante questo tempo di astenerci dall’accoppiamento perché l’anima non si mescolasse con la carne? Da ciò segue che, secondo il vostro pensiero, la moglie va presa non per la procreazione dei figli, ma per saziare la libidine. Ma le nozze, come proclamano le stesse tavole nuziali, uniscono l’uomo e la donna per la procreazione dei figli. Chi pertanto dice che è peccato più grave procreare i figli che accoppiarsi, proibisce senz’altro le nozze e fa della donna non la moglie, ma la meretrice, che, per certe compensazioni che ne riceve, si congiunge all’uomo per soddisfare la sua libidine. Dove c’è una moglie, infatti c’è matrimonio; invece non c’è matrimonio dove si cerca di impedire che ci sia la madre e dunque la moglie. Perciò voi vietate le nozze, e di questa colpa, che un giorno lo Spirito Santo predisse di voi, non vi difendete con nessun argomento. (“I costumi dei Manichei”, 18-65)

Ma soprattutto è nello scritto “Sulla dignità del matrimonio” che Sant’Agostino espone delle idee diametralmente opposte a quelle che la Cantarella cerca di attribuirgli. Il testo meriterebbe di essere letto per intero (lo si può scaricare dal questo link), qui ci limiteremo a riportare solo le parti che hanno maggior attinenza con la sessualità:

«Ciò che vogliamo dire ora, riferendoci a questa condizione di nascita e di morte che conosciamo e nella quale siamo stati creati, è che il connubio del maschio e della femmina è un bene. E tale unione è approvata a tal punto dalla divina Scrittura che non è consentito di passare a nuove nozze a una donna ripudiata dal marito, finché il marito vive, né è consentito di risposarsi all’uomo respinto dalla moglie, finché non sia morta quella che lo ha abbandonato. Se dunque il matrimonio è un bene, come viene confermato anche nel Vangelo, quando il Signore proibisce di ripudiare la moglie se non per fornicazione, e quando accoglie l’invito a partecipare a una cerimonia nuziale, ciò che giustamente si ricerca è per quali motivi sia un bene. E mi sembra che sia tale non solo per la procreazione dei figli, ma anche perché stringe una società naturale fra i due sessi. Altrimenti non continuerebbe a chiamarsi matrimonio anche nei vecchi, specie quando avessero perduto i figli, o non li avessero avuti affatto. Ora invece in un matrimonio riuscito, anche dopo molti anni, per quanto sia appassita l’attrazione giovanile tra il maschio e la femmina, rimane una viva disposizione d’affetto tra il marito e la moglie. Anzi, quanto migliori sono i coniugi, tanto più presto cominceranno ad astenersi di reciproco accordo dall’unione della carne: in tal modo non diventa in seguito inevitabile non potere più ciò che ancora si vorrebbe, ma si acquista il merito di aver rinunciato fin da prima a ciò che ancora si poteva. Se dunque ci si mantiene fedeli al rispetto e alla stima che un sesso deve all’altro, anche quando ormai il corpo di entrambi è stremato e quasi cadavere, rimane, tanto più sincera quanto più è sperimentata e tanto più accetta quanto più è dolce, la castità degli animi congiunti dal sacro rito. Hanno anche questo vantaggio i matrimoni, che l’intemperanza della carne o dell’età giovanile, anche se in sé è da riprovare, viene rivolta all’onesto scopo di propagare la prole, cosicché l’unione coniugale dal male della libidine produce un bene. Inoltre così la concupiscenza carnale viene frenata e in un certo qual modo arde più pudicamente, perché la mitiga il sentimento della paternità. Si frappone infatti una specie di dignità nell’ardore del piacere, se nel momento in cui l’uomo e la donna sono congiunti l’uno con l’altro, pensano di essere padre e madre» (“Sulla dignità del matrimonio”, 3.3)

Ancora dallo scritto “Sulla dignità del matrimonio”, riportiamo un passo dove Agostino chiarisce che anche il piacere associato all’attività sessuale è cosa buona e non va confuso con la libidine sregolata:

«Quello che infatti è il cibo per la conservazione dell’individuo, questo è l’unione carnale per la conservazione del genere umano; ed entrambe le cose non sono prive di piacere fisico. Ma questo piacere regolato e disciplinato dalla temperanza secondo l’uso della natura, non può essere libidine. Ciò che è nel sostentare la vita un cibo illecito, questo è nella ricerca della prole un rapporto di fornicazione o di adulterio. E ciò che è un cibo non permesso nella ghiottoneria, questo è un rapporto illecito nella libidine senza la ricerca della prole. E all’avidità eccessiva che alcuni hanno per un cibo consentito, corrisponde nel matrimonio il rapporto non gravemente colpevole. Come dunque è meglio morire di fame, che cibarsi di cibi sacrificali; così è meglio morire senza figli, che cercare discendenza da un’unione illecita. Però in qualunque maniera questi figli vengano al mondo, se non seguono i vizi dei genitori e onorano Dio rettamente potranno essere onesti e raggiungere la salvezza. Infatti il seme dell’uomo, da qualsiasi individuo provenga, è creazione di Dio: per chi lo usa male diverrà un male, ma non potrà mai essere un male in se stesso. Come i figli virtuosi degli adùlteri non costituiscono affatto una giustificazione per l’adulterio; così i figli malvagi dei coniugati non costituiscono affatto una colpa per il matrimonio. Perciò i Padri del tempo della Nuova Alleanza che prendevano cibo per doverosa preoccupazione, malgrado il naturale piacere fisico che ne potevano derivare, in nessun modo erano paragonabili a quelli che mangiavano la carne di vittime sacrificali o a quelli che prendevano alimenti sia pure leciti, ma in quantità eccessiva. Così i Padri dell’Antico Testamento compivano l’atto coniugale per la preoccupazione di compiere un dovere, ma quel piacere naturale, che mai poteva arrivare a una libidine irragionevole e colpevole, non dev’esser paragonato alla depravazione nell’adulterio o all’intemperanza nel matrimonio. Senza dubbio, per la stessa madre nostra Gerusalemme, allora bisognava propagare la prole secondo la carne, come ora secondo lo spirito, ma la sorgente della carità era la stessa: solo la diversità dei tempi rendeva diverso il loro operare. Allo stesso modo i Profeti, sebbene non dediti alla carne, dovevano unirsi carnalmente; e si nutrivano carnalmente gli Apostoli, senza essere carnali» (“Sulla dignità del matrimonio” 16.18)

 

6) La teologa Uta Ranke-Heinemann da parte sua, in un suo saggio assai citato su siti anticlericali scrive: «Già Agostino aveva scritto che ogni disgrazia dell’umanità ha avuto inizio in certo qual modo con la donna, cioè con Eva, per colpa della quale ebbe luogo la cacciata dal paradiso […]. “Perché il demonio non si è rivolto ad Adamo, ma ad Eva?” Si domanda. Cosi suona la risposta di Agostino: egli si rivolse dapprima alla “parte inferiore della prima coppia umana”, pensando: “L’uomo non è così credulone e potrebbe più facilmente essere ingannato cedendo all’errore di un altro [l’errore di Eva] piuttosto che cadere in un errore proprio”. Agostino riconosce ad Adamo circostanze attenuanti: “L’uomo ha ceduto alla sua donna […] costrettovi da uno stretto legame, senza tener per vere le sue parole […]. Mentre la donna accetta come verità le parole del serpente, egli voleva restate legato alla sua compagna, anche nella comunanza del peccato” (De Civitate Dei 14,11). L’amore per la donna trascina l’uomo alla rovina».

Facciamo notare che questa teologa prima era protestante, poi si è convertita al cattolicesimo, e di questo poi ha finito per contestare tutti i dogmi, fino al punto di essere scomunicata. Si tratta quindi chiaramente di una persona dalle idee confuse, e il suo utilizzo dei testi non è da meno. La Ranke-Heinemann, infatti, citando solo degli spezzoni del “De Civitate Dei” XIV, 11.2 sostiene che Agostino avrebbe accusato del primo peccato la sola donna, ma basta leggere il testo completo per vedere che non è così. Infatti, benché la disobbedienza all’ordine di Dio di non mangiare del frutto dell’albero proibito sia avvenuta in circostante diverse, la donna ingannata dal serpente e l’uomo convinto dalla donna, Agostino spiega comunque che il peccato è stato commesso volontariamente da entrambi e con la stessa gravità:

«Egli (l’angelo superbo) con la furberia del cattivo consigliere propose di insinuarsi nella coscienza dell’uomo che invidiava perché era rimasto in piedi mentre egli era caduto. Quindi nel paradiso del corpo, ove con i due individui umani, maschio e femmina, soggiornavano altri animali terrestri sottomessi e innocui, scelse il serpente, animale viscido che si muove con spire tortuose, perché adatto al suo intento di comunicare con l’uomo. Avendolo sottomesso mediante la presenza angelica e la superiorità della natura, con la perversità propria di un essere spirituale e giovandosene come di uno strumento, con inganno rivolse la parola alla donna, cominciando cioè dalla parte più debole della coppia umana per giungere gradualmente all’intero. Riteneva infatti che l’uomo non credesse facilmente e che non potesse essere tratto in inganno con un proprio errore ma soltanto nel consentire all’altrui errore. Egualmente Aronne non accondiscese al popolo in errore costruendo l’idolo perché convinto ma si adattò perché costretto, né si deve credere che Salomone ritenne per errore di dover prestare culto agli idoli ma fu spinto a quelle profanazioni dalle moine delle donne. Così si deve ammettere che nel trasgredire il comando di Dio, il primo uomo, per lo stretto legame del rapporto, accondiscese alla sua donna, uno solo a una sola, una creatura umana a una creatura umana, il marito alla moglie, e non perché ingannato credette che lei dicesse il vero. Opportunamente ha detto l’Apostolo: “Adamo non fu ingannato, ma la donna”. Essa infatti ritenne vere le parole del serpente, egli invece non volle anche nella partecipazione al peccato disgiungersi dall’unico legame che aveva, però non è meno colpevole se ha peccato con consapevolezza e discernimento. L’Apostolo non ha detto: “Non ha peccato”, ma: “Non fu ingannato”. Esprime il medesimo concetto con le parole: “Per colpa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo”, e poco dopo più palesemente: “Con una trasgressione simile a quella di Adamo”. Ha voluto far capire che possono ingannarsi quelli i quali non ritengono peccato le loro azioni, ma egli lo sapeva. Altrimenti non avrebbe senso la frase: “Adamo non fu ingannato”. Ma non avendo sperimentato la severità divina poté ingannarsi nel ritenere passibile di perdono la colpa commessa. Quindi non è stato ingannato nel senso in cui fu ingannata la donna, ma s’illuse sul modo con cui sarebbe stata giudicata la sua discolpa: “Me ne ha dato la donna che mi hai posto vicino, proprio essa, e ne ho mangiato”. Non c’è altro da aggiungere. Sebbene non siano stati ingannati tutti e due nel prestar fede, nondimeno col peccare tutti e due sono stati abbindolati e accalappiati nei tranelli del diavolo». (De Civitate Dei 11.2)

La disonestà intellettuale della Ranke-Heinemann diventa poi evidente quando sostiene che «Agostino riconosce ad Adamo circostanze attenuanti», quando in realtà, leggendo il testo precedente si vede che è esattamente il contrario. La donna infatti, dice Agostino, fu ingannata, mentre Adamo sembra abbia peccato in piena consapevolezza. Riportiamo ancora, per chiarezza, la parte specifica:

«Essa infatti ritenne vere le parole del serpente, egli invece non volle anche nella partecipazione al peccato disgiungersi dall’unico legame che aveva, però non è meno colpevole se ha peccato con consapevolezza e discernimento».

 
Francesco Santoni

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Le false citazioni attribuite ai Padri della Chiesa

Se si ha la pazienza di navigare per un po’ in rete, aggirandosi tra i siti anticlericali ed anticristiani, si scoprirà ben presto (e con buona pace della libertà di pensiero di cui pretendono di ammantarsi gli autori) come abbondi il copia&incolla: gira e rigira, infatti, i contenuti sono sempre gli stessi, una serie di luoghi comuni e falsificazioni contro il cristianesimo e contro la Chiesa sistematicamente ripetuti come un mantra fino all’ossessione.

Uno dei più noti cavalli di battaglia è senza dubbio l’esposizione di un florilegio di citazioni attribuite a Padri e Dottori della Chiesa, che per l’assurdità e la ripulsa suscitata dai loro contenuti, dovrebbero immediatamente render manifesta la vacuità e l’inciviltà della religione cristiana, con tutti i suoi duemila anni di storia. Chiunque legga queste frasi dovrebbe porsi la domanda: se la religione cristiana non è allora altro che una tale accozzaglia di sciocchezze, come ha fatto a resistere e diffondersi per oltre duemila anni, ed essere ancora oggi accettata da tanta gente? Purtroppo nella maggior parte dei casi, questo interrogativo non emerge, accontentandosi di credere che la religione sia una cosa da ignoranti e incivili. Chi invece decide di andare a verificare sui testi dei rispettivi autori, scopre che queste attribuzioni sono fasulle falsificazioni, in pochi casi inventate di sana pianta e molto spesso frasi estrapolate da veri testi ed opportunamente alterate, così da poter mettere in bocca ai vari autori ciò che si vuole loro far dire. L’anti-cristianesimo (o ateismo moderno), non è mai riuscito a porsi positivamente perché privo di argomenti, ma può affermarsi solo in contrapposizione al Cristianesimo; ed in più, non avendo appunto buone ragioni da esporre, è costretto a inventare menzogne come unico mezzo dialettico a sua disposizione.

Lo scopo di questo nostro contributo è pertanto quello di mostrare, testi alla mano, cosa veramente abbiano scritto i Padri e Dottori della Chiesa vittime della diffamazione anti-cristiana. Non esporremo in maniera sistematica il pensiero dei vari autori, ma ci limiteremo appunto a fare una raccolta di testi che possa fungere da utile fonte primaria dove ritrovare immediatamente la reale forma dei passi falsificati, e conoscere il reale pensiero di ogni autore.

 

 
 
 
 

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Maciel Degollado ed il Vaticano: vi fu connivenza? La verità sui Legionari di Cristo

Il Vaticano sapeva della doppia vita di Maciel Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo? Davvero Giovanni Paolo II non fece nulla per fermarlo? E cosa fece realmente Benedetto XVI? A queste e altre domande risponderemo nel dossier.

Il “caso Maciel” è sicuramente il più grande scandalo che ha sconvolto la Chiesa cattolica negli ultimi decenni. Ancora oggi vi sono parecchie ombre, ma su molte cose si è fatta luce: in particolare è emersa per la prima volta la prova che vi siano in Vaticano personaggi oscuri e misteriosi agiscono in contrasto con la Chiesa stessa, fenomeno esploso pubblicamente poi con il pontificato di Benedetto XVI.

Maciel Degollado fu una persona orribile, morfinomane, bigamo, pederasta, perverso e sicuramente malato psicologicamente, dalla «vita priva di scrupoli e di autentico sentimento religioso» come ha dichiarato una nota ufficiale della Santa Sede nel 2010. Una lucida follia la sua, capace di mascherare tutto creandosi attorno un perfetto ed organizzato sistema per di alibi, di fiducia, confidenza e silenzio dai circostanti, rafforzando il proprio ruolo di fondatore carismatico (qui una descrizione di come costruì il suo impero). L’esistenza di questa efficiente maschera rende oggi difficile capire se qualcuno sapeva e taceva, oppure se respingeva le voci critiche per ingenua disconoscenza dei fatti. E’ senza dubbio dimostrata, comunque, la presenza di alcune persone conniventi nel Vaticano “di allora”. Questa pagina sarà in continuo aggiornamento.

 
 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

1. CRONOLOGIA DEL “CASO MACIEL”

1941. I Legionari vengono creati nel 1941, ma nel 1948 ci furono già delle contestazioni contro Maciel, tanto che il Vaticano annullerà l’autorizzazione canonica della Legione.

1956. Le denunce a sfondo sessuale si fecero consistenti e nel 1956, il prefetto della Congregazione dei religiosi, il cardinale Valerio Valeri le prese sul serio. Sentendosi minacciato, il 15 settembre 1956, Maciel istituì il famoso “voto di carità” a cui dovevano impegnarsi subito tutti i legionari, e che doveva impedire loro di parlar male di un superiore, con qualsiasi pretesto. Sei giorni dopo, il cardinale Valeri sospese Maciel dalle sue funzioni e l’inchiesta avviata dal Vaticano concluse che il fondatore doveva essere dimesso, anche perché si rese nota la sua dipendenza da droga e i suoi disturbi urologici che provocavano in lui fortissimo desiderio di gratificazione sessuale. Valeri decise dunque per la rimozione di Maciel ma non la rese pubblica, la guida della congregazione fu assunta da altri sacerdoti. Maciel tuttavia continuò a guidare la congregazione, violò il divieto di entrare a Roma e cercò di influire sull’esito dell’inchiesta che venne fatta su di lui, guidata da Anastasio Ballestrero, superiore generale dei Carmelitani. Il carmelitano non riuscì a trovare riscontri alle accuse e definì i seminaristi intervistati come reticenti, a disagio e preventivamente preparati a sostenere il colloquio con lui. Effettivamente, negli anni ’90 alcuni di loro, tra i quali Josè Barba e Juan Josè Vaca, dichiararono di aver mentito al visitatore apostolico per devozione a Maciel e per rispetto del voto privato di discrezione o carità. Ballestrero consigliò comunque la sostituzione definitiva di Maciel e chiese diverse modifiche all’interno della Congregazione.

1958. Tutto viene interrotto però dalla morte di Pio XII, la visita apostolica non giunse mai a una formale conclusione e nel 1958, approfittando della sede apostolica vacante, il cardinale vicario di Roma, Clemente Micara, amico di Maciel, gli restituì l’incarico, seppure con alcune limitazioni e comunque sotto la supervisione di commissari esterni. Nel frattempo Ballestrero venne sostituito con due nuovi visitatori apostolici, Alfredo Bontempi e il francescano Polidoro van Vlierberghe, che scrissero relazioni favorevoli a Maciel, ritenendo che le accuse non fossero attendibili e che il fondatore dei Legionari fosse vittima di un complotto.  Non è ancora chiaro se Micara conoscesse le accuse fatte a Maciel, fu comunque un episodio determinante. Da qui in poi, nei 40 anni che seguiranno, nessuno riprese l’inchiesta e le accuse verranno tacciate come calunnie,  anche a causa della abilità di Maciel ad ingannare i propri superiori e alla strenue difesa della Legione verso Maciel, un santo vivente, a loro ingenuo avviso.

1972. Durante la celebrazione eucaristica per la Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, il 29 giugno 1972, Paolo VI afferma di avere la sensazione che «da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio».

1997. Alcuni ex seminaristi dei Legionari di Cristo decidono nel 1978 e nel 1989 di inviare alcune lettere a Giovanni Paolo II, raccontando di abusi. Singole segnalazioni, che con ogni probabilità –ricostruisce il vaticanista Andrea Torniellinon arrivarono sul tavolo del Pontefice. Nel 1997 avvenne però la svolta: otto ex seminaristi messicani decisero di contattare il quotidiano americano “Hartford Courant”

1998. Il 17 ottobre 1998 sei di loro (due ritrattarono) presentarono una richiesta formale alla Congregazione per la dottrina della fede (CDF), consegnando nelle mani dell’allora sottosegretario Girotti e guidata dal card. Ratzinger, un fascicolo con l’intestazione: Absolutionis complicis. Arturo Jurado et alii. Rev. Marcial Maciel Degollado nel quale accusarono padre Maciel di aver abusato di loro quand’erano ragazzi, negli anni Cinquanta e Sessanta, e di averli poi illecitamente assolti in confessione.. Tuttavia, solo dal 2001 la CDF ha avuto la facoltà di occuparsi di questo tipo di accuse, inoltre il vaticanista Sandro Magister, ha scritto che «all’epoca Maciel godeva quasi universalmente di una buona fama, non soltanto in Vaticano ma anche nei circoli laici di tutto il mondo, che indusse a non ritenere credibili le denunce, le quali inoltre si riferivano a fatti lontani nel tempo, non più perseguibili in un processo civile». Infine, per sei anni, Ratzinger non poté accertarsi di nulla perché ricevette dai suoi superiori la consegna di non indagare nelle faccende della Legione. E’ qui che compare la figura del card. Angelo Sodano, segretario di Stato di Giovanni Paolo II, uno dei “padrini” di Maciel. Come ha scritto Sandro Magister, Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, e Sean O’Malley, arcivescovo di Boston accusarono nel 2010 proprio Sodano per aver a lungo ostacolato l’opera di pulizia intrapresa dell’allora cardinale Ratzinger nei confronti di Marcial Maciel. Secondo il vaticanista Salvatore Izzo, esiste una ostilità di una parte della Curia verso Joseph Ratzinger, «al quale fu impedito a lungo di procedere nei confronti del sacerdote messicano». Proprio per questo, evidentemente, Ratzinger «chiese a Giovanni Paolo II di lasciare il suo incarico».

1999. Dal 1999 l’atteggiamento di Giovanni Paolo II verso Maciel mutò radicalmente, tanto che il fondatore dei Legionari non accompagnò più il Pontefice nei suoi viaggi in Messico (1999 e 2002), al contrario di quanto fece nel 1979, 1990 e 1993. Come scrive il vaticanista Salvatore Izzo, «di fatto chi ha fermato le indagini della Congregazione per la dottrina della fede (CDF) ha anche ingannato Giovanni Paolo II, fino a convincerlo dell’innocenza di Maciel riguardo alle accuse di pedofilia. Se non se ne fosse convinto, Papa Wojtyla non avrebbe certo indirizzato ai Legionari, ma altrove, il figlio di un proprio collaboratore che voleva diventare sacerdote».

2001. I termini di prescrizione canonici per i delitti di cui Maciel era accusato furono prolungati.

2004. In questi anni l’inchiesta sui Legionari non riuscì mai a decollare, tuttavia nel dicembre 2004 il card. Ratzinger, trasgredendo la legge del silenzio, volle aprire definitivamente un’indagine, pochi giorni dopo che Giovanni Paolo II, già gravemente ammalato, aveva ricevuto nell’aula Paolo VI i Legionari di Cristo e il suo fondatore.

2005. Alla fine del gennaio 2005, venne annunciato il ritiro di Marcial Maciel. Tre mesi dopo, il morente Giovanni Paolo II affidò la via crucis del venerdì santo al card. Ratzinger, il quale denunciò la “sporcizia” del clero. Pochi mesi dopo, i Legionari di Cristo resero pubblico un fax della Segreteria di Stato della Santa Sede, allora guidata dal cardinale Angelo Sodano, dove si informava che non era in corso, né era previsto nessun processo canonico contro Maciel. Il fax era tuttavia privo di firma e l’indagine -regolarmente in corso- dipendeva dalla Congregazione per la dottrina della fede e non dalla Segreteria di Stato.

2006. Nel maggio 2006, un anno dopo essere divenuto Papa,di fronte agli esiti dell’inchiesta che dimostrano la colpevolezza di Maciel ormai vecchio e ammalato, Benedetto XVI lo ha sospeso a divinis, facendolo isolare e impedendogli di apparire in pubblico. Solo dopo la sua morte, il 30 gennaio 2008, si scoprirà che oltre agli abusi sui seminaristi, si era costruito una doppia e tripla vita con compagne e famiglie in diverse parti del mondo. La Congregazione per la dottrina della fede arrivò a condannarlo ufficialmente, dando così ragione alle accuse apparse nel 1997.

2009. Nel 2009 Benedetto XVI ha avviato un’indagine completa e conclusiva dalla quale è emersa un’omertà sapientemente orchestrata e rilevando che «la maggior parte dei legionari era mantenuta nell’ignoranza di questa vita, in particolare grazie al sistema di relazioni costruito da padre Maciel (…), scartando tutte le persone che dubitavano del suo buon comportamento (…), si è creato attorno a lui un meccanismo di difesa che lo ha reso inattaccabile». Nel 2010 la Legione ha fatto il suo mea culpa«Esprimiamo il nostro dolore e il nostro rincrescimento a tutte le persone che hanno sofferto a causa delle azioni del nostro fondatore. (…) Vogliamo chiedere perdono a tutte le persone che lo hanno accusato in passato, a cui noi non abbiamo creduto e che non abbiamo saputo ascoltare, perché a quell’epoca non potevamo immaginare simili comportamenti».

2010. Nell’aprile del 2010, Jason Berry, il giornalista che con Gerald Renner riaprì nel 1998 il caso Maciel, ha scritto due articoli sul “National Catholic Reporter”, descrivendo un uso diffuso da parte dei Legionari di Cristo di regali in beni e denaro ad alcuni prelati della Curia romana. Berry, le cui fonti erano ex legionari (alcuni sono dichiarati) citò l’ex Segretario di Stato di Giovanni Paolo II il cardinale Angelo Sodano e il suo ex segretario personale Stanisław Dziwisz. Denaro fu offerto anche all’allora cardinale Ratzinger nel 1997, che non lo accettò. Sempre nel 2010 la rivista cattolica statunitense “First Things” accusò Sodano di aver ricevuto per molti anni soldi e benefit dai legionari per i suoi progetti e di aver bloccato nel 1998 le inchieste sugli scandali sessuali di Maciel.

2011. Nell’agosto 2011 Luis García Medina, vicario generale dei Legionari di Cristo, è stato invitato a lasciare l’incarico e tutte le sue responsabilità a Roma, venendo di fatto declassato a guidare una regione legionaria in America. Medina aveva un ruolo chiave nella Legione e molto vicino a Dellogado. L’emarginazione del vicario generale coincide con l’imminente uscita dell’ ancora segretario generale, Evaristo Sada, che dovrebbe lasciare il suo posto in autunno, secondo l’annuncio ufficiale del gennaio scorso. Tra i consiglieri che erano già in carica rimane solo il direttore generale Álvaro Corcuera, nominato nel 2005. La rete dei superiori, insomma, ha cominciato a essere smontata, anche se non bruscamente.

2012. Nel marzo 2012 Benedetto XVI si è recato in visita pastorale in Messico e a Cuba. Alcuni hanno avanzato delle critiche sul fatto che non vi sia stato alcun incontro con le vittime di Maciel Degollado. Il portavoce del Vaticano Lombardi ha però spiegato che l’incontro con il Papa è stato «chiesto con aggressività e ambiguità, senza la volontà di un dialogo profondo, di spiritualità». Il vaticanista Andrea Tornielli ha affermato che gli incontri del Papa «con queste persone si sono però sempre verificati perché erano stati richiesti e concordati con l’episcopato locale. In Messico questo non è stato possibile anche per la veemenza polemica che alcune di queste ex vittime di Maciel hanno dimostrato nei confronti della Santa Sede. L’incontro quindi è stato impossibile perché non si è trattato di qualcosa che è stato desiderato per sanare una ferita, ma per gettare sale su di essa».

 

 
 

2. IL RUOLO DI GIOVANNI PAOLO II (E COLLABORATORI)

Il “caso Maciel” ha gettato parecchie ombre sul pontificato di Giovanni Paolo II e su due suoi collaboratori, il card. Angelo Sodano, segretario di Stato e il suo segretario personale Stanisław Dziwisz.

COLLABORATORI. Come abbiamo scritto, nel 2010 Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, e Sean O’Malley, arcivescovo di Boston hanno accusato proprio il card. Sodano per aver a lungo ostacolato l’opera di pulizia intrapresa dell’allora cardinale Ratzinger nei confronti di Marcial Maciel, mentre Jason Berry, il giornalista che riaprì nel 1998 il “caso Maciel”, ha scritto due articoli sul “National Catholic Reporter”, descrivendo regali da parte dei Legionari proprio a Sodano e a Stanisław Dziwisz. Anche la rivista cattolica statunitense “First Things” ha accusato Sodano di aver ricevuto per molti anni soldi e benefit dai legionari per i suoi progetti e di aver bloccato nel 1998 le inchieste sugli scandali sessuali di Maciel.  Maciel, ha scritto nel 2010 Andrea Tornielli, sarebbe stato in grado di bloccare «per anni tutte le inchieste» interne in quanto «era uno dei più efficienti raccoglitori di donazioni della Chiesa cattolica», sostenuto dai cardinali Sodano e Martinez Somalo, oltre che dal segretario di Papa Wojtyla, Stanislao Dziwisiz.

Oggi Sodano è decano del collegio cardinalizio e sarà lui a presiedere il conclave, con i media di tutto il mondo che implacabili lo metteranno nuovamente alla gogna. È anche per scongiurare questo esito che i due cardinali hanno sferrato l’affondo, sperando che Sodano esca definitivamente di scena. Il vaticanista Paolo Rodari ha fatto però notare che ai tempi di Wojtyla c’era un modo di agire differente, anche nella società stessa. Non lo si faceva per insabbiare, afferma, «ma perché i tempi erano diversi, molti erano impreparati di fronte al fenomeno, il crimine spaventevole della pedofilia veniva trattato da tutta la società con omertà e paura». E’ abbastanza certo che il segretario personale di Wojtyla, vescovo di Cracovia, Stanisław Dziwisz, abbia filtrato alcune informazioni. Questo comportamento può trovare parziale giustificazione nel fatto che nella Polonia comunista (e in Messico i comunisti erano i nemici principali dei Legionari) l’accusa di pedofilia era uno dei mezzi usati dal regime per diffamare sacerdoti scomodi. Una terza persona chiamata in causa è il cardinale Franc Rodé, ex prefetto della congregazione vaticana per i religiosi, il quale il 29 luglio 2007, un anno dopo la condanna papale del fondatore dei Legionari, ha affermato in un’omelia a loro rivolta: «Ciò che suscita ammirazione nella Legione di Cristo è frutto del genio di padre Maciel. Il Signore vi ha benedetto in questi ultimi anni con tante vocazioni, e vi continuerà a benedire se rimarrete fedeli al carisma lasciatovi da lui. Dove occorre cercare l’origine, la fonte di questa sapienza di padre Maciel? Nel suo amore per Cristo, nel suo amore per la Chiesa. Lì sta il segreto della sua vita e il segreto della sua opera. È questo che gli ha permesso di suscitare un’opera di dimensioni mondiali».

GIOVANNI PAOLO II. Schönborn e O’Malley, hanno attaccato Sodano, ma hanno spiegato che Papa Wojtyla era troppo vecchio e malato per prendere in pugno la questione. Giovanni Paolo II ammirava molto l’insegnamento cattolico dei Legionari, la loro fedeltà a Roma e al papato, e il successo nel generare vocazioni tra i giovani cattolici. Degollado aiutò anche a liberare l’America Latina dalla pericolosa Teologia della liberazione. La Legione si era resa indispensabile alla Chiesa, con organi di stampa come “l’agenzia Zenit”, il seminario Maria Mater Ecclesiae a Roma che forma gratuitamente dei giovani provenienti da paesi poveri. Da una radice marcia sono nate, inoltre, centinaia di vocazioni: «sono poche le case di formazione nel mondo che possono vantare 800 sacerdoti e 2.500 seminaristi maggiori e minori», ha scritto il vaticanista Rodari. Anche Benedetto XVI ha riflettuto su questo: «è una cosa singolare, la contraddizione per cui un falso profeta abbia potuto avere anche un effetto positivo». Sostenitori della Legione sono (erano?) l’uomo più ricco del mondo, il messicano Carlos Slim, il quale permette di tenere rette bassissime alle scuole religione in Messico e ha sovvenzionato diverse operazioni a Roma. Probabilmente questi fattori hanno giocato un ruolo importante nella reticenza di alcuni prelati in Vaticano.

Tuttavia, l’ex portavoce della Santa Sede, Joaquin Navarro Walls,  ha ricordato che Giovanni Paolo II «mai bloccò o nascose» e ricorda che il processo canonico contro Maciel cominciò sotto Giovanni Paolo II, dopo una riunione del Papa con tutti i cardinali americani per discutere del problema della pedofilia. Non ha idea, invece, se il cardinale Sodano intervenne davvero affinché alcune informazioni ‘sensibili’ sul caso Maciel non giungessero al Papa. Una lettera riservata (protocollo n. 147/05 – 14478) del 17 novembre 2007, firmata dal cardinale statunitense William Levada, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il successore di Ratzinger alla guida dell’ex Sant’Uffizio, ha sciolto qualsiasi dubbio sulla nitidezza dell’atteggiamento di Giovanni Paolo II e ha affondato ogni insinuazione di una qualche forma di ambiguità della sua posizione.

 

 

3. IL RUOLO DI BENEDETTO XVI

In tutta questa situazione Benedetto XVI ha agito come meglio poteva, è riconosciuto da tutti. «Ha la coscienza a posto, Ratzinger non ha avuto pietà e ha letteralmente decapitato la congregazione, commissariandola» si è letto su su Quotidiano.net il giorno prima della sua partenza per il Messico nel marzo 2012.

Nel 2010 una delle vittime di Maciel, Patricio Cerda, ha raccontato: «Ho incontrato Ratzinger nel 2002, prima che fosse Papa. Mi ha ascoltato per mezz’ora e mi ha detto che avrebbe agito. Sei mesi dopo ha incaricato il primo ispettore per indagare sugli abusi. Benedetto XVI ha avuto il coraggio».

Su “Le Monde” nel 2010 scrive: «Benedetto XVI, contrariamente ai suoi predecessori, ha accettato di rompere il silenzio sui casi di pedofilia nella Chiesa. Questo deve essere messo a suo credito».

In un editoriale de “Il Corriere della Sera” nel 2010, il non credente Piero Ostellino ha scritto: «All’origine dell’aggressione cui sono sottoposti la Chiesa, e lo stesso papa Benedetto XVI, sul tema della pedofilia in ambito ecclesiale, ci sono un pregiudizio razionalista e una violenza giacobina […]. A essere oggetto degli attacchi più aspri è proprio l’attuale Pontefice, che ha il merito indubbio di aver fatto opera di trasparenza all’interno della Chiesa, su un fenomeno troppo a lungo sottaciuto, e di aver cercato di definire, e distinguere, gli ambiti dei tribunali civili, riconoscendone le prerogative in tema di persecuzione del reato di pedofilia, secondo la legge civile, e quelli propri della Chiesa, rivendicandone l’autonomia nella condanna dei peccati e nella redenzione dei peccatori, secondo il diritto canonico e la propria predicazione (si chiama carità cristiana). Nonostante questo, oggi Benedetto XVI rischia di passare come il Papa che ha coperto la pedofilia dei sacerdoti».

Sempre nel 2010 in un articolo di Gianluigi Nuzzi, autore di Vaticano S.P.A. apparso su “Libero”, si legge: «c’è un desiderio tumultuoso di far dimettere Joseph Ratzinger, uno de pochi a voler riformare la Chiesa e che si trova oggi solo a rappresentarla tra molti nemici […]. Da subito è stato chiaro che Ratzinger voleva chiudere la stagione dei compromessi […], Ratzinger ha subito chiuso con gli amici sudamericani, ha rotto con chiunque vantava crediti per aver portato denari utili alla Causa di liberare la Polonia, i paesi ostaggio del ‘male assoluto’ […]. Benedetto XVI ha iniziato una radicale opera di pulizia, di rinnovamento […]. Benedetto XVI incontra solo nemici e torna indispensabile accusarlo esattamente di quanto lui stesso cerca di estirpare».

Nell’aprile del 2010  sul Wall Street Journal l’editorialista William McGurn ha criticato i continui attacchi del New York Times a Benedetto XVI, scrivendo: «il cardinale Ratzinger mise in atto cambiamenti che permisero un’azione amministrativa diretta invece di processi che spesso prendevano anni. Circa il 60 per cento dei casi di preti accusati di abusi sessuali furono trattati in questo modo. L’uomo che è ora Papa riaprì casi che erano stati chiusi; fece più di chiunque altro per processare casi e per rendere responsabili i preti che abusarono; e divenne il primo Papa a incontrare le vittime».

Nel febbraio 2016 Papa Francesco ha voluto rendere omaggio all’impegno del card. Ratzinger su questo caso, dicendo: «sul caso Maciel mi permetto di rendere un omaggio all’uomo che ha lottato in un momento in cui non aveva forza per imporsi, finché è riuscito ad imporsi: Ratzinger. Il Cardinale Ratzinger – un applauso per lui! – è un uomo che ha avuto tutta la documentazione. Quando era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede ha avuto tutto nelle sue mani, ha fatto le indagini e è andato avanti, avanti, avanti… ma non è potuto andare più in là nell’esecuzione. Ma se voi ricordate, dieci giorni prima che morisse san Giovanni Paolo II, quella Via Crucis del Venerdì Santo, disse a tutta la Chiesa che bisognava pulire le “sporcizie” della Chiesa. E nella Messa Pro Eligendo Pontifice – non è uno sciocco, lui sapeva di essere un candidato – non gli importò di mascherare la suo posizione, disse esattamente la stessa cosa. Vale a dire, è stato l’uomo coraggioso che ha aiutato tanti ad aprire questa porta. Così che voglio ricordarvelo, perché a volte ci dimentichiamo di questi lavori nascosti che sono stati quelli che hanno preparato le basi per scoperchiare la pentola. Oggi la Congregazione, il governo della Congregazione è semi-commissariato, ossia, il Superiore generale è eletto dal Consiglio, dal Capitolo Generale, però il Vicario lo elegge il Papa. Due consiglieri generali sono eletti dal Capitolo Generale e altri due li elegge il Papa, in modo tale che li aiutiamo a revisionare dei vecchi conti».

 
 

4. CONCLUSIONI

Possiamo concludere che il “caso Maciel” è un esempio di quanto Benedetto XVI sia disposto a prendersi sulle spalle la responsabilità di errori commessi da altre persone, da infami traditori del Vangelo e della Dottrina stessa della Chiesa. La Chiesa non avrebbe certamente resistito a tutto questo senza un Pontefice come Ratzinger, il cui operato e la cui risolutezza sono d’esempio anche per tutta la società.

Il caso, lo abbiamo visto, sfiora sensibilmente l’operato Giovanni Paolo II: forse avrebbe potuto avere il pugno più duro ma sicuramente era all’oscuro di tantissimi fattori. Molte più responsabilità, indipendentemente dal contesto storico e sociale poco sensibile ai casi di pedofilia, gravano sul card. Angelo Sodano e Stanisław Dziwisz, che non possono comunque essere i capri espiatori di una vicenda estremamente complicata. Tanto complessa e ben orchestrata che su “Il Messaggero” del 22/03/12 ci si è giustamente chiesti: «chi era in realtà questo prete nato nel 1920 e scomparso nel 2008, talmente potente e ricco da riuscire a far insabbiare per ben due volte le inchieste vaticane sulla sua omosessualità e gli abusi commessi impedendo persino a Papa Ratzinger di ridurlo allo stato laicale? Una personalità disturbata e multipla, un caso da manuale di schizofrenia o, come si sussurra man mano che il marcio viene fuori, l’incarnazione del Male?».

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Emanuela Orlandi, tutte le news e la cronologia completa

Tutte le news sul caso di Emanuela Orlandi, la cittadina vaticana sparita nel 1983. E’ stata ritrovata? E’ stata rapita dal Papa? I vari audio, la tomba ecc. In ordine cronologico la raccolta aggiornata delle novità e di tutti gli eventi avvenuti sul caso.

[Pagina aggiornata a agosto 2023].

 
 

Il 22 giugno 1983 sparisce da Roma Emanuela Orlandi, cittadina vaticana di 15 anni, figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia.

E’ uno dei casi più misteriosi nella storia italiana e vaticana, anche a causa dei numerosi depistaggi verificatisi nel corso degli anni.

In questo dossier, continuamente aggiornato, terremo traccia di ogni novità sul caso, delineando una cronologia a ritroso dei fatti, dal 2013 ai giorni d’oggi. Una raccolta dati unica nel web.

Questo approfondimento è collegato strettamente ad un altro dossier, in cui analizziamo dettagliatamente tutte le ipotesi finora esplorate per giungere ad una soluzione del caso.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

2 agosto 2023

Il settimanale Giallo pubblica la deposizione di Natalina Orlandi del 20/08/1983 sulle avances dello zio Meneguzzi:

«Ricordo che mi regalò un foulard per Natale. Mi diceva che se fossi stata sua mi avrebbe cambiato notevolmente la vita. A parte il mio disinteresse per la storia, gli facevo presente che lui era sposato con mia zia Lucia. Ricordo che all’epoca ero terrorizzata da questo fatto. Tra l’altro ero molto imbarazzata perché il Meneguzzi frequentava casa mia. Escludo che i miei congiunti abbiano mai potuto avere notizia delle attenzioni che il Meneguzzi mi rivolgeva […]. Prima con vari accenni che io fingevo di non capire, e successivamente in modo molto esplicito, mi disse che si era innamorato di me. Riferii la circostanza dopo circa 10, 12 mesi al mio fidanzato Andrea Ferraris. A proposito delle attenzioni del Meneguzzi, ricordo che esse durarono alquanto e che ho risposto sempre negativamente»1in A. Corica, Natalina: “lo zio Mario mi disse di essere innamorato di me”, Giallo, 02/08/23.

 

Nell’articolo emerge che dopo la scomparsa di Emanuela, gli inquirenti fecero accertamenti anche sul figlio di Meneguzzi, Pietro, il quale «venne assunto anche lui a 20 anni alla Camera dei Deputati, ma poi finì nei guai per aver militato nella sinistra extraparlamentare con Autonomia Operaia. Finì sotto controllo e i Servizi segreti fin dal luglio 1983 fecero “riservatissimi accertamenti” su di lui, ma anche sul resto della famiglia».

Emerge infine una sorta di faida famigliare tra gli Orlandi e i Meneguzzi in quanto, la moglie di Mario e i figli, ritengono «falso, infondato e diffamatorio» quanto sta emergendo e hanno dato mandato al loro legale di verificare eventuali profili di illecito per offesa alla memoria. «Forse gli eredi di Mario Meneguzzi ritengono che Natalina Orlandi non sta dicendo la verità», si domanda l’autore dell’articolo.

A tal proposito, il 14/07 Pietro Meneguzzi ha dichiarato alla trasmissione Quarto grado che quanto riferito da Natalina Orlandi rispetto alle molestie subite da Mario, «è una cosa che dice lei».

 

27 luglio 2023

Viene individuata dalla Procura di Roma una donna che nel dicembre 1983 registrò un messaggio su un’audiocassetta inviata da Boston (assieme a un testo scritto a penna) al giornalista americano Richard Roth, corrispondente da Roma per la Cbs.

La scoperta emerge nell’ambito dell’inchiesta aperta nell’estate 2022 (e seguita dal pm Erminio Amelio) sul furto della bara di Katy Skerl dal cimitero Verano e dalle nuove interrogazioni a Marco Accetti.

La donna, romana di 59 anni (all’epoca ne aveva 19 anni) ha ammesso la sua responsabilità limitatamente alla “recitazione” del comunicato in un finto inglese, nel quale si confermava la richiesta dello scambio tra Emanuela Orlandi e Ali Agca. Residente in un quartiere di Roma nord, la testimone si è detta all’oscuro dell’intrigo, coinvolta inconsapevolmente, quasi per gioco.

Marco Accetti interviene però per smentire «la notizia che sia stata identificata una persona che abbia messo la sua voce in un comunicato. Sono ascoltato in Procura e non mi risulta l’identificazione di una persona che abbia prestato la sua voce per il caso Orlandi»M. Accetti, Dichiarazione su Facebook, 27/07/23.

In una nostra intervista ad Accetti del 2016, l’uomo ci disse: «C’è un nastro registrato in cui c’è anche l’Amerikana, non solo l’Amerikano. Ho detto a Capaldo: “Lei lo vuole il nome e cognome di questa ragazza? Lei la può chiamare e questa le conferma”. Mi ha risposto: “Ah no, non voglio sapere niente, per carità”. C’è una ragazza che ha fatto l’Amerikana: in questo nastro, in cui finge di essere americana, pronuncia male la parola “States” dicendo letteralmente “States”. Ma quando mai un’americana sbaglierebbe così? Io so chi è questa persona, una ragazza romana di estrema sinistra. Nessuno mi ha mai chiesto nulla».

 

23 luglio 2023

Il giornalista Pino Nicotri in un articolo torna sul caso dello zio Mario Meneguzzi e le avances verbali fatte alla nipote Natalina Orlandi cinque anni prima della scomparsa di Emanuela, liquidate dalla stessa Natalina nella conferenza stampa dell’11 luglio scorso.

Nel rapporto dei carabinieri dell’epoca si legge però che a riferire in via confidenziale quelle avance sarebbe stato il 30 agosto 1983 l’allora fidanzato di Natalina, Andrea Ferraris (oggi suo marito). Il magistrato Domenico Sica chiese conto all’allora Segretario di Stato vaticano, Agostino Casaroli, il quale, tramite codice cifrato, girò le domande all’ex consigliere spirituale della famiglia Orlandi, mons. José Luis Serna Alzate. Il prelato confermò le informazioni provenienti dagli inquirenti italiani.

Nicotri riflette quindi sul fatto che «alla magistratura italiana la pulce nell’orecchio, cioè i sospetti su zio Mario, è stata messa tramite i carabinieri dallo stesso fidanzato di Natalina». Per tale motivo i carabinieri pedinarono Mario Meneguzzi, il quale se ne accorse e chiese conferma all’agente del Sisde, nonché amico di famiglia, Giulio Gangi, il quale confermò rovinando le indagini su Meneguzzi.

Il carteggio Sica/Casaroli/monsignor Serna Alzate/e ritorno non fu mai trasmesso da Domenico Sica ai suoi successori nell’inchiesta Orlandi (cioè a Ilario Martella, Giovanni Malerba e Adele Rando), secondo Nicotri probabilmente perché assecondò «il desiderio del Vaticano di non alimentare le malelingue, in modo da proteggere l’immagine degli Orlandi e la loro pace familiare».

Per lo stesso motivo gli inquirenti vaticani non avrebbero mai trasmesso questi documenti nelle varie rogatorie italiane, «evidentemente per proteggere gli Orlandi e la loro pace familiare tenendoli al riparo da quanto esploso a scoppio ritardato in questi giorni grazie al fatto che il carteggio è stato fatto filtrare, a quanto mi risulta, da Piazzale Clodio».

Secondo lo storico giornalista del caso Orlandi, inoltre, di tale carteggio si sarebbe parlato nelle intercettazioni effettuate tra il sovrastante vaticano, Roaul Bonarelli, e Camillo Cibi, responsabile della Gendarmeria. «Si è sempre pensato e scritto, l’ho fatto anch’io, che a Bonarelli venisse autorevolmente “consigliata” l’omertà totale per nascondere chissà quale responsabilità o colpa d’Oltretevere nella scomparsa di Emanuela», scrive Nicotri. «Oggi si può più serenamente e realisticamente pensare che non si voleva saltasse fuori il carteggio citato. E che non si voleva saltasse fuori perché si voleva invece proteggere la famiglia Orlandi».

Nicotri conclude sottolineando che «Pietro Orlandi ha sempre preteso ad alta voce che il magistrato vaticano Alessandro Diddi verificasse tutte le chiacchiere, le voci e i pettegolezzi raccolti anche di recente, compresi quelli che si riferivano a bagordi sessuali di Papa Wojtyla e “alti prelati vaticani” oltre che alla pista inglese, tanto per cambiare fasulla anche quella, che tira in ballo l’arcivescovo di Canterbury. Per non dire delle pretese di aprire – come avvenuto – tombe nel cimitero Teutonico vaticano perché qualcuno gli aveva riferito la chiacchiera che vi era sepolta Emanuela. Pietro Orlandi sarà quindi sicuramente felice che gli inquirenti cerchino di vederci chiaro anche in quest’ultima “chiacchiera” del rapporto giudiziario dei carabineri datato 30 agosto 1983».

 

18 luglio 2023

Il giornalista Pino Nicotri viene ascoltato dal promotore di giustizia vaticano, Alessandro Diddi sulla sua tesi secondo cui la «pista amical-familiare è statisticamente la più diffusa ma è l’unica che in questo caso non si è voluta prendere in considerazione».

Secondo Nicotri, intervistato da QN, sarebbe da attenzionare il fatto che un mese prima della scomparsa Emanuela partecipo al programma Tandem sulla Rai e «io ho notato che era in prima fila, inquadrata spesso, è possibile che qualcuno della troupe avesse notato questa ragazza e la facesse inquadrare con una certa insistenza, da lì potrebbe essere nato qualche rapporto di conoscenza ma la cosa non è mai stata indagata. E’ plausibile che lei, su Corso Rinascimento, dopo aver perso l’autobus, si fosse fermata a parlare con qualcuno che conosceva».

Il giornalista riporta l’attenzione anche su Meneguzzi spiegando che «la magistrata Margherita Gerunda mi disse che erano sempre stati convinti che fosse un normale caso di violenza sessuale e che però era una cosa molto brutta da dire alla famiglia. Non vedeva di buon occhio lo zio Meneguzzi perché era troppo protagonista, sembrava volesse sapere come andavano le indagini. Anche il magistrato successivo Sica sospettava di lui, lo faceva pedinare». C’è un poliziotto però che lo scagiona ma «anche qui molte stranezze. Io credo che il poliziotto anonimo sia Pasquale Viglione che dopo la pensione si mise a lavorare pagato per ‘Chi l’ha visto?’».

Emanuela sarebbe vittima di un abuso compiuto da qualcuno che conosceva: «Quando ci sono casi di abusi finiti male, soprattutto quando vittima e carnefice si conoscono, ci sono due motivi per cui si tenta di occultare tutto. Il primo naturalmente è che non si vuole essere scoperti, poi la vergogna perché hai abusato della fiducia della famiglia Orlandi, perciò si fa sparire il corpo».

 

16 luglio 2023

Il giornalista Pino Nicotri scrive una mail a Dagospia screditando l’efficacia di una Commissione parlamentare sul caso Orlandi, la quale «per “orientarsi” ha consultato giornalisti che di palle sul caso Orlandi ne hanno sparate di enormi». Inoltre, scrive l’esperto della vicenda della giovane ragazza scomparsa, «sulla bicamerale comanderà Pietro (Orlandi), se interrogano persone a lui sgradite e se non accuseranno il Vaticano lui strepiterà a rotta di collo, seguito dal gregge di pecoroni decerebrati suoi fan».

Nella stessa data, sempre Dagospia pubblica un secondo articolo scrivendo: «Non sarebbe ora di ammettere che il Vaticano non ha mai avuto nulla a che fare con Emanuela Orlandi?». A sostegno viene riportato il numero di ragazze (ben 16) scomparse tra maggio e giugno 1983 nei quartieri limitrofi alla basilica di San Pietro, mai più ritrovate (dati dell’agenzia specializzata NeuroIntelligence). Nonostante le archiviazioni, «i giornali hanno preferito seguire la sacra rappresentazione del “daje all’infame Vaticano” messa in scena nella sala dell’Associazione della Stampa Estera con la gentile collaborazione dalla giornalista turca (e filo Erdogan) Esma Cakir».

Nell’articolo si sostiene che il Vaticano non abbia nemmeno potuto fare indagini perché nel 1983 la Gendarmeria Vaticana non esisteva, c’era una semplice guardiania giurata chiamata Servizio di Vigilanza Vaticana lontana dalle competenze investigative introdotte con Domenico Giani, successore di Cibin («figuriamoci se gli scalcagnati vigilantes apri portone del Vaticano avrebbero potuto fare meglio di carabinieri, polizia, servizi e magistrati italiani»). Inoltre, «il crimine della Orlandi è stato commesso fuori le sacre mura, e in Italia vige il principio del “locus commissi delicti”: indagano gli organi competenti sul territorio».

 

14 luglio 2023

Il giornalista Pino Nicotri rilascia un’intervista in cui riaccende i riflettori sullo zio Mario Meneguzzi: «E’ stato lui il primo a ventilare l’ipotesi del rapimento quando non c’era assolutamente alcunché che potesse farlo legittimamente sospettare, se non un po’ di isteria in Vaticano successiva all’attentato a Giovanni Paolo II. Nel primo lancio battuto alle ore 16 e 21 del 24 giugno 1983, quindi meno di quarantotto ore dopo la scomparsa di Emanuela, l’Ansa scrisse che “i familiari e i colleghi del padre (…) temono un rapimento”. Fu proprio Meneguzzi ad andare nella redazione dell’agenzia per dare informazioni ai giornalisti».

Dopo aver esposto altri motivi di sospetti verso Meneguzzi, Nicotri precisa: «Con questo non voglio dire che Meneguzzi è colpevole, io sono garantista. Ma tra l’ipotesi che sia coinvolto Wojtyła e quella che sia coinvolto un parente o un amico di famiglia mi pare lapalissiano quale sia la più verosimile».

Rispetto al ruolo del Vaticano e all’impegno nel verificare anche la pista degli abusi in famiglia, Nicotri segnala che «questa rivelazione consente di scoprire che il Vaticano, perennemente accusato da tutti di reticenza, in realtà ha trasmesso i documenti – compresa l’informativa relativa a quest’episodio del 1978 – alle autorità italiane. Peraltro, sappiamo che il Vaticano all’epoca delle indagini permise ai servizi segreti italiani di controllare le telefonate sul proprio territorio. Sarebbe interessante sapere che fine hanno fatto le relazioni degli agenti italiani su quanto ascoltato nelle intercettazioni ai centralini vaticani. Si può dire che il Vaticano ha collaborato oltre il proprio dovere. Personalmente credo che quegli appelli il Papa li fece per generosità».

 

13 luglio 2023

Il portavoce della Santa Sede, Matteo Bruni, respinge l’accusa al Vaticano di aver fatto fuoriuscire le carte sullo zio Mario Meneguzzi. Ecco il comunicato:

«L’Ufficio del Promotore di Giustizia sta cooperando attivamente con le Autorità competenti italiane. Proprio in questo spirito, il 19 aprile scorso, i magistrati vaticani hanno consegnato riservatamente all’Italia, coperta dal segreto istruttorio, la documentazione disponibile relativa al caso, inclusa quella raccolta nei mesi precedenti nel corso dell’attività istruttoria. La Santa Sede condivide il desiderio della famiglia di arrivare alla verità sui fatti e, a tale fine, auspica che tutte le ipotesi di indagine siano esplorate. In merito alle notizie che coinvolgono un parente di Emanuela, si rileva che la corrispondenza in questione indica espressamente che non vi è stata alcuna violazione del sigillo sacramentale della Confessione»

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12 luglio 2023

Il giorno dopo la conferenza stampa della famiglia sulla rivelazioni circa gli abusi dello zio Meneguzzi a Natalina Orlandi, il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni interviene: «La Santa Sede condivide il desiderio della famiglia di arrivare alla verità sui fatti e, a tale fine, auspica che tutte le ipotesi di indagine siano esplorate».

Per quanto riguarda le accuse rivolte al Vaticano da parte di Pietro Orlandi di aver fatto uscire questa notizia per una sorta di depistaggio, il direttore della Sala Stampa replica che «i magistrati vaticani hanno consegnato riservatamente all’Italia, coperta dal segreto istruttorio, la documentazione disponibile relativa al caso, inclusa quella raccolta nei mesi precedenti nel corso dell’attività istruttoria».

«La corrispondenza in questione», conclude Matteo Bruni, tra il card. Casaroli e l’ex confessore degli Orlandi, «nella quale si chiede conferma delle presunte molestie subite da Natalina, indica espressamente che non vi è stata alcuna violazione del sigillo sacramentale della Confessione».

 

Nella stessa data, su Il Riformsita, il giornalista Paolo Guzzanti interviene ancora in merito al coinvolgimento di Giovanni Paolo II, accusando Pietro Orlandi.

Guzzanti dice di leggere «negli atteggiamenti furiosi e oltraggiosi che si registrano quando emergono nuovi fatti o nuove ipotesi sulla scomparsa della Orlandi che non vadano d’accordo con una orribile vulgata, nata senza alcuna prova che ha uno scopo evidentissimo: distruggere l’immagine storica del Papa polacco Karol Wojtyla, Giovanni Paolo II, il vero autore attraverso il sindacato Solidarnosc e il suo leader Lech Walesa del collasso del sistema sovietico e della caduta dell’impero di Mosca».

«Una generazione è scomparsa, una nuova e inconsapevole viene nutrita con una favola satanica», scrive Guzzanti. «Quella secondo cui il Papa fu il seduttore pedofilo e il mandante della soppressione di Emanuela Orlandi». Nel 2010 Agca invitò Pietro Orlandi ad un incontro segreto che attrasse l’attenzione di tutti i Servizi Segreti «perché fu stabilita la strategia per diffamare la memoria stessa del Papa polacco per distruggere la sua immagine politica antisovietica. Da allora, il fratello di Emanuela è diventato il più acceso accusatore del Papa polacco ottenendo la massima visibilità mediatica».

La vicenda dello zio Meneguzzi, spiega il giornalista, dimostra solo che «il Papa polacco aveva preso talmente a cuore la tragedia degli Orlandi da far intervenire il Segretario di Stato, monsignor Casasoli, per chiedere notizie all’ex confessore della famiglia Orlandi che confermò che Natalina era terrorizzata dagli agguati dello zio. Ma poi c’è un punto che riguarda la “furia” espressa da Pietro Orlandi, il quale insorge, con grande amplificazione mediatica, ogni volta che emerge un fatto, un indizio, un ricordo che scardina la tesi – del tutto politica e sostenuta da alcuna prova – delle mostruose responsabilità dell’uomo che dalla sede apostolica mise in crisi e fece crollare il sistema sovietico in Europa molto prima del simbolico “muro di Berlino”. Ali Agca nel frattempo, invocando il Terzo segreto di Fatima (cosa che gli capita spesso), ha definito “assolute sciocchezze” tutte le voci su un Papa pedofilo e assassino che va molto di moda nel vasto partito filorusso, che non ha mai mandato giù il Papa polacco».

 

11 luglio 2023

La famiglia convoca una conferenza stampa dopo le rivelazioni in merito a documenti che chiamano in causa presunte molestie dello zio di Emanuela, Mario Meneguzzi, a Natalina Orlandi.

La stessa Natalina spiega che «non esiste nessuno stupro. Io e mio zio lavoravamo insieme, mi ha fatto delle avances verbali nel 1978 ma quando ha capito che non c’era possibilità è finito tutto là. Mi sono sentita a disagio, non è stata una situazione piacevole. L’unica persona con cui mi sono confidata è stato il mio padre spirituale e il mio fidanzato dell’epoca, Andrea, che ora è mio marito. Sbagliato o giusto che sia, non c’è stato assolutamente altro e infatti le nostre famiglie hanno continuato ad avere rapporti».

La sorella di Emanuela ricorda di essere stata contattata dal card. Angelo Becciu nel 2017, il quale le disse che il fratello Pietro «insiste tanto per avere la documentazione, ma che in quei documenti c’era questa storia che mi riguardava. Ho detto che non avevo problemi».

Presente anche Pietro Orlandi il quale ha parlato a proposito della somiglianza tra l’identikit prodotto dal vigile Sambuco e il volto dello zio Meneguzzi: «Mio zio era fuori Roma quando scomparve Emanuela. La prima cosa che fece mio padre è stato chiamarlo. Hanno fatto un’indagine, chiamate i figli. Io posso confermare che loro erano fuori. È una cosa gravissima, un sacerdote che riceve in confessione un pensiero non può dirlo. La procura di Roma come lo ha saputo?».

Sui social interviene anche Marco Accetti, il quale scrive: «Lo zio era estraneo. Insistere è stupida diffamazione»2M. Accetti, Dichiarazione su Facebook, 11/07/23.

 

10 luglio 2023

Il giornalista Enrico Mentana al Tg La7 della sera rivela che in Vaticano sarebbero emersi documenti su presunte molestie a Natalina Orlandi, sorella di Emanuela, da parte dello zio Mario Meneguzzi, ora deceduto.

Si tratta di un carteggio del settembre 1983 tra l’allora cardinale Segretario di Stato Vaticano, Agostino Casaroli e un sacerdote sudamericano a lungo consigliere spirituale e confessore della famiglia e di Natalina. Natalina raccontò di aver subito molestie dallo zio e lo avrebbe messo a verbale nell’interrogatorio – mai emerso dagli atti – reso a un magistrato di Roma.

Nel servizio si racconta la sorpresa nel raffronto tra il volto di Mario Meneguzzi e l’identikit tracciato dal vigile e dal poliziotto che riferirono di aver visto, la sera della scomparsa, un uomo a colloquio con Emanuela appena uscita dalla scuola di musica vicino al Senato. Una somiglianza che avrebbe imposto approfondimenti immediati.

 

25 giugno 2023

Papa Francesco durante l’Angelus ricorda Emanuela Orlandi: «Desidero esprimere ancora una volta la mia vicinanza ai familiari, soprattutto alla mamma e assicurare alla mia preghiera estesa alle famiglie che portano il dolore di una familiare scomparso».

 

22 giugno 2023

Nel quarantennale dalla scomparsa della Orlandi, l’Ufficio del Promotore di giustizia del Vaticano spiega che «nei mesi scorsi questo ufficio ha raccolto tutte le evidenze reperibili nelle strutture del Vaticano e della Santa Sede, anche cercandone attestazione tramite conversazioni con le persone responsabili di alcuni uffici all’epoca dei fatti. Ha proceduto all’esame del materiale confermando alcune piste di indagine meritevoli di ulteriore approfondimento e trasmettendo tutta la relativa documentazione, nelle scorse settimane, alla procura di Roma, perché questa possa prenderne visione e procedere nella direzione che ritiene più opportuna».

Il Promotore conclude che «proseguirà la sua attività in questo senso nei mesi a venire, vicino al dolore della famiglia di Emanuela e consapevole della sofferenza che si prova per la scomparsa di un congiunto».

 

15 giugno 2023

Il giornalista Pino Nicotri in un articolo sostiene che Emanuela Orlandi potrebbe essere sepolta nei sotterranei di Castel Sant’Angelo.

L’ipotesi si baserebbe su alcune intercettazioni telefoniche realizzate il 7 settembre 1983 all’utenza dell’avv. Egidio, legale degli Orlandi. Tra i tanti mitomani di quel periodo, vi furono tre chiamate particolari a poche ore di distanza tra loro, partite da un numero riservato della RAI (televisione di Stato).

Nella prima telefonata (delle 09:30) una donna disse ad Egidio: «Faccia trovare Emanuela Castel Sant’Angelo, nel nome del Signore glielo chiedo». Poco dopo (alle 10:05), la stessa donna richiamò dicendo: «Avvocato, ho l’impressione che non mi ha compreso, in Nome del Signore cercate Emanuela a Castel S. Angelo». Alle 18:22 la terza telefonata, questa volta di un uomo che chiede di «cercare “la ragazza” a Castel S. Angelo, a destra, scendere tre scalini di legno,, c’è delle terra battuta, ancora avanti un altro gradino e si entra dentro un “tunnel”, lì si trova! Sotto di loro c’è un tubo di eternit. Sotto dov’è la ragazza…. “Loro” si trovano sopra”». L’avvocato chiede ”loro” chi?” E lo sconosciuto risponde: «Sono in quattro: la ragazza e tre. Sono in quattro e stanno li sotto; uno di colore, uno biondo e una ragazza con vestito lungo. Parlo in Nome del Signore».

Si riuscì a risalire il numero solo di quest’ultima chiamata, proveniente dall’utenza nr. 3611058 (RISERVATA = intestata a Rai via del Babuino 9)». Numero di telefono che in seguito risultò intestato a un utente di via Germanico.

A proposito della RAI, Nicotri ricorda che nel 2005 alla redazione del programma Chi l’ha visto? arrivò la famosa telefonata che invitava a guardare nella tomba di De Pedis nei sotterranei della basilica di S. Apollinare, dando avvio all’inconcludente indagine ampiamente sponsorizzata dai media. Secondo Nicotri, i tabulati indicherebbero che quella telefonata non passò per il centralino della Rai, quindi non sarebbe arrivata dall’esterno ma dall’interno.

In realtà nella sentenza di archiviazione del 2005 si riferisce che la telefonata arrivò invece al centralino della trasmissione televisiva3G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 27.

Si può invece ricordare l’incredibile (tanto da essere sospetta) campagna di fango di Chi l’ha visto? contro Marco Accetti dopo la sua comparsa. L’uomo ha sostenuto che la violenta reazione della trasmissione RAI (con plateali accuse di pedofilia) avrebbe reso vano per sempre il suo tentativo di chiamare i suoi complici a costituirsi.

La tesi di Castel Sant’Angelo sarebbe ulteriormente confermata dall’ex carabiniere Antonio Goglia, il quale darebbe ampio valore al forte interesse4testimonianza rilasciata a P. Nicotri, Emanuela Orlandi. Flauto di Marco Fassoni Accetti dai resti di studio cine Roma?, BlitzQuotidiano, 12/06/2014 di Marco Accetti al film “Nell’anno del Signore” del regista Luigi Magni (1969), il quale si svolge nel mausoleo circolare Adriano di Castel Sant’Angelo e inizia con molteplici fermo immagine sull’angelo che sormonta il mausoleo e che guarda verso il basso.

A questo farebbe riferimento una lettera ricevuta da Pietro Orlandi in cui si suggeriva di cercare Emanuela presso il Camposanto Teutonico,. «dove guarda l’angelo».

 

03 giugno 2023

L’carabiniere Antonio Goglia (già noto per essersi occupato del caso Orlandi), impiegato comunale di San Giorgio a Cremano, scrive una lettera al sostituto procuratore Stefano Luciani, incaricato di riaprire le indagini sul mistero Orlandi, comunicando che Emanuela Orlandi e Mirella Gregori sarebbero sepolte nei sotterranei del Castel Sant’Angelo, dietro una porta rinforzata, in una stanza di circa 20 metri quadri. La struttura ricadrebbe sotto l’Autorità del Comune di Roma, per questo invita le autorità a un sopralluogo.

Goglia sostiene la centralità del canone 1058, quello che «impone il celibato sacerdotale, confermato dall’attuale norma canonica del 1983, anno dei sequestri della Orlandi e della Gregori. Quel codice serve a far comprendere immediatamente cosa vogliono i sequestratori: l’abolizione del celibato sacerdotale, canone 1058, altrimenti avrebbero ucciso la Orlandi e la Gregori». I rapitori avrebbero dovuto ripiegare sul 158 perché il centralino analogico d’Oltretevere per i numeri interni dell’epoca non permetteva di superare le tre cifre.

Pietro Orlandi definisce «pura follia» le parole di Goglia. «Lo conosco da anni, ogni volta cambia ipotesi. È uno che racconta frottole. Già in passato aveva scritto in procura, ogni volta con ipotesi senza riscontri, ipotesi completamente diverse tra loro. È passato, come movente, dalla teologia della liberazione, ai preti pedofili di Boston, al terrorista Carlos, ai Marrani e altri. Il suo intento è apparire su un articolo».

Il 15/06/2023 Pino Nicotri ha respinto questa tesi ricordando che il codice era 1058 e tale numero non serviva per accedere direttamente a un numero interno, messo a disposizione dei “rapitori” per comunicare direttamente con Casaroli, ma era un codice che chi chiamava doveva scandire a voce alle suore del centralino. Pertanto poteva essere senza nessun problema di quattro cifre o anche di più. Inoltre non è ben chiaro se il codice sia stato scelto dai “rapitori” o dalla Segreteria di Stato.

 

15 maggio 2023

Dopo l’iniziativa vaticana, anche la Procura di Roma riapre le indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, collaborando attivamente con i pm del Vaticano. A guidare la nuova inchiesta è il pm Francesco Lo Voi.

 

12 maggio 2023

Il giornalista Paolo Guzzanti, ex presidente di una Commissione d’inchiesta parlamentare che riguardò anche l’attentato al Papa, in un editoriale sul Riformista difende la memoria e l’onore di San Giovanni Paolo II dopo le “voci” apparse in merito al presunto coinvolgimento sulla sparizione della Orlandi.

Guardando la docu-serie su Netflix, Guzzanti già si era allarmato: «Avevo capito dai primi accenni e clip dove questa pretesa inchiesta andava a parare: la Orlandi? Una povera adolescente adescata nientemeno che dal Papa polacco. Quello che ha fatto cadere il comunismo? Sì, si vantava di questo ed era un brutto tipo… e seguono testimonianze balbettanti, tutte al condizionale allusivo mormorato, qui lo dico e qui quasi lo nego».

Per l’ex senatore, la serie viene guardata «a bocca aperta da milioni di giovani che non sanno nulla di questa storia. È così che si compie la direttiva secondo cui quel papa andava possibilmente ammazzato (per motivi di contesa territoriale) e comunque distrutto nel discredito, arso sul rogo per essere stato lui, l’agente Woytjla ad aver fatto crollare l’impero dell’Est», legando le ultime accuse ricevute al progetto del comunismo sovietico di voler eliminare un pericoloso nemico della Rivoluzione.

Guzzanti ricorda che il capo del KGB dell’epoca infatti inviò tale direttiva: «Caro compagno, è stato eletto Papa del Vaticano il pericolosissimo e famigerato Karol Wojtyla, nemico dei sistemi socialisti, per cui sarà necessario screditarlo o distruggerlo come immagine pubblica, oppure eliminarlo fisicamente».

 

16 aprile 2023

Durante il Regina Caeli, Papa Francesco interviene in difesa di San Giovanni Paolo II con queste parole: «Certo di interpretare i sentimenti dei fedeli di tutto il mondo, rivolgo un pensiero grato alla memoria di san Giovanni Paolo II, in questi giorni oggetto di illazioni offensive e infondate».

 

11 aprile 2023

Pietro Orlandi viene ascoltato per otto ore dal promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi

Nello sesso giorno, in una trasmissione televisiva (Di Martedì), Orlandi lancia pesanti sospetti su Giovanni Paolo II citando voci provenienti dalla malavita romana sulle sue uscite notturne con alti prelati «non certo per benedire case»5F. Pinotti, G. Capaldo, La ragazza che sapeva troppo, Solferino 2023, p. 25.

A queste affermazioni segue una forte polemica mediatica che vede anche l’intervento dell’arcivescovo emerito di Cracovia, Stanislaw Dziwisz, segretario personale di Papa Wojtyla, il quale parla di «accuse farneticanti, false dall’inizio alla fine, irrealistiche e risibili».

 

09 gennaio 2023

Il promotore della giustizia vaticana Alessandro Diddi, insieme alla Gendarmeria, decidono di riaprire le indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, con l’intento di scandagliare di nuovo tutti i fascicoli, i documenti, le segnalazioni, le informative, le testimonianze senza lasciare nulla di intentato.

 

⬆ 10. Riapertura delle indagini italiane e vaticane (2023) ⬆

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14 febbraio 2022

Sul gruppo social di Fabrizio Peronaci viene rivelata l’esistenza di un testimone del fatto che Milly Galli (alias “Antonietta Verità”) sarebbe stata aggredita nel 1983 da Marco Accetti nella pineta di Castel Porziano, dopo aver accettato un passaggio in macchina.

Il testimone afferma: «Sono pronto a riferire alle autorità ciò che accadde, per quello che ho avuto modo di constatare personalmente. Quella sera ero a casa e squillò il citofono. Era lei, la donna che si è rivolta a voi. Io la conoscevo con un nomignolo affettuoso. Qualcuno che non ricordo l’aveva accompagnata sotto casa mia. Fu lei a dirmi di essere stata aggredita. Era seminuda. Le prestai i miei vestiti che poi suo padre, molto alterato anche con me, come fossi responsabile dì qualcosa, mi riportò. Ripeto: sono a disposizione per contribuire all’accertamento dei fatti, se possibile. Lo ritengo un dovere morale».

L’accusato, Marco Accetti, ha replicato: «Non esiste alcun verbale con la mia descrizione, altrimenti Peronaci, che cerca sempre le bombe giornalistiche lo avrebbe già pubblicato urbi et orbi».

 

05 gennaio 2022

Il giornalista Fabrizio Peronaci riferisce che vi sarebbero almeno 10 testimoni di una presunta aggressione nel 1983 all’allora 15enne Milly Galli (alias “Antonietta Verità”) da parte di Marco Accetti, nella pineta di Castel Porziano.

Accetti ha risposto:

«Ho chiesto prima alla signora di presentarsi in questura, e lei mi ha risposto: “Ci vada lei”. Un’aggredita non risponde in tal modo al suo aggressore. È chiaramente una persona disturbata, ed io ho il massimo rispetto. Il colpevole è Peronaci che pur di apparire con i suoi scoop, l’ha sfruttata. Tra l’altro, nel suo pessimo giornalismo, ancora non ho capito se all’epoca il fatto fu denunciato o meno. Non sappiamo niente. Però siamo già al terzo post […]. Peronaci, vuoi far credere che tutta questa gente mi vide all’epoca? Se cosi fosse, sentendomi visto, non avrei potuto fare alcunché. Al tempo stesso vuoi far credere che tutte queste persone mi hanno riconosciuto guardando una foto dopo 48 anni!?».

 

02 gennaio 2022

Il giornalista Fabrizio Peronaci ha definito «un bluff» le parole dell’ex magistrato Giancarlo Capaldo, il quale «per promuovere un libro, ha consentito che in tv si parlasse di un suo presunto incontro con “alti prelati”, salvo poi smentire con nettezza qualsiasi trattativa e avallare le indiscrezioni sul fatto che i “due prelati” incontrati siano stati in realtà semplici investigatori della Città del Vaticano (il capo della Gendarmeria e il suo vice, che non è poi tanto strano siano coinvolti in un’indagine)».

 

28 dicembre 2021

Sul gruppo Facebook di Fabrizio Peronaci, compare la testimonianza anonima di una donna di 53 anni (dal nomignolo “Antonietta Verità“) che sostiene essere stata vittima di un’aggressione sessuale da parte del giovane Marco Accetti nell’autunno 1983, poco dopo la sparizione di Emanuela e proprio nella stessa pineta dove Accetti investì il piccolo José Garramon.

La donna sarebbe stata ricoverata in ospedale dopo l’aggressione e avrebbe avuto 15 anni all’epoca, stessa età di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. La donna afferma che Accetti avrebbe sequestrato minori per conto di terzi. Marco Accetti ha replicato smentendo le accuse ed invitando la donna a denunciarlo in questura.

Nel luglio 2023 è stata Patrizia De Benedetti, ex fidanzata di Accetti, ha rivelare il nome di “Antonietta Verità”: si tratterebbe di Milly Galli. Ne è scaturita una accesa discussione tra le due. A una domanda di un utente se avesse poi denunciato Accetti, la donna ha risposto: «Tutto arriva a chi sa aspettare»6Discussione su Facebook, 04/07/23.

 

20 dicembre 2021

L’ex procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Caplado è stato ascoltato dai magistrati sulla storia degli “emissari” vaticani con cui avrebbe interagito.

Secondo “La Verità”, i due emissari sarebbero stati l’allora capo della Gendarmeria vaticana, Domenico Giani, e il suo vice Costanzo Alessandrini. Ai colloqui avrebbe partecipato anche la pm Simona Maisto ma non ci sarebbe stata registrazione dei colloqui.

Secondo lo stesso quotidiano, i pm Stefano Luciani e Maria Teresa Gerace avrebbero rimproverato a Capaldo di essere rimasto volutamente evasivo sull’esistenza di una registrazione durante l’intervista concessa alla trasmissione Atlantide, per vendere più copie del suo romanzo.

 

15 dicembre 2021

Sul Corriere della Sera, Fabrizio Peronaci intervista l’ex ispettore della Squadra Mobile di Roma, Pasquale Viglione (oggi in pensione), il quale confermerebbe i legami tra il caso Orlandi e la morte di Josè Garramon, figlio di un funzionario uruguayano della Fao, travolto e ucciso nella pineta di Castel Porziano nel dicembre 1983 da Marco Accetti.

I ricordi di Viglione risalgono al 2008, quando comparvero le rivelazioni di Sabrina Minardi sul coinvolgimento del suo amante, De Pedis, con la scomparsa di Emanuela. Secondo Viglione, Peppe Scimone, uno degli uomini di De Pedis, «aveva inviato il suo factotum a procurargli un ‘ragazzo di vita’ alla stazione Termini. È agli atti. Inoltre, aggiungo che la famiglia era proprietaria di una villa a Castel Porziano, che lui usava spessissimo. Questa villa, è distante circa 800 metri dal luogo ove fu investito il piccolo José Garramon, rapito mezz’ora prima all’Eur… Mi fermo qui…».

 

14 dicembre 2021

Il giornalista Pino Nicotri commenta le dichiarazioni dell’ex magistrato Giancarlo Capaldo dimostrandosi alquanto scettico sul suo racconto circa una sorta di contrattazione avuta con esponenti della Gendarmeria vaticana relativi al caso Orlandi (il ritrovamento del corpo di Emanuela in cambio di un rapido spostamento della salma di De Pedis dai sotterranei della basilica di Sant’Apollinare per non imbarazzare ulteriormente la Santa Sede).

Nicotri sottolinea diversi motivi di inattendibilità, come la confusione dell’esposizione, l’anonimato e il moltiplicarsi di testimoni e per un ultimo motivo. Tale trattativa, scrive il giornalista, «non può esserci stata perché né il Vaticano/Vicariato né il magistrato Capaldo avevano titoli, cioè il potere, per decidere alcunché sulla salma di De Pedis. La salma, e il relativo sarcofago, erano proprietà privata dei due fratelli e della vedova di De Pedis, signora Carla Di Giovanni. Poiché la basilica per decisione della Corte Costituzionale gode del privilegio dell’extraterritorialità, la magistratura italiana può decidere l’ispezione della tomba, visto che sono consenzienti sia il Vicariato che i De Pedis, ma non il trasloco se questi ultimi non sono d’accordo».

 

13 dicembre 2021

L’ex procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, interviene per smentire le recenti affermazioni dell’ex procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo circa una presunta contrattazione avuta con il Vaticano.

Ecco le parole del magistrato Pignatone:

«Il dottor Capaldo non ha mai detto nulla, come invece avrebbe dovuto, delle sue asserite interlocuzioni con “emissari” del Vaticano alle colleghe titolari, insieme a lui, del procedimento. Nulla in proposito in proposito egli ha mai detto neanche a me, che pure, dopo aver assunto l’incarico di Procuratore della Repubblica (19 marzo 2012), gli avevo chiesto di essere informato dettagliatamente del “caso Orlandi”. Dopo il mio arrivo a Roma il dottor Capaldo ha continuato per oltre tre anni a dirigere le indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi […]. Solo dopo essere andato in pensione (23 marzo 2017), il dottor Capaldo ha riferito in libri ed interviste delle sue asserite interlocuzioni con emissari del Vaticano. Aggiungo infine un ultimo particolare: la circostanza della sepoltura di De Pedis nella basilica non fu scoperta nel 2012 grazie ad un anonimo, come si afferma nell’articolo così da ricollegare temporalmente le asserite “trattative”. Essa, infatti, era nota fin dal 1997 ed era stata oggetto di articoli di stampa e polemiche».

 

22 novembre 2021

I legali della famiglia di Emanuela Orlandi richiedono con un’istanza depositata in Vaticano che venga convocato “con la massima urgenza” l’ex magistrato e scrittore Giancarlo Capaldo.

Il motivo è l’acquisizione da parte dei pm vaticani di aspetti della vicenda dei quali ha parlato Capaldo presentando il suo libro La ragazza scomparsa, ispirato alla vicenda. L’ex procuratore aggiunto di Roma, era stato titolare dell’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi dal 2009 per quattro anni fino a che questa non venne avocata a sé dall’allora capo della Procura, Giuseppe Pignatone, che poi ne chiese l’archiviazione (senza la firma ed il consenso dello stesso Capaldo).

Nell’istanza l’avvocato Laura Sgrò scrive che «in data 17 novembre 2021, il dottor Giancarlo Capaldo, nell’occasione della presentazione del suo ultimo romanzo, “La ragazza scomparsa”, ispirato alla vicenda di Emanuela Orlandi, ha rilasciato ai giornalisti presenti, Andrea Purgatori e Francesco Paolo del Re, dichiarazioni gravissime del seguente tenore: “Il Vaticano mi chiese un incontro, che aveva come oggetto la richiesta di trovare un sistema per non mantenere l’attenzione della stampa in modo negativo sul Vaticano. In quella occasione, chiesi la possibilità del rinvenimento del corpo di Emanuela Orlandi o almeno di sapere, di conoscere la sua fine. Si mostrano disponibili e mi dissero: ‘Le faremo sapere'”.

 

01 maggio 2020

Il Giudice Unico della Città del Vaticano ha archiviato il procedimento relativo alla presunta sepoltura presso il cimitero Teutonico dei resti di Emanuela Orlandi. I resti ritrovati, infatti, risalgono ad oltre cento anni fa.

 

31 gennaio 2019

Arriva il responso definitivo sulle ossa rinvenute a Villa Giorgina, in Vaticano, inizialmente collegate dai media a quelle di Emanuela Olandi e Mirella Gregori. Un istituto specializzato di Caserta che ha analizzato il Dna ha concluso che le ossa sono di un periodo compreso tra il 90 e il 230 dopo Cristo. Si tratterebbe di costole, denti, frammenti di cranio, femore e mascella di due antichi romani dell’età imperiale.

 

02 novembre 2018
Il nostro sito web ha intervistato Marco Accetti a proposito del ritrovamento delle ossa in Vaticano. Il fotografo romano, reo confesso di aver partecipato alla sparizione della Orlandi, ha dichiarato: «Le ossa non sono le loro, conosco i fatti miei. Sono finito in una specie di ingranaggio dove tutto va sempre al contrario: dovrei essere felice perché sono a piede libero, mi sono presentato e nonostante tutto sono libero. E’ un caso unico al mondo questo, negli altri processi ti condannano con poco mentre nel mio caso niente, nonostante tanti indizi che non possono essere casuali e diventano una convergenza».

Accetti ha anche rivelato un dettaglio su Alessia Rosati, un’altra ragazza sparita da Roma del cui caso dice di essere stato ancora una volta il regista: «Ho telefono alla famiglia Rosati nel 2016 e mi ha risposto la segreteria telefonica. Loro non mi hanno mai richiamato e sono corsi alla trasmissione televisiva», ovvero Chi l’ha visto? «Questa ragazza aveva un’amica del cuore [di nome Claudia, NDA], quando effettuammo la finta scomparsa, la Alessia -che era un po’ pasticciona e caotica- mi disse che prima doveva contattarla e fare delle commissioni in giro, anche se io ero contrario a tutto ciò. Andammo con un motorino, lei era camuffata, a cercare questa Claudia: non ricordo il luogo ma so che incontrammo alcune persone alle quali disse “sto cercando Claudia, sono Alessia. Sapete dove trovarla?”. C’è quindi la possibilità che qualcuno le abbia detto: “guarda, ti ha cercato Alessia”. Nessuno ha ancora contattato questa Claudia per verificare se ricorda o meno questa circostanza».

Infine, Marco Accetti ha commentato: «Io ricordo bene il caso di omicidio che ho affrontato, quello di Garramon. Gli interrogatori per tutta la notte, tutto il giorno, i confronti, i testimoni. Invece non ho mai visto un caso come questo dove non c’è nulla: tu riferisci una notitia criminis e nessuno fa nulla. D’altra parte, lo stesso giudice Capaldo è una figura misteriosa ed inquietante: se voleva chiudere l’istruttoria, perché ha fatto tutte queste omissioni di atti d’ufficio? Lo stesso Capaldo mi ha fatto credere che Pignatone gli ha fatto un attacco pretestuoso dicendogli che lasciava inevasi molti fascicoli, ed effettivamente aveva ragione Pignatone. Forse non ha indagato perché il pubblico ministero poi avrebbe dichiarato il non luogo a procedere, non lo so».

Gianfranco Svideroschi, storico vaticanista, ha ricordato di aver chiesto al segretario personale di Giovanni Paolo II, Stanislao Dziwisz, cosa sapesse del caso Orlandi. La risposta fu che Wojtyla non credeva alle ricostruzioni che legavano Alì Agca con la scomparsa di Emanuela.

Sempre in questa data, è intervenuto il padre di Alessia Rosati. Ha ricordato la lettera “con tutti i suoi strani errori” che venne recapitata alla famiglia pochi giorni dopo la scomparsa della figlia nel 1994. Ha sottolineato che sembra che non sia mai esistita, “anche i suoi amici, tutti quanti sembrano essersi dimenticati di lei”.

 

01 novembre 2018
Secondo il giornalista Gianluigi Nuzzi, tra il 2011 e il 2012 si sarebbe svolta una trattativa segreta tra il Vaticano e il magistrato Giancarlo Capaldo per trasferire la tomba di Renato De Pedis dalla cripta della basilica di Sant’Apollinare al cimitero Verano. La procura avrebbe disposto il controllo di migliaia di ossa seppellite sotto la cripta ma tutto si sarebbe interrotto con l’archiviazione richiesta dal procuratore Pignatone. Nuzzi suggerisce anche un collegamento del caso con l’Opus Dei, illazione smentita il 4/11 dal direttore della comunicazione del movimento ecclesiale, Raffaele Buscemi.

 

31 ottobre 2018
A proposito delle ossa ritrovate, la stampa precisa che sotto la sede della nunziatura in Italia c’era un cimitero, quindi è probabile che si troveranno altri reperti ossei. Villa Giorgina, ovvero la sede della nunziatura in Italia, era di Isaia Levi, un senatore e industriale torinese ebreo che si convertì al cattolicesimo. Levi lasciò in eredità la propria residenza romana a Pio XII nel 1949 per ringraziarlo per ciò che aveva fatto per gli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma fu solo dieci anni dopo, nel 1959, che Giovanni XXIII spostò la sede della nunziatura a Villa Giorgina dove è attualmente.

 

30 ottobre 2018
In Vaticano, all’interno di “un locale annesso alla Nunziatura Apostolica in Italia in via Po 27”, sono state ritrovate alcune ossa durante la ristrutturazione del pavimento, sulle quali sta indagando la magistratura italiana. E’ stata la Santa Sede ad aver informato immediatamente le Autorità italiane.

 

12 aprile 2016
La perizia psichiatrica voluta dalla Procura su Marco Fassoni Accetti ha decretato che è capace di intendere e di volere, e lo era anche al momento della sua rivelazione.

 

11 novembre 2015
Sul Corriere Fabrizio Peronaci rivela che un anno dopo la scomparsa di Alessia Rosati, il 6 luglio 1995, sulla segreteria telefonica dei genitori fu lasciato un messaggio. «Alessia sta tanto male… Rintracciatela!», ripeteva in modo concitato una donna. Il padre, al momento di presentare denuncia al commissariato di zona, specificò che la voce era «verosimilmente straniera, forse jugoslava, dal tono imprecisato». «L’impressione mia e di mia moglie – spiega oggi Antonio Rosati – fu che la misteriosa signora, che doveva essere abbastanza giovane, ci stesse esortando a fare qualcosa per nostra figlia. Pareva in grande ansia, preoccupata. Solo che non forniva alcuna traccia, né lasciò un contatto».

 

08 novembre 2015
Monsignor Francesco Camaldo, ex decano dei cerimonieri pontifici e attuale canonico vaticano, ha replicato alle accuse che gli sono state mosse nel libro “Via Crucis” secondo cui si sarebbe in grado di “provare il mio coinvolgimento nella sepoltura in basilica del boss della Banda della Magliana”. «Non mi sono mai occupato della scomparsa di Emanuela Orlandi né della tumulazione a S.Apollinare di Enrico De Pedis», ha detto. «Rispetto profondamente il dolore della famiglia Orlandi. Ho sentito il fratello Pietro sostenere che in Vaticano alcuni esponenti delle alte sfere sono a conoscenza di cosa sia effettivamente accaduto a sua sorella Emanuela. Io non credo che sia così. Lavoro in Curia da molti anni e mai mi ha sfiorato il sospetto che qualcuno sappia e taccia sulla scomparsa della ragazza. Certo giornalismo soffia sulle polemiche per alzare polveroni senza l’appoggio di prove reali. Come ha detto giustamente il cardinale Velasio De Paolis, bisogna fare attenzione a non cadere nel populismo e nella demagogia, accettando lezioni di moralità da rappresentanti dei mass media che non mi sembrano proprio titolati a darle».

 

17 settembre 2015
L’avvocato di Marco Accetti, Giovanni Luigi Guazzotti, presenta un esposto-denuncia indirizzato al capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, in merito al presunto trafugamento della bara di Kathy Skerl dal cimitero Verano di Roma.

 

⬆ 9. La tomba della Skerl e le ossa in Vaticano (2015-2022) ⬆

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05 aprile 2015
La procura di Roma ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta sulle sparizioni di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. Indagati per i reati di sequestro di persona e omicidio sono Sergio Virtù, autista di De Pedis, Angelo Cassani, detto «Ciletto», Gianfranco Cerboni, detto «Gigetto», stretti collaboratori del boss della Magliana, oltre a monsignor Vergari e alla supertestimone Sabrina Minardi, già amante di «Renatino». A sollecitare l’archiviazione sono stati i magistrati titolari del procedimento, vale a dire i pm Ilaria Calò e Simona Maisto. Il procuratore Pignatone ha scritto che «all’esito delle indagini che hanno approfondito tutte le ipotesi investigative man mano prospettatesi (sulla base di dichiarazioni di collaboratori di giustizia e di numerosi testimoni, delle risultanze di inchieste giornalistiche e anche di spunti offerti da scritti anonimi e fonti fiduciarie) non sono emersi elementi idonei a richiedere il rinvio a giudizio di alcuno degli indagati». E conclude: «Il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo non condividendo alcuni aspetti della richiesta di archiviazione, ha richiesto la revoca dell’assegnazione del procedimento, che è stata disposta anch’essa in data odierna»: Contestualmente alla richiesta di archiviazione, la procura di Roma ha iscritto nel registro degli indagati il nome di un testimone, Marco Accetti, per i reati di calunnia e di autocalunnia.

 

13 novembre 2013
La trasmissione “Chi l’ha visto” ha diffuso la notizia che il nome di Marco Fassoni Accetti (con indirizzo e numero di telefono) compare nella lista di estremisti di destra che stilò Valerio Verbano prima di essere ucciso il 22 febbraio 1980. Oltre a lui anche il nome di Angelo Rizzo, il Mostro del Circeo.

Dal suo blog Marco Fassoni Accetti ha replicato (si veda tra i commenti) che «non vi è alcuna prova che io frequentassi Angelo Izzo». E ancora: «venuto da Tripoli di Libia e da 5 anni di collegio ignoravo che cosa fosse il Fronte della Gioventù, che promuoveva una manifestazione per la libertà religiosa della Lituania nel 1972. Tutto degenerò in guerriglia, fui arrestato ed il mio nome pubblicato sui giornali come appartenente a gruppi di destra. Ma non sono mai stato fascista, come tutte le mie opere cinematografiche e fotografiche, realizzate in questi quarant’anni, possono più che testimoniare la mia appartenenza ad una visione militante che si può ben definire di reale sinistra, culturalmente e politicamente trattando, come del resto lo stesso caso Orlandi – Gregori era mosso da esigenze che confluivano univocamente nella stessa direzione».

Nel suo articolo ha citato la sentenza della Corte d’Assise che lo ha giudicato come omicida del piccolo Garramon dove si contempla la possibilità che il ragazzo stesse attraversando la carreggiata, questo per smentire che il piccolo Garramon si trovasse con lui sul furgone e stesse da lui scappando, come sostiene ancora oggi la madre. Ha inoltre sospettato che dietro la costante diffamazione della trasmissione televisiva nei suoi confronti serva per proteggere il SISDE. Lui stesso dice di essersi recato in procura «proprio per chiedere che si indagasse sui comportamenti di alcuni membri di questo servizio riguardo» la morte del piccolo Garramon. «Per non coinvolgere tali funzionari hanno censurato le mie parole e deviato in innumerevoli ipotesi cialtronesche, che gravitano dalla pedofilia alla massoneria, ai massacratori del Circeo e in ultimo alla morte di Valerio Verbano. Ma non una sola volta che abbiano riferito le mie frasi sulla sospetta partecipazione del predetto servizio, che attraverso i comunicati a firma fittizia “Phoenix” ci minacciava di una morte che si sarebbe verificata proprio all’interno di una pineta. Faccio presente che tale trasmissione si avvale dell’apporto della Polizia di Stato, che li facilita nell’ottenere documenti altrimenti indisponibili. Per cui è mia opinione che per tale rapporto si sia voluta difendere la onorabilità dell’allora struttura del Sisde del 1983».

 

09 novembre 2013
Su una pagina Facebook dedicata al “caso Orlandi”, Marco Fassoni Accetti ha parlato del collegamento tra Emanuela Orlandi e Mirella Gregori: «Per quanto riguarda il collegamento del caso Orlandi con il caso Gregori, il signor Nicotri lo ha sempre escluso appellandosi ad una sentenza del giudice Rando che negava tale suddetto rapporto. Ma gli attuali inquirenti hanno superato quella sentenza e hanno ottenuto nuovi elementi sui quali indagare e verificarne l’autenticità. E’ questo che io ritengo apodittico, il fatto che esistano nuovi indizi evidentemente importanti al punto di aver fatto aprire una istruttoria. Ed è chiaro che ogni istruttoria è sempre una “ipotesi”, che si scioglierà diventando tesi nel momento che la stessa istruttoria avrà conclusione».

 

08 novembre 2013
“Radio Radicale” ospita un confronto tra Pino Nicotri e Marco Fassoni Accetti ma è costretta a chiuderlo dopo 30 minuti a causa di insulti, minacce e offese reciproche. In una pagina Facebook dedicata ad Emanuela il confronto continua e Pino Nicotri spiega perché non crede all’artista: «Come ho dimostrato scatenando le ire funeste di MFA, lui NON può essere l’Americano per il semplice motivo che questi telefonava, anche a fine dicembre ’83, mentra MFA era in carcere. La sua versione sul “rapimento” di Emanuela non fa neppure ridere i polli, ma offende la memoria di Emanuela e della sua intera famigla. Offende Emanuela perché la fa passare per una figlia che pur potendolo fare NON ha mai telefonato o scritto ai genitori per tranquillizzarli, e la fa passare anche per una minus habens quando afferma – posto che sia vero ciò che si è letto su alcuni giornali – che l’avevano convinta che i suoi erano d’accordo con il “rapimento” messinscena. E offende l’intera famiglia Orlandi perché un tale asserito comportamento menefreghista di Emanulela nei loro confronti sottintende che possa essere stato provocato dall’aver subìto chissà quali torti». MFA risponde: « produce un altro falso clamoroso: non esiste alcuna telefonata dell’Amerikano nell’84, al di là della testimonianza di un privato, che avendo ricevuto una telefonata (non intercettata e non registrata) asserisce che la voce del telefonista ASSOMIGLIAVA a quella dell’Amerikano (soltanto assomigliava), per cui non vi è alcuna certezza giudiziaria, non essendoci la prova, che tanto a Lei piacciono, che costui fosse realmente il cosiddetto Amerikano».

 

07 novembre 2013
Nel suo blog, Marco Fassoni Accetti torna alle accuse a lui rivolte di pedofilia respingendole con varie motivazioni. Parlando della morte di José Garramòn, investito da lui nei pressi di una pineta, scrive: «va evidenziata la presenza in situ della villa del giudice Santiapichi, che sapevamo essere “in pectore” per presiedere la prossima Corte d’Assise giudicante la delegazione bulgara, accusata per il fatto del cosiddetto attentato al Papa. Altresì, il giorno seguente si sarebbe verificata l’uscita dal carcere di Rebibbia di Sergej Antonov, un cittadino bulgaro calunniato dal signor Agca di aver ordito il suddetto evento criminoso».

E’ stato condannato a 8 mesi il sedicente agente segreto “Lupo”, Luigi Gastrini, per simulazione di reato per le sue dichiarazioni sul caso Orlandi.

 

05 novembre 2013
Sul suo blog, Marco Fassoni Accetti scrive una lunga lettera contro la trasmissione “Chi l’ha visto”, criticando i vari tuttologi del caso. Ad un certo punto si legge che queste persone «hanno inficiato il mio appello a quanti con me parteciparono, in quanto chi è contiguo o all’interno dell’ambiente ecclesiastico non può che ritrarsi innanzi a tanto clangore di presunta perversione». Per smentire le accuse della signora Garramòn, madre del piccolo José investito e ucciso da Fassoni Accetti, l’artista pubblica anche una parte della sentenza della Corte d’Assise del processo per la morte di Josè Garramòn del 1986 di cui è stato accusato in cui si legge l’estraneità del soggetto da motivazioni a sfondo pedopornografico.

 

04 novembre 2013
Durante la trasmissione televisiva “I fatti vostri” si manda in onda un’intervista (piena di tagli e montaggi) a Marco Fassoni Accetti, presente in studio Pietro Orlandi. Riportiamo alcune risposte di Fassoni Accetti: Perché Emanuela fu rapita? «Per far credere che questo sequestro fosse stato operato da alcuni prelati, d’accordo con la ragazza tra l’altro, dove c’era anche una molestia sessuale. Si fece credere alla ragazza che il padre fosse in pericolo, sotto ricatto…c’erano delle pressioni che lui subiva, per cui la ragazza fu ingannata». Dove è stata portata? «Erano due appartamenti, uno sul litorale uno su un quartiere vicino alla villa stritch dove risiedeva mons. Marcinkus. Io ricordo che una delle nostre ragazze mi disse che doveva andare in farmacia a comprarle dei tamponi perché la ragazza in quei giorni aveva il ciclo. Ha fatto delle richieste, come “la famiglia cosa ne pensa?” e noi dicevamo “la famiglia sa”, non le è stato detto che doveva stare dei mesi lì. Studiava i libri che noi le portammo, aveva un piccolo pianoforte verticale, un flauto. Ricordo che ricamava a volte». Eravate a volto scoperto? «Io avevo una parrucca, le lenti a contatto marroni. Una volta mi chiamavo “Fabio” un’altra “Paolo”, a seconda delle esigenze». Perché compare soltanto ora? «In tutti questi anni mi sono riservato di farlo il giorno in cui poteva esserci la possibilità di rivolgere un appello a quanti con me all’epoca avevano collaborato. Se il flauto non fosse quello di Emanuela Orlandi non lo avrei presentato lasciandoli la matricola». Il flauto di Emanuela che fine fa dopo il sequestro? «Viene sostituito con un altro flauto senza la matricola, quindi non riconducibile alla Orlandi, anche perché la Orlandi cambia identità e poteva ancora benissimo esercitarsi al flauto. Nel 1983 noi lo volevamo restituire ai carabinieri che si stavano recando in perquisizione in questi sotterranei della Basilica [Santa Francesca romana, nda] ma non sono riusciti a rinvenirlo. Lo recuperammo nel 1987, io lo occultai in questa sezione dello stabilimento cinematografico ex De Laurentis, una sezione che era adibita all’oggettistica, per cui se fosse stato rintracciato laddove lo avevo occultato, poteva essere facilmente scambiato per un oggetto usato in qualche pregressa lavorazione cinematografica». Emanuela e Mirella sono state portate in Francia? «Per questioni di sicurezza furono portate all’estero. A me fu sempre detto in modo lapidario: “All’estero stanno bene, meglio non farle rientrare perché si creerebbe uno scandalo inutile”. Non so cos’è successo alle ragazze, io personalmente, né chi è accanto a me, le ha uccise. A nessuno frega niente della Orlandi e della Gregori, stiamo parlando di qualcosa che è accaduto trent’anni fa e tutta la forza degli inquirenti non è stata mai capace di comprendere nulla, neanche di sentire l’odore di qualcuno di noi. Evidentemente c’è un qualcosa di anomalo che è accaduto». Lei è l’Americano? «Io dico sempre, lo sono, non lo sono, non lo voglio dire, questo lo deve dire la procura». Perché non ha mai fatto i nomi dei suoi complici? «Proprio perché nessuno rispetta la parola data, io ho dato la mia parola, a torto o a ragione. Una parola non si rimangia mai, se avessimo ammazzato qualcuno sarebbe giusto rimangiarsela».

Alla fine dell’intervista, Fassoni Accetti ha fatto un appello: «Mi rivolgo all’aspetto femminile della vicenda: lo so avete molti figli, avete una famiglia e un marito, è difficile raccontare al marito e ai figli…io non vi chiamerò mai in correità, ma se volete aiutare, non tanto me, ma queste famiglie, chiudiamola lì anche perché, non prendetela come una minaccia, se si dovesse presentare qualcun altro, al di là di me, e dovesse fare i vostri nomi, ci fate una cattiva figura».

Pietro Orlandi durante la trasmissione ha commentato: «Lui sicuramente ha avuto un ruolo in questa storia, ne sono convinto. Me lo fa pensare quel flauto, che secondo me è quello di Emanuela. Su di esso c’era il numero di matricola e questa persona non poteva sapere se noi lo avevamo tenuto oppure no, in questo caso sarebbe stato smentito subito». Si dimostra scettico sul fatto che Emanuela fosse stata d’accordo con i suoi rapitori, anche perché -dice- avrebbe evitato di prendere appuntamento con la sorella Cristina dopo la scuola.

Durante la trasmissione Pietro Orlandi sostiene anche che papa Francesco, quando lo incontrò all’uscita di una messa domenicale in Vaticano, gli ripeté per ben quattro volte che Emanuela è morta. Pino Nicotri ha ricordato che fino a prima del 4 novembre Pietro aveva detto che papa Francesco quell’affermazione l’aveva fatta una sola volta e che a sentirla gli si era “ghiacciato il sangue”. Tuttavia nel filmato del breve incontro tra Pietro e Papa Francesco alle parole che gli dice il papa il fratello di Emanuela sorride e non pare proprio ricevere da lui una notizia agghiacciante come la morte di Emanuela, oltretutto ripetuta per quattro volte.

 

28 ottobre 2013
Durante la trasmissione “La vita in diretta” Pietro Orlandi afferma che Emanuela poco prima di sparire telefonò a casa dalla scuola di musica dicendo di avere un appuntamento con un tizio “che doveva darle un pacco di volantini da portare a casa. Affermazione, ha spiegato Pino Nicotri, smentita dalle testimonianze verbalizzate degli stessi familiari, che si sono sempre limitati a parlare di una telefonata nel corso della quale Emanuela aveva solo detto di avere avuto un’offerta di lavoro consistente nel distribuire volantini a una sfilata di moda. Pietro sostiene anche che le centinaia di ossa di bambini nel sotterraneo della basilica gli fanno venire in mente le vittime della “pedofilia rituale” diffusa anche negli alti gradi del clero, dichiarazione priva di fondamento.

 

25 ottobre 2013
Marco Fassoni Accetti nei recenti interrogatori in Procura avrebbe fatto i nomi di almeno tre ragazze coinvolte a partire dal 1987, quando sia Emanuela sia Mirella «le avevamo già trasferite all’estero, inizialmente in Francia, una in auto passando da Milano, l’altra con un volo decollato dall’Aeroporto dell’Urbe, sotto i falsi nomi di Fatima e Rosi». Tra queste “sosia” di Emanuela, anche una ex starlette di “Non è la Rai”, che conferma di conoscerlo: «Mi avvicinò mentre ero in viale Libia con mia mamma, mi riempì di complimenti. Disse di avere entrature nel mondo dello spettacolo e che poteva aiutarmi. Io ero minorenne, avevo 16 anni, ma confesso che l’idea mi piaceva. Lo vidi più volte, sempre con mia madre o mia sorella grande. Sì, di fotografie me ne fece tante. Mi portò anche a un concorso, Miss Abbronzatissima, e a una serata in cui recitai una poesia. Mi dava disagio, era un tipo strano. Dopo qualche settimana smisi di incontrarlo». Anche le altre due “sosia della Orlandi” erano giovanissime con i capelli lunghi neri e il viso regolare, solare. Una aveva 18 anni e di lì a poco sarebbe rimasta incinta. L’altra, neanche maggiorenne, oggi poetessa di una certa notorietà, «nel maggio 1987 la portammo a un convegno in Campidoglio tenuto dalla fondazione Re Cecconi, per fare delle foto con dirigenti della Lazio, utili a chiarire un certo conflitto che si era instaurato». Probabilmente si riferisce ad un messaggio sul sequestro Orlandi, arrivato all’Ansa il 17 ottobre 1983, che chiamava in causa il calciatore Arcadio Spinozzi.

Tutte e tre le «controfigure» furono fotografate a loro insaputa, non in primo piano, di profilo, in modo che potessero essere facilmente scambiate con la quindicenne cittadina vaticana. In seguito tali immagini sarebbero state usate «a scopo di minaccia o ricatto, facendo credere alla nostra controparte che continuavamo a detenere la Orlandi». «Le pressioni – ha messo a verbale Fassoni Accetti in Procura – erano su due livelli. Primo: contrastare la gestione dello Ior di monsignor Marcinkus e di Thomas Macioce, l’uomo d’affari americano che fin dal 1987-88 si diceva potesse sostituirlo. Secondo: evitare il rischio che Alì Agca tornasse ad accusare il mondo dell’Est, i bulgari, come mandanti dell’attentato a papa Wojtyla, considerato che in quel periodo ci sarebbe stato il processo d’appello». Ha anche affermato di aver studiato in piazza di Spagna, al San Giuseppe De Merode: «In quel collegio io avevo studiato e conosciuto monsignor Pierluigi Celata, che fu mio direttore e confessore spirituale, figura di riferimento del nostro gruppo, senza che lui fosse coinvolto nelle nostre attività».

 

24 ottobre 2013
La Procura ha accertato che non sono di Emanuela Orlandi le ossa ritrovate nella cripta della basilica di Sant’Apollinare a Roma. Secondo Pino Nicotri si chiude definitivamente il capitolo della pista della basilica nato nel 2005 da una telefonata a “Chi l’ha visto”

Nel frattempo sono uscite alcune affermazioni di Fassoni Accetti in Procura sui tabulati telefonici delle telefonate dell’Americano. Una risalirebbe al 19 luglio 1983, quando chiamò il cardinale Casaroli dal «bar rosticceria di viale Regina Margherita 4», poi un’altra «dal bar d’angolo di piazza San Silvestro: la polizia ci intercettò e le volanti arrivarono pochi secondi dopo, basta controllare il brogliaccio». La telefonata con la voce di Emanuela partì da «un telefono pubblico ai Parioli» e nell’ottobre 1983 «dal capolinea del metrò Laurentino». Infine quella «durante la trasmissione Telefono giallo, da una cabina in una traversa di piazza Vittorio».

Ha chiarito che l’ala progressista di cui faceva parte, contraria alla linea anticomunista di Wojtyla, dal 1979-80 avrebbe fatto pressioni sullo Ior di Marcinkus per frenare l’invio di fondi al sindacato Solidarnosc. Secondo quanto ha raccontato il fine del rapimento era anche indurre Agca (cosa che poi accadde) a ritrattare «le calunnie» contro i bulgari, facendogli credere che sarebbe stato liberato, grazie alle pressioni (legate a Emanuela) sul Vaticano e a quelle (legate a Mirella) sull’Italia, in particolare sul presidente Pertini, titolare del potere di grazia (e anche questa arrivò, seppure solo nel 2000).

Rispetto alla scomparsa di Mirella, il 7 maggio 1983, sarebbe avvenuta quel giorno, e non il 6 o l’8, perché «il 7 era un codice: doveva richiamare ad ambienti interni il 7 giugno dell’anno precedente, data dello storico incontro tra il papa polacco e il presidente Usa Reagan, in cui i due decisero di potenziare i finanziamenti a Solidarnosc da noi osteggiati».

 

23 settembre 2013
Marco Fassoni Accetti ha richiamato in Procura l’attenzione su Paola Diner, la donna di 33 anni morta vittima di un incidente domestico il 5 ottobre 1983 nella sua casa in via Gregorio VII, di cui lo MFA aveva già parlato al “Corriere” il 17 maggio scorso. «Paola Diener fu da noi contattata perché aveva un parente in Vaticano: volevamo convincerla ad accusare di molestie sessuali qualche prelato della fazione a noi avversa, nell’ambito delle nostre attività di pressione», ha spiegato MFA. «Il mio gruppo posizionò nella casa di via Gregorio VII delle microspie. Io ero fuori, in strada, per controllare che non arrivasse nessuno della famiglia. Volevamo essere certi che la donna non riferisse al padre il contatto avuto con noi, e per questo la microfonammo. L’appartamento era al piano terra, entrando sulla destra. C’era un cagnolino vivacissimo, tanto che dovemmo interrompere l’azione per dargli da mangiare».

I riscontri effettuati hanno per ora confermato solo che il padre della Diener, morto mesi fa, aveva lavorato in Vaticano come responsabile dell’Archivio segreto della Santa Sede. Dagli atti del caso Orlandi la data di morte della Diener apparve, allora inspiegabilmente, in un comunicato inviato dai sequestratori il 23 ottobre 1983: «Comunicheremo al cardinale Casaroli il nominativo della cittadina soppressa il 5-10-1983 a causa della reprensibile condotta vaticana». Precisa ancora Accetti: «Stavamo bluffando. Volevamo usare quella morte, a noi estranea, per creare scandalo ed esercitare pressioni sulla controparte. Ricordo che in quei giorni era in corso il Sinodo dei vescovi…».

Fassoni Accetti ha aggiunto un particolare: fu arruolato nel nucleo di «intelligence e controspionaggio» per contrastare la linea anticomunista di papa Wojtyla, «grazie alla pregressa conoscenza di monsignor Pierluigi Celata, mio confessore al collegio San Giuseppe De Merode». «Fu questa – ha ripetuto nei 13 interrogatori il teste – la ragione principale che indusse alcuni ecclesiastici lituani e francesi a creare un gruppo occulto negli anni 1979-80». E’ in questo contesto che il nucleo avrebbe organizzato il «finto sequestro, poi sfuggito di mano» delle due quindicenni, con l’intento di indurre Alì Agca a ritrattare le sue accuse contro la Bulgaria.

 

17 settembre 2013
La trasmissione televisiva “Linea gialla” mette a confronto (tagliando e montando molte parti) Pietro Orlandi e Marco Fassoni Accetti. Pietro ricorda che MFA ha detto di aver sentito da persone appartenenti al suo gruppo che Emanuela è stata portata in una comunità islamica a Milano fondata da un italiano che aveva contatti con la grande moschea di Parigi». MFA ha risposto: «Io tra l’83 e l’85 ero in carcere, quindi posso solo riferire de relato, se avessi saputo di più avrei già informato la Procura. Dovrei riparlare con questa persona?». Pietro vuole che MFA dica i nomi dei suoi complici e quest’ultimo più volte ripete: «Ho dato la mia parola a suo tempo, io dovrei tradire la parola data». Si è presentato ora perché «è cambiato il pontefice e si dice, non lo dico io, che non è curiale e questo dovrebbe psicologicamente influire su certe persone che, a torto o a ragione, vogliano credere a questo, che in Curia ci sarà un po’ più di rispetto».

Parlando del gruppo di cui ha fatto parte ha parlato di «un gruppo di pochi ecclesiastici, minori tra l’altro di secondo o terzo grado, e pochi laici che insieme hanno convenuto di operare, non c’era un mandante». Lo scopo del rapimento «era per ottenere determinati risultati in un certo ambito politico che concerne la Città del Vaticano e i suoi rapporti con altri Stati». Poteva una ragazzina avere questa forza? «Non era stata scelta Emanuela, c’era tutto un ventaglio…c’erano varie ragazze, c’erano delle donne, c’erano delle signore..». Emanuela è stata scelta per la sua cittadinanza? «Certo». «Si era anche pensato a Cristina, la minore, ma la Cristina come altre ragazze non avevano la predisposizione caratteriale per poter con loro dialogare e simulare, questo non vuol dire che Emanuela abbia delle caratteristiche da disprezzare, al contrario…proprio per la sua generosità, per il suo essere aperta, fresca».

Pietro Orlandi si dimostra scettico sul fatto che Emanuela abbia accettato di assentarsi da casa in quanto la famiglia sapeva, «questo dimostra che tu non hai mai avuto contatti con Emanuela, non avrebbe mai fatto così». MFA risponde: «Mai dire mai». Secondo MFA Emanuela era già d’accordo prima di quel giorno, Pietro chiede perché allora avrebbe insistito per farsi accompagnare da lui. «Per rispettare gli orari», ha risposto MFA anche se con i vari tagli non si capisce pienamente la sua reazione a tale obiezione. Si è finito con le telefonate che l’Americano fece a casa Orlandi, Pietro pone una domanda a MFA su una cosa che disse l’Americano su qualcosa che accadde a Emanuela nei primi giorni, fisicamente, e aggiunse di stare tranquilli perché accanto a lei c’era una persona..questa cosa non uscì sui giornali, ma MFA non ricorda. Si conclude con un appello di MFA: «Io non faccio i nomi però sappiano, le persone a cui mi rivolgo, che le indagine nel loro sviluppo possono arrivare ad identificarvi per cui è bene presentarvi avendo l’attenuante, per lo meno, che vi siete presentati».

 

12 settembre 2013
Fabrizio Peronaci sul “Corriere” fa notare Marco Fassoni Accetti si presenta in Procura il 27 marzo 2013, chiamando i complici a farsi avanti, mentre nell’aprile 2013 Antonietta Gregori e una compagna di musica di Emanuela ricevono i due inquietanti plichi con scritto: «Non cantino le due belle more per non apparire come la baronessa e come il ventuno di gennaio martirio di Sant’Agnese con biondi capelli nella vigna del signore». Le ultime righe paiono evocare l’omicidio di Katy Skerl: capelli (biondi), data del ritrovamento del corpo (21 gennaio), luogo (una vigna). L’anonimo invitando le «belle more» a «non cantare» (tacere) si riferisce a Emanuela e Mirella (se vive)? Oppure si riferisce alle amiche che hanno aiutato a far cadere nella trappola Emanuela e Mirella, come raccontato sempre da MFA? Potrebbe essere ancora attiva la «parte avversa» a quella di Fassoni Accetti?

Rispetto all’omicidio Skerl, Fassoni Accetti sostiene che sarebbe stato la «risposta» alle pressioni esercitate in ambienti vaticani tramite Emanuela (figlia del messo papale) e Mirella (vicina di casa di un funzionario della Gendarmeria). Assieme alla lettera, Antonella Gregori e l’amica di Emanuela hanno ricevuto anche la foto di un teschio, scattata nella chiesa di via Giulia che raccoglie le spoglie di cadaveri abbandonati nell’800, il quale appartenne a una certa Eleonora. Una delle ragazze a conoscenza di fatti relativi all’operazione Orlandi-Gregori ha lo stesso nome.

 

29 luglio 2013
I magistrati Giancarlo Capaldo e Simona Maisto hanno convocato tutti coloro che hanno ricevuto per un motivo o per l’altro un avviso di garanzia per la scomparsa di Emanuela Orlandi: don Pietro Vergari, ex rettore della basilica di S. Apollinare e Marco Fassoni Accetti, non sono stati invece convocati, essendo per loro scaduti i termini, Angelo Cassani, detto Ciletto, Gianfranco Cerboni, detto Gigetto, Sergio Virtù e la “super testimone” Sabrina Minardi. L’unico presentatosi di persona alla convocazione di lunedì mattina in Procura è stato don Vergari, gli altri erano tutti rappresentati dai rispettivi avvocati. “Ho così scoperto che mi è stato assegnato un avvocato d’ufficio. Io, non essendo mai stato interrogato, non ho mai provveduto a nominarmene uno”, ha commentato don Vergari.

I due magistrati hanno chiesto alla Questura e ai Carabinieri di Roma notizie sulla manifestazione dei radicali del 22 giugno 1983 in piazza Navona, a Roma, cioè a pochi metri dalla fermata dell’autobus di fronte al Senato, in corso del Rinascimento, volendo sapere se alla manifestazione abbia preso parte Marco Fassoni Accetti, all’epoca militante del partito radicale. A quanto hanno appreso Marco Fassoni Accetti sarebbe stato fotografato mentre partecipava ad almeno una manifestazione radicale vestito da prete.

 

24 luglio 2013
Marco Fassoni Accetti in una testimonianza in procura avrebbe parlato di un ruolo, seppure marginale, avuto dal suo gruppo in relazione all’attentato in piazza San Pietro, due anni prima del rapimento Orlandi. «Eravamo in contatto con due idealisti turchi e tentammo di limitare gli effetti dell’azione di Agca a qualche sparo in aria, a un atto dimostrativo». Sarebbe stato ancora lui a suggerire di alloggiare il killer turco, nei sopralluoghi preparatori nella Capitale, «all’hotel Archimede di via dei Mille, che conoscevo perché vicino c’era un negozio di fotografia, e all’ostello Ymca di piazza Indipendenza, dove frequentavo una palestra».

 

12 luglio 2013
Ai magistrati Marco Fassoni Accetti avrebbe fornito spunti anche per spiegare la morte di Jeanette May, già baronessa de Rothschild, il cui scheletro (assieme a quello di un’amica, Gabriella Guerin) fu trovato nel gennaio 1982 nei boschi marchigiani. «Pensammo a lei per fare un’operazione contro Marcinkus e altre figure che detenevano il potere nello Ior, come il cardinal O’ Connor e l’uomo d’affari Thomas Macioce. La baronessa Rothschild avrebbe dovuto accusare monsignor Marcinkus di molestie: colpendo lui puntavamo a frenare i finanziamenti in Polonia voluti da papa Wojtyla per abbattere il comunismo». Sul suo blog Fassoni Accetti integra: «Nel 1979- 80, ben prima che si ideasse il “finto sequestro” con due giovani ragazze, l’idea originale per esercitare una pressione nei confronti di alcuni ecclesiastici era quella di servirsi di due signore altolocate, che avrebbero dovuto riferire fittiziamente di aver appreso all’interno di una liaison con alcuni ecclesiastici certe notizie riservate e destinate a non esser mai rese pubbliche, ciò avrebbe creato una turbativa con conseguente clamore. La ricerca e selezione di tali signore fu effettuata a vasto raggio, e particolarmente all’interno del Sovrano Ordine dei Cavalieri di Malta, tra le Dame di Grazia e Devozione, d’Onore e Devozione. Questo ordine era già nelle nostre attenzioni in quanto alcuni dei suoi membri erano il Dtt. Macioce e l’avvocato Ortolani (condannato per lo scandalo Ambrosiano, ndr ). E comunque si vagliarono estensivamente le signore altolocate che gravitavano in quei millieu tra diplomazia italiana e quella della Città del Vaticano. La Baronessa Rothschild conduceva in sé quei significati che la posero alla nostra attenzione: la sua famiglia era “consulente” finanziario della Sezione Ordinaria della Amministrazione della Sede Apostolica. La Baronessa frequentava i circoli di araldica vicini a Mons. Bruno Heim, delegato apostolico in Inghilterra».

Il ricatto da attuare attraverso la nobildonna sarebbe stato ideato 3 anni prima del sequestro di Emanuela e Mirella. Ma il 29 novembre 1980, mentre era a Sarnano (Macerata) per la ristrutturazione del suo casolare, la de Rothschild svanì nel nulla: «Noi la signora non arrivammo a contattarla, tutto rimase allo stadio di progetto: la sua scomparsa è estranea alle nostre attività», precisa Accetti. Che però, sullo scontro tra fazioni all’ombra del Vaticano, ha fornito un elemento in più: «Alcuni membri della parte a noi avversa credettero di ravvisare in noi i responsabili di tale scomparsa, per cui nel 1983, dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, suggerirono alle famiglie delle ragazze la nomina legale dell’avvocato Gennaro Egidio, già legale della famiglia Rothschild in ordine alla scomparsa della baronessa». Secondo i ricordi di Pietro Orlandi, l’avvocato fu loro consigliato pochi giorni dopo la scomparsa di Emanuela, da uno 007 in contatto con la famiglia: «Fu Gianfranco Gramendola, carabiniere del Sisde, nome in codice Leone, a presentarcelo esclamando: “Tranquilli, quest’avvocato è la mano di Dio!”. Poi fu lo stesso Egidio a dirci che si era occupato dei Rothschild e, mi pare, del caso Calvi». In un’altra occasione dice: «Quando sapemmo della scomparsa della baronessa, pensammo che fosse stata un’operazione della parte a noi avversa, che a sua volta sospettò di noi. Un fatto è certo: il mio gruppo era completamente estraneo».

Marco Fassoni accetti torna anche sul caso di Mirella Gregori: «Mirella ed Emanuela erano d’accordo con noi, bastò un piccolo inganno, con l’aiuto inconsapevole di alcune loro amiche, per portarle via. A Mirella citofonai io: lei inventò una scusa per scendere e venne via con me, senza alcuna violenza. Io e il mio gruppo pensavamo di sfruttare questi sequestri per ricattare il Vaticano»

Maria Antonietta Gregori, intervistata, parla dell’amica di Mirella, Sonia De Vito, l’ultima a vederla: «Da quel maledetto giorno non si è mai più fatta viva con noi, proprio lei che mia madre trattava come un’altra figlia. Mai una telefonata, una visita. E per la mia famiglia è stato un grande dolore: lei e Mirella erano sempre insieme. Questo comportamento ci è sempre sembrato strano». E ancora: « «Lei non aveva alcun motivo per andar via di casa, Fassoni Accetti la deve smettere. Quest’uomo deve dire la verità e non inventarsi episodi senza senso: ha detto perfino che mia madre avrebbe incontrato Mirella in Francia, dieci anni fa! Ma vi pare possibile? Quella è una storia totalmente falsa che ci ha fatto stare molto male. Mia mamma è morta col nome di Mirella sulle labbra».

 

09 luglio 2013
Sul suo blog Fassoni Accetti scrive una lettera alla signora Garramòn, madre di José Garramon, il bambino investito e ucciso dall’artista. La madre più volte ha detto che un medico le aveva detto con sicurezza che il bambino era morto sull’ambulanza e non sul colpo, quindi Fassoni Accetti avrebbe potuto salvarlo al posto di andarsene dal luogo dell’incidente. L’artista ha risposto: la donna è «smentita dai verbali che riportano le dichiarazioni del personale paramedico della stessa autoambulanza». Nei commenti sotto l’articolo l’artista approfondisce: «dalle risultanze dell’autopsia emerge che il bambino è morto, in seguito alla lacerazione della aorta e alla sezione completa in più punti del midollo spinale, lesioni che depongono verso la tesi del decesso pressoché istantaneo. Inoltre la morte si sarebbe verificata verso le ore 19, orario contestuale all’incidente, ed il rapporto dei soccorritori delle 19:50 ca. dimostra intanto che il bambino non è morto sull’ambulanza come dichiarato dalla madre». Rispetto alla sentenza contro Fassoni Accetti, «l’omicidio è stato derubricato in primo grado da volontario a colposo, e questo non equivale ad una assoluzione per insufficienza di prove ma ad una formula piena. Addirittura il Pubblico Ministero, Franco Ionta, che rappresentava l’accusa, aveva chiesto in primo grado l’assoluzione per l’omicidio volontario».

Nei mesi scorsi Martha, la governante di casa Garramòn, ha ricordato alla trasmissione “Chi l’ha visto” che Fassoni Accetti avrebbe fatto visita alla loro casa prima dell’incidente. Fassoni Accetti replica: «dopo trent’anni, vedendo una mia foto mostrata dalla redazione della trasmissione Rai, si ricorderebbe di avermi visto per pochi secondi sull’uscio di casa, ed aggiunge che all’epoca, durante le indagini, i carabinieri le mostrarono una foto in cui io recavo la barba, per cui non l’associò con l’uomo che un mese prima bussò alla sua porta. Questo è falso, perché i carabinieri per le indagini non si servirono di una mia foto con la barba, ma di un’altra, verbalizzata agli atti, in cui non portavo alcuna barba. Inoltre, all’epoca, la governante non fece presente, durante gli interrogatori dei carabinieri ed in seguito con il giudice istruttore, di aver ricevuto alcuna visita sospetta. Per questa ragione è stata da me querelata per diffamazione».

Rispetto alla pedofilia, Fassoni Accetti ha spiegato: «“ci ‘travestivamo’ spacciandoci per pedofili, intendendo che, quando individuavamo all’interno di una realtà ecclesiale una situazione di pedofilia, la penetravamo per ottenere un qualcosa ed esercitare pressioni. Per facilitarci il compito simulavamo comunanza e temperatura pedofila, apparente complicità. Non certo nei confronti dei minori, ma esclusivamente verso l’ecclesiastico in questione». Ed infine un appello diretto: «Sappia che per quanto sopra, collaborerò esclusivamente con gli inquirenti, e non certo con il suo legale, già impegnato a difenderla dalla querela che intendo indirizzarLe».

 

07 luglio 2013
La grafologa Sara Cordella ha analizzato la lettera spedita da Boston (precisamente dalla Kenmore Station ) il 22 settembre 1983 a Richard Roth e ricevuta il 27 settembre 1983 presso la sua residenza romana, rilevando un rigido piegamento verso sinistra (“Rovesciata”), aggiungendo che tale segno si trova soprattutto nelle scritture femminili.

Il 6 giugno 2013 Marco Fassoni Accetti ha rivelato che «una ragazza le scrisse in Roma ed un’altra le spedì da Boston. Non confermo se si trattava o meno della mia ex-moglie».

 

06 luglio 2013
Fabrizio Peronaci sul “Corriere” svela alcune affermazioni di Marco Fassoni Accetti in Procura, compresi i nomi degli alti prelati ai quali (senza che ciò comporti un loro coinvolgimento) avrebbero fatto riferimento i gruppi di potere coperto dal cui scontro sarebbe germinato il sequestro di Emanuela e Mirella. Marco Accetti, collegiale al San Giuseppe De Merode, grazie al suo direttore spirituale Pierluigi Celata nei primi anni ’70 conosce alcuni religiosi che gli mettono a disposizione abiti talari e locali per attività filmiche. È questa la sua prima «entratura». Poi maturano altri contatti: «Sacerdoti un po’ peccatori mi proposero: visto che sei così bravo con la cinepresa, vuoi renderti utile?». Le azioni del «nucleo di controspionaggio», elenca Accetti, nascono per «tutelare il dialogo con i Paesi del Patto di Varsavia» (il che coincideva con la linea Casaroli) e contrastare la gestione di Ior e Apsa. «Volevamo condizionare in senso progressista le scelte del Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa… Agivamo nell’area di monsignor Backis […]. Nella sua Fiat collocammo microspie per attenzionare persone che erano con lui». Altre figure vicine erano «monsignor Martin, della Prefettura pontificia, e Deskur, preposto alle Comunicazioni sociali», nonché «il cardinal Hume, alle prese con i debiti della sua diocesi». Quanto alla parte avversa, è con l’ascesa nel 1978 del pontefice polacco che il gruppo individua i bersagli: «Ci opponevamo ai finanziamenti a Solidarnosc e in generale alla spinta anticomunista di Wojtyla». Per questo, vittime di ricatti e dossieraggi sarebbero stati il cardinal Caprio (anni prima espulso dalla Cina, spiato con cimici «sotto la moquette gialla») e monsignor Hnilica (condannato per il caso Calvi), oltre a Marcinkus, discusso capo dello Ior, all’uomo d’affari Thomas Macioce e al cardinal O’Connor. Arrivano poi Emanuela e Mirella: ««Le prelevammo dopo la promessa dei servizi segreti ad Agca di liberarlo entro due anni: la Gregori, cittadina italiana, serviva a premere per la grazia presidenziale. Io ci misi le mie capacità di sceneggiatura…».

 

03 luglio 2013
Margherita Gerunda, l’ex pubblico ministero che indaginò nelle prime ore che seguirono il rapimento, ha affermato: «Mi feci subito l’idea, come del resto tutti gli investigatori, che la ragazza fosse stata attirata in un agguato, violentata e uccisa, comunque morta in seguito alle violenze. Certo non ci sentivamo di esternarlo perché sarebbe stato crudele nei confronti della famiglia. Tale convinzione è tuttora confermata dai fatti successivi». E accusa i media: «Se non ci fosse stato questo assedio le indagini avrebbero potuto avere un qualche esito tempestivo. Lo dico sulla base della mia esperienza, che all’epoca era già notevole. Interpretai il mio essere tolta dal caso Orlandi come la precisa volontà di assecondare i clamori e sposare in pieno la pista del rapimento politico per lo scambio con Agca. Direi che oggi non è cambiato nulla. Con continui colpi di scena uno meno credibile dell’altro si vuole evitare che i magistrati possano lavorare senza intralci su piste non di fantasia».

Parlando delle prime ipotesi: «Non ho mai avuto alcun elemento per appuntare l’attenzione sulla ditta Avon. Nessuno me ne parlò. Non credo inoltre che quel giorno Emanuela Orlandi sia andata alla scuola di musica passando per corso del Rinascimento, dove si usa credere che sia stata vista da un vigile e da un poliziotto. Ho maturato la convinzione che i testimoni si siano prestati a dire o a confermare cose che permettevano loro di andare sui giornali, dare interviste, insomma avere il loro piccolo momento di fama se non di gloria. Per uscire almeno una volta nella vita dall’anonimato e sentirsi protagonisti, alla ribalta, partecipi di una storia che interessa molta gente».

 

2 luglio 2013
Marco Fassoni Accetti ha rivelato ai procuratori che Emanuela «fu a Roma per tutto l’83 e poi portata in Francia», secondo il teste era stata ribattezzata Fatima (con tanto di passaporti indiano e iraniano), per richiamare il terzo segreto. Mirella, invece, Rosi: da Rossitza Antonov, moglie del caposcalo della Balkan Air arrestato per l’attentato. Alla Gregori, inoltre, sarebbe stato intimato di dire che al citofono il giorno in cui sparì la chiamò l’amico Alessandro, per «ricordare» a chi di dovere il capo dello Sdece, servizi segreti francesi, marchese Alexander De Marenches». «Pierluigi», autore delle prime telefonate, «alludeva» a un tal monsignore [Pier Luigi Celata, ndr] acerrimo nemico di Marcinkus; «Barbarella», come fu anche chiamata la Orlandi, doveva servire «a localizzare la ragazza» in zona Campo de’ Fiori, vicino la chiesa di Santa Barbara; e infine la basilica di Santa Francesca Romana, dove l’«Amerikano» telefonò una volta, altro non sarebbe stato che un riferimento al doppio nome della nipote di Ilario Martella, giudice istruttore su Agca e accusatore dei bulgari, per questo minacciato. «Ma di che vi stupite?», afferma Accetti, «leggere questi fatti con gli occhi di oggi è vano. Vero è che all’epoca, in piena guerra fredda, operazioni del genere avvenivano così: tramite codici, coperture, raffinatissime dissimulazioni».

 

1 luglio 2013
Dino Marafioti intervista su “Radio Radicale” Marco Fassoni Accetti (intervista si svolge il 25 giugno).
MFA saluta gli ascoltatori, all’inizio e alla fine, come “compagni” tenendoci a mostrare le sue simpatie comuniste, e afferma di essere stato ascoltato in Procura, finora, in circa 10 udienze. «Con un nuovo Pontefice non curiale veniva meno, almeno nelle mie, nelle nostre speranze, quella possibile difesa culturale, psicologica che poteva e può ancora esserci in certi ecclesiastici che all’epoca erano a conoscenza dei fatti». Con i precedenti pontefici, «il prefetto per la Congregazione per la dottrina della fede, poi diventò pontefice, lui certo non era a conoscenza di nulla, ma all’epoca alcuni prelati che componevano tale congregazione ne erano a conoscenza, erano un po’ la nostra controparte. Vi era la necessità di chiedere e questa domanda andava necessariamente sforzata attraverso delle pressioni. Alcuni segmenti della Curia, per lo meno quella Curia, ottenevano e chiedevano attraverso degli sforzi, delle minacce. Per cui bisognava rispondere con lo stesso sistema “culturale”». Tuttavia ora la televisione di stato tramite notizie calunniose ha «vanificato il mio appello se non inficiato per cui non credo che persone appartenenti al mondo ecclesiale desiderino entrare in questo inferno mediatico creato senza alcun controllo dalla televisione di stato».

Si passa al fatto del flauto che MFA considera «di minore importanza. Anche se fosse quello della Orlandi chiunque poteva benissimo ottenerlo in un secondo tempo, l’importante è aver fornito dei riscontri riguardo a delle azioni specifiche del 1983». Tornando alle attività, «non c’era nessun nucleo e nessun controspionaggio, erano pochi laici e pochi ecclesiastici che cercavano di condizionare la politica dell’allora Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa, che era un’estensione della Segreteria di Stato quindi attraverso questa camarilla si cercava di suggerire certe scelte, non tutte, della Segreteria di Stato. Poche persone ma che disponevano informazioni attinenti all’interno del Vaticano rientrava nei loro interessi». Come controparte, «non meglio identificate persone di non meglio identificati circoli occidentali cercavano sempre di conoscere le procedure all’interno della Curia per poi farne un uso proprio, deviato». Quella di MFA era una «realtà mobile, non istituzionalizzata, io ero un laico e assieme ad altri laici appoggiavamo ecclesiastici appartenenti ad una corrente progressista». I servizi segreti infiltrati in Vaticano «non parteciparono mai né a livello esecutivo né come entità mandante».

Rispetto al caso Orlandi, «nessuno di noi ha commesso alcun omicidio, non da parte mia e non da parte delle persone che con me collaboravano. Io non posso sapere quale fu la sorte di questa ragazza perché nell’84 fui arrestato dopodiché sono stato accorpamentato poiché ero stato attenzionato da indagini che potevano essere non soltanto al fatto della pineta e di Garramòn». «Mi trovo anch’io dentro un enigma, io non ho la soluzione: non c’è il movente per ucciderle ma le ragazze non ci sono, quindi anche per me questo è un mistero». La Orlandi e la Gregori «sono state fatte riparare all’estero, ma le altre testimoni che hanno concorso con loro e quindi sono a conoscenza dello svolgimento dei fatiti nella loro genesi e nel loro iter tecnico sono rimaste tutte nel loro contesto familiare perché non sono mai state individuate. Solo alcune sono state sospettate: la Orlandi aveva una compagna di scuola e una del corso di musica e un’altra amica ancora, la Gregori aveva una ex-compagna di scuola media di via Montebello nonché un’amica. E anch’io mi accompagnavo con ragazze che all’epoca avevano tutte tra i 17 e i 21 anni, tutte testimoni dello stesso fatto. Allora se avessimo voluto fare la tacitazione testimoniale con la Orlandi e la Gregori, perché non sopprimere anche queste ragazze? Non vedo perché qualcuno le abbia dovute uccidere ma al tempo stesso 30 anni sono assolutamente troppi. Negli anni mi è stato detto è che l’imbarazzo di raccontare, la paura, l’inibizione…era possibile nei primi anni ’80 ma si sarebbe dovuta dissolvere negli anni, ho sempre pensato invece che ci sia una forzatura, un farle vivere bene, un usare una pressione perché le ragazze dimentichino, non ritornino nel proprio nucleo familiare, nel proprio contesto sociale. L’omicidio no, è aleatorio ma potrebbe essere stato commesso compiendo un errore di calcolo enorme, anche perché tutte le ragazze coinvolte potrebbero farsi avanti e per paura di finire allo stesso modo denunciare i responsabili». All’estero dove? «La Francia o la Svizzera per tutte e due, la Francia è sempre stata una protagonista nella nostra storia perché per tradizione sono sempre i servizi francesi ad occuparsi della sicurezza del Papa». L’ultimo riscontro in vita «il 20 dicembre 1983 Emanuela e nell’autunno del 1993 la Gregori», quando incontrò la madre. Sembra inverosimile, «ma cosa c’è di verosimile in questa vicenda? E’ verosimile che Alì Agca dica di essere Gesù Cristo rovinando il processo? In realtà è perché aveva paura per la sorella, noi minacciavamo anche lei».

«Se lei elabora quello che è accaduto il 22 giugno e il 6 maggio, le date della scomparsa di ambedue, pensate che sia veramente accaduto così come dicono i fatti? Un sequestro che possa accadere in questo modo? Io credo che chiunque abbia indagato nel passato vi ha nascosto 5/10 dell’istruttoria, io sono convinto che in tutte le istruttorie del passato vi sono delle parti secretate perché noi lasciavamo tanti e tanti indizi di lettura, volontariamente, che io non li ho mai riscontrati in tutte le istruttorie che sono state poi rese pubbliche. Non comprendere che quel 22 giugno non può essere un sequestro, non comprendere che un sequestratore che va a citofonare alla ragazza spacciandosi per il suo ex compagno di scuola di 16 anni e la ragazza riconoscerebbe in quella voce il compagno di scuola e nessun giudice ha il coraggio di scriverlo che dietro c’è un qualcos’altro. La ragazza scompare il 22 e scomparendo dice “il 25 accadrà qualcosa”, il 25 viene pubblicato (avevamo una persona legata ai servizi con il nome in codice “Ecce homo”) su “Il Tempo” un trafiletto sulla scomparsa della ragazza e una lettera di Alì Agca di un anno prima indirizzata al card. Oddi, e questa lettera dice: “spero che qualcosa accadrà in futuro, qualcuno mi risponda dal Vaticano”, e dopo 3 giorni comincia la ritrattazione su un bulgaro. E nessuno ha indagato, lo racconta oggi il mitomane. Non vedono che la promessa dei due anni dei servizi si manifesta l’83? Non vedono che il 22 giugno 1983 negli stessi momenti il Papa a Cracovia sta incontrando davanti al Senato della Repubblica i membri del Senato accademico? Per questo noi abbiamo scelto quel luogo deputato. Non si accorgono che Agca racconterà anni dopo che un giudice bulgaro lo ha minacciato durante una rogatoria e che faranno altri sequestri per lui, e noi gli stessi giorni della rogatoria abbiamo già spedito una lettera da Boston dove diciamo “facciamo altri sequestri per te”, la lettera parte il 15 da Boston e il 20 lui è minacciato»

Le due ragazze non sapevano davvero i fatti, conoscevano la storia al contrario, non conoscevano i nostri nomi, le nostre reali fattezze, ma sono comunque testimoni che confermano che all’interno della Città del Vaticano è accaduto qualcosa di illegittimo, illegale e di scabroso…è questo l’imbarazzo della loro testimonianza». «Anche la Orlandi e la Gregori erano d’accordo con noi…c’era un inganno è stato un sequestro atipico, un evento moderno, sofisticato..ero un’altra persona, ma era l’unico modo in quel sistema culturale di violenze per imporsi». Perché due minorenni? «Per aumentare scabrosità…la pedofilia, la usavamo come strato di copertura alle nostre reali azioni e nello stesso tempo era un’arma di pressione in un ambiente ecclesiastico». Rispetto alla Gregori, «noi avevamo una persona nel Servizio civile della sicurezza democratica (SISDE) che ci disse che si erano recati verso la fine dell’81 a parlare con il signor Agca e gli avevano accennato che in cambio di un suo pentimento, attraverso il perdono del Pontefice ed attraverso la grazia del presidente della Repubblica Pertini, entro due anni poteva essere libero. Il termine dei due anni è l’83, quindi una cittadina vaticana per quanto riguarda il perdono papale e una cittadina italiana per quanto riguarda la grazia del presidente italiano. A lui fu fatto credere che questo sequestro fosse una trattativa per la sua liberazione, chiaramente non era vero, ma per farglielo credere noi gli dicemmo, attraverso la corruzione di un agente del penitenziario, che doveva essere la classica scappatella perché la Repubblica italiana non avrebbe mai accettato una trattativa del genere e lo sapeva anche lui, ma doveva essere occulta questa trattativa, doveva essere una scappatella e dovevano esserne a conoscenza soltanto gli inquirenti e il presidente della Repubblica che soltanto per umanità avrebbe concesso la grazia, non certo nell’83 ma probabilmente dopo il processo per l’attentato al Papa quindi verso l’87-88. Era il Pontefice che per la liberazione di una cittadina vaticana avrebbe chiesto al Presidente di concedere la grazia, si trattava solo di un ferimento in fondo».

Il fatto della Gregori entra in scena dopo un mese dal rapimento Orlandi perché «arrivò un comunicato di un non meglio identificato Turkesh che noi pensiamo essere la controparte, che proprio il giorno che noi stiamo aspettando l’elezione del nuovo ministro di grazia e giustizia Martinazzoli, sempre perché intervenivano anche sul ministero di grazia e giustizia per il discorso Antonov, per cui loro ci suggeriscono con una domanda: “Vogliamo notizie sulla Gregori”, quasi a dire “vi vogliamo favorire sul fatto di Antonov però cercate di non parlare più della Orlandi”. Noi interpretammo che dovevano spostarci dall’attenzionare la città del Vaticano sul governo italiano, tant’è che chiedemmo l’ottobre successivo l’appello al presidente Pertini».

E ancora: «Non c’era alcuna liberazione di Agca, era un bluff per i giornalisti e per gli inquirenti, lui avrebbe dovuto ritirare le calunnie e lo ha fatto rovinando il processo. Noi abbiamo disseminato tutta la nostra storia di riferimenti a Fatima, il terzo segreto non rivelato. Quando Agca nell’86 va alla prima udienza lui si esprime dicendo che l’attentato al Papa è legato al terzo segreto di Fatima e parla della crocifissione, elemento portante del segreto che non fu rivelato negli anni ’80 ma soltanto nel 2000/01. Agca conosce questo elemento, come fa a saperlo? C’eravamo solo noi in quel momento che parlavamo di Fatima. Inoltre aggiunge che se dal Vaticano mi smentiscono io non parlerò più, nel senso che se si adoperano per me io ritratto. Ha cominciato a folleggiare e noi abbiamo ottenuto che lui ha rovinato il processo». Anche a Emanuela: «ti promettiamo ragazza 375mila lire…che cifra esagerata…ma non vedete che un anagramma della data di Fatima? 3 come 13, 5 come 5 maggio e 7 come 1917. Il codice 158, 5 del 1981…non se n’è accorto nessuno».

«La prosa esasperata dei comunicati era apposita per passare come mitomani. Cari signori della Repubblica italiana voi eravate la nostra cassa di risonanza, voi dovevate dire che noi sicuramente eravamo mitomani, che non c’entravamo niente. Io non sono mai stato un sosia di Benigni, era un travestimento come tanti perché in quel momento del 1999 nel caso io fossi stato individuato da un’indagine avrebbero dovuto dire: “Ma ti pare che un sosia di Benigni potesse…”, ma ti pare che “potevano chiedere la liberazione di Agca tramite il rapimento della Orlandi”, dovevate pensare che noi -così come i comunicati roboanti, con sintassi impropria, con termini arabeggianti-, lo Stato italiano, gli inquirenti, la stampa era fuori dai giochi, era una cosa interna, sotteranea, dovevate fare un grosso disturbo per stancare la nostra controparte…non prendi la ragazzina in cambio di Agca, ma perché non è per questo, ma perché la ragazzina poi devi far credere alla controparte che possa sapere qualcosa magari riguarda ad una certa basilica, ad una certa congregazione…non era vero nulla, era tutto finto. Era un bluff, nel bluff e nel bluff.»

Rispetto i telefonisti: «quelli che si conosco è perché sono stati intercettati, erano 8-10, altri chiamavano verso utenze telefoniche che però non erano controllate. Io potrei anche dire che sono l’Amerikano, non lo dico perché non facendo chiamate di correo non voglio escludendo una figura di telefonista lasciare poi scoperte le altre e permettere l’individuazione. Ero uno dei maggiori, erano due quelli maggiori, io ero quello che chiamava in pubblico. C’è un signore, un altro telefonista che chiama in televisione e cerca di spacciarsi per i telefonisti dell’epoca…forse in questo personaggio c’è l’autore delle famose lettere anonime che sono arrivate ultimamente».

«La nostra controparte erano alcune persone dell’ambiente dell’avvocato Ortolani, alcune persone del dott. Thomas Macioce che però poi si avvalevano della conoscenza di una persona del Sisde che diede corpo al “Phoenix”, lo sapevamo già allora. Ci minacciò di dar corpo di una violenza in questa pineta. Io mi sono presentato massimamente per il fatto della pineta perché io ho avuto un’accusa mostruosa, il fatto di essere stato assolto non mi ha affatto acquietato e in trent’anni ho sempre pensato “un giorno racconterò”. All’epoca non ho raccontato la verità perché dovevo coprire certe realtà di quella pineta. Vorrei portare le indagini su chi ha condotto questo ragazzo in quella pineta in quanto il mio sospetto è che qualcuno all’interno del Sisde forse è a conoscenza, non che siano stati loro». Quelli di Phoenix «non volevano che ci rivolgessimo al Quirinale, stavamo mettendo sotto pressione oltre al Ministero di Grazia e Giustizia alcune persone del Quirinale, sopratutto della nunziatura di una certa persona che era mons. Calamoneri [Assistente della Nunziatura Apostolica in Italia, nda], in particolare modo…quindi crearono questo scherno per minacciarci, per confonderci, tra cui la famosa minaccia della pineta».

«Ho già fornito i riscontri, quali erano le cabine e cosa ci si diceva in telefonate non pubblicate. Essi dichiarano che io ero nell’azione, non posso pretendere che si creda ai miei “perché” che possono essere una mia interpretazione..se non si fanno avanti altri testimoni che confermano il racconto, ho fatto un appello rovinato dalla televisione di stato. Forse mi ritroverò da solo davanti ad una Corte d’Assise, sarà evidente che io c’ero ma il perché andrà perduto. Se fossi un assassino non mi sarei mai presentato, riconosco l’illegittimità e l’illegalità di tutto quello che abbiamo prodotto, che doveva durare appena 24 ore. Si è rovinato tutto perché la prima notte non c’era la denuncia, ci voleva quel pezzo di carta per produrlo in copia per Alì Agca, poi perché arrivarono domani delle voci che la Commissione bilaterale voluta dalla segreteria insieme allo stato italiano per esaminare i fatti dell’Istituto per le Opere di Religione non riusciva ad arrivare ad una conclusione entro il 30 giugno, questo per loro fu molto sospetto per cui decisero di tenere Emanuela oltre il 30. Poi arrivò l’appello papale, poi arrivò il signor Agca che rilanciò, dopo averle ritrattate, le accuse nel cortile della questura. E allora si andava di settimana in settimana, io ero contrario da sempre perché non pensavo che quest’insieme di persone così giovani potesse mantenere il riserbo».

In molti hanno collegato la città francese di Neauphle-le-Château, dove Fassoni Accetti dice possa aver vissuto Emanuela, con il fatto che essa fu l’ultima città in cui compì il suo esilio l’ayatollah Khomeyni, prima di lasciarla nel 1978, cinque anni prima della scomparsa di Emanuela Orlandi, per raggiungere e poi governare l’Iran in rivolta contro lo shah Reza Pahlavi. All’epoca si disse che Emanuela era stata rapita per farne scambio con la libertà per Ağca, che al tempo affermava di avere eseguito l’attentato proprio su ordine di Khomeyni. MFA nel suo blog ha spiegato: «Ho sempre dichiarato che la Orlandi aveva risieduto in questa località solo per gli anni ’84-’85».

Marco Fassoni Accetti parla in procura di Mirella Gregori, secondo la ricostruzione di Peronaci il «nucleo di controspionaggio» circuì Mirella Gregori per «esercitare pressioni» sull’allora Gendarmeria vaticana, in particolare sul un funzionario che abitava nei pressi dell’abitazione della quindicenne, Raul Bonarelli, del tutto estraneo ma che tuttavia anni dopo fu indagato per reticenza e poi prosciolto. Il ricatto (basato sulla minaccia di far balenare un coinvolgimento nel sequestro) avrebbe avuto anche ulteriori e più alti bersagli: ambienti dell’anticamera papale, monsignori polacchi e i vertici dello Ior allora guidato da Paul Marcinkus. Per attuare il «rapimento dimostrativo», Mirella sarebbe stata indotta ad allontanarsi dopo che gli organizzatori del piano le fecero incontrare «un ragazzo biondo, bellissimo», di nazionalità svizzera, cantone tedesco, che parlava poco l’italiano e la stessa quindicenne avrebbe conosciuto l’estate prima, in villeggiatura. «Si innamorò di lui e per questo non abbiamo avuto bisogno di nessuna costrizione. Hanno vissuto insieme a Roma, in affitto, zona corso Italia, fino a tutto il 1983, e poi sono andati all’estero», sostiene il superteste indagato, il quale ha riferito anche di un successivo breve incontro, dieci anni dopo, di Mirella («che si faceva chiamare Rosy») con sua madre a Roma. Prima del presunto «innamoramento», per tranquillizzarla, i sequestratori avrebbero detto alla Gregori che la sua scomparsa era «necessaria», e condivisa in famiglia, per fare pressioni sui creditori, forse usurai, che avevano prestato soldi a suo padre per la ristrutturazione del bar appena terminata.

Secondo “Il Corriere”, giorni fa, nel massimo riserbo, i magistrati avrebbero interrogato Sonia De Vito, che quel 7 maggio fu vista con Mirella in un bar vicino casa, dove si intrattennero per almeno un quarto d’ora nella toilette. L’ipotesi è che Mirella in quel frangente si sia cambiata i vestiti, per impedire che la madre, descrivendoli, mettesse gli investigatori sulle sue tracce, e che abbia lasciato quelli smessi nel bagno pubblico, o li abbia consegnati a qualcuno. Quattro mesi dopo, nel settembre 1983, i sequestratori telefonarono al bar del padre e descrissero minuziosamente gli indumenti della ragazza, compresa la marca della biancheria intima.

 

29 giugno 2013
Marco Fassoni Accetti spiega alla Procura i motivi per cui Emanuela non tornò dalla famiglia e cioè a causa di fatti «non preventivati» che fecero «precipitare la situazione». Emanuela «doveva tornare a casa in 24 ore», ma ciò fu impedito «prima perché il 23 giugno non avevamo in mano la denuncia di scomparsa da produrre in fotocopia ad Agca». E questo trova riscontro: la famiglia fu invitata a non sporgere subito denuncia al Collegio romano, nella speranza di una «scappatella». In un secondo momento, 24-25 giugno, «perché ci arrivò voce che la commissione bilaterale tra Stato vaticano e italiano per esaminare la situazione dello Ior, fissata al 30 giugno, non sarebbe arrivata a un accordo». «E’ bene tenerle», sarebbe stato l’ordine impartito da non meglio precisati ambienti agli esecutori dei sequestri.

 

24 giugno 2013
Marco Fassoni Accetti ha replicato a chi lo accusa di “mania di protagonismo” spiegando che esso «confligge con il fatto che, pur vivendo in un sistema mediatico che offre innumerevoli occasioni di apparire, io non sono mai “apparso” se non in alcuni fatti del lontano 1999, nonostante abbia avuto negli anni innumerevoli inviti a comparire in varie trasmissioni della Rai e di Mediaset. E tutto questo è documentato».

Ha inoltre criticato il comportamento del sito “Affaritaliani”: «Avevo precedentemente dichiarato presso l’emittente “Roma Uno” che insieme a me collaborò, nel 1983, una semplice fiancheggiatrice della Staatssicherheit (Stasi). Non vi erano altre connessioni con servizi d’informazione di alcun paese. E ritrovo a riassunto di questa mia dichiarazione, nel sito “Affaritaliani”, che io avrei raccontato che la ragazza non era una fiancheggiatrice ma “una bionda 007 dell’est, agente della Stasi, di nome Ulrike, la quale rapì la Orlandi”. L’aspetto grave è che vari siti hanno ripreso tale articolo con commenti derisori, dimostrando l’acriticità e la distrazione perpetrata e perpetuata, da quanti in questi siti dichiarano di cercare la verità».

 

21 giugno 2013
Il procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Capaldo, partecipando a un incontro nella terza edizione del Festival Trame a Lamezia, afferma: «Emanuela Orlandi è morta, ma il caso della sua scomparsa potrebbe risolversi. Finora ci sono state molte false piste e molti depistaggi. La verità sulla fine di Emanuela non si è trovata per molto tempo perché troppi temevano che dietro questa storia si nascondesse una verità scomoda».

Ha in seguito chiarito la sua posizione: «Che Emanuela Orlandi sia morta è evidente. Che altro si può pensare di una persona scomparsa che non s’è fatta mai viva con nessuno per ben 30 anni di fila? Se un magistrato pensasse che una sua inchiesta non porterà a nulla eviterebbe di proseguirla. Direi che l’ottimismo è d’obbligo in qualunque caso giudiziario affrontato con serietà. E poiché l’inchiesta da me coordinata è stata affrontata e condotta con serietà penso che si potrà arrivare a chiarire perché Emanuela Orlandi è scomparsa. Ovviamente non rispondo di ciò che a quanto pare viene detto con frequenza eccessiva riguardo “nuovi scenari” e ”soluzione imminente”. Tutto lascia pensare che troppe persone temevano che dietro questa storia si nascondesse una verità scomoda. Non necessariamente per l’ambiente clericale». Rispetto a Marco Fassoni Accetti: «Delle indagini in corso non posso ovviamente parlare. Certo, nel caso si appurasse che questo testimone volontario non la racconti giusta sarà utile capire perché è entrato in scena. Se di propria iniziativa o su stimolo di qualcuno. E il perché e il tipo di un tale eventuale stimolo. Alle verità si può arrivare anche capendo i perché degli eventuali depistaggi. Insomma, i vari “cui prodest?”».

 

20 giugno 2013
Pietro Orlandi ha spiegato: «Marco Fassoni Accetti, il supertestimone-indagato che ha fatto ritrovare il presunto flauto di Emanuela aveva come suo confessore all’istituto romano San Giuseppe De Merode l’attuale vice Camerlengo di Santa Romana Chiesa, l’arcivescovo Pier Luigi Celata che all’epoca della scomparsa di mia sorella era il segretario del premier vaticano Agostino Casaroli e come tale riceveva le telefonate sulla linea codificata 158».

Ha quindi affermato: «Chiediamo a papa Francesco di unirsi al nostro momento di preghiera in piazza San Pietro e di consegnare alla magistrature le bobine delle trattativa tra la Santa Sede e i rapitori: siamo sicuri che contengano il ricatto al Vaticano».

 

19 giugno 2013
Alla trasmissione “Metropolis” partecipano Ilario Martella, presidente aggiunto onorario della Corte di Casssazione e colui che ha indagato sull’attentato a Giovanni Paolo II, Fabrizio Peronaci e un collegamento telefonico con Marco Fassoni Accetti. Quest’ultimo spiega di essere stato «il maggior telefonista», dunque inequivocabilmente l’Amerikano e sottolinea al giudice che il 25 giugno 1983, giorno della sparizione di Emanuela, su “Il Tempo” appare una lettera di Alì Agca al Vaticano, risalente il 24 settembre 1982. Secondo Fassoni Accetti è un messaggio ad Agca, il quale tre giorni dopo (28/6/83), cambierà per la prima volta versione.

Rispetto al rapimento Orlandi spiega: «era un sequestro ma fatto con l’inganno, facendole credere che il padre era sotto ricatto per certi comportamenti per i quali era assolutamente estraneo ed innocente, aveva indirettamente potuto collaborare con i fatti dell’attentato». Rispetto all’incontro tra la madre della Gregori e Mirella sarebbe stato all’inizio dell’inverno del 1993, «c’era un motivo gravissimo per cui le abbiamo fatte incontrare: la signora Gregori, a nostro avviso, non aveva realmente vissuto il fatto del sovrastante Bonarelli per il fatto che costui non si accompagnava tanto tempo presso le sedie di quel bar, c’era qualcosa che ci insospettì molto come se qualcuno potesse averglielo riferito. Quindi stava portando molto pericolosamente l’attenzione sull’ex Gendarmeria che era estranea, ma alcune persone alcune persone erano a conoscenza e per timore o chissà per cos’altro potevano cedere di fronte ad un evento del genere, per cui si cercò questo incontro che all’inizio doveva essere soltanto con l’esibizione di materiale fotografico che però poi la signora poteva anche non riconoscere. Fu impervio, difficilissimo: la signora fu avvicinata da una ragazza, pensava ad una truffa per anziani, noi pensavamo potesse finire tutto quel giorno…ed invece accadde. Ed era soltanto perché la signora doveva assumere certi comportamenti, il fatto che poi non lo racconterà in seguito come dice la figlia, io lo interpreto come un voler proteggere la figlia. Mirella le raccontò che non era esistito nessun sequestro o di possibili mitomani, che la sua era stata una fuga d’amore, la madre avrebbe dovuto perdonare. La madre non le aveva creduto e quindi penso che abbia sospettato un possibile pericolo per lei e per questo motivo può aver taciuto».

Ha quindi detto di essersi pentito per quelle azioni, non le rifarebbe ma non furono cruente, «noi avevamo come 16 ragazze, avremmo dovuto ucciderle tutte per tacitazione testimoniale. C’era una compagna di scuola della Gregori, c’era una amica della Gregori, c’era un’altra compagna del Convitto della Orlandi, c’erano altre due amiche». Si è presentato solo ora perché «io non voglio presentarmi in Corte d’Assise da solo, non faccio chiamate di correo ma ho fatto degli appelli che prima era inverosimile poter produrre in quanto avevamo l’ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, in cui poche..una o due persone ne facevano parte, prima ancora c’era Wojtyla. Ora con questo nuovo papato io potrei avere una piccola speranza che il mio appello possa essere accolto». Ed infine: «lo stato della Città del Vaticano è completamente estranea nei suoi vertici, nella sua politica, nella sua religiosità, erano pochissimi ecclesiastici che operavano come una sorta di camarilla per influenzare l’allora Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa. Nessun servizio segreto, di nessun Paese ma noi ci avvalevamo della partecipazione della Stasi di soli due membri in Roma che facevano una sorta di fiancheggiamento. Era una ragazza e un ecclesiastico, che non erano agenti ma all’epoca si diceva persone di “informalità”. Era un fiancheggiamento per respingere le calunnie, era sempre un fatto di controspionaggio per evitare che certi circoli occidentali, diciamo, potessero forviare le attività ecclesiastiche allora si faceva quel minimo intervento».

Alle accuse di Martella di non portare riscontri, MFA spiega che portarono Emanuela a Villa Lante per far credere che a scegliere il posto fosse stata Claire Sterling (giornalista americana, anticomunista che accusava dell’attentato al Papa i servizi segreti bulgari per conto dell’Unione Sovietica), «che abitava proprio accanto a Villa Lante», per far credere che facesse parte di questo sequestro. «Quando sc1egliemmo la chiesa di Santa Francesca Romana nel 1983, chiedo scusa al giudice Martella io ero contrario a questa minaccia nei suoi confronti, si chieda il giudice se il nome Francesca Romana se può essere riconducibile alla sua persona o qualcuno vicino a lei». Il giudice replica: «Lei è veramente bravo, un bravo mistificatore, il nome a cui fa riferimento semmai doveva essere un altro». MFA chiude: «era un codice per ricordare un altro nome. Ci sono dei codici e in trent’anni voi non siete riusciti mai a comprendere nulla perché noi ci chiudevamo nei codici».

 

12 giugno 2013
Durante la trasmissione “Chi l’ha visto” la governante di casa Garramon, Martha, ha riconosciuto in Marco Fassoni Accetti un fotografo che un mese prima dell’incidente al piccolo José si sarebbe recato alla loro abitazione per consegnare delle foto dei bambini.

Dal suo blog MFA ha replicato: «Non mi sono mai assolutamente recato presso l’abitazione della famiglia Garramòn e mi sembra sorprendente il fatto che la domestica della suddetta famiglia racconti come nel ’83, un mese prima dell’incidente un qualcuno abbia bussato alla loro abitazione qualificandosi come fotografo che avrebbe dovuto consegnare delle foto dei bambini. E la stessa domestica non si sia allarmata che questi potesse essere un malintenzionato e non ne avesse fatto menzione ai propri datori di lavoro, non nel giorno stesso né nei giorni susseguenti l’incidente e durante le indagini, tenendo conto che fu interrogata sia dai carabinieri, sia dal giudice istruttore. Costei, sulla sola informazione che io sia un fotografo, riesce a ricostruire dopo trent’anni sia il presunto episodio dell’uomo che si qualifica come fotografo e addirittura il volto».

 

17 maggio 2013
Il giornalista Pino Nicotri ha sottolineato come la trasmissione “Chi l’ha visto” diffonda informazioni sbagliate su fatti importanti riguardanti Emanuela Orlandi, nonostante abbiano dimostrato di conoscere i fatti come realmente si svolsero.

 

06 giugno 2013
Marco Fassoni Accetti risponde e chiarisce, sul suo blog, diverse accuse mossegli dal programma “Chi l’ha visto?” : «Quando inizialmente mi recai in Procura il 27 marzo 2013 dichiarai che mi presentavo principalmente per chiarire il fatto dell’investimento occorsomi nella pineta di Castel Porziano. Avevo patito all’epoca ingiuste ed abominevoli accuse e la conseguente assoluzione non mi aveva affatto acquietato e volevo chiudere moralmente quel caso, che all’epoca non potevo delucidare pienamente in quanto avrei dovuto motivare la mia presenza in quell’area. Ed ora, per farlo, dovevo necessariamente mettere il suddetto fatto in rapporto alle scomparse Orlandi – Gregori, rivelarne la consustanzialità. Auspicavo, attraverso un appello rivolto a certi ecclesiastici ormai in pensione, il loro presentarsi e contribuire con la testimonianza, coscienti che non si trattò di fatti ferali. Era l’appropriato momento storico, con l’elezione di un Pontefice non curiale, per sperare che in certi contesti venissero meno certe difese. Tutto questo risulta essere nel primo verbale firmato presso il giudice G. Capaldo. In seguito, per dar vigore all’appello, necessitavo d’un momento mediatico quale il ritrovamento del flauto, ed alla redazione della trasmissione di Rai 3 spiegai minuziosamente quanto raccontato in Procura e sopra esposto. Per tutta risposta questi autori hanno omesso il dire che la mia prima intenzione fosse quella di riaprire il caso della pineta e all’interno della puntata, ingannando i telespettatori, hanno fatto credere che, indagando sui miei trascorsi, fossero stati loro ad aver “scoperto” la vicenda dell’investimento».

MFA avanza dei sospetti per spiegare questo comportamento della trasmissione: «La redazione di questa trasmissione ha un rapporto di collaborazione con le forze dell’ordine, per ottenere informazioni e quant’altro sui casi trattati. Ed io, apportando nuovi elementi, chiedevo d’indagare su chi potesse aver vergato il comunicato del Phoenix– Sisde, che indicava in una pineta il luogo dove si sarebbe manifestata la loro esecuzione nei confronti della nostra parte. Ritengo verosimile la possibilità che nella redazione abbiano ricevuto un “consiglio” da parte di una qualunque autorità ad investire un solo singolo di tutte le responsabilità del caso Orlandi – Gregori, recidendo ogni legame con lo Stato e non ledendo l’onorabilità dell’allora Servizio d’Informazioni della Sicurezza Democratica (Sisde). Ed ecco quindi le inverosimili coperture: “Costui ama apparire”, la mitomania, pedofilia, assassinio, “La sua credibilità è meno di zero”. Censurando quanto avevo loro dichiarato e non considerando quanto potevo aver detto agli inquirenti».

Fassoni Accetti cita anche degli elementi di sospetto coinvolgimento di persone in rapporto con Sisde: «1) Josè Garramòn era figlio di un “diplomatico” della Fao. Diplomatico come nella promessa fatta a Mehemet Alì Agca di liberarlo con il sequestro di un diplomatico. 2) Garramòn era uruguyano, nazione feudo dell’avvocato Umberto Ortolani, i cui uomini erano la parte a noi opposta (l’avvocato aveva in Grottaferrata una villa. A futura spiegazione) 3) Abitava in viale dell’Aeronautica all’Eur, nei pressi dell’abitazione del signor Enrico de Pedis. 4) Josè Garramòn frequentava il mio stesso collegio St. George School, sito sulla via Cassia, dove io feci le scuole elementari. 5) L’incidente s’è verificato vicino alla villa del giudice Santiapichi, presidente del primo processo ad Agca per l’attentato al Papa ed in predicato per essere il presidente della Corte d’Assise del secondo processo per l’attentato al Pontefice. 6) Esattamente un mese prima, alla fine di novembre (e questo è agli atti) io ed una ragazza, mia coetanea e collaboratrice, fermammo in corso Vittorio Emanuele un dodicenne che avremmo dovuto coinvolgere in una sua presunta testimonianza contro un membro della curia. La stessa età di Josè Garramòn. 7) In quella medesima pineta, precedentemente si erano verificati degli episodi che al momento non posso rivelare in quanto coperti da riserbo istruttorio (episodi che la stessa Sabrina Minardi rievoca pur trasfigurandoli)».

Si discolpa del rapimento di José Garramon sospettato dalla trasmissione televisiva: «sono io a raccontare, la notte dell’arresto, ai carabinieri, di aver incrociato la strada percorsa dal ragazzo il quale era avviato verso la propria abitazione». Inoltre ha spiegato varie motivazioni per cui era poco opportuno un tale rapimento, anche perché è stato accertato che il furgone viaggiava a 60km/h quando lo ha investito e il corpo del bambino è stato ritrovato sul ciglio della strada («che in qualche modo stava per traversare» si legge nella sentenza), tutti elementi poco concordanti con la tesi che l’investitore fosse stato anche il rapitore. Anche perché «non sono state rilevate impronte digitali del ragazzo all’interno del furgone. All’interno del quale non ero solo, ma in compagnia di una ragazza. Tra l’altro, in quei tempi, ero sempre accompagnato da ragazze per motivi di copertura». «Io non ho mai dichiarato che qualcuno potesse aver spinto il ragazzo sotto le mie ruote», ha spiegato. «Questo lo trovo alquanto improbabile. Ho chiesto solo d’indagare sulla sua presenza più che sospetta in quella pineta».

MFA ha anche risposto alle accuse di aver fotografato “una ragazza morta dentro una bara” come si vede nel suo sito web e ha anche toccato l’accusa di pedofilia ricevuta, pubblicando un estratto della sentenza di Corte d’Assise che la smentisce. Gli adolescenti che ha contattato per fotografare «avevano sempre al loro seguito le famiglie che avrebbero poi dovuto firmare la liberatoria necessaria per la pubblicazione dell’opera stessa».

Essendo emerso che Fassoni Accetti è stato sosia di Roberto Benigni, ha voluto chiarire anche questo aspetto: «Nel 1998 e 1999 ricevetti minacce telefoniche di uno sconosciuto che pretendeva la restituzione di materiale fotografico che a suo dire lo avrebbe ritratto durante determinate azioni negli anni precedenti, e che sempre a suo dire io avrei seppellito nel 1986 in una certa località. Località nella quale veramente mi ero recato con uno dei due idealisti turchi, presenti nel processo per l’attentato al Papa. Credetti di riconoscere in quella voce telefonica una persona vicina agli ambienti di Monsignor Bruno della diocesi di New York. Era l’anno 1999 in cui il regista Roberto Benigni aveva vinto l’Oscar ed io in una di queste telefonate di minaccia risposi al telefonista di aver compreso la sua identità e dicendogli che mi sarei presentato nella trasmissione Rai “Domenica In”, dove presentandomi come sosia di Benigni mi sarei attribuito il suo nome, il nome di colui che mi stava minacciando, ma che in verità non conoscevo. Simulavo. Utilizzai invece il nome Alì (Agca, che spara) Estermann (il comandante delle Guardie Svizzere, che muore). Dopodiché mi recai in New York dove cercai di far pressioni nell’ambiente della suddetta diocesi e presso alcune conoscenze di Mons. Cheli, spacciandomi direttamente per l’attore in questione, affinché l’interesse della stampa locale ed italiana avrebbe ancor più accentuato le stesse pressioni. Non sono mai stato un “sosia” di Benigni, era un travestimento. Una iperbole come anche chiedere la liberazione di Agca in cambio della Orlandi, il fermare la stessa davanti al Senato, l’aver usato Mario Appignani – alias Cavallo Pazzo, e le sovrastrutture “gotiche” ed i riferimenti al terzo segreto di Fatima inseriti nei codici e nei comunicati. Per comprendere quest’uso inconsueto e spregiudicato di creare tali coperture bisognerebbe, credo, superare la limitatezza di un certo provincialismo che caratterizza noi italiani. Adoperando non solo l’iconografia, ma anche l’iconologia, la scienza che studia l’interpretazione dei segni e del loro inserimento in un contesto. Vi furono comunque, per necessità d’azione, anche travestimenti come da sacerdote, agente di Pubblica Sicurezza ed altro».

Ha poi accennato ad un telefonista anonimo mandato più volte in onda da “Chi l’ha visto?”, «che già da alcuni anni contatta la loro redazione. Costui cerca d’imitare il mio modo di parlare quando all’epoca eseguivo le telefonate. Credo di riconoscere nella sua voce la stessa persona che mi minacciò nel ’98. Forse un tentativo di arrecare disturbo al mio l’appello nei confronti dei sodali del tempo. Forse è sempre lui ad aver scritto le due lettere anonime che minacciavano le ragazze testimoni, lettere che riconducono ai codici da noi adottati negli anni ‘80 ed al mio stilema fotografico».

 

29 maggio 2013
Durante la trasmissione “Chi l’ha visto” si prosegue a suggerire il coinvolgimento di Marco Fassoni Accetti nel rapimento del piccolo José Garramon. Si informa anche che nell’interrogatorio alla moglie di Fassoni Accetti, dopo il 20 dicembre 1983, si scopre che la donna è stata a Boston (USA) presso l’abitazione del fratello, dal 2 agosto al 10 novembre 1983, ininterrottamente. Effettivamente l’8 maggio 2013 Fassoni Accetti ha rivendicato la paternità delle missive spedite da Boston nel settembre-ottobre 1983. Marco Accetti ha precisato in Procura che nell’estate di trent’anni fa una «ragazza», militante come lui nel «nucleo di controspionaggio» avrebbe sequestrato la Orlandi, e si trasferì a Boston «nell’ambito della stessa operazione». La «moglie» e la «ragazza» erano quindi la stessa persona? «Sì», risponde senza esitazioni al Corriere della Sera il supertestimone indagato.

Il 31/05/13 la collaboratrice di Marco Fassoni Accetti, Dany Astro, diffonde un comunicato nel quale scrive: «Nessuna lettera firmata Phoenix è stata mai spedita da Boston. Si tratta di lettere che sono state scritte da una ragazza a Roma e spedite da un’altra ancora da Boston. Marco, che non fa mai chiamate di correità, non ha mai dichiarato a nessuno che si trattasse dell’allora sua moglie diciottenne. Inoltre, lui personalmente non ha mai dichiarato che lei si trovasse in quel periodo a Boston. A farlo è stata la sua ex consorte quando è stata interrogata per i fatti della pineta, e questo figura nei verbali». Lo stesso Marco Accetti precisa: «Le lettere firmate Phoenix le scriveva una ragazza sotto dettatura in Roma, e un’altra le spediva da Boston. Delle due ragazze non ho mai fornito le generalità e a loro mi appello affinché si presentino per fare testimonianza e chiarezza. Il cosiddetto Phoenix non scrisse alcuna missiva da Boston e comunque non eravamo noi».

Durante la trasmissione si informa anche che un telefonista anonimo ha chiamato la redazione del programma televisivo, dice questo: «Non sono né uno sciacallo né un mitomane. Sono il telefonista del 2008 nonché del 1983…settembre. About Mirella Gregori….Vorrei che comunicaste quanto segue alla signora Maria Antonietta..che presto andrò a trovarla personalmente al bar (…) per riferirle quanto so sullo sparimento…sulla sparizione, padron…di sua sorella. Distinti saluti». L’uomo è lo stesso che ha chiamato la trasmissione il 04/05/11 e non il 2008, come ha invece detto. Marco Fassoni Accetti ha commentato il 6 giugno 2013: «Durante le trasmissioni hanno sovente mandato in onda la voce di un telefonista anonimo che già da alcuni anni contatta la loro redazione. Costui cerca d’imitare il mio modo di parlare quando all’epoca eseguivo le telefonate. E la redazione stessa allude al pubblico che questi sarei io. Credo di riconoscere nella sua voce la stessa persona che mi minacciò nel ’98. Forse un tentativo di arrecare disturbo al mio l’appello nei confronti dei sodali del tempo. Forse è sempre lui ad aver scritto le due lettere anonime che minacciavano le ragazze testimoni, lettere che riconducono ai codici da noi adottati negli anni ‘80 ed al mio stilema fotografico»

 

28 maggio 2013
Marco Fassoni Accetti scrive a Pino Nicotri: «Sono ben tre puntate che la nota trasmissione Rai manda in onda il suo filmato di ricostruzione, che mostra come il bambino dell’incidente della pineta stia correndo fuggendo innanzi al furgone che lo insegue. Le invio l’estratto della sentenza di Corte d’Assise che descrive come contrariamente il bambino “in qualche modo stava per traversare”. Tenendo conto che la redazione di detta trasmissione possiede la sentenza appena citata, se ne deduce che tale filmato di ricostruzione è una falsificazione. Una contraffazione per farmi apparire un assassino solitario e far venir meno i legami che la vicenda Orlandi – Gregori possono aver avuto con lo Stato. Con questo e molti altri elementi da me già prodotti la trasmissione in questione dovrà pagare in causa civile i denari dei contribuenti italiani. Inoltre continuano a mandare in onda la dichiarazione della madre del bambino che racconta di un dottore che le avrebbe comunicato che lo stesso morì sull’autoambulanza, mentre i verbali raccontano che l’equipaggio medico non aveva alcuno strumento per constatare la condizione in vita o in morte dell’investito quando questi giaceva sul ciglio della strada. Questa trasmissione, mentendo manca di rispetto verso la ricerca di ogni verità e verso il suo stesso pubblico». Effettivamente la sentenza esclude l’investimento volontario, la morte di Josè per mancato soccorso da parte dell’investitore e, infine, la pratica della pedofilia da parte di MFA.

A palazzo di giustizia, si informa nell’articolo, ha suscitato un po’ di sorpresa il fatto che l’avvocato Maria Calisse, legale di MFA è lo stesso che hanno avuto sia la “supertestimone” Sabrina Minardi e della giornalista di “Chi l’ha visto?”, Raffaella Notariale, per la querela intentatale dai familiari di De Pedis.

 

23 maggio 2013
Gli esperti della scientifica hanno accertato la presenza di oltre 40 reperti biologici sul flauto fatto ritrovare da Marco Accetti, ma le loro dimensioni, ed il livello di logorio, non consentono una comparazione con il dna di Emanuela. Devono essere conclusi quelli sul rilevamento di impronte digitali.

 

22 maggio 2013
Durante la trasmissione televisiva “Chi l’ha visto” si confrontano i percorsi realizzati da Marco Fassoni Accetti e il piccolo Josè Garramon la sera del 20 dicembre 1983, quando il primo investì e uccise il secondo. Secondo la trasmissione ci fu un momento in cui entrambi si incrociarono nello stesso punto in zona Eur alle ore 19 mentre Josè tornava a casa, suggerendo che l’uomo è anche il rapitore del ragazzo oltre che il suo involontario (secondo la sentenza) assassino. Si ipotizza anche che Fassoni Accetti sia l’Americano.

Sul sito web Notte criminale appare un’intervista a Marco Accetti il quale spiega: «Mi sono presentato in questo momento storico dinnanzi ai magistrati poiché con un nuovo pontefice non curiale potrebbe esserci la possibilità che alcuni personaggi ecclesiastici possano avere meno resistenze nel presentarsi alla Procura mettendola al corrente di fatti che non erano assolutamente cruenti come contrariamente si narra. Ho fatto rinvenire il flauto per avere un momento mediatico nel quale evidenziare l’appello. La motivazione della mia richiesta era quella di avere chiarimenti in merito all’incidente del 1983 nel quale fui condannato per omicidio colposo. All’epoca non potevo chiarire, in quanto avrei dovuto mettere l’ episodio in relazione ad altri eventi, tra cui il caso Orlandi – Gregori. Quella pineta era un’area nella quale avevamo delle intenzioni nei confronti del giudice Santiapichi, doveva diventare presidente del processo d’appello ad Antonov, ma questo avrebbe consolidato le calunnie di Agca ai Bulgari, noi invece volevamo che il Turco ritrattasse per salvare gli equilibri politici tra est e ovest. Il nostro obiettivo era Arianna, la figlia del magistrato». Alì Agca, prima del 20 dicembre 1983, «ricevette un messaggio nel quale si parlava del sequestro del figlio di un diplomatico. Vicino alla casa di Garramon – all’eur, in via Vittorini – abitava De Pedis». Parla poi dell’incidente nella pineta di Castel Porziano: «Due mesi prima il servizio per le informazioni della sicurezza democratica (Sisde) occultato in un gruppo denonimato Phoenix ci indirizzò un comunicato le cui minacce si sarebbero dovute verificare in una “pineta”. Per una minaccia di morte si possono immaginare luoghi meno peregrini che non l’uso di una pineta, (ad esempio in una colata di cemento, “suicidio” in casa). Ma una pineta è un riferimento troppo specifico. Ecco un altro indizio: quel ragazzino abitava vicino alla casa di Enrico de Pedis all’eur. Era figlio di un diplomatico. Ecco un diplomatico. Proprio così come nella promessa iniziale fatta ad Ali Agca della possibilità di liberarlo con il sequestro di un diplomatico, per l’appunto. Jose G. frequentava le scuole medie nello stesso collegio sulla Cassia che tra l’altro frequentai anche io. In particolar modo il ragazzino aveva la stessa età di un altro minorenne, Stefano G., fermato in Corso Vittorio Emanuele II, a fine novembre, esattamente un mese prima, con l’intenzione di fabbricarne una finta testimonianza di adescamento sessuale nei confronti di un ecclesiastico a noi avverso. Io mi trovai ad investire questo ragazzo, ma non ho mai potuto spiegare la presenza dello stesso in questa pineta tenendo conto che l’indomani era anche un giorno particolare: l’uscita dal carcere di Serghei Antonov, per recarsi ai domiciliari. Non poteva trattarsi di un mio omicidio volontario perché per la giuria della Corte d’assise non vi era alcuna possibilità tecnica che rimandava all’ipotesi della volontarietà. Le perizie stabilirono che il furgone correva alla velocità di 70 km orari, una velocità eccessiva per rincorrere qualcuno. E non furono riscontrate impronte del bimbo e ne altro». Rispetto alle ipotesi di Chi l’ha visto nei suoi confronti spiega: «Non contattavo per il mio lavoro solo ed esclusivamente gli adolescenti, ma donne, uomini e anziani. Le mie opere sono visibili nel sito. E tutti i minorenni avevano un’autorizzazione dai propri genitori che tra l’altro erano presenti nell’esercizio delle mie funzioni. Possiedo le agende con i numeri di telefono che cominciano dagli anni’ 70 e ho anche tutte le liberatorie. Mi sono rivolto alla trasmissione televisiva per riportare all’attenzione della Procura il caso del piccolo Josè G. Ho chiesto al giudice Capaldo di indagare su chi mai avesse redatto e ideato quel comunicato del Sisde. E tutto questo venne riferito da me alla redazione della nota trasmissione televisiva. Ma i filmati sono stati censurati e non portati a conoscenza del pubblico. La trasmissione si limitò nel parlare esclusivamente dei primi sospetti concernenti la prima fase istruttoria anziché delle conclusioni scaturite dal dibattemento”».

 

19 maggio 2013
Rita di Giovacchino intervista Marco Fassoni Accetti, il quale afferma: «Sono stato in carcere 2 anni e bollato da accuse infamanti. Fu un incidente stradale, l’auto procedeva a 70 km orari, l’ipotesi dell’inseguimento ventilato da una trasmissione televisiva è insensata. Non so perché il ragazzino si trovasse lì, so perché mi ci trovavo io. Voglio parlare del capitolo Pineta, è la chiave di tutto. Noi cercavamo di dare una mano a un piccolo gruppo di prelati che cercava di opporsi alle iniziative di Wojtyla. Lì vicino c’era la casa del giudice Santiapichi, doveva diventare presidente del processo d’appello ad Antonov, ma questo avrebbe consolidato le calunnie di Agca ai Bulgari, noi invece volevamo che il Turco ritrattasse per salvare gli equilibri politici tra est e ovest. Il nostro obiettivo era Arianna, la figlia del magistrato». E ancora: «Non parliamo di Vaticano, facevo controspionaggio per conto di un piccolo nucleo di preti e monsignori, l’ala progressista che cercava di ostacolare la politica dello Ior. Ero legato a monsignor Pierluigi Celata, direttore dell’istituto San Giuseppe, che si trova a piazza di Spagna, che frequentavo. Era il mio direttore spirituale. La scuola è vicina all’ingresso delle Sorelle Fontana. Quando si scrive Sorelle Fontana, si deve leggere Celata, quando si parla di Sala Borromini, si indica Francesco Pazienza che abitava alle spalle della Chiesa nuova dove incontrava i suoi amici della Magliana. I codici sono importanti nelle operazioni camuffate. Tra l’Istituto San Giuseppe e le Sorelle Fontana c’era il tabernacolo dove il 5 ottobre è stato deposto un messaggio accompagnato da due proiettili calibro 357 magnum. Se aggiunge due volte 1 vien fuori la data dell’apparizione della Madonna di Fatima 13 maggio 1915, lo stesso gioco va fatto con la cifra indicata a Emanuela: 375 mila lire. Un messaggio all’éntourage polacco. Perchè uno come De Pedis si mette in bella vista davanti al Senato, parcheggia di traverso una Bmw? Ecco, vedete, sono io, la Banda della Magliana, vogliamo i nostri soldi. C’era ben altro. Come si chiamava Celata? Pierluigi. Che Celata facesse pressioni su Pazienza perché agisse su Marcinkus non sono stato io a raccontarlo ma lui, molti anni dopo, nel suo libro “Il disubbediente”. Per essere un pedofilo mitomane non è che sapevo in anticipo un po’ troppe cose? Mettono la foto di Benigni, mi definiscono il “sosia”. Ah, ah, questo è l’uomo che sa tutto! Sono stato io a inventare il gioco». Ed infine torna sul piccolo José Garraomn: «Il giorno dopo ad Antonov sono stati concessi gli arresti domiciliari e Acga ha cominciato a ritrattare le accuse. Mettiamo in fila le date: il 20 dicembre 1983 vengo arrestato, il 21 Antonov esce, il 27 Wojtyla incontra Ali Acga in carcere. Prima che tutto ciò accadesse il Turco ricevette un messaggio in cui si parlava del sequestro del figlio di un diplomatico. Ma quello che mi colpì è il messaggio indirizzato a Pierluigi e Mario: “Finirete a far concime nella pineta”. Chi lo sapeva della pineta? Lo sa che De Pedis in quel periodo abitava all’Eur (via Vittorini ndr), a cento metri dalla casa dei Garramon?»

 

18 maggio 2013
Fabrizio Peronaci riporta sul Corriere della Sera alcune dichiarazioni di Marco Fassoni Accetti, secondo cui il «nucleo di controspionaggio» di cui avrebbe fatto parte -un «ganglio» formato da agenti segreti, malavita romana e prelati («officiali maggiori di seconda classe, consiglieri e uditori di nunziatura», precisa)- si occupò della «gestione» di Ali Agca: per trasformarlo in un volto noto alla sicurezza vaticana, tale da potersi avvicinare alla Papamobile senza destare sospetti, Agca (accreditato come «studente») viene invitato ad alcune udienze del pontefice nella primavera del 1981. Effettivamente si sa della presenza (con foto) di Agca nella chiesa di San Tommaso d’Aquino, a pochi passi da Wojtyla, il 10 maggio 1981. L’«impiego» del suo gruppo e i relativi contatti «di copertura» con il Lupo grigio erano finalizzati «a limitare le conseguenze dell’azione di piazza San Pietro a un gesto intimidatorio», magari solo qualche revolverata in aria ma senza uccidere il Pontefice. Secondo Fassoni Accetti il papà di Emanuela, Ercole Orlandi, messo della prefettura pontificia, si occupava proprio degli inviti alle udienze papali e quindi poteva essere ricattabile per l’«accesso non controllato» (a sua insaputa) del futuro attentatore. Per Mirella, invece, l’«aggancio» sarebbe nato dalla conoscenza con una «talpa» vaticana, mentre l’arma di pressione sarebbero stati i forti debiti contratti dal padre per la ristrutturazione del suo bar vicino la stazione Termini. Tra coloro che pedinarono i possibili «obiettivi» c’era «un idealista turco, il suo nome è agli atti, non è difficile identificarlo», giura il superteste. Un giovane straniero – moro, altezza media, tipici tratti mediorientali – effettivamente seguì per settimane, ogni mattina, la figlia dell’aiutante da camera di Giovanni Paolo II sul bus 64 che la portava a scuola, prima che i rapitori cambiassero bersaglio e puntassero Emanuela.

In seguito a questo articolo Fassoni Accetti scrive a Pino Nicotri: «Mi dispiace entrare in polemica con il giornalista Fabrizio Peronaci, una persona certamente onesta, ma che con questo suo ininterrotto ed inopportuno flusso di articoli rischia di disturbare l’attività degli inquirenti nonché minare la mia stessa attendibilità, generando nei lettori un possibile disorientamento. Peronaci ha assistito ad una mia lunga conversazione con Pietro Orlandi e della stessa riporta alcuni stralci, in modo riduttivo e a volte malamente. Io e i miei sodali dell’epoca non abbiamo mai organizzato alcun attentato al Pontefice, ma ne eravamo solo a conoscenza e ne sfruttammo limitatamente alcuni aspetti. Questo dichiarai nelle prime udienze con il Giudice Giancarlo Capaldo e questo risulta negli atti della sua istruttoria. Chiedo all’amico Peronaci di considerare la possibilità di astenersi dall’apportare nuovi elementi che in questo momento, non potendo lui approfondirli, non possono che generare confusione, nell’attesa che la procura faccia chiarezza su quanto e si pronunci».

 

17 maggio 2013
Pino Nicotri critica una recente intervista all’ex magistrato Ilario Martella, il quale da sempre sostiene la pista bulgara per l’attentato a Wojtyla e la pista dei Lupi Grigi turchi per il “rapimento” di Emanuela realizzato per barattarla con la liberazione di Agca. Ha anche citato il suo libro “Mistero Vaticano” in cui ha citato quel che emerse dall’inchiesta del giudice Rosario Priore sull’attività di depistaggio dei servizi segreti della Germania dell’Est. Gunther Bohnsack, ex colonnello della Stasi, aveva dichiariato a Priore che avevano realizzato una falsa lettera firmata dal leader politico tedesco occidentale, Joseph Strauss, e indirizzata al colonnello turco Arsaplan Turkesh (ideologo del “Lupi grigi”). Il tutto con lo scopo di coinvolgere la Repubblica Federale di Germania con l’attentato a Giovanni Paolo II. Nicotri ha telefonato a Boshnack il quale gli ha detto che loro erano gli autori dei comunicati firmati “Turkesh” durante il caso Orlandi: «A fabbricare quei komunicati era il mio ufficio. Ci divertivamo a scriverli in un italiano molto scorretto. Abbiamo fabbricato noi anche i comunicati firmati Phoenix e altri con firme che ora non ricordo. Cercavamo così di aiutare i bulgari assurdamente accusati per l’attentato di Agca».

In realtà questa citazione è contenuta nel suo secondo libro, nel suo libro Emanuela Orlandi: la verità, pag. 109, dove però non viene citata la sigla Phenix: «Si, li facevamo noi, insieme a colleghi dei servizi segreti bulgari che incontravamo qui a Berlino». Anche per le missive spedite da Boston? «Si, abbiamo usato varie firme anche se non ricordo l’elenco preciso. E poi più si parlava di America, comunicati dall’America e complici in America, meno si parlava della Bulgaria, no?» (telefonata del 3/7/02 citata in Emanuela Orlandi: la verità, pag. 109). In ogni caso rispetto a Phoenix è stato Pietro Orlandi a riferire che Giulio Gangi, ex agente del SISMI, gli ha riferito c’erano loro, cioè i servizi segreti italiani, dietro Phoenix. Tuttavia nei commenti sotto l’articolo Nicotri afferma: «Gangi NON ha mai detto ciò che gli viene stranamente attribuito. Anche perché, come ho ampiamente scritto, i comunicati Phoenix, Turkesh, ecc, erano fabbricati dal X Dipartimento della Stasi a Berlino Est, ufficio diretto dall’allora colonnello Guenter Bohnsack». Il 30 maggio 2013 Nicotri informa di aver consultato Gangi il quale gli ha risposto: «Mi sono limitato a dire “Boh, forse sono i nostri che cercano di muovere le acque” quando si seppe della prima lettera firmata Phoenix. Oltretutto, io al Sisde ero già stato allontanato dalle ricerche riguardanti Emanuela».

In un’intervista al “Corriere”, Fassoni Accetti svela cosa si celasse dietro al messaggio del novembre 1983 in cui si parlava di una “cittadina soppressa il 5-10-83”: «Nell’ambito delle pressioni da noi esercitate per la restituzione dei soldi del crack Ambrosiano, che avrebbe segnato la fine politica del presidente dello Ior Marcinkus, e che effettivamente si realizzò con gli accordi di Ginevra del maggio 1984, ci ispirammo a un incidente domestico in cui perse la vita una donna, Paola Diener. Lo scopo era intimidatorio». Effettivamente il 5 ottobre 1983 Paola Diener morì fulminata sotto la doccia.

 

15 maggio 2013
Sul Corriere della Sera si informa che i magistrati stanno procedendo a verificare la voce (timbro, estensione, intensità) di Fassoni Accetti paragonandola a quella dell'”Americano” e e di “Mario“, proprio lui infatti si è autoaccusato di aver avuto il doppio ruolo di «ideatore del rapimento e telefonista».

Durante la puntata di “Chi l’ha visto” viene intervistata la madre di José Garramon, il bambino investito e ucciso da Marco Fassoni Accetti alcuni mesi dopo la sparizione di Emanuela Orlandi. Secondo Accetti questo caso sarebbe una punizione nei suoi confronti (gli avrebbero buttato sotto le ruote questo bambino) per aver avuto a che fare con il sequestro di Emanuela. La madre dice anche che il medico dell’ambulanza che soccorse il bimbo la notte del 20/12/83 le disse che lo trovarono vivo e morì in ambulanza. Fassoni Accetti ha invece recentemente affermato che dopo l’impatto ne aveva constatato la morte.

 

14 maggio 2013
Marco Fassoni Accetti invia un’e-mail al giornalista Pino Nicotri dove scrive: «Il signor Pietro Orlandi ed io avevamo prodotto, in tempi e modalità diverse, un appello a membri della comunità ecclesiale affinché si presentassero alle autorità competenti per renderle edotte su fatti che riconducono alla cosiddetta scomparsa Gregori – Orlandi. Questa aura nera di presunta pedofilia, dolosamente creata, non può che inibire prevedibilmente i suddetti ecclesiastici a comparire. Domani, mercoledì 15 maggio i ratti della disinformazione e manipolazione continueranno forse la loro opera d’intimidazione nei confronti d’ogni eventuale testimone. Sono tre le date e le circostanze su cui potrebbero intervenire falsificando: estate 1979marzo 1982inverno 1996. Erano episodi attinenti alle attività per cui è processo istruttorio, assolutamente conosciuti dal Giudice Dott. Capaldo. Comunque sia, questo pseudo – servizio pubblico è stato già diffidato dal mio legale. Eventuali cause, penali e civili, li vedranno dover pagare i denari dei contribuenti italiani». Il supertestimone si rivolge con queste parole probabilmente al programma televisivo “Chi l’ha visto” e intende dire che vennero fatti appelli in tempi diversi ma non in comune con Pietro Orlandi. Non si capisce se i due si conoscessero già prima del momento in cui Fassoni Accetti ha deciso di comparire pubblicamente facendo ritrovare il presunto flauto di Emanuela

 

11 maggio 2013
Fabrizio Peronaci intervista il magistrato in pensione Ilario Martella, giudice istruttore dell’inchiesta sull’attentato a Giovanni Paolo II, il quale rilancia la pista internazionale: «Mi sono occupato della scomparsa delle ragazze [Emanuela e Mirella] nella fase iniziale. Ritengo si possa con certezza affermare che ambedue i delitti siano stati ideati da una ben ramificata organizzazione criminale, che più volte ha dato notizia di sé con messaggi e comunicati volti a richiedere in ogni sede (tra cui Vaticano e presidenza della Repubblica italiana) lo scambio della libertà di Emanuela con quella di Agca e talora dei suoi amici Bagci e Celebi. La prima domanda che feci ad Agca quando, nel 1982, manifestò l’intento di collaborare fu perché non avesse presentato appello alla condanna all’ergastolo. Mi rispose dicendosi certo che la sua organizzazione l’avrebbe fatto evadere con varie modalità, tra cui un sequestro di persona. Mi giunsero messaggi di intimidazione che minacciavano me e i miei familiari della stessa sorte di Emanuela. Chiusa l’istruttoria, a fine 1984, cessarono». Il giudice Martella spiega anche che secondo lui Ali Agca, «nonostante la sua torbida personalità, potrebbe riferire qualche notizia utile, ovviamente da sottoporre a rigorosissima verifica. Ritengo altresì verosimile che il fatto delittuoso sia stato eseguito su commissione, mentre le altre ipotesi prospettate, a sfondo sessuale o l’intreccio De Pedis-Marcinkus-Ior, mi appaiono prive di fondamento». Per quanto riguarda Fassoni Accetti dice invece: «Il solo fatto che questo personaggio affermi che la signora Gregori incontrò la figlia dieci anni dopo mi fa dubitare fortemente della sua credibilità». Invita infine a rivolgere un appello corale a Papa Francesco su quanto sanno le autorità vaticane

 

10 maggio 2013
Secondo altre rivelazioni fornite dal Corriere della Sera, Marco Fassoni Accetti si sente al centro di un «massacro mediatico» ai suoi danni. Smentisce le accuse che lo vogliono l’assassino di Emanuela e Mirella («Io sarei l’assassino di Emanuela Orlandi e fors’anche di Mirella Gregori? Ammettiamolo pure. E allora che faccio? Aspetto 30 anni, abbandono il lavoro di fotografo e regista, saluto le persone care e mi presento in tribunale per farmi comminare un ergastolo…?»). Minaccia anche di interrompere la collaborazione: «Avevo deciso di raccontare quel che so, compreso il mio ruolo, confidando nel nuovo pontefice e nella coscienza di altre persone che all’epoca parteciparono e che tuttora spero si facciano avanti… Invece vedo che molti partecipano a una manipolazione per non coinvolgere responsabilità ad altri livelli: l’ho già detto ai magistrati, sono tentato di non collaborare più». Avrebbe confessato di essere stato uno dei «cinque o sei telefonisti» e ha riferito di aver fatto parte dal 1979 all’83 di un «nucleo di controspionaggio» incaricato di «lavori sporchi» all’ombra del Vaticano, formato da giovani vicini ad ambienti ecclesiali («Io studiai al San Giuseppe De Merode, poi diventai comunista»), da elementi dei servizi (Stasi, deviazioni del Sisde) e da esponenti della Magliana. Obiettivo? Condizionare la politica di papa Wojtyla («per tutelare il dialogo con l’Est»), nonché intervenire con attività di dossieraggio («anche su impulso di personalità ecclesiastiche») nell’ambito di contrasti e guerre di potere all’interno delle Mura Leonine. Il sequestro di Emanuela e Mirella sarebbe servito per la liberazione di Alì Agca (il quale si sarebbe sdebitato ritrattando le accuse ai bulgari di complicità nell’attentato al papa) e sfruttare il clamore planetario della vicenda per mettere all’angolo monsignor Paul Marcinkus, il presidente dello Ior, sulla restituzione dei 400 milioni di dollari del crack Ambrosiano (poi avvenuta nel 1984, secondo Fassoni Accetti). Sembra che il supertestimone conosca bene quel che sta dietro alle telefonate fatte nei primi giorni alla famiglia Orlandi: il primo telefonista «disse di chiamarsi Pierluigi, e non fu un caso. Scegliemmo quel nome perché era lo stesso di un alto prelato, oggetto delle nostre attenzioni». Per quanto riguarda l’Amerikano, rivela: «Quella dell’Amerikano era una parodia di Macioce, un’imitazione». Thomas Macioce è stato presidente della Allied Stores Corporation di New York, nonché Supremo cavaliere di Colombo, la più grande organizzazione cattolica di beneficenza negli Stati Uniti. Consigliere d’amministrazione della banca vaticana nel 1989, quando si chiuse l’era Marcinku, morto però nel 1990 di leucemia.

Fassoni Accetti ricorda una lettera inviata da Boston il 15 ottobre 1983 che annunciava nuovi “prelevamenti” di ragazze, fissando il termine del maggio 1984: guarda caso proprio in quel mese a Ginevra, sostiene l’indagato, verrà siglato l’accordo Ior-Ambrosiano per la restituzione di 400 milioni di dollari, che avrebbe rappresentato l’obiettivo, vinto, della trattativa segreta”.

Pino Nicotri rivela di aver chiamato giorni fa Marco Fassoli Accetti domandandogli se lui era l’Americano come starebbe presupponendo il programma televisivo Chi l’ha visto, il supertestimone ha risposto: «Ma chi è che sostiene questa idiozia? Non ci posso credere! Io non ne so nulla, non ho mai detto né a loro né ai magistrati che io ero l’ Americano. E’ una balla bell’e buona».

Marco Fassoli Accetti invia una e-mail a Pietro Orlandi (con copia anche a Pino Nicotri) accusando esplicitamente la Rai e gli autori di “Chi l’ha visto” di depistaggio delle indagini: «Pietro, quel che ti avevo annunciato tempo fa si è verificato. La Rai significa lo Stato, e lo Stato suggerisce di non implicare responsabilità dello stesso e di altri Stati, ed indirizzare tutto ad un solo individuo, come già fatto con Enrico De Pedis». Replica alle accuse di pedofilia spiegando di non aver fotografato solo bambini, sempre con autorizzazione della famiglia, ma anche adulti. E ancora: «Avevo dichiarato nella prima udienza con il giudice Giancarlo Capaldo ed a Fiore De Rienzo (Chi l’ha visto) che la Orlandi aveva risieduto in Neauphle-le-Chateau solo per gli anni ’84 e ’85; e in trasmissione hanno fatto credere che vi fosse stata fino a poco tempo fa, organizzando una trasferta inutile a spese del contribuente. A tutto questo io rispondevo nella lunga intervista completamente censurata. Chiedete a Fiore de Rienzo, se mai lo desidera, di mostrarvi le interviste integrali. Chiarivo, come ho chiarito con il giudice Capaldo, mentre loro creano una cortina di confusione. Ancora una volta ho chiamato in diretta per delucidare e mi è stato negato l’intervento. E quel che è più grave è che le altre testate giornalistiche seguono pedissequamente, senza verificare, quel che dice questa trasmissione» (denunciata per calunnia aggravata la giornalista Rita Di Giovacchino). Informa anche di aver «sospeso la mia collaborazione coi magistrati. Innanzitutto perché questi gravi fatti di depistaggio possono aver intimidito le persone a cui mi ero appellato per presentarci insieme e raccontare. Si può pensare che delle donne sui 40-45 anni con figli si prestino ad entrare in una tale tensione mediatica che racconta solo di pedofilia e omicidi? Questi testimoni sono coscienti che non vi è stata alcuna pedofilia né tanto meno omicidi. L’episodio della pineta mi ha visto assolto con formula piena dall’accusa di volontarietà […] Ho chiesto alla Procura d’indagare su questa più che sospetta operazione di mistificazione operata dai signori autori del programma». Invita infine ad un incontro chiarificatore con la famiglia Orlandi, lui e i giornalisti interessati da pubblicare integralmente sul web.

 

09 maggio 2013
Nella puntata di “Chi l’ha visto” l’attenzione si rivolge a Marco Fassoni Accetti (qui la sua foto) anche perché gli viene fatta una breve intervista in cui parla dell’omicidio del piccolo José Garamon il 20 dicembre 1983 collegandolo con Emanuela (che è poi la motivazione per cui Fassoni Accetti ha deciso oggi di uscire allo scoperto, come ha spiegato): «All’epoca vi fu questo comunicato del Phoenix che noi sapevamo essere opera di alcuni, almeno, agenti del Sisde che parlava di una pineta come luogo in cui si sarebbe verificata una presunta punizione nei nostri confronti». Il messaggio è quello inviato il 19 settembre 1983 dagli USA e arrivato il 27 settembre 1983 in Italia, era rivolto minaccioso a Mario e Pierluigi, «che ci rappresentavano, erano una sorta di emblema questi due nomignoli» spiega Fassoni Accetti. «Inoltre vi era la vicinanza a poche decine di metri della villa del magistrato dott. Santiapichi che noi sapevamo essere impredicato per lo meno a prendere la presidenza del prossimo processo a Sergej Antonov». Un anno e mezzo dopo iniziò il processo contro i bulgari presunti complici dell’attentato al Papa, con presidente proprio Severino Santiapichi. «Io ho trovato questo ragazzo sulla mia corsia e non potevo fare assolutamente nulla per evitarne l’impatto», ha continuato il supertestimone. «Per quanto riguarda l’omissione, io intanto ero in compagnia con un’altra persona, scendemmo con la torcia e toccando le vene del collo ne constatammo la morte e non potemmo in quel momento farci identificare perché altrimenti avremmo dovuto rivelare che cosa noi facessimo in quel torno di tempo in quella pineta».

L’uomo ha dunque cambiato versione perché ai magistrati l’uomo disse sempre di essere da solo e di essersi fermato dopo l’impatto, di non aver visto nulla ed essere tornato a casa con i mezzi pubblici. E’ poi tornato sul luogo per riprendere l’attrezzatura fotografica ma venne fermato dai carabinieri, che hanno anche trovato il suo giubbotto sporco di sangue del piccolo José. Venne infatti condannato per omicidio colposo e e omissione di soccorso, ma non per rapimento. Oggi si è giustificato così rispetto al silenzio sull’altra persona: «Dovevo coprire sia la persona sia le nostre intenzioni in quell’area», e così sul cambio di versione: «Questo trent’anni fa, ora riportando i fatti in una nuova luce…ho riportato al giudice Capaldo come veramente andarono i fatti». Di Rienzo gli ha domandato: «Lei questo bambino lo conosceva?» «No», la risposta. «L’ha prelevato lei?», risposta: «Lei praticamente sta ricostruendo quello che fu il processo nell’83».

La trasmissione televisiva ha anche sottolineato a lungo l’interesse di Marco Fassoni Accetti per i minori, adescati anche con delle menzogne e promesse di denaro, per poterli fotografare. E’ percepibile l’intenzione a indurre lo spettatore ad andare oltre questa motivazione e pensare ad un interesse sessuale. Nel 1983 gli inquirenti scoprirono che Fassoni Accetti voleva fare le foto ad alcuni ragazzini che contattava grazie alla posta di Topolino e uno dei numeri presenti nella sua rubrica era quello di un bambino di 12 anni che Fassoni Accetti disse di aver incontrato in Corso Vittorio Emanuele, vicino a Corso Rinascimento (dove fu vista per l’ultima volta Emanuela mentre parlava con un uomo che le offriva molto denaro per un lavoretto). Nella puntata, come si è detto, si parla anche di José Garamon, il figlio dodicenne di un funzionario uruguayano morto investito da Marco Fassoni Accetti il 20 dicembre 1983. Dagli atti risulta che Accetti si trovava su quella strada perché stava andando da una ragazzina a cui doveva fare il servizio fotografico ma aveva sbagliato strada, la 15enne dichiarò agli inquirenti che non avevano un appuntamento. Quel giorno comunque José si recò dal barbiere e vicino a casa, all’Eur e venne ritrovato morto un’ora dopo in una zona lontanissima, a Castel Porziano vicino a Ostia, investito da Fassone Accetti.

Pino Nicotri pubblica un messaggio ricevuto da Dany Astro, da 12 anni modella e collaboratrice di Marco Fassoni Accetti la quale intende replicare alla trasmissione “Chi l’ha visto?”: «Ero presente all’intervista dove Marco ha spiegato, con documenti alla mano, molti dubbi posti nella trasmissione». «Il fatto della pineta lo ha spiegato ampiamente e non hanno usato quasi nulla di questa testimonianza, nella quale diceva che nel primo interrogatorio con il giudice Capaldo faceva presente che si era presentato per riaprire innanzitutto il fatto della pineta, e per farlo era obbligato a raccontare della Orlandi. Inoltre, basta guardare nelle sue fotografie come nei suoi film, ci sono più gli anziani ed adulti che non adolescenti. Hanno omesso di dire che nello studio di Marco vi sono già dagli anni ’80 decine e decine di indirizzi e liberatorie degli anziani ritratti. E che tutti gli adolescenti sono venuti con le famiglie che dovevano firmare le obbligatorie liberatorie per essere pubblicate. Io sono testimone di questa procedura da 12 anni e prima di me conosco le altre ragazze che ha avuto Marco, che mi hanno testimoniato della stessa procedura anche negli anni ’80 e ’90. Le stesse adolescenti contattate non possono lamentare alcuna molestia subita, se non riferire solo dell’intenzione di Marco di fotografarle nelle opere che conoscete, e che non sono affatto di erotismo o pornografia. Inoltre “Chi l’ha visto” non ha letto un documento del processo, che Marco può anche produrre in questo sito, che riporta le dichiarazioni del personale dell’ambulanza che, non essendo attrezzati degli strumenti atti a verificare la morte, decisero comunque di portare subito il corpo all’ospedale. E non come si è raccontato perché il ragazzo doveva essere necessariamente vivo per il fatto d’essere stato trasportato in ospedale. Inoltre continuano a non leggere il titolo posto sotto la fotografia “Martire adolescente posta sotto l’altare” e la presentano invece come una semplice, macabra “ragazza in una bara” (la ricostruzione di questo simulacro d’una martire e un altare sono ispirate a quelle reali che si trovano nella chiesa del suo collegio a piazza di Spagna). Marco ha chiamato in diretta per la seconda volta anche in questa puntata per puntualizzare quanto ho detto, ma gli è stato negato ancora una volta d’intervenire, mentre, un’altra ragazza ha avuto la possibilità di entrare in diretta per raccontare solo il fatto che, abitando nello stesso palazzo di Marco, questi le aveva chiesto di posare per una sua opera. Tutto questo Marco lo riferirà mercoledì nell’udienza che ha con il giudice Capaldo, indicando come questa censura e mistificazione possa essere il tentativo di addossare tutto ad una sola persona isolata, e non mettendo alla luce i legami con lo Stato Vaticano e lo Stato Italiano».

Su Repubblica un monsignore anonimo rivela: «Giovanni Paolo II qualche mese dopo la scomparsa di Emanuela disse agli Orlandi che si trattava di “un caso di terrorismo internazionale”. Che sia così, ne siamo tutti convinti, ma la domanda resta una: cosa intendeva il Papa per “terrorismo internazionale”? Sono molti oltre il Tevere a ritenere che la scomparsa sia legata alla Banda della Magliana e insieme ad ambienti malavitosi italiani». La Magliana, secondo lui, organizzò il rapimento di un cittadino vaticano per fare pressione e riavere i soldi. Per quanto riguarda De Pedis, «la sepoltura nella basilica nella quale don Vergari era rettore si spiegherebbe come una sorta di espiazione da parte del Vaticano, o comunque di qualche personalità del Vaticano, di un debito regresso. Come a dire: non ci avete ridato i soldi, pagate il conto così. Insieme, c’è anche la volontà di chi ebbe rapito Emanuela di indicare un luogo significativo per risolvere l’intero mistero». La pista interna e quella internazionale (finanziare il sindacato polacco di Solidarnosc) sarebbero in realtà due facce della medesima medaglia, la fonte anonima spiega ancora: «Wojtyla, quando parlava di “caso internazionale”, si riferiva ai soldi sporchi (ovviamente lui ha scoperto dopo che fossero tali) finiti oltre Cortina, tardivamente consapevole che la provenienza di questi soldi era italiana. La Banda della Magliana, certo, ma anche Cosa Nostra: è agli atti il coinvolgimento del cassiere della mafia Pippo Calò».

Sempre su Repubblica Giancarlo De Cataldo, giudice di Corte d’Assise a Roma, spiega che secondo lui «Emanuela è rimasta vittima di un gioco erotico, ovvero è stata rapita dalla Banda della Magliana, ma senza il concorso di turchi, Servizi deviati e via dicendo. Entrambe le “piste”, come è sempre accaduto in questa storia che sembra non avere fine, conducono direttamente al Vaticano. Da un lato, il “gioco” erotico avrebbe coinvolto alti o medi prelati (secondo l’autorevole esorcista Padre Amorth, addirittura adepti del Maligno); dall’altro, Renatino De Pedis avrebbe rapito Emanuela per rientrare delle ingenti somme malaccortamente affidate allo spregiudicato finanziere in tonaca Paul Marcinkus. Che, peraltro, il Vaticano fosse l’epicentro della vicenda è noto sin dalle prime battute. Così come resta un punto fermo la scarsa, per non dire nulla, collaborazione delle autorità di Oltretevere».

Sempre su Repubblica si spiega l’inattendibilità di Agca, il quale nel suo ultimo libro ha spiegato che quando la giornalista Claire Sterling pubblicò su imbeccata della Cia l’abbozzo della cosiddetta pista bulgara, lui ci saltò sopra subito. «A me viene da ridere ma è grazie a questa ipotesi che mi balza alla mente un’idea: invento che durante il mio soggiorno a Sofia mi sia davvero incontrato con uomini dei servizi segreti bulgari legati all’Unione Sovietica». Si legge anche che Markus Wolf, la mitica spia senza volto del servizio tedesco orientale, in un faccia a faccia in un caffè di Berlino prima di morire negò ogni coinvolgimento della Stasi sull’attentato e sulla scomparsa della ragazza: «Vede, infiltrare spie nella Santa Sede era per noi un lavoro molto difficile. Bisognava individuare le persone, io amavo reclutare i giovani, ma aspettare anche che crescessero. C’era una divisione, la XXesima, che lavorava sulla Chiesa. Ma poiché questo ufficio non dava i risultati sperati, lo chiudemmo». Secondo Marco Ansaldo, che firma l’articolo, nulla a che fare su Emanuela anche dal fronte turco, inventato dai servizi della Germania Est per depistare. Lo dimostrò l’ex colonnello della Stasi, Guenter Bohnsack. «Le lettere inviate in Italia sul caso della Orlandi? Le conosco. Le facevamo scrivere noi in turco. Chiedevamo la liberazione di Ali Agca e uno scambio con la ragazza. Ma era un trucco per distogliere l’attenzione dai bulgari, in quel periodo sotto tiro per l’attentato al Papa. Ce lo chiese direttamente il Kgb. E noi fabbricammo quei messaggi. Ecco qui», terminò l’ex spia, sparpagliando sul tavolo una serie di lettere originali.

 

08 maggio 2013
Viene esplicitato da Marco Fassoni Accetti, la cui attendibilità sembra aumentata agli occhi della Procura per i tanti retroscena che conosce, l’obiettivo del sequestro di Emanuela e di Mirella: favorire lo «scambio» con Alì Agca, pronto in nome della sua libertà a ritrattare le accuse ai bulgari di complicità nell’attentato. Il «ganglio operativo» che secondo il supertestimone era attivo «a tutela del dialogo con l’Est» già dal 1979, in combutta con «elementi dei servizi e della malavita romana» e su impulso di «alcune personalità» vaticane, nel 1983 avrebbe compiuto altri ricatti. Indirizzati sempre all’interno delle Mure Leonine. La traccia è palesata da alcuni messaggi in codice. In particolare questo: in una lettera inviata da Boston il 15 ottobre 1983 (grafia dell’«Amerikano») si fa presente che si opereranno altri sequestri per la liberazione di Agca (così come comunicherà il 20 ottobre un giudice bulgaro al terrorista). Nello specifico, «prelevamenti di cittadine statunitensi», delle quali «forniremo i nominativi nel 5-1984». Fassoni Accetti avrebbe rivelato che «la materia del contendere era la gestione dello Ior di Paul Marcinkus, con riferimento alla restituzione della montagna di soldi del crack dell’Ambrosiano». Il monsignore americano era contrario, «perché avrebbe comportato la sua fine politica», ma il «ganglio», anche per conto degli avversari del banchiere, avrebbe esercitato il suo peso sfruttando proprio la trattativa sulla Orlandi. «A riprova» di quanto dice il testimone ha esibito un dato di fatto: «Fummo noi a dettare i tempi con quella lettera», dal momento che «poi, effettivamente, l’intesa Ior-Ambrosiano fu raggiunta nel maggio del 1984 a Ginevra», con il versamento di 400 milioni di dollari alle banche creditrici. Si tratterebbe di un doppio movente, dunque.

 

06 maggio 2013
Ali Agca invia un’e–mail, tramite il suo avvocato, a Pietro Orlandi in cui scrive (qui la lettera integrale): «Caro amico Pietro. Hai visto… con le confessioni di Marco Fassoni Accetti sta emergendo una parte della verità che io ti avevo rivelato. Tuttavia questo Marco Fassoni Accetti è soltanto una piccola manovalanza che non può essere determinante per scoprire tutto e liberare Emanuela e Mirella che sono vive tuttora». Nella mail Agca cita anche Mirella Gregori e fa riferimento a una serie di documenti circolati all’epoca del sequestro indicandoli come tasselli significativi della vicenda e aggiunge: «Il castello dell’intrigo sta per crollare». Inoltre, si dice pronto a incontrare Pietro Orlandi «a Istanbul il più presto possibile» L’ex terrorista invita a rivedere una lettera inviata all’Ansa nell’agosto 1984, nella quale i rapitori scrivono: «Agca deve essere prima trasferito al carcere vaticano e successivamente tra il Vaticano e il governo di Panama e del Costarica deve essere firmato un accordo per trasferire Ali Agca nel Costarica o nel Panama». L’attentatore del Papa aggiunge, a riprova della sua tesi, che «il 23 agosto 1984 il presidente del Costarica Luis Alberto Monge si dichiarò disposto a ospitare Ali Agca nel suo territorio a condizione che il Papa deve chiederlo personalmente». «Caro Pietro – conclude il turco – devi insistere con questi documenti storici, questi sono dati di fatto immensi e incredibili».

 

05 maggio 2013
Marco Fassoni Accetti viene interrogato dalla Procura per la sesta volta in un mese ed è stato iscritto nel registro degli indagati per reato ipotizzato di concorso in sequestro di persona aggravato dalla morte dell’ostaggio e dalla minore età. Per la prima volta, in ogni caso, è stata fornita agli inquirenti una ricostruzione organica (per quanto da verificare) del contesto storico e del movente del doppio rapimento. Fassoni Accetti ha infatti dichiarato che lo stesso «nucleo di controspionaggio che agiva per conto di ambienti vaticani», di cui lui avrebbe fatto parte, sarebbe responsabile pure della scomparsa di Mirella Gregori. L’avviso di garanzia è un atto dovuto e i reati in questione sono caduti in prescrizione

 

02 maggio 2013
Le agenzie riportano che secondo gli inquirenti i casi di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori sono collegati. Rispetto a Marco Fassoni Accetti sottolineano che se da un lato ha fornito “ricostruzioni di tipo fantastico”, dall’altro ha permesso di ritrovare il flauto che potrebbe essere appartenuto a Emanuela. Il testimone non ha invece rivelato il nome e che tipo di gruppo era quello di cui avrebbe fatto parte in Vaticano, circostanza su cui ad oggi dalla procura non sono ancora stati chiesti riscontri.

 

01 maggio 2013
Fabrizio Peronaci su il Corriere della Sera spiega che Fassoni Accetti avrebbe sostenuto di aver agito in collaborazione con elementi legati ai servizi segreti dell’Est dotati di «entrature» nelle redazioni dei quotidiani. Infatti, afferma, il giorno dopo la scomparsa di Emanuela su “Il Tempo”, «il trafiletto sulla scomparsa della Orlandi era collocato a fianco alla notizia della Fiat 127 da noi gettata nel Tevere il giorno prima, con il braccio di un manichino fuori dal finestrino. Quel gesto conteneva messaggi in codice di minaccia contro una persona». Nelle intenzioni dei rapitori, l’avviso ad «ambienti vaticani», pubblicando le due notizie una vicina all’altra, sarebbe stato anche questo: «Far capire la nostra capacità di azione, influenza dell’opinione pubblica e depistaggio». Inoltre, sempre il 25 giugno 1983 e sempre su “Il Tempo” è apparsa una lettera di Alì Agca al Vaticano risalente il 24 settembre 1982, e questo secondo Accetti, diventa «straordinariamente» rivelatore: «Agca aveva scritto la lettera a Oddi un anno prima, come si spiega che diviene pubblica solo quando Emanuela Orlandi sparisce? Perché ha ottenuto ciò che voleva: premere sulla Santa Sede attraverso un sequestro di persona per ottenere la grazia». Secondo Fassoni Accetti, si trattava di un messaggio criptato stampato grazie a un loro “agente” (soprannominato “Ecce homo”) nelle redazioni: la “risposta” attesa era proprio il sequestro della Orlandi, per premere a favore della scarcerazione del turco, che in cambio avrebbe ritrattato le sue accuse ai bulgari di complicità nell’attentato a papa Wojtyla, cosa che avvenne esattamente tre giorni dopo, il 28/6/83.

Secondo Pino Nicotri, siamo davanti a qualcuno che ha «messo in moto un diabolico ingranaggio. Qualcuno, che ha studiato a fondo le carte delle varie inchieste, si è letto tutti i libri e documenti pubblicati sulla vicenda, conosce tutti i dettagli a menadito, questo qualcuno, negli anni scorsi, a più riprese, appena l’interesse per il caso si attenuava, faceva da megafono a rivelazioni improbabili, supertesti inattendibili».

 

30 aprile 2013
Il Corriere della Sera rivela altre dichiarazioni di Marco Fassoni Accetti ai magistrati: Emanuela sarebbe stata adescata con la promessa di molto denaro (le famose 375 mila lire per un lavoro con la Avon) e indotta dalla presenza di un’amica a non tornare a casa ma a salire su un’auto in corso Rinascimento dove «sul sedile davanti, a fianco all’autista, c’era un nostro uomo vestito da monsignore», perché tanto «tu abiti in Vaticano e lo sai, Emanuela, dei sacerdoti ci si può fidare…». Le dicono: «la scuola è finita e la tua scomparsa durerà qualche ora, poco tempo…». La prima sera «la portammo a Villa Lante, ai piedi del Gianicolo, in un istituto religioso dove affittavano delle stanze», sostiene Fassoni Accetti. «Abbiamo avuto l’accortezza di farla stare sempre con ragazze. Le portavamo quanto desiderasse. C’era un bel giardino, le ripetevamo che suo padre era d’accordo e non si sarebbe arrabbiato. E facemmo in modo che una sua amica andasse a trovarla. Restò a Villa Lante per quattro giorni. Quando voleva fare un giro a Trastevere le mettevamo una parrucca corta. Una volta passeggiamo insieme al Ghetto e lei era divertita, ricordo che parlammo di un progetto di film». Intanto la madre superiora di Villa Lante ha iniziato a cercare gli elenchi degli ospiti di 30 anni fa.

Il giornalista Pino Nicotri ipotizza chiaramente una “mastermind”, cioè un’unica regia delle rivelazioni paragonando le rivelazioni di Sabrina Minardi con quelle di Marco Fassoni Accetti, anche se in entrambi i racconti vi sono contraddizioni palesi.

 

28 aprile 2013
Marco Fassoni Accetti rivela di essere responsabile dell’episodio avvenuto il 23 giugno 1983, giorno dopo la sparizione di Emanuela. Un pescatore rivelò di aver visto due giovani spingere una Fiat 127 in mare con a bordo una persona. «Era un sequestro sceneggiato, no? Non dimenticate che io sono un artista. E che con le scenografie, i manichini ho sempre lavorato…», ha detto ai magistrati.

Con analoghe tecniche (travestimenti, foto scattate per strada, contatti con amiche e compagne per trarle in inganno) Accetti spiega che avrebbe ideato il “sequestro simulato” della Orlandi

 

27 aprile 2013
Il “Messaggero” rivela che gli investigatori hanno recuperato gli atti di una vecchia indagine in cui Marco Fassoni Accetti parla al telefono con la sua fidanzata. Lei è molto arrabbiata e gli dice: «Ora basta, ne hai fatte di tutti i colori, persino in quella storia di Emanuela Orlandi».

 

26 aprile 2013
Marco Fassoni Accetti, interrogato dagli inquirenti, lega la scomparsa di Emanuela e Mirella a quella di Caterina Skerl, detta Katy, 17 anni trovata strangolata in una vigna a Grottaferrata il 22 gennaio 1984. Avrebbe attribuito l’omicidio della Skerl alla «fazione opposta» alla sua di quel nucleo di intelligence di controspionaggio che svolgeva «azioni di pressione» nell’ambito di presunte lotte di potere all’interno del Vaticano. Lo scenario diventa quello di ragazze pedinate, «agganciate» con l’inganno, usate per foto e filmati utili a ricattare, distruggere i «nemici».

Ritorna in mente il messaggio della lettera anonima inviata pochi giorni fa (10/04/13): «Non cantino le due belle more per non apparire come la baronessa e come il 21 gennaio martirio di Sant’Agnese con biondi capelli nella vigna del signore». «belle more» (le quindicenni), 21 gennaio (morte di Katy), «biondi capelli» (Katy) e «vigna» (luogo criminis). La Skerl era iscritta alla Fgci (Comunisti)…blocchi contrapposti? Occorre ricordare che la stessa tesi è contenuta nel libro “Dodici donne un solo assassino” (Koinè 2006)

Rispetto all’omicidio del piccolo Josè Garramon, investito proprio da Marco Fassoni Accetti il 20 dicembre 1983, al Corriere della sera l’uomo ha dichiarato: «Era buio, c’erano delle ombre. Quel bambino mi fu gettato sotto la macchina, fu un incidente provocato. In seguito sono stato assolto. La prova è in un comunicato sul caso Orlandi in cui si parla di una pineta: era un messaggio in codice indirizzato a me, è lampante». Si riferisce al 27/09/1983 (prima dell’omicidio?), quando in una lettera firmata «Phoenix» c’era scritto: «Vogliamo generosamente ricordare a “Mario” che nella pineta c’è tanto posto per aumentare la vegetazione…». Secondo lui quell’incidente venne «provocato dal Phoenix-Sisde», parte avversa al suo gruppo

Sempre in questa data appare un’intervista a Marco Fassoni Accetti da parte di Pino Nicotri, dove il supertestimone critica la trasmissione televisiva “Chi l’ha visto”: «La prima volta che mi recai presso la redazione della trasmissione “Chi l’ha visto”, il 2 aprile 2013, feci presente che, essendoci un nuovo Pontefice, non curiale, facevo recuperare il flauto al fine di creare un evento mediatico che mi permettesse di rivolgere un appello a presentarsi a quanti con me avevano partecipato a determinati fatti e principalmente, soprattutto a far luce sul mio investimento di un minorenne, verificatosi in una pineta nella quale operavamo in quanto adiacente alla casa del giudice Severino Santiapichi, prossimo presidente di Corte d’Assise giudicante Alì Agca, l’attentatore alla vita del papa nell’81. Chiedevo che la Procura indagasse su quel comunicato Phoenix – Sisde di 3 mesi prima che indicava proprio in una pineta il luogo dove avremmo dovuto subire la loro “punizione”. Chiedevo di rintracciare chi avesse deciso nel Sisde di far redigere il comunicato con quel riferimento alla pineta. Questo dichiarai in primis nella loro intervista e questo la redazione tagliò al montaggio per poi mostrare nella trasmissione del 24 aprile 2013 il fatto dell’investimento come rintracciato da loro e a mia insaputa, e inducendo sospetti sulla mia persona in un caso giudiziariamente chiuso. Il processo mi vide in tutti i gradi assolto con formula piena e nonostante tutto non mi trova acquietato, al punto che dopo trent’anni sono io ad averne riparlato, e questo avevo già dichiarato al magistrato Giancarlo Capaldo 6 giorni prima di presentarmi alla Rai, questo è nei verbali. Nella stessa intervista raccontai che essendo stato nel 1999 telefonicamente minacciato, risposi a queste minacce presentandomi ad una “Domenica In”, travestito come Roberto Benigni, l’attore, e dandomi il nome Alì (Agca) Estermann (il comandante delle Guardie Svizzere ucciso il 6 maggio ’98), nel senso: Alì spara, Estermann muore. Ed andai anche a New York, simulando di essere Benigni in persona, per contrastare la stessa persona delle minacce che ritenevo gravitasse in certi ambienti di quella diocesi, ed attirando volutamente l’interesse della stampa locale. Erano i metodi di usare i media per nostri fini, in modo certo sui generis, imprevedibile e soprattutto occulto. Anche questo spiegavo nell’intervista a “Chi l’ha visto?” e questo hanno tagliato, illustrando l’episodio come una loro scoperta e quanto io fossi esibizionista gratuitamente ed ossessionato con le storie vaticane. In verità in seguito sono stato invitato in molte trasmissioni della Rai come controfigura di Benigni, e di questo ne ho la documentazione, sempre rifiutando in quanto non ne avevo motivo di accettare. Dichiaro di essere uno dei telefonisti e non comparano la mia voce con quella dei telefonisti storici del caso, ma con quella di un possibile millantatore che chiamò in passato alla redazione e alludendo che quasi sicuramente fosse la mia, senza il parere di alcun perito. Ho chiamato durante la trasmissione e mi è stato impedito di rettificare in diretta con la conduttrice. Quindi sono stato censurato, diffamato, hanno nascosto la verità al loro pubblico e agli Orlandi – Gregori e presentato come un più che probabile mitomane e maniaco, deviando l’interesse da un possibile coinvolgimento del Sisde e dalle pertinenze della Città Stato del Vaticano. Hanno così creato un’atmosfera di turbamento, disorientamento, che può inibire i testimoni che io sollecitavo. Sarebbe necessario indagare sui motivi reali di questa contraffazione. Un mitomane è certo meno imbarazzante. Hanno dato il “la” a tutte le testate, che li hanno seguiti senza approfondire». Ha anche risposto ad alcune allusioni sospette su Emanuela suscitate dalle sue opere fotografiche.

Sempre in questa data Pino Nicotri, in un’intervista su Radio Radicale, spiega che Sabrina Minardi non era l’amante di De Pedis ma una delle tante escort di cui si servì Renatino (massimo per un paio di anni, non dieci) per fare pressione su alcuni personaggi. Lei aveva incontri sessuali con loro e con delle videocamere nascoste De Pedis poteva ricattarli. Rispetto a Fassoni Accetti, ipotizza invece una regia che gestisce l’apparizione di questi supertestimoni (come la Minardi) a ridosso degli anniversari della scomparsa di Emanuela o di date sensibili al “caso”, di cui beneficiano giornali e audience

 

25 aprile 2013
Durante la trasmissione “Chi l’ha visto?” viene intervistato, mentre si reca all’interrogatorio in Procura, l’uomo che ha fatto ritrovare il flauto. Si tratta di Marco Fassoni Accetti, autore di arte cinematografica indipendente, autoaccusatosi di essere «uno dei principali telefonisti» del sequestro Orlandi, organizzato da un gruppo di contro-spionaggio che con l’apporto di elementi dei servizi e della banda della Magliana agiva per conto di ambienti vaticani, per condizionare la politica della Santa Sede. Emanuela e Mirella si sarebbero allontanate spontaneamente, i loro sarebbero gli unici «sequestri simulati» attuati per «proteggere il dialogo tra Santa Sede e Paesi del Patto di Varsavia». Venne creata una «trama di amiche con cui si allontanarono». Per la Orlandi, davanti al Senato, avrebbe agito «una compagna di scuola, che salì con lei su un’auto assieme a un finto prete», mentre con la Gregori «successe l’imprevisto: si innamorò di un nostro operatore, andò all’estero e tornò una sola volta a Roma, nel 1994, per incontrare sua madre in un caravan in un sottopasso di corso Italia». Quanto a Emanuela, l’idea era di liberarla presto, «il tempo di avere in mano la denuncia di scomparsa per esercitare pressioni», ma il piano fallì «soprattutto per l’appello del Papa all’Angelus, il 3 luglio, che diede risalto mondiale al caso». La ragazza «non subì violenze, visse in due appartamenti uno in centro e uno sul litorale e in due camper, le procurammo un pianoforte e la rassicuravamo dicendole che la famiglia era al corrente», questo fino a dicembre 1983. Poi, «il gruppo la trasferì all’estero, nei sobborghi di Parigi (Neauphle-le-Château) dove potrebbe essere ancora viva, così come Mirella, ma non so dove». Antonietta Gregori ha negato che la madre avesse incontrato Mirella nell’94: «Mai e poi mai, nei mesi successivi, quando si ammalò o addirittura sul letto di morte, avrebbe nascosto a me e mio padre un avvenimento del genere». Fassoni Accetti parla solo ora perché confida nel «nuovo clima» in Vaticano dopo l’avvento di papa Francesco e nel fatto che altri, «soprattutto le ragazze coinvolte in quello che è stato un sequestro-bluff», seguano il suo esempio. Emanuela e Mirella vennero sequestrate in legame all’attentato di Ali Agca al Pontefice: Emanuela in quanto cittadina vaticana, Mirella italiana. La linea telefonica 158 per il Vaticano stava per 5-81, mese e anno dell’attentato al Papa, mentre le 375 mila lire offerte a Emanuela per il lavoro per la Avon riconddurrebbero a 13-5-17, giorno dell’apparizione della Madonna di Fatima in Portogallo.

La stampa ha scoperto che Fassoni Accetti, il 21 dicembre 1983 fu accusato della morte di un bambino di 12 anni, Josè Garramon, figlio di un funzionario uruguayano che lavorava all’Ifad, un’agenzia dell’Onu. Fassoni Accetti era il proprietario del furgone che ha investito il piccolo Josè vicino a Ostia, nei pressi della pineta di di Castel Porziano molto lontano dal luogo della sua sparizione. Ha partecipato a “Domenica In” come imitatore di Roberto Benigni presentandosi come: Alì Esterman (una via di mezzo tra Ali Agca e Alois Estermann). Ha vissuto per lungo tempo in America e non ha smentito il fatto di essere l’Americano.

Più avanti MFA spiegherà: «Quando inizialmente mi recai in Procura il 27 marzo 2013 dichiarai che mi presentavo principalmente per chiarire il fatto dell’investimento occorsomi nella pineta di Castel Porziano. Avevo patito all’epoca ingiuste ed abominevoli accuse e la conseguente assoluzione non mi aveva affatto acquietato e volevo chiudere moralmente quel caso, che all’epoca non potevo delucidare pienamente in quanto avrei dovuto motivare la mia presenza in quell’area. Ed ora, per farlo, dovevo necessariamente mettere il suddetto fatto in rapporto alle scomparse Orlandi – Gregori, rivelarne la consustanzialità. Auspicavo, attraverso un appello rivolto a certi ecclesiastici ormai in pensione, il loro presentarsi e contribuire con la testimonianza, coscienti che non si trattò di fatti ferali. Era l’appropriato momento storico, con l’elezione di un Pontefice non curiale, per sperare che in certi contesti venissero meno certe difese. Tutto questo risulta essere nel primo verbale firmato presso il giudice G. Capaldo. In seguito, per dar vigore all’appello, necessitavo d’un momento mediatico quale il ritrovamento del flauto, ed alla redazione della trasmissione di Rai 3 spiegai minuziosamente quanto raccontato in Procura e sopra esposto»

 

10 aprile 2013
Durante la trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?” si riferisce che qualche giorno prima di Pasqua una busta da lettera anonima è stata inviata a Raffaella Monzi, una delle compagne del corso musicale frequentato da Emanuela Orlandi. All’interno, una bustina contenente dei capelli e un pezzo di merletto, ritagli dell’Osservatore Romano in tedesco, pezzi di pellicola fotografica accompagnano un foglio con un messaggio scritto a mano in caratteri stilizzati: “Non cantino le due belle more per non apparire come la baronessa e come il ventuno di gennaio martirio di S. Agnese con biondi capelli nella vigna del Signore”. Sul lato destro, in verticale, due numeri: “193” e “103”. Uno dei ritagli di quotidiano riporta la foto del giuramento di una guardia svizzera sopra una didascalia in tedesco la cui traduzione è: “Durante il giuramento ogni recluta si posiziona davanti alla bandiera della Guardia e promette di servire fedelmente, lealmente e onorevolmente il Pontefice e i suoi legittimi successori”. Accanto alla foto c’è scritto a penna ”4 – FIUME”. Un altro ritaglio è di un box di una prima pagina intitolato “Giuramento delle nuove guardie svizzere”. A margine, le scritte a mano “SILENTIUM” e “V. FRATTINA 103”. Sul retro un’altra scritta: “MUSICO 26/OTT/1808 – 5/3/1913 – 2013”, si tratta del musicista Hugues morto il 5/3/1913 e nato il 27/10/1836 (e non il 26/10/1808!), quando Emanuela sparì aveva nello zaino proprio gli spartiti di Hugues, fatti ritrovare in fotocopia nei mesi successivi. Nella bustina di plastica trasparente c’erano dei capelli, un fiore colorato di merletto, frammenti di un materiale che potrebbe essere terriccio e un brandello di tessuto scuro. Allegati alla lettera anche tre negativi fotografici. Uno di essi nasconde una foto dell’attentato al Papa, l’altro ritrae un teschio umano con la scritta “Eleonora De Bernardi, Morta in Campagna, Lì 23 agosto 1854”, il teschio si trova nella cripta in Santa Maria dell’Orazione e Morte, in via Giulia

Anche la sorella di Mirella Gregori ha ricevuto una lettera anonima con lo stesso testo (“Non cantino le due belle more…”) e allegati di quella arrivata a Raffaella Monzi. Dal racconto di Antonietta Gregori, che ha già consegnato agli inquirenti il plico e il suo contenuto, emergono alcune piccole differenze. Come l’appunto a margine di un articolo, che nella prima lettera era “4 – Fiume” mentre nell’altra è “V. – Fiume”. Infine c’è in aggiunta un riferimento al marito di Mirella: “Mercurio vola in sella del suo ciclomotore dal caffè alla via Nomentana all’altro caffé”. Filippo Mercurio ricevette la telefonata in cui i presunti rapitori descrissero i vestiti di Mirella il giorno in cui sparì.

 

03 aprile 2013
Alla trasmissione “Chi l’Ha visto?” si presenta una persona ed indica dove trovare il flauto che Emanuela Orlandi aveva con sé quando è sparita. Il giornalista Fiore di Rienzo trova effettivamente un flauto in questo luogo sotto una formella raffigurante una stazione della Via Crucis, di marca “Rampone&Cazzani”. Natalina Orlandi lo riconosce vagamente prima di passarlo alla polizia scientifica per verificare la presenza tracce biologiche. L’uomo si è scoperto essere Marco Fassoni Accetti e il luogo è l’ex stabilimento cinematografico De Laurentis.

 

27 marzo 2013
Si presenta in Procura a Roma Marco Fassoni Accetti, il quale riferisce di aver partecipato al duplice sequestro Orlandi-Gregori per conto di un nucleo di potere coperto, di non poter escludere che Emanuela e Mirella siano ancora vive. Indica Francia e Svizzera per i loro primi trasferimenti (gennaio 1984). Infine auspica che altri «sodali» si facciano avanti per confessare, visto il nuovo clima legato all’elezione di papa Francesco.

 

21 dicembre 2012
Viene trovata nel colonnato di piazza San Pietro un busta con scritto “non toccare”, all’interno un teschio che il medico legale ritiene formato da ossa abbastanza vecchie, i risultati sono ancora in corso. La calligrafia assomiglia alla scritta delle lettere che saranno inviate a metà aprile a Raffaella Monzi, compagna di Emanuela alla scuola di musica e a Maria Antonietta, sorella di Mirella.

 

⬆ 9. Processo a Marco Accetti e seconda archiviazione (2013-2015) ⬆

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Inizio luglio 2012
Secondo Antonio Goglia, ex maresciallo dei carabinieri di San Giorgio a Cremano (Napoli) e studioso del caso Orlandi, la data-ultimatum del 20 luglio (05/7/1983) e il codice identificativo 158 (05/07/1983) sarebbero collegati ad una confraternita di omosessuali costituitasi presso la chiesa di San Giovanni in porta Latina, con la complicità di alcuni frati, nel 1500. I presunti rapitori avrebbero scelto questa data per ricordare lo scioglimento, avvenuto il 20 luglio 1578 (il codice identificativo 158 indicherebbe l’anno di scioglimento della congregazione, escluso il 7).

 

22 maggio 2012
Il vaticanista de La Stampa, Giacomo Galeazzi, riporta alcune frasi di Padre Gabriele Amorth, un noto esorcista della diocesi di Roma, sul caso Orlandi, secondo il quale sarebbe stato «un delitto a sfondo sessuale». Tuttavia Padre Amorth non ha mai affermato queste cose ma, come rivelato Pino Nicotri e da Pietro Orlandi, è una tesi sostenuta dalla giornalista Anna Maria Turi nel suo libro. Amorth ha invece detto a Pietro Orlandi: «Non mi sono mai interessato a questo caso. Posso dirti soltanto che le modalità del sequestro (proposta lavoro da persona distinta, tranquillizzare la vittima dare l’idea di una persona affidabile ecc) sono le tecniche usate dagli adescatori di sette sataniche ma altro, ti ripeto, non saprei cosa pensare».

 

19 maggio 2012
Pietro Orlandi ricorda che nei giorni successivi alla sparizione, «quando cercavo disperatamente qualche testimonianza utile, le amiche della scuola di musica di Emanuela mi dissero che suor Dolores, la direttrice, non le faceva andare a Messa o cantare nel coro a Sant’Apollinare ma preferiva che andassero in altre chiese proprio perché diffidava, aveva una brutta opinione di monsignor Vergari. E le stesse mi riferirono un altro dettaglio: suor Dolores non voleva che si sapesse che nello stesso complesso aveva gli uffici Oscar Luigi Scalfaro». Il giornalista Pino Nicotri afferma di aver parlato con la suora, la quale ha smentito il fatto che avrebbe impedito alle allieve di recarsi in Chiesa a Sant’Apollinare. Anche don Vergari ha smentito nel marzo 2013, parlando di “bufala”.

 

18 maggio 2012
I quotidiani riferiscono che mons. Piero Vergari, fino al 1991 rettore della Basilica di Sant’Apollinare, è di recente stato iscritto nel registro degli indagati per concorso nel sequestro di Emanuela Orlandi.

 

26 aprile 2012
Carla Di Giovanni, vedova di De Pedis, ha pagato un miliardo di vecchie lire per la sepoltura nella basilica di Sant’Apollinare. Una fonte vicina alla Santa Sede (interpellata dall’Ansa) ha spiegato che davanti alle insistenze del rettore di Sant’Apollinare, Piero Vergari, «il cardinale Ugo Poletti, inizialmente reticente ad approvare la concessione, di fronte a una cifra così cospicua diede la sua benedizione». Quel denaro «fu usato per le missioni e in parte per lavori di restauro della basilica».

 

14 aprile 2012
Mons. Federico Lombardi, in un documento pubblico, dichiara ancora una volta piena disponibilità a collaborare alle indagini rispetto alla tomba di De Pedis. Ricorda l’impegno di Papa Wojtyla e i suoi appelli, nonché l’installazione del canale diretto con i rapitori e di come agli inquirenti venne lasciato libero accesso alla famiglia Orlandi «senza alcuna mediazione di funzionari vaticani». Tutte le notizie «erano state trasmesse a suo tempo» al giudice Domenico Sica anche se non si ebbe in Vaticano alcun elemento concreto utile per la soluzione del caso». Si riteneva «che il sequestro fosse utilizzato da una oscura organizzazione criminale» che voleva fare pressioni in favore di Alì Agca, e «non si ebbe alcun motivo per pensare ad altri possibili moventi del sequestro». E’ infondato attribuire la «conoscenza di segreti» sul sequestro a persone del Vaticano e finisce per essere «un alibi di fronte allo sconforto e alla frustrazione per il non riuscire a trovare la verità», l’impegno è stato trasparente e «Non risulta che sia stato nascosto nulla, né che vi siano in Vaticano “segreti” da rivelare. Se le Autorità inquirenti italiane crederanno utile o necessario presentare nuove rogatorie alle Autorità vaticane, possono farlo, in qualunque momento, secondo la prassi abituale e troveranno, come sempre, la collaborazione appropriata». Il capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, ha apprezzato la nota vaticana.

 

Aprile 2012
La fotografa Roberta Hidalgo pubblica il libro “L’affaire Emanuela Orlandi” (Croce 2012). Dopo essersi procurata del materiale biologico di vari esponenti della famiglia Orlandi sostiene che Emanuela Orlandi sarebbe in realtà figlia di Anna Orlandi (quella che è sua zia) e di Paul Marcinkus e che oggi viva con Pietro a Roma, mentre la vera moglie, Patrizia Marianucci, vive in campagna. Viene allegata una perizia di nove anni fa del noto criminologo Francesco Bruno sulla documentazione fornita in cui si conclude: «In sintesi si può dire che la donna che convive con Pietro Orlandi da almeno 10 anni non presenti molti elementi in comune con Patrizia Marinucci, ma che al contrario presenta numerose somiglianze con la sorella di Pietro, la scomparsa Emanuela». Pietro Orlandi si è rivolto ai suoi legali.

 

03 aprile 2012
Il cardinale Giovanni Battista Re, all’epoca dei fatti era numero tre della segreteria di Stato, afferma che in Vaticano non se ne sa niente, «altrimenti qualcuno avrebbe parlato. Ma purtroppo le cose non stavano così: non siamo riusciti a capire nulla, a sapere cosa ci fosse dietro». Si è parlato di un fascicolo custodito tuttora in Segreteria di Stato, ma ufficialmente non esiste, l’unica inchiesta è quella della magistratura italiana e quelle contro l’allora presidente dello Ior sono «accuse infamanti» e «senza fondamento». Al massimo, afferma, «si può magari dire che Marcinkus fosse un cattivo amministratore, ma un assassino no». Quanto alla tomba di De Pedis, «abbiamo sempre detto che non c’era nulla da scoprire».

 

02 aprile 2012
Alcune indiscrezioni, attribuite a inquirenti della Procura di Roma affermano che la Procura sarebbe convinta del fatto che in Vaticano qualcuno conosca la verità sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Il 3/4/12 il capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone assume su di sé il “caso Orlandi”, togliendolo a Giancarlo Capaldo, precisando che «le dichiarazioni e le valutazioni sul procedimento per la scomparsa della Orlandi attribuite da alcuni organi di informazione ad anonimi inquirenti della procura di Roma non esprimono la posizione dell’ufficio». Il 4/4/12 la Segreteria di Stato vaticana risponde alle voci circolate: «Se i magistrati ritengono che qualcuno in Curia abbia elementi di verità a livello indiziario, formalizzino le rogatorie», richieste ufficiali di interrogatori per i prelati che nei primi anni Ottanta erano ai vertici del Vaticano. Nomi e cognomi precisi e non vaghi riferimenti.

Pino Nicotri, esperto del “caso Orlandi”, ricorda che nella basilica di Sant’Apollinare, dove c’è De Pedis, «non è sepolto nessun santo, papa o cardinale, e il sotterraneo non è neppure in terra consacrata». Pubblica poi un’intervista alla signora Carla De Pedis, vedova di Enrico la quale spiega di aver «fatto traslare dalla tomba della mia famiglia al Verano solo perché nella basilica di S. Apollinare ci eravamo sposati, e quindi per me aveva un grande significato sentimentale e affettivo, e si trova a 200 metri da dove lavoro da 30 anni, e quindi per me era comodo poter andare a far visita al mio marito ogni volta che volevo senza dover fare chilometri in auto». L’uscita del film “Romanzo criminale” ha creato fantasie nella gente arrivando «all’idea assurda che la tomba di mio marito in S. Apollinare sia stato il premio per favori da lui fatti al cardinale Ugo Poletti e che nascondesse la verità e magari anche le ossa della povera Emanuela Orlandi». Non esiste alcuna condanna che individui De Pedis «anche come semplice gregario di una qualche banda». La sua uccisione è causata dall’«avere tagliato con l’ambiente non solo malavitoso, ma prudentemente anche con quello dei detenuti rimasti in carcere». Voleva pulirsi, anche in vista di futuri figli, non era ricco e non aveva alcun locale, tanto che non ha lasciato nulla: nell’ultimo periodo lavorava nel campo dell’antiquariato, è morto con la fedina penale pulita, aveva in tasca una regolare patente, una carta di identità valida anche per l’espatrio e un passaporto. Certo, «ha fatto degli errori da giovanissimo, ma che io sappia ha voluto venirne fuori, anche per amore verso di me». E’ stato prosciolto dalle accuse per le quali è stato in carcere e la condanna è stata annullata nel nuovo processo ordinato dalla Cassazione. La donna ha anche difeso la posizione di mons. Piero Vergari, l’allora rettore della basilica di Sant’Apollinare, il quale ha aiutato Enrico dopo il carcere. Nella basilica si sono sposati ed Enrico ha aiutato a sua volta don Piero con offerte per i poveri e cose di questo genere: «Ecco perché don Piero ha acconsentito alla mia richiesta di poter seppellire mio marito nella basilica dove ci eravamo sposati e alla quale quindi ero molto legata. Per quale strano motivo la Chiesa avrebbe dovuto rifiutare di seppellirlo lì?», spiega. Nessun complotto tra il cardinale Poletti, don Piero, lei, i fratelli De Pedis, il Comune di Roma, l’Ufficio igiene, il cimitero del Verano e l’Ufficio comunale delle sepolture, dunque. La gente, dice, è aizzata dal programma “Chi l’ha visto?”, «come cattolica sarei perplessa e contrariata anch’io se un grande criminale dei nostri tempi fosse seppellito in una chiesa, ma mio marito non era un grande criminale».

 

30 marzo 2012
Il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri rivela che nella basilica di Sant’Apollinare non vige l’extraterritorialità, se non per i profili fiscali. Il Comune di Roma (il 24 aprile 1990) e il Vaticano (il 10 marzo 1990) hanno concesso la regolare sepoltura di De Pedis.

 

Marzo 2012
Pietro Orlandi viene avvicinato da un uomo che dice di conoscere questa storia “da quasi 29 anni”, aggiungendo: «La persona che fece salire in macchina Emanuela la conosci bene». Ha anche aggiunto: «Chiedi a Sabrina Minardi, che su quella macchina c’era»

 

22 febbraio 2012
Due intercettazioni telefoniche, riguardanti conversazioni dell’avvocato della famiglia Orlandi (fornito loro dal Sisde), Egidio Gennaro, con i presunti rapitori con un tono distaccato, come se fosse una normale sparizione, insospettiscono e sorprendono i magistrati.

 

22 febbraio 2012
La trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?” rivela un appunto riservato di padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, nel quale avanza alcune perplessità su alcuni «aspetti di comportamento umano e cristiano probabilmente criticabili o imprudenti». La nota, probabilmente destinata al segretario del Pontefice, mons. Georg, è datata gennaio 2012, e Padre Lombardi scrive: «Restano dei punti su cui non è facile dare oggi risposta definitiva e documentabile», come il mancato avvertimento della famiglia Orlandi da parte del Vaticano sull’allarme sequestro lanciato dagli 007 francesi poco prima della scomparsa della ragazza, la non collaborazione con le autorità italiane (le rogatorie), gli aiuti economici della Santa Sede a Solidarnosc (una circostanza che se fosse emersa avrebbe provocato una reazione militare dell’Urss in Polonia), che potrebbero aver messo Giovanni Paolo II nella condizione di essere ricattato e, infine, la presenza “inspiegabile” di spie e informatori Oltretevere. Sulla sepoltura di De Pedis a Sant’Apollinare, Padre Lombardi scrive: «poiché mi pare che il cardinal vicario abbia dichiarato la disponibilità a lasciar aprire la tomba, non capisco perché questo non sia ancora avvenuto».

In forma anonima un “Corvo”, che afferma di «lavorare in Vaticano da vent’anni» invita le autorità vaticane ad impegnarsi «su una vicenda che mi fa pensare in maniera costante, la scomparsa di Emanuela Orlandi». In proposito ha aggiunto: «Forse non è stato fatto tutto quello che si poteva o forse si va a toccare cose troppo scottanti, troppo delicate». Il Corvo ha parlato del Vaticano, «un Paese dove uno fa una strage e sparisce nel nulla», alludendo forse alla morte del capo delle Guardie svizzere, Alois Estermann. Si scoprirà che questo Corvo, altro non è che Paolo Gabriele, maggiordomo di Papa Benedetto XVI, arrestato e processato per aver sottratto alcuni documenti riservati dalla scrivania del Papa.

 

21 gennaio 2012
Durante una manifestazione organizzata da Pietro Orlandi davanti alla basilica di san’Apollinare viene visto e fotografato un uomo che a sua volta fotografava i partecipanti. Si tratta di un agente segreto vaticano, cioè Francesco Minafra, da oltre 5 anni in forze nel Corpo della gendarmeria, agli ordini del comandante Domenico Giani.

 

31 novembre 2011
La redazione del programma televisivo “Chi l’ha visto” ha trovato Marta Sebesvari, che era con Emanuela a lezione di canto orale il giorno in cui sparì. Avrebbe dovuto riavere dalla Orlanda uno spartito, l’ha cercata fuori dalla scuola dove dice di aver visto un giovane “biondino”, nervoso e teso che guardava l’ingresso della scuola. Alla domanda se conoscesse Emanuela si è girato dall’altra parte rispondendo in modo brusco: “no”. La ragazza, che non ha voluto apparire in schermo, ha sottolineato l’espressione stravolta del giovane mentre si voltava, quasi a nascondere il volto. Il giovane era alto circa 1,75m, i capelli biondi, ondulati, quasi ricci.

 

15 novembre 2011
Il magistrato Ferdinando Imposimato sostiene che la guardia svizzera Alois Estermann fosse una spia della Stasi e che, dopo aver subito un furto di dossier riservati, temesse per la sua vita, tanto da contattare l’agente di Gladio Antonino Arconte per ottenere asilo politico negli Stati Uniti. Inoltre ritiene che Estermann avesse avuto un ruolo chiave nel sequestro di Emanuela Orlandi. «Il primo a sospettare che fra le Guardie Svizzere ci fosse una spia fu Ercole Orlandi, il papà di Emanuela. Mi parlò dei suoi sospetti perché, mi spiegò, solo uno di loro poteva conoscere in tempo reale gli sviluppi delle indagini sul rapimento della figlia. E mi fece notare che l’alloggio di Estermann era in una posizione strategica, alla sinistra dell’ingresso di Porta Sant’Anna, in via di Porta Angelica. Sul terrazzo dell’appartamento c’è un punto di osservazione formidabile: si vede sia via dei Pellegrini sia Porta Sant’Anna. E da questo varco passava tutti i giorni Emanuela. Quindi Estermann poteva vederla, annotarne orari, movimenti e abitudini. Per un esterno sarebbe stato impossibile».

 

02 ottobre 2011
Il giudice Rosario Priore, già titolare dell’indagine sull’attentato a papa Giovanni Paolo II, invita ad aprire la tomba di De Pedis, sostiene anche che «la verità ormai sia emersa: Emanuela fu rapita dalla banda della Magliana per un ricatto al Vaticano», legato al fiume di danaro sporco transitato per lo Ior. Ha ripreso l’appello di Pietro Orlandi di ascoltare Oscar Luigi Scalfaro (morto nel gennaio 2012), in quanto ministro dell’Interno negli anni ’80 e abitava nel palazzo di Sant’Apollinare dove c’era anche la scuola di musica frequentata da Emanuela.

Valentino Miserachs, maestro di canto corale, corso frequentato anche da Emanuela Orlandi, ha riferito che Scalfaro assisteva volentieri ai saggi nella scuola di musica e «offrì il suo aiuto a suor Dolores per provare a ritrovare Emanuela, ma non riuscì a fare molto». Si ricorda che dal 4/8/83 divenne ministro degli Interni, ovvero la struttura istituzionale alla quale, all’epoca, dipendevano anche i servizi segreti.

 

24 luglio 2011
Antonio Mancini, uno dei componenti della Magliana oggi collaboratore di giustizia, conferma l’ipotesi del giudice Rosario Priore, ovvero che la Orlandi sia stata rapita dalla Banda della Magliana per un ricatto al Vaticano per rientrare in possesso di 20 miliardi di lire consegnati allo Ior. La Orlandi sarebbe morta e spiega perché De Pedis è sepolto a Sant’Apollinare: «Il motivo è che fu lui a far cessare gli attacchi da parte della Banda (e non solo) nei confronti del Vaticano. Dopo il fatto della Orlandi, nonostante i soldi non fossero rientrati tutti, De Pedis si impegnò, attraverso i prelati di riferimento, a far cessare le azioni violente. Tra le cose che chiese in cambio di questa mediazione, c’era anche la garanzia di poter essere seppellito lì a Sant’Apollinare». La Magliana avrebbe avuto rapporti con mons. Agostino Casaroli, segretario di Stato, convalidando la dichiarazione dell’altro pentito Maurizio Abbatino

 

19 luglio 2011
Lo scrittore portoghese Luis Miguel Rocha, durante la manifestazione Tabularasa, la rassegna sulla legalità in corso a Reggio Calabria, dice: «Affermare che Emanuela Orlandi sia sparita è un insulto a tutti gli italiani. Io so che lei è viva; so che è così perché l’ho incontrata. Ho percepito nei suoi occhi l’angoscia di un’anima che ha vissuto un’esistenza terribile. Adesso mi diranno che sono un pazzo, ma ormai sono vaccinato. Sono sicuro di quello che dico».

 

04 luglio 2011
La procura di Treviso sequestra una lettera anonima inviata da Palermo e arrivata presso la casa editrice «EdizioniAnordest» (che ha pubblicato di recente il libro di Pietro Orlandi su Emanuela). Il testo, firmato dal sedicente Kate S. Boards, fa riferimento ai comunicati del gruppo «Phoenix» trovati in alcune chiese romane tra il settembre e l’ottobre del 1983 ad alto contenuto intimidatorio, in uno dei quali si parlava di «soppressione» dell’ostaggio». Secondo l’autore della lettera i termini usati dal gruppo Phoenix (e il ritrovamento di 4 sassolini in una busta, 4/09/83) sarebbero «chiaramente massonici», invitando a battere questa pista.

 

19 giugno 2011
L’ex giudice istruttore Ferdinando Imposimato, oggi avvocato della famiglia Orlandi, afferma: «Che Emanuela sia viva lo credo anch’io […] Ci sono dati obiettivi che era viva almeno fino al 1997-1998. Ritengo che sia sopravvissuta, perché gli islamici non uccidono le donne per rispetto del Corano». Secondo Imposimato il sequestro è legato al progetto di assassinare Lech Walesa e all’attentato a Giovanni Paolo II: «Nelle tre vicende ritroviamo i servizi segreti dell’Est, i Lupi Grigi usati come schermo e il papa come obiettivo da colpire».

 

16 giugno 2011
Durante una trasmissione televisiva arriva una telefonata di un sedicente ex agente dei servizi segreti del Sismi, con il nome in codice “Lupo solitario”. Emanuela si troverebbe in un manicomio nel centro di Londra, sedata. Dice di aver parlato ora perché “stuzzicato” e “tirato in ballo con delle falsità” e “a questo punto paga di deve pagare”. Alla richiesta di spiegazioni sul movente “Lupo solitario” ha risposto così a Pietro Orlandi: «Devi scovare in fondo a cosa faceva tuo papà, mi dispiace Pietro, scoprirai cose che non ti piaceranno», spiegando che Ercole Orlandi era venuto a conoscenza di giri consistenti di denaro da “pulire”; giri legati all’Istituto Antonveneta. Occorre sottolineare che l’Antoneveneta non esisteva nel 1983, nata ben 16 anni dopo.

Pietro Orlandi, partito subito per l’Inghilterra non ha trovato Emanuela. Si è scoperto che l’autore della telefonata è Luigi Gastrini, di Bergamo e attuale proprietario di una fattoria in Brasile. Non ha fatto parte del Sismi o nel Sisde né dell’Arma dei carabinieri, anche se non si può escludere un ruolo del Sismi per «lavori sporchi» negli anni ’80. Nel marzo 2012 sarà rinviato a giudizio per “usurpazione di titoli e simulazione di reato”. E’ stato condannato nel novembre 2013

 

24 maggio 2011
Maurizio Giorgetti rivela che la sua convivente, Annamaria Lucia Vero, è scomparsa portandosi dietro dei documenti che avrebbe dovuto consegnare ai magistrati, come due fotografie che ritraevano Emanuela Orlandi in Turchia. Le foto arrivavano dal boss della Magliana (morto nel 1997) Domenico Zumpano e mostrerebbero Emanuela viva negli anni ’90 vicino al confine con la Grecia.

 

12 maggio 2011
La giornalista e scrittrice Anna Maria Turi presenta il suo libro “Emanuela nelle braccia dell’Islam” (Segno 2011). Secondo lei, grazie a informazioni arrivate da un agente dei servizi segreti di nazionalità marocchina, le due ragazze erano vittime di «sfruttamento sessuale di ragazzi, adescati prima e poi costretti a partecipare a festini organizzati per personaggi altolocati, religiosi o laici». La Turri ha intervistato il 27/03/03 anche mons. Simeone Duca: «D’abitudine si organizzavano dei festini, e ciò avveniva anche nella sede di un’Ambasciata straniere presso la Santa Sede. Nella faccenda era coinvolto un gendarme vaticano. L’idea delle ragazze era quella di divertirsi e di guadagnare un po’ di soldi. Quanto alla Orlandi, dopo essere stata sfruttata, è stata fatta sparire e quindi uccisa». Secondo la Turri a causa di complicazioni avvenute durante questi festini, furono rapite e trasferite in Turchia per proteggere l’immagine del Vaticano che comunque sarebbe stato ricattato da un’organizzazione criminale locale su questioni legate al Medio Oriente. Mirella sarebbe morta a causa di un’epatite virale, mentre Emanuela Orlandi -al contrario di quanto dice mons. Duca- vivrebbe in una comunità islamica sotto il nome di Fatima e non ricorderebbe più niente del passato. I nomi di Emanuela e Mirella sarebbero apparsi in una trattativa tra la Turchia e l’Italia, «fallita senza motivi accettabili dal senso comune e di cui l’opinione pubblica non è mai stata messa a conoscenza».

Scettico sulla tesi il legale della famiglia Orlandi, Massimo Krogh: «Non ci sono elementi di fatto per convalidare la tesi. Noi come difesa abbiamo sempre pensato che fosse stata rapita per uno scambio con Agca».

Pino Nicotri si dimostrerà scettico dalle conclusioni parlando di « affermazioni francamente difficili da digerire». Rispetto alle dichiarazioni di mons. Duca si domanderà come mai la Turri, nonostante la sua amicizia con il sacerdote, non è mai riuscita ad approfondire meglio la questione o ad avere qualche parola in più? Don Simeone è morto nel giugno 2006, prima della pubblicazione del libro, senza mai dire nient’altro. Possibile?

 

10 maggio 2011
Pietro Orlandi in un’intervista afferma: «Io so chi ha rapito Emanuela. È un sistema, un intreccio di poteri che collegano il sequestro all’attentato a Wojtyla. I mandanti volevano condizionare la volontà del Papa». Ha proseguito: «Wojtyla è stato molto vicino, anche personalmente, alla mia famiglia, e questo ci è stato di grande conforto. A differenza di Agca, però, io sono convinto che sapesse». Il 27 luglio parlò in lacrime ai genitori Orlandi di un’organizzazione terroristica e nel dicembre 1983 disse: “Cari Orlandi, voi sapete che esistono due tipi di terrorismo, uno nazionale e uno internazionale. La vostra vicenda è un caso di terrorismo internazionale“. Il Papa non si può esporre in questo modo se non sa, riferisce Pietro. Cita la lettera inviata nel 2009 a Benedetto XVI: «La Santa Sede, che io considero la mia seconda famiglia, questa volta non ha ritenuto di spendere nemmeno una parola per una ragazza che era cittadina vaticana. È questa indifferenza da parte degli uomini della Chiesa, questo muro di gomma opposto con ostinazione alla chiarezza e al dolore che mi fa male e che rende difficile, a me credente, continuare a credere in chi dovrebbe rappresentare Cristo in terra»

 

04 maggio 2011
Alla trasmissione “Chi l’ha visto?” telefona un anonimo che afferma: «Non posso al momento attuale lasciare il mio recapito e il mio nome. Telefono a proposito del caso Orlandi-Gregori. Tutte e due le scomparse sono opera della stessa mano, un’esca interna al Vaticano nel caso Gregori e un informatore sempre interno al Vaticano, nel caso Orlandi. Basta che andiate un po’ a rivedere la storia e sopratutto cercate di riparlare con …. amica di Mirella Gregori, lei lo sa chi è stata l’esca che l’ha fatta rapire. Ok? Vi richiamerò».

 

12 aprile 2011
Lo scrittore Sandro Provvisionato pubblica il libro: “L’attentato al papa. Il mistero Ali Agca” (Chiare Lettere 2011), nel quale afferma che Emanuela sarebbe stata rapita come conseguenza del fallimento dell’attentato a Giovanni Paolo II da parte del blocco dell’Est. Agca avrebbe raccontato la scomoda verità sull’attentato infastidendo i sostenitori occidentali della Ostopolitik, per questo il Vaticano non volle più parlarne e i nostri servizi segreti, assieme a quelli dell’Est, sviarono le indagini. La sparizione di Emanuela sarebbe servita per intimidire e attirare in una trappola Agca che stava rivelando la “pista bulgara”. Per questo il 26/6/83, due giorni dopo la sparizione di Emanuela, Agca ha smesso di collaborare ritrattando tutto.

Il coautore del libro, Ferdinando Imposimato, ex magistrato e poi legale della famiglia Orlandi, spiega che la “pista bulgara” verrà comunque accreditata dalle indagini: Assen Marchevski (autore di “I misteri italo-bulgari”, Stango 2002), interprete dell’ambasciata bulgara, ha riferito che i giudici bulgari Ormankov e Markov Petkov (che sarebbero agenti segreti bulgari) hanno cercato di convincere Sergej Antonov a dichiararsi complice di Ali Agca, ma secondo fini privati e non per conto dello Stato bulgaro. Ali Agca ritrattò tutto perché venne minacciato nel carcere di Rebibbia proprio dai due falsi giudici, in contatto anche con la Stasi. Quest’ultimo ha confermato a Imposimato, in maniera non ufficiale, che dietro l’attentato al Papa c’erano i bulgari che portarono le indagini verso i Lupi Grigi e la Cia. Il grande intrigo sarebbe continuato fino alla morte della guardia svizzera Estermann (1998), spia della Stasi, che stava per fuggire all’estero rivelando l’intrigo (tesi respinta dal Vaticano e dalla commissione berlinese incaricata ad esaminare gli archivi della Stasi)

 

02 febbraio 2011
All’agenzia Adnkronos arriva in sei pagine una missiva contenente dettagliate informazioni, nomi, fatti e luoghi sul caso Orlandi. Sabrina Minardi avrebbe fatto dichiarazioni solo in parte veritiere e per altri versi sarebbe stata reticente. La lettera è stata consegnata alla procura di Roma a cui è comunque destinata.

 

20 novembre 2010
Maurizio Giorgetti afferma che Emanuela Orlandi è viva: «E’ un parere assolutamente personale, ma io credo che sia viva e stia in un paese che si chiama kastoria, in Grecia, al confine con la Turchia».

 

13 ottobre 2010
Maurizio Giorgetti dice che in un palazzo (in terra italiana, ma di proprietà del Vaticano) di fronte alla casa della Orlandi abitava allora, al quarto piano, monsignor Edward Prettner Cippico(la cosa è stata confermata dalla redazione di “Chi l’ha visto?” chiedendo agli abitanti). Cippico, morto nel 1983, venne accusato nel primo dopoguerra di importazione illecita di capitale, processato, arrestato e poi prosciolto, sospeso “a divinis” dal Vaticano. Giorgetti è convinto che sia stato lui uno dei tramiti tra lo IOR ed esponenti della Magliana, ha spiegato di conoscere bene Cippico con cui faceva operazioni finanziare, il quale frequentava anche Ciletto (Angelo Cassani). Giorgetti dice di avere in Svizzera date e incontri molto scottanti.

 

08 ottobre 2010
Il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, titolare degli accertamenti del “caso Orlandi”, insieme con il sostituto Simona Maisto, afferma: «Siamo convinti che la Banda della Magliana sappia che fine abbia fatto Emanuela Orlandi», per questo stanno monitorando attività passate e presenti dell’organizzazione criminale.

Don Pedro Huidobro, dal 2005 rettore della chiesa di Sant’Apollinare, commenta l’accoglienza della salma di De Pedis nella basilica: «Non è sepolto dentro la basilica, ma in una cripta esterna, sotterranea, che poi è uno sgabuzzino, piccolo, chiuso, umido con una tomba a forma di tavola e la scritta “Enrico De Pedis”. Non è una cappella né un luogo di culto. Quell’area non è nemmeno consacrata».

 

15 settembre 2010
In una puntata di “Chi l’ha visto?” Maurizio Giorgetti, ex esponente dell’estrema destra romana, condannato per reati finanziari, ha rivelato (anche ai magistrati) di aver frequentato esponenti della Magliana negli anni ’80 e di aver ascoltato Angelo Cassani “Ciletto” e Giuseppe de Tomasi parlare di una ragazzina, la Orlandi, da prelevare perché bisognava recuperare il denaro del boss Manlio Vitale «affidato da esponenti della Banda della Magliana a chi non voleva o non poteva restituirli». Poco dopo la sparizione di Emanuela li avrebbe sentiti parlare della necessità di allontanare da Roma questa persona, l’avrebbe fatto Ciletto con la sua Bmw. Giorgetti afferma di essere disponibile ad un confronto su questo con De Tomasi e Cassani, ha parlato solo ora perché è malato, è vecchio e vuole morire sul campo di battaglia.

Il 17/09/10 Giorgetti dice di aver subito una finta rapina a scopo intimidatorio, il mandante sarebbe stato Vitale. Nel dicembre 2010 la procura scoprirà che a rapinarlo è stata la figlia trentenne, insieme con un complice. Secondo gli inquirenti al momento non c’è nessun collegamento con le rivelazioni fatte.

In questa stessa puntata vengono fatte sentire due registrazioni pervenute alla redazione della trasmissione le quali contengono due telefonate tra “L’Americano”e il centralino della Santa Sede. Una suora risponde, “L’Americano” pronuncia il codice “158” (la procedura per parlare direttamente al segretario di Stato mons. Casaroli), ma in entrambe le telefonate la registrazione termina appena mons. Casaroli risponde

 

⬆ 8. La pista Hidalgo, la Magliana e i collaboratori di giustizia (2010-2013) ⬆

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03 aprile 2010
Don Pedro Huidobro, rettore della basilica di Sant’Apollinare dal 2004, afferma di non sapere che, in cambio della tumulazione di «Renatino», qualcuno nel ’90 avrebbe versato tra i 500 e i 600 milioni di lire. Il rettore ha comunque ribadito: «Enrico De Pedis è sepolto qui perché è stato un grande benefattore della basilica, come è scritto nel sito di monsignor Pietro Vergari». La bara non si troverebbe in una cappella costruita apposta nella cripta, ma «in una specie di sgabuzzino sotto la chiesa». Secondo la procura ci sarebbe chi avrebbe versato 500 miliardi per la sepoltura, e questo sarebbe il motivo. Mons. Huidobro risponde: «I magistrati non ci credono? Che vengano ad aprire la tomba, finora non l’hanno mai fatto. Il Vicariato è sempre stato disponibile, con la nota dell’altro giorno ha solo ufficializzato la sua posizione». Intervistati anche gli avvocati Maurilio Prioreschi e Lorenzo Radogna, legali della famiglia De Pedis, hanno risposto: «La famiglia De Pedis ha da tempo dato la sua disponibilità a compiere esami sulla salma. Se deve essere compiuto un accertamento si proceda, ma finisca questa speculazione continua».

 

03 aprile 2010
Durante una puntata della trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?”, presente anche Natalina Orlandi, la sorella di Emanuela, chiama in diretta (minuto 00:03:00) Giuseppe De Tomasi, che secondo alcuni sarebbe il “Mario” che chiamò in casa Orlandi il 28/06/83, pochi giorni dopo la scomparsa di Emanuela. Tomasi nega di avere qualcosa a che vedere con la vicenda: «non solo non c’entro niente, ma non so manco di cosa parlano, di cosa vogliono, di cosa dicono. Lei la telefonata l’ha sentita no? [rivolto alla conduttrice], la mia voce è così squillante, normale che è una cosa veramente assurda». Ha affermato che non c’entra nulla con il rapimento.

Nel 2011 una sentenza del 1994 lo ha scagionato in quanto De Tomasi venne arrestato il giorno prima della sparizione di Emanuela.

 

11 marzo 2010
Viene indagato Sergio Virtù, 49 anni, per sequestro di persona e omicidio volontario rispetto a Emanuela Orlandi, e interrogato da Capaldo e Maisto. Secondo l’accusa, l’uomo era l’autista di Enrico De Pedis, a fare il suo nome Sabrina Minardi, ex compagna di De Pedis e Fabiola Moretti, e una terza persona, che lo hanno collegato alla scomparsa di Emanuela. Virtù, tuttavia, respinge ogni accusa. A finire nel mirino degli inquirenti anche Angelo Cassani, detto ‘Ciletto’ e Gianfranco Cerboni detto ‘Giggetto’, che erano stati già arrestati per un sequestro di persona nel 1996. Loro avrebbero pedinato la ragazza pochi giorni prima del rapimento.

 

04 febbraio 2010
Il quotidiano “Repubblica” pubblica una video-inchiesta in cui viene intervistato Antonio Mancini, “l’accattone”, ex membro della Banda della Magliana e oggi collaboratore di giustizia. Afferma che De Pedis aveva affidato i suoi soldi al Banco Ambrosiano e allo IOR, quei soldi non erano tornati indietro. Hanno provato con l’attentato (fallito) a Roberto Rosone vicepresidente del Banco Ambrosiano, ma non ha funzionato. Hanno così iniziato a circolare foto di Papa Wojtyla in costume da bagno nell’estate 1980, fu Lucio Gelli (P2) ad aver ridato al Papa stesso queste foto. Ma neanche con questo, dice Mancini, si è riuscito a smuovere chi aveva i soldi di De Pedis. Calvi, preoccupato, ha cominciato a far pressione sul Vaticano per poter rientrare con questi soldi, diventando un soggetto pericoloso. Viene trovato impiccato nel luglio 1982, la responsabilità sarebbe sempre di De Pedis che ha voluto togliere un possibile soggetto scomodo per chi aveva questi soldi, in modo da lasciarlo più libero. Ma nemmeno questo ha funzionato. Emanuela Orlandi, ha continuato Mancini, è stato un altro elemento di pressione, che avrebbe funzionato (cioè i soldi sarebbero tornati). Qualcuno avrebbe suggerito il nome di Emanuela a De Pedis. L’ex membro della Banda si mostra dubbioso sull’attività di Ercole Orlandi: «era soltanto un messo? Per un messo mi danno i soldi?». Mancini conferma tutto il racconto della Minardi sulla Orlandi e afferma che il telefonista “Mario” era uno della Magliana, “Ciletto” o “Rufetto”. Rispetto alla dichiarazione di Agca che vorrebbe riportare Emanuela viva a casa dice: «Me lo auguro, saremmo tutti più contenti».

 

30 gennaio 2010
Ad Istanbul avviene un incontro tra Pietro Orlandi, fratello di Emanuela e Ali Agca. Quest’ultimo è stato definitivamente scarcerato dalla prigione di Ankara da due settimane («sono un uomo libero ormai, non ho bisogno di nulla, e nessun potere occulto», dice). Qui c’è la trascrizione integrale del dialogo: Emanuela sarebbe stata rapita dal governo vaticano per ottenere la sua liberazione, aiutati da Cia, servizi segreti americani e Sismi. Coinvolti anche: i domenicani, il principe del Liechtenstein, il Sisde (agenti segreti italiani), in particolare il cattolico Vincenzo Parisi. A conoscere i dettagli della scomparsa di Emanuela sarebbe il cardinale Giovambattista Re. Emanuela sarebbe viva, ma senza l’intervento del Vaticano «rimarrà dove sta, sotto il controllo». Secondo Agca sarebbe in Europa, in un ambiente religioso e lei saprebbe tutto, non sta male, non ha mai subito nessun maltrattamento. Del percorso di Emanuela dice di conoscere solo “il primo tratto”, ovvero che sarebbe passata dal Liechtenstein e per liberarla occorre la Cia, e occorre attivare gli elementi cattolici nel governo americano: Joseph Biden, Nancy Pelosi e Leon Panetta. Il Vaticano, ha continuato, dirà a loro come liberare Emanuela dato che ha detto a loro come rapirla, come nasconderla e come gestire l’operazione. Per ottenere un risultato occorrerebbe in ogni caso salvare la faccia al Vaticano, alla Cia e al Sismi, e buttare tutta la responsabilità sui Lupi grigi.

Secondo Agca, il governo vaticano, i servizi segreti vaticani, i servizi segreti americani Cia, i servizi segreti italiani Sismi hanno rapito anche un’altra persona, Vitaliy Yurchenko, colonnello del Kgb poi passato alla Cia. Lo avrebbero messo nei Musei vaticani e poi la Cia e il Sismi lo avrebbero portato al quartier generale della Cia. Dopo un omaggio a Giovanni Paolo II ha spiegato che i servizi segreti dell’Est avrebbero depistato le indagini per addossare la colpa ai turchi “Lupi Grigi”. Dopo l’incontro, Pietro Orlandi ha informato il card. Re circa il contenuto del colloquio ma il cardinale non ha voluto ascoltare il resoconto registrato e ha smentito decisamente di essere a conoscenza di alcunché. Nessun magistrato ha chiamato Pietro Orlandi per informarsi sui nomi fatti da Agca (che inizialmente non vennero diffusi).

 

19 gennaio 2010
La procura di Roma fa sapere che non ha alcuna intenzione di ascoltare Alì Agca, l’attentatore del Papa tornato uomo libero, perché sulla vicenda della Orlandi avrebbe detto troppe cose e contraddittorie tra loro.

 

2010
Una notizia molto vaga viene data nel gennaio 2012, ovvero l’intercettazione di una telefonata tra mons. Vergari e un giovane prete birmano: molto esplicita sessualmente, scabrosa e dai contenuti irriferibili (il giovane prete si masturba al telefono descrivendo la scena a don Vergari, il quale cerca di cambiare discorso ma prestando comunque attenzione al racconto). L’attenzione degli investigatori, in particolare, sarebbe rivolta ai seminaristi di Sant’Apollinare, alcuni dei quali avrebbero interrotto il percorso e si sarebbero poi «smarriti».

 

28 dicembre 2009
Maurizio Abbatino, pentito della Banda della Magliana, interrogato dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, rivela di aver sentito da altri esponenti della banda che furono Enrico De Pedis e i suoi uomini a sequestrare Emanuela Orlandi. Al magistrato dice che il sequestro avvenne nell’ambito dei rapporti che «Renatino» aveva con alcuni esponenti del Vaticano e che ad aiutare il boss furono diversi uomini di sua fiducia, alcuni ancora in vita, altri deceduti da tempo. Si ricorda che nel 2008 Maurizio Abbatino aveva invece negato qualsiasi coinvolgimento della banda nella vicenda Orlandi.

Il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo ascolta anche Claudiana Bernacchia, detta “Casco d’oro”, uno dei personaggi femminili di maggior spicco della banda della Magliana. La Bernacchia nega invece ogni coinvolgimento della Banda della Magliana nel sequestro di Emanuela Orlando ed esclude un ruolo di Enrico De Pedis e di altri suoi uomini nel rapimento della 15enne cittadina vaticana. Le sue risposte non sarebbero state particolarmente convincenti, sarebbe apparsa più che reticente.

 

23 dicembre 2009
Rispetto alla sepoltura di Enrico De Pedis nella basilica di Sant’Apollinare di Roma, la procura di Roma e il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, interrogano Carla Di Giovanni, vedova De Pedis, don Pedro Huidobro rettore della basilica e monsignor Pietro Vergari, ex rettore di Sant’Apollinare. Si conclude affermando che «i documenti per la sepoltura di De Pedis in S. Apollinare sono apparsi tutti in regola». La cosa venne comunque già appurata nel 1995-’97 dal magistrato romano Andrea De Gasperis sulla scia di alcuni articoli di denuncia de “L’Unita” e del “Il Messaggero”, oltre che da una interpellanza della Lega Nord e di una protesta del sindacato di polizia. De Pedis è comunque sepolto nei sotterranei della basilica, in un corridoio abbandonato da oltre un secolo e, contrariamente a quanto si crede, non situato in terra consacrata.

 

10 dicembre 2009
Il pentito della banda della Magliana, Antonio Mancini, riferisce al procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo che Emanuela Orlandi fu rapita dalla Banda della Magliana e in particolare dal gruppo dei testaccini. L’esecutore materiale del sequestro sarebbe stato Enrico De Pedis. Dietro il sequestro, ha riferito, ci sarebbero stati i problemi finanziari tra l’organizzazione criminale romana e il Vaticano. Mancini ha sottolineato di aver appreso queste circostanze «de relato» ossia da esponenti appartenenti alla banda o a questa in un qualche modo collegati, tra i quali il testimone ha citato «Ciletto» e «Rufetto». Secondo Mancini il telefonista che si qualificò come “Mario” e che telefonò a casa Orlandi sei giorni dopo il rapimento sarebbe un personaggio che appartiene all’entourage di De Pedis. Il testimone ha anche confermato che «Sergio» era l’autista di De Pedis ed avrebbe fornito anche le generalità complete di questa persona.

L’attendibilità di Mancini è tuttavia già da molti anni piuttosto scarsa. Al processo per l’uccisione del giornalista Mino Pecorelli, ucciso nel marzo 1978, ha “rivelato” ai magistrati che l’arma del delitto subito dopo l’omicidio sarebbe stata data a De Pedis, affermazione smentita dal fatto che nel 1978 e fino a tutto il ’79 “Renatino” era chiuso a chiave in carcere, a Rebibbia.

 

19 novembre 2009
La procura interroga Giuseppe De Tomasi, il presunto “Mario” che telefonò in casa Orlandi il 28/06/83, sei giorni dopo la scomparsa di Emanuela. Secondo i magistrati avrebbe partecipato al sequestro di Emanuela, è un gregario della banda della Magliana. Tuttavia nel 2011 una sentenza del 1994 lo ha scagionato in quanto De Tomasi venne arrestato il giorno prima della sparizione di Emanuela.

 

18 novembre 2009
Sabrina Minardi conferma la sua testimonianza al procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, affermando che Emanuela Orlandi è morta e il suo copro gettato nella betoniera, gettato da Sergio Virtù. Il racconto è stato ritenuto attendibile, uno degli inquirenti ha affermato che «rispetto al precedente verbale in cui appariva un po’ confusa, la Minardi ha coordinato tutto in un racconto articolato». La donna, con il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, ha anche corretto alcune incongruenze temporali fatte nel suo primo racconto, come quella che si riferisce alla sparizione di Domenico Nicitra, figlio di un boss della banda della Magliana. La teste ha chiarito che il secondo corpo non era quello di Domenico Nicitra. La donna avrebbe anche identificato “Mario”, la voce che chiamò la famiglia Orlandi pochi giorni dopo la sparizione, sarebbe Giuseppe De Tomasi (che però risulterà essere in carcere in quel periodo).

 

8-10 aprile 2009
A casa Orlandi arriva Rita Del Biondo e spiega a Pietro di vivere in Turchia e che Emanuela è viva e sta in una casa in Marocco. Dice di essere sposata con un turco, Salin Sufuler, il quale prima di conoscerla viveva a Monaco, in Germania, dove gestiva un locale. Una sera nel 1981 arrivarono tre turchi, ai quali Sufuler offrì la cena a causa delle loro scarse condizioni economiche. Tempo dopo, leggendo un articolo sull’attentato al Papa, Sufuler riconobbe in Alì Agca uno dei tre ragazzi, l’altro era Oral Celik. La donna è venuta a conoscenza del rapimento di Emanuela e pochi anni fa ha spinto il marito ad andare a parlare con Oral Celik, a Malatya. Assieme a Celik sono andati in Marocco a trovare la terza persona, seduta al ristorante di Monaco. In quella casa c’era Emanuela. Pietro e l’ex magistrato Imposimato chiamarono il marito della donna, Sufuler, il quale confermò il racconto e si dimostrò disponibile ad incontrare la famiglia e i magistrati (chiese però dei soldi per recuperare informazioni). Si recarono anche ai carabinieri mettendo a verbale tutta la vicenda ma non vennero più richiamati perché Sufuler, dopo un interrogatorio per telefono, venne giudicato inattendibile (anche la moglie, la Del Biondo, aveva precedenti per truffa) (“Mia sorella Emanuela”, pag. 229-251).

Salin Sufuler era già noto ai magistrati pochi mesi dopo l’attentato al Papa. Dalla sentenza del giudice Adele Rando del 1984 si apprende che Sufuler divenne “amico” di un carabiniere, Aprile Giuseppe, e lo convinse ad accompagnarlo in Vaticano. Il 22/12/84 avvenne un incontro con il segretario particolare del Papa, il card. Stanislaw Dziwisz, durante il quale Sufuler affermò che Emanuela si trovava prigioniera in Italia e che era in contatto con uno dei sequestratori con il quale avrebbe diviso il compenso richiesto (700 milioni). Il 24/12/84 un secondo incontro. La consegna del denaro era prevista per il 27/12/84 ma vennero avvisati i carabinieri che giudicarono inaffidabile Sufuler (con precedenti per truffa, estorsione, già espulso dalla Repubblica federale tedesca), e il “baratto” naufragò (“Mia sorella Emanuela”, pag. 243,244).

 

17 marzo 2009
Pietro Orlandi ha consegnato a mons. Giovanni D’Ercole, capo della prima sezione Affari generali della Segreteria di Stato, una lettera per Benedetto XVI. In essa invita il Pontefice a prendere in considerazione la vicenda (“Mia sorella Emanuela”, pag. 281).

 

23 febbraio 2009
Muore Gianluigi Marrone, magistrato italiano e in seguito anche Vaticano.

Secondo Pino Nicotri, esperto del “caso Orlandi”, la famiglia Orlandi ha sempre taciuto alla stampa il fatto che Marrone era il dirigente del parlamento italiano che inviava in Vaticano le rogatorie e contemporaneamente rispondeva “no” essendo il magistrato unico in Vaticano. Marrone ha risposto a Nicotri: «Quando il Vaticano mi ha offerto quell’incarico ho chiesto all’allora presidente della Camera, Nilde Jotti, se potevo accettare o no, e la Jotti mi diede il permesso. Io in Vaticano non potevo fare altro che firmare ciò che mi veniva detto di firmare, senza poter fare mie indagini. Se poi lei, Nicotri, mi chiede se il Vaticano sul caso Orlandi ha detto tutto quello che sa, allora io le rispondo che no, non ha detto tutto quello che sa». Nicotri fa anche notare che la segretaria di Marrone al Parlamento italiano era Natalina Orlandi, cioè una delle sorelle di Emanuela.

 

15 ottobre 2008
Maurizio Abbatino, uno dei capi storici della Magliana, dichiara: «La Banda della Magliana non c’entra niente con la scomparsa di Emanuela Orlandi. Sembra che la Magliana sia diventata una discarica: tutto quello che non si riesce o non si vuole venirne a capo, si incolpa la Banda della Magliana. Sono sicuro che la Banda non c’entra niente con il caso Orlandi. Abbiamo fatto un sacco di cose orrende e gravi, non credo che mai nessuno sia arrivato a sequestrare una ragazzina».

Il 20/12/09 Abbatino dirà invece di aver sentito da altri esponenti della banda che furono Enrico De Pedis e i suoi uomini a sequestrare Emanuela.

 

01 settembre 2008 Giuglio Gangi ha precisato rispetto alla sua presenza in casa Orlandi negli immediati giorni successivi alla sparizione: «Fu una mia iniziativa perché ero molto amico dei cugini, conoscevo anche il fratello. Fui io a presentarmi a casa degli Orlandi, la sera dopo, insieme ad un amico comune, Marino Vulpiani, che è medico e dunque fa tutt’altro mestiere. Anche lui era preoccupatissimo perché viveva a Torano, lo stesso paese della famiglia. L’unico agente del SISDE a occuparsi della vicenda, fin dai primi giorni, sono stato io» (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 23). Nell’autunno 2005 disse: “Bisogna che io sfati una leggenda inventata da voi giornalisti. Cominciamo col dire che io conoscevo gli Orlandi da prima della scomparsi di Emanuela: ero giovane, avevo poco più di vent’anni. Mario Meneguzzi, lo zio della Orlandi, aveva una figlia e proprio di questa ragazza mi innamorai. Mi piaceva tantissimo, era riservata, educata, elegante nel comportamento. Una brava ragazzi che conobbi perché l’estate dell’82 andai con un amico a fare una gita fuori porta nel paesino dove gli Orlandi avevano una casetta di villeggiatura (Torano). Fu così che la vidi per la prima volta. Quindi non è vero che il Sisde mi ordinò di infiltrarmi nella famiglia Orlandi per chissà quale scopo. Ad ogni modo, non mi fidanzai mai con la ragazza in questione, ci conoscemmo e diventammo amici. Ci frequentammo tra il 1982 e il 1983 perché le facevo la corte. La sera che scomparve Emanuela lei mi telefonò e mi diede la notizia. Poi mi richiamò due giorni dopo -il 25 giugno 1983- e mi chiese se potevo dare una mano a cercarla perché le avevo detto che ero della polizia, non del Sisde. La sera del 25 andai a casa Orlandi, in Vaticano. Mi accompagnò il collega amico col quale quella volta andai a fare la gita, lui rimase in strada io salii a casa loro e parli coi genitori e lo zio. In quel momento al Sisde non importava un accidenti di Emanuela Orlandi” (“Dodici donne un solo assassino?”, pag. 184,185).

 

14 agosto 2008
Il settimanale “Visto” Viene ritrovata una Bmw di colore grigio scuro (mentre il vigile Sambuco e il poliziotto Bosco parlavano del colore “verde chiaro”) in un parcheggio di villa Borghese, dove era stata abbandonata nel 1995. «La descrizione – si legge – coincide con le dichiarazioni rese ai magistrati da Sabrina Minardi». Secondo gli accertamenti «risulta che il primo proprietario sia stato Flavio Carboni, l’imprenditore indagato e assolto nel processo di primo grado sulla morte di Roberto Calvi». La squadra mobile avrebbe iniziato le analisi dell’automobile per trovare tracce di Emanuela, ad oggi (2013) nulla è stato trovato.

 

07 luglio 2008
Durante la trasmissione televisiva Chi l’ha visto?”, arriva una telefonata anonima: «Buongiorno io sono “il Biondino”, un amico di Renatino De Pedis. Perché la Minardi ha parlato solo adesso? Eh? Come mai? E poi perché state buttando fango su Renatino? Ma voi non sapete che Renatino ha fatto del bene a tutta Trastevere? A delle famiglie con non potevano nemmeno mangiare. Perché poi la Minardi? Perché la Minardi era solo una cocainomane. Io sono un amico di Renatino e ho lavorato pure per lui. Dite a quell’infame di Mancini [Antonio Mancini è ex membro della Banda della Magliana e oggi pentito e collaboratore di giustizia, nda] perché è un infame, sentisse bene questa voce, lo sa chi sono, e stia attento perché lo sto cercando, e state attenti a parlare male di Renatino perché sono affari vostri. E vi voglio dire un’altra cosa: state sputando su un uomo morto, che ha aiutato tutta Roma. Tanto la Orlandi lo sa bene che è morta. Arrivederci».

 

06 luglio 2008
Il Giudice unico vaticano, Gianluigi Marrone, in un’intervista per “L’Osservatore Romano” afferma: «in questi anni ci sono state insistenti richieste di rogatorie da parte di autorità di altri Stati, accompagnate sempre da false polemiche, il più delle volte montate dai media in mancanza di notizie; ma, badi bene, per notizie che si voleva costruire a tutti i costi anche se non c’era nulla da rendere noto. Posso personalmente assicurare, perché moltissime volte sono stato parte in causa, che il Vaticano non ha mai risposto negativamente a una richiesta di rogatoria. Ciò anche nel penoso fatto di cronaca tornato prepotentemente alla ribalta in questi giorni: mi riferisco alla vicenda Orlandi. Sono stato coinvolto spesso nella preparazione di queste rogatorie e, per quel che mi compete, le assicuro che tutte hanno avuto regolare risposta. Altro è, naturalmente, se la risposta viene ritenuta soddisfacente o no. Questo è un altro tipo di discorso. Se a me si chiede di interrogare una persona, io la interrogo. Ma se poi le risposte fornite non corrispondono alle aspettative, perché magari si pensava che la persona potesse dare altre risposte, questo non si può imputare al tribunale; e in ogni caso non si può dire che il Vaticano non ha collaborato o, peggio ancora, continuare a dire che non c’è mai stata collaborazione con la magistratura italiana».

 

27 giugno 2008
Max Parisi, rivela il racconto di un amico del fratello di Maurizio Abbatino (uno dei capi della Magliana e poi pentito), il quale avrebbe visto Emanuela Orlandi alla discoteca Ciack nell’82, dove c’era anche il suo fidanzato, ma anche Roberto Abbatino, fratello di Maurizio. Il fidanzato della Orlandi, avrebbe fatto il dj di questa discoteca, facendoli entrare gratuitamente. Inoltre dice che il fidanzato passò dei guai al momento della scomparsa di Emanuela, questo glielo avrebbe raccontato il suo amico Roberto Abbatino, fratello di Maurizio. Ha anche affermato che l’uomo che negli ultimi tempi frequentava la madre (poi uccisa), aveva una Bmw Touring dagli interni crema. Il giornalista Pino Nicotri, che ha visionato il diario di Emanuela, ha trovato la frase: “sto da nove mesi con Marcello”.

Parisi spiega anche che tra la fine del 1988 e l’inizio del 1989 la magistratura aveva fatto mettere sotto controllo alcuni telefoni intestati a società i cui amministratori risultavano dei prestanome dei boss della Magliana, le forze dell’ordine scoprirono casualmente di un giro di prostitute slave e minorenni. La persona che sembrava essere coinvolta direttamente in questa porcheria, ovvero colei che parlava di queste cose ai telefoni sotto controllo, era proprio Sabrina Minardi, sedicente amante di De Pedis. Stando alle intercettazioni, era attivo un vastissimo giro di prostituzione tra la Toscana e Perugia con una clientela anche romana di alto rango. Secondo lui, Emanuela «cadde nella trappola di un adescatore “professionista”, non di un maniaco isolato. Lei, come chissà quante altre ragazzine scomparse nel nulla – la casistica è sterminata – viene sì rapita, ma da un’organizzazione che si dedica a un mostruoso genere di “affari”». E’ noto, secondo lui, che i boss della Magliana trafficassero in eroina, droga che veniva fornita loro da bande di narcos turchi in affari anche con Cosa Nostra, cioè i Lupi Grigi di Alì Agca. «Non è difficile ipotizzare», afferma, «che qualcuno possa avere offerto loro un’arma – le povere cose di Emanuela Orlandi e qualche smozzicato ricordo captato dai suoi veri sequestratori – per ricattare il Vaticano e lo Stato italiano» per la liberazione di Agca.

 

26 giugno 2008
Max Parisi, co-autore di “Dodici donne un solo assassino?” (Koinè 2007), afferma che, piuttosto di concentrarsi sulla tomba di De Pedis, sarebbe importante analizzare il diario di Emanuela Orlandi, su cui scrisse fino a pochi giorni prima della scomparsa. Il diario fin da subito è stato sequestrato dal Sisde (“Mia sorella Emanuela”, pag. 59). Vi sarebbe scritto il nome di una persona con la quale intratteneva una relazione, «ma da quel nome le indagini non sono riuscite a risalire -o non si è voluto che accadesse– all’individuo in carne e ossa, e questo sebbene Emanuela Orlandi l’avesse scritto chiaramente più volte. A quel nome -inoltre- non corrisponde nessuno degli amici della ragazzina e neppure dei conoscenti. Questo porta a dire che Emanuela Orlandi aveva una relazione sconosciuta a tutti con una persona completamente estranea al suo mondo adolescenziale. Quel nome l’ho saputo e mi ha colpito. Non intendo divulgarlo, ma ritengo sia arrivato il momento di riprendere le indagini anche su questo versante». Il giornalista Pino Nicotri, che ha visionato il diario di Emanuela, ha trovato la frase: “sto da nove mesi con Marcello”. Perché questo nome avrebbe colpito Parisi? C’è scritto forse dell’altro?

 

25 giugno 2008
Durante una puntata della trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?”, una telespettatrice em>chiama il centralino e dice di aver riconosciuto una persona di sua conoscenza negli identikit di coloro che furono presumibilmente visti pedinare Emanuela prima della sparizione. Riferisce nome e cognome, spiegando che è un pregiudicato con problemi con la giustizia negli anni 1980-1981 e, proprio per questo fatto, i suoi dati erano presenti negli archivi della polizia. E’ la verità, si è anche scoperto che la foto del pregiudicato è oltretutto incredibilmente somigliante a quella dell’identikit realizzato.

 

25 giugno 2008.
Sabrina Minardi ritratta la fine del suo racconto, dicendo che Emanuela non fu uccisa, ma imbarcata su un aereo, a Ciampino, con destinazione un paese arabo. Prima di salire sull’aereo la giovanissima sarebbe stata tenuta prigioniera in un sotterraneo facente parte di un appartamento di Monteverde a Roma.

 

24 giugno 2008
Padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, in merito le recenti dichiarazioni di Sabrina Minardi alla magistratura circa un ipotetico coinvolgimento di mons. Marcinkus nel rapimento di Emanuela Orlandi, dichiara: «Colpisce il modo in cui ciò avviene, con l’amplissima divulgazione giornalistica di informazioni riservate, non sottoposte a verifica alcuna, provenienti da una testimonianza di valore estremamente dubbio. Si ravviva così il profondissimo dolore della famiglia Orlandi, senza dimostrare rispetto e umanità nei confronti di persone che già tanto hanno sofferto. Si divulgano accuse infamanti senza fondamento nei confronti di S.E. Mons. Marcinkus, morto da tempo e impossibilitato a difendersi. Non si vuole in alcun modo interferire con i compiti della magistratura nella sua doverosa verifica rigorosa di fatti e responsabilità. Ma allo stesso tempo non si può non esprimere un vivo rammarico e biasimo per modi di informazione più debitori al sensazionalismo che alle esigenze della serietà e dell’etica professionale».

 

06 giugno 2008
Il quotidiano Il Giornale pubblica un articolo in cui si descrive l’incontro tra il giornalista John Costa, ex vaticanista della Reuters, con monsignor Luigi Rigano. Quest’ultimo è incuriosito dal racconto di Sabrina Minardi, sopratutto perché dice «cose vere, altre verosimili e altre ancora facilmente smentibili» (come la questione di Nicitra), sembra che «qui c’è già pronta la via d’uscita, per rimettere tutto a tacere. Ma intanto il segnale è stato mandato…». Si passa a parlare di mons. Paul Marcinkus: «quante ne hanno raccontate su di lui! Truffatore, donnaiolo, ora pure organizzatore di rapimenti e ricattatore… No, guarda, io lo conoscevo bene. Era una persona con una grande umanità e disponibilità. Non dico che non fosse sensibile al denaro, a un certo lusso, gli piaceva il golf… ma da qui a farne un criminale ce ne corre. Marcinkus… in realtà era un incompetente. Altro che mago della finanza». Il caso Orlandi sarebbe un ricatto da parte della malavita romana per riciclaggio di denaro sporco. «La leggerezza di Marcinkus fece risultare lo Ior coinvolto. E dopo la morte di Calvi, qualcuno volle mandare un segnale al Vaticano, a Marcinkus, e fu rapita Emanuela. Cioè una persona innocente, figlia di un dipendente vaticano. Era una pressione pesantissima, più forte dell’’attentato a Papa Wojtyla. Si mandava a dire alle autorità della Santa Sede: possiamo colpire le persone innocenti vicine a voi…». Marcinkus era il destinatario del ricatto, non il mandante. Starebbe emergendo il tutto adesso, secondo mons. Rigano, per influenzare le prossime mosse dello Ior o bloccare la causa di beatificazione di Giovanni Paolo II

 

19 marzo 2008
In un secondo colloquio con i magistrati, Sabrina Minardi riferisce che Marcinkus metteva sul mercato estero i soldi provenienti dai sequestri, un favore a De Pedis. A volte portava alcune ragazze minorenne a Marcinkus in un appartamento in via Porta Angelica, le apriva il suo segretario di nome Flavio. In altre occasioni, ha detto ancora la Minardi, «mi ricordo che una volta Renato portava sempre delle grosse borse di soldi a casa. Sa, le borse di Vuitton, quelle con la cerniera sopra. Mi dava tanta di quella cocaina, per contare i soldi dovevo fare tutti i mazzetti e mi ricordo che contò un miliardo e il giorno dopo lo portammo su a Marcinkus».

Ha poi raccontato meglio la vicenda del cantiere, dove sarebbe morta Emanuela: arrivò Sergio con la sua macchina e con De Pedis mise in moto una betoniera, dentro cui vennero buttati due sacchi. Ha quindi chiesto a De Pedis cosa ci fosse dentro: “Ah, è meglio ammazzalle subito, levalle subito le prove”, risposte. «E chi c’era? Dice: “che te lo devo dì io!” Poi, io andai a casa e spinta dalla curiosità, le dico la verità, lo feci pippà Renato […] e lui me lo disse. Cioè lui mi disse queste cose. “Le prove si devono estirpare…” Lui usava molto questa parola: “dall’inizio, dalla radice. Non lo so se sta ragazza aveva visto qualcuno; non essendoci più nè i corpi, nè niente, era meglio togliere di mezzo tutto, la parola tua contro la mia”, diceva lui». La Minardi ha comunque premesso di stare in una comunità terapeutica, di aver usato per anni cocaina e psicofarmaci, «insomma, un pò di tutto, non mi sono fatta mancare niente, per cui i miei ricordi sono anche…Cioè, io magari un giorno mi ricordo nitidamente una cosa, ci ripenso dopo qualche giorno e me la ricordo un pò così, poi mi ritorna in mente una frase…».

La donna ha riferito che la sua relazione con De Pedis iniziò nella primavera inoltrata dell’82 e andò avanti fino a novembre ’84. Quindi, Renatino venne arrestato e lei lo avrebbe rivisto dopo la sua uscita dal carcere nell’87. Secondo Pino Nicotri, esperto del “caso Orlandi”, Sabrina Minardi non sarebbe attendibile. Anche secondo Pietro Orlandi di «stranezze nelle dichiarazioni della testimone ce ne sono tante»: innanzitutto i tempi non corrispondono, consegnano Emanuela al prete e poi ce l’hanno sempre loro nella casa al mare? O comunque manca un altro “passaggio di mano”: il religioso restituisce Emanuela ai rapitori? La Minardi non ha mai dato una prova certa, ha descritto correttamente i cunicoli di via Pignatelli, ma questo dimostra solo la sua vicinanza a esponenti della Magliana. La vedova di De Pedis, Carla, ha anche smentito il fatto che lei fosse stata l’amante di Renatino

 

14 marzo 2008
Sabrina Minardi si presenta alla procura di Roma dicendo di voler offrire la sua testimonianza, l’inchiesta riparte guidata dal procuratore aggiunto Italo Ormanni. La Minardi sostiene che Emanuela sarebbe stata tenuta prigioniera in un sotterraneo facente parte di un appartamento di proprietà di Daniela Mobili in via Antonio Pignatelli a Roma, successivamente sarebbe stata eliminata assieme ad un bambino, Domenico Nicitra, figlio di un altro boss della banda, da parte di “Sergio”, l’autista di Renatino. Avrebbe informato anche del coinvolgimento di mons Marcinkus. Alla specifica domanda tramite chi Renato era stato delegato a prendere Emanuela, la donna avrebbe risposto: «tramite lo Ior…quel monsignor Marcinkus…Renato ogni tanto si confidava». Sulle motivazioni del sequestro, avrebbe poi affermato: «stavano arrivando secondo me sulle tracce di chi…perché secondo me non è stato un sequestro a scopo di soldi, è stato fatto un sequestro indicato. Io ti dico monsignor Marcinkus perché io non so chi c’è dietro…ma io l’ho conosciuto a cena con Renato…hanno rapito Emanuela per dare un messaggio a qualcuno». La testimone avrebbe sottolineato di non sapere chi materialmente prese Emanuela: «Quello che so è che (la decisione, ndr) era partita da alte vette…tipo monsignor Marcinkus…È come se avessero voluto dare un messaggio a qualcuno sopra di loro. Era lo sconvolgimento che avrebbe creato la notizia».

 

Febbraio-Marzo 2008
Due cartelle dattiloscritte anonime arrivano alla casa della madre di Emanuela, l’autrice dice di voluto inviare questa lettera da tanto tempo, poi scrive: «Emanuela purtroppo è morta la notte stessa della sua scomparsa». L’autrice dice che nell’83 era una studentessa e amante di De Pedis, non per amore ma per il brivido della trasgressione, era anche autista e segretaria, «ritirando delle buste chiuse e un numero convenzionale di riferimento al Banco di Santo Spirito all’Eur e le consegnavo a politici, poliziotti, magistrati ed anche preti, a sant’Apollinare». Parla poi del rapimento di Emanuela: il 22 giugno la chiama De Pedis dicendole di «andare in via Cavour a caricare un ospite». L’auto è dei genitori della donna, una 131. Continua: «l’avrei riconosciuto perché indossava una camicia gialla e aveva con sé un grosso borsone. La destinazione era Sant’Apollinare». Era mezzanotte e «ci aprì personalmente Monsignore». Entrarono in uno «studio o sacrestia» e per terra c’era una ragazza giovane, sembrava morta. “Camicia gialla” mise la ragazza, avvolta da una coperta, nel baule dell’auto. La donna seguì l’ordine di tornare a casa, poi alle 3 di notte la chiamò Enrico De Pedis, assieme andarono al cimitero di Prima Porta. Dopo aver lampeggiato con i fari un uomo anziano aprì il cancello, Enrico scese e tornò dopo mezz’ora. Il racconto continua dicendo che «Enrico mi consegnò una busta e disse che conteneva dieci milioni. Non l’aveva mai fatto. Dissi qualcosa come: “accidenti come pagano bene i preti”, ma Renatino mi rispose che quei soldi erano per lei (l’autrice di questa lettera, nda). Poi aggiunse: “io invece dormirò con i cardinali e i santi”. Non capii cosa avesse voluto dire». Le lettera si conclude: «Solo recentemente appresi che Enrico era sepolto in Sant’Apollinare e collegai le sue parole di allora […]. Emanuela riposa a Prima Porta, ma non so dove e come è stata sepolta…questo è tutto».

Il racconto è evidentemente molto simile a quello di Sabrina Minardi. Secondo Pietro Orlandi si tratta di «un escamotage per sondare il terreno, per studiare le reazioni di fronte a rivelazioni tardive e sconvolgenti, magari nella speranza che noi familiari la rendessimo pubblica» (“Mia sorella Emanuela”, pag. 223,224).

 

Febbraio-Marzo 2008
Viene pubblicato il libro “Emanuela Orlandi, la verità” scritto da Pino Nicotri, in esso si afferma che un noto studioso di cose vaticane, quasi sempre al seguito dei viaggi all’estero di Wojtyla, ha cercato spontaneamente Nicotri nel 2003 informandolo di una rivelazione fatta da due agenti del Sisde, ovvero che Emanuela sarebbe morta la sera stessa della scomparsa in un appartamento, nei pressi di una curva, di via Monte del Gallo, strada vicina al Vaticano sul lato che va verso il Gianicolo. A poca distanza c’è la stazione ferroviaria di S. Pietro della linea Livorno-Roma. Torna in mente un particolare: nella telefonata dell’Americano del 5 luglio 1983 si sentono nella registrazione distintamente alcuni fischi di treno in sottofondo.

 

26 giugno 2006
La polizia scientifica, dopo aver ascoltato la testimonianza di Sabrina Minardi, irrompe nell’appartamento di via Pignatelli e vi trova parecchi riscontri con il racconto della donna. Viene scoperto anche un corridoio sotterraneo, di cui lei aveva accennato, che portava direttamente all’ospedale san Camillo (850 metri in linea d’aria). Dai consumi dell’acqua del giugno 1983 si certificò che effettivamente quell’appartamento venne abitato.

 

15 marzo 2006
Daniela Mobili viene ascoltata dagli inquirenti in merito all’omcidio di Roberto Calvi, capo del Banco Ambrosiano. La donna abitava in Circonvallazione Giannicolese 161, dove vennero anche cercate delle tracce della presenza di Emanuela Orlandi. La Mobili è stata in carcere dal 1982 al 1984 e secondo i successivi racconti di Sabrina Minardi, sedicente amante di De Pedis, sarebbe stata la sua governante, Teresina, ad avere avuto a che fare con Emanuela, accudendola mentre era segregata in un altro appartamento della Mobili, in via Antonio Pignatelli n°13.

 

autunno 2005 Giuglio Gangi ha precisato rispetto alla sua presenza in casa Orlandi negli immediati giorni successivi alla sparizione: “Bisogna che io sfati una leggenda inventata da voi giornalisti. Cominciamo col dire che io conoscevo gli Orlandi da prima della scomparsi di Emanuela: ero giovane, avevo poco più di vent’anni. Mario Meneguzzi, lo zio della Orlandi, aveva una figlia e proprio di questa ragazza mi innamorai. Mi piaceva tantissimo, era riservata, educata, elegante nel comportamento. Una brava ragazzi che conobbi perché l’estate dell’82 andai con un amico a fare una gita fuori porta nel paesino dove gli Orlandi avevano una casetta di villeggiatura (Torano). Fu così che la vidi per la prima volta. Quindi non è vero che il Sisde mi ordinò di infiltrarmi nella famiglia Orlandi per chissà quale scopo. Ad ogni modo, non mi fidanzai mai con la ragazza in questione, ci conoscemmo e diventammo amici. Ci frequentammo tra il 1982 e il 1983 perché le facevo la corte. La sera che scomparve Emanuela lei mi telefonò e mi diede la notizia. Poi mi richiamò due giorni dopo -il 25 giugno 1983- e mi chiese se potevo dare una mano a cercarla perché le avevo detto che ero della polizia, non del Sisde. La sera del 25 andai a casa Orlandi, in Vaticano. Mi accompagnò il collega amico col quale quella volta andai a fare la gita, lui rimase in strada io salii a casa loro e parli coi genitori e lo zio. In quel momento al Sisde non importava un accidenti di Emanuela Orlandi” (“Dodici donne un solo assassino?”, pag. 184,185). Nel settembre 2008 disse: «Fu una mia iniziativa perché ero molto amico dei cugini, conoscevo anche il fratello. Fui io a presentarmi a casa degli Orlandi, la sera dopo, insieme ad un amico comune, Marino Vulpiani, che è medico e dunque fa tutt’altro mestiere. Anche lui era preoccupatissimo perché viveva a Torano, lo stesso paese della famiglia. L’unico agente del SISDE a occuparsi della vicenda, fin dai primi giorni, sono stato io» (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 23).

 

03 ottobre 2005
Il Vicariato di Roma emette un Comunicato stampa: «Gli attuali responsabili del Vicariato, pur comprendendo che tale sepoltura possa sollevare notevoli perplessità, devono precisare di essere venuti a conoscenza di essa soltanto dopo la morte del Cardinale Ugo Poletti, che la autorizzò, e di non possedere altre informazioni in merito, al di là dell’autorizzazione stessa e di un attestato di Mons. Piero Vergari, allora Rettore della Basilica di S. Apollinare, già resi pubblici dai mezzi di comunicazione […]. Non si ritiene d’altronde di dover procedere all’estumulazione, stante l’autorizzazione concessa dall’allora Cardinale Vicario, oltre che per il rispetto che comunque si deve ad ogni defunto […]. Appare infine infondato qualsiasi collegamento tra la scomparsa di Emanuela Orlandi, che ha avuto luogo il 22 giugno 1983, e la sepoltura di Enrico De Pedis in S. Apollinare, avvenuta oltre sei anni dopo: questo Vicariato comunque per parte sua non si oppone ad eventuali accertamenti in merito».

Sul suo sito web, mons. Pietro Vergari, ha scritto come ha conosciuto De Pedis: «Nel carcere mai ho domandato a nessuno perché era là o che cosa aveva fatto. Tra le centinaia di persone incontrate dei più diversi stati sociali, parlavamo di cose religiose o di attualità; Enrico De Pedis veniva come tutti gli altri, e fuori dal carcere, ci siamo visti più volte: normalmente nella chiesa di cui ero rettore, sapendo i miei orari e altre volte fuori, per caso. Mai ho veduto o saputo nulla dei suoi rapporti con gli altri, tranne la conoscenza dei suoi familiari. Aveva il passaporto per poter andare liberamente all’estero. Mi ha aiutato molto per preparare le mense che organizzavo per i poveri. Quando seppi dalla televisione della sua morte in Via del Pellegrino, ne restai meravigliato e dispiacente. Qualche tempo dopo la sua morte i familiari mi chiesero, per ritrovare un po’ di serenità, poiché la stampa aveva parlato del caso e da vivo aveva espresso loro il desiderio di essere un giorno sepolto in una delle antiche camere mortuarie, abbandonate da oltre cento anni, nei sotterranei di S. Apollinare, di realizzare questo suo desiderio. Furono chiesti i dovuti permessi religiosi e civili, fu restaurata una delle camere e vi fu deposto. Anche in questa circostanza doveva essere valido come sempre, il solenne principio dei Romani “Parce sepulto”: perdona se c’è da perdonare a chi è morto e sepolto. Restammo d’accordo con i familiari che la visita alla cappella funeraria era riservata ai più stretti congiunti. Questo fu osservato scrupolosamente per tutto il tempo in cui sono rimasto rettore, fino al 1991».

Quanto affermato da mons. Vergari è stato confermato pienamente dalla vedova di Carla De Pedis.

 

18 luglio 2005
Alla redazione del programma televisivo “Chi l’ha visto?” arriva una chiamata anonima che dice: «Riguardo al fatto di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso, andate a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant’Apollinare, e del favore che Renatino fece al cardinal Poletti, all’epoca, e chiedete al barista di via Montebello, che pure la figlia stava con lei..l’altra Emanuela». Da questo momento il caso di Emanuela si lega definitivamente con la Banda della Magliana e Enrico De Pedis. E’ possibile che con la seconda frase si volesse intendere, magari confondendosi, non tanto Mirella Gregori ma Sonia De Vito, anch’essa figlia di un barista che aveva il locale sotto la casa dei Gregori?

Nella cripta a Sant’Apollinare c’è Enrico De Pedis, la vicenda era nota dal 9 luglio 1997 grazie ad un articolo apparso su “Il Messaggero”. Partono dei controlli che trovano documenti originali d’autorizzazione allo spostamento dei resti di De Pedis dal cimitero del Verano, a Roma, alla cripta sotterranea della basilica di Sant’Apollinare, firmati -come si è già detto- da monsignor Piero Vergari, allora Vicario di Roma Ugo Poletti. In via Montebello c’è il bar del padre di Mirella Gregori, morto da tempo

Secondo gli inquirenti la voce anonima apparterrebbe a Carlo Alberto De Tomasi, figlio di Giuseppe De Tomasi, uno dei cervelli della Banda della Magliana. Sempre secondo gli inquirenti, Giuseppe sarebbe il “Mario” che chiamò a casa Orlandi il 28/06/1983, tuttavia nel 2011 è emersa una sentenza del 1994, in cui si afferma che il 21/06/1983, giorno prima della sparizione di Emauela, Giuseppe De Tomasi veniva tratto in arresto con mandato di cattura n. 6932/81 A Gi, per riciclaggio di denaro. De Tomasi non può aver rapito Emanuela, non può aver telefonato dal carcere, né dunque essere stato “Mario”.

 

⬆ 6. La sepoltura di De Pedis e Sabrina Minardi (2005-2010) ⬆

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20 aprile 2005
Durante la Commissione parlamentare d’inchiesta, Ilario Martella, il magistrato che si è occupato dell’attentato a Giovanni Paolo II, risponde ad una domanda sul legame fra il sequestro della Orlandi e il tentativo di utilizzarlo come merce di scambio per liberare Ali Agca: «non posso dire che esistono elementi concreti, ma solo ipotesi plausibili. Emanuela Orlandi viene rapita proprio nel periodo più caldo della mia istruttoria. Anzi, ricordo che all’epoca mi trovavo in Bulgaria. Per quanto si sia cercato di trovare soluzioni diverse da queste, devo dire che non sono state trovate. Ora mi sembra, al di fuori di ogni prova concreta che non esiste, che continui a sussistere il sospetto dell’esistenza di un collegamento fra l’attentato al Papa e il sequestro della Orlandi, in quanto – ripeto – non sono state trovate soluzioni diverse o di pari plausibilità».

 

06 maggio 2004
Il giornalista Pino Nicotri telefona all’avv. Gennaro Egidio, legale degli Orlandi, il quale offre il suo punto di vista sulla vicenda di Emanuela e Mirella: «andiamo a cercare delle cose che non stanno né in cielo né in terra, mentre in effetti non vogliamo considerare due possibilità anche che sono veramente quelle che poi la realtà ci offre. Chi è che esclude che possa essersi trattato di due scomparse, che poi queste due storie sono state adoperate? Io credo che siano state adoperate». E’ possibile che Emanuela si sia allontanata di sua iniziativa, «tutto è possibile. C’è tutta la questione dove loro passavano le vacanze, nel paesino, lì a Torano eccetera eccetera. Tutta gente che era intorno alla zia dell’Emanuela, cioè… Anna mi pare che si chiami. Questa donna che veniva seguita addirittura e nonostante la sua età…e non vorrei aggiungere altro. Che è una santa donna, una bravissima donna. E perché c’era una persona che era diventato un amico addirittura dell’Anna e compagnia bella, e lei quindi parlava liberamente, perché parlava sempre molto bene, con orgoglio dei suoi… della nipote e degli altri, cioè… E quindi non si è mai capito questo tizio chi fosse, come mai poi dopo alla fine è scomparso proprio dopo che Emanuela era scomparsa […]. Il nome… lui dette un nome falso all’Anna. Questo è il punto. Questo tizio magari successivamente potrebbe avere a che fare, per l’amor del cielo […] Questo qui accompagnava, questo qui accompagnava e conosceva molto bene l’Anna, che l’aveva conosciuto mi sembra, mi sembra di ricordare, se ricordo bene, che in via Cola di Rienzo c’era quest’uomo, mentre lei era in un negozio, che poi lei conobbe. E poi questo cominciò a conoscerla, a seguirla, a frequentarla… e delle volte uscivano anche con l’Emanuela insieme […] Ci sono state tante di quelle persone che volevano seguire questa storia che veniva adoperata per altri fini, per altre questioni». Nicotri afferma: «E anche gli Orlandi credo non sapessero in realtà chi era e che faceva la figlia», risposta: «Sono pienamente d’accordo con lei»

Occorre ricordare che la zia Anna (morta a novembre 2011 a 80 anni) ha sempre abitato in casa Orlandi, crescendo Pietro, Emanuela e gli altri figli assieme a Maria e Ercole Orlandi. Tuttavia dopo la scomparsa di Emanuela, la zia Anna ha smesso di abitare in Vaticano per trasferirsi nel paesino di Torano. Intervistata da Pino Nicotri ha risposto che l’uomo conosciuto in via Cola Di Rienzo le aveva dato un nome falso (confermato anche da Ercole Orlandi) e che quando lei scoprì che era sposato decise di non vederlo più. Lo stesso potrebbe aver detto, sempre secondo Nicotri, anche ai magistrati. Secondo la fotografa Roberta Hidalgo, invece, la zia Anna sarebbe addirittura la vera mamma di Emanuela, che l’avrebbe avuta dalla relazione con Paul Marcinkus, in seguito avrebbe avuto una relazione con un uomo sposato, il cui cognome era Giuliani e che abitava con la propria moglie nel paesino di Torano, dove gli Orlandi andavano a passare le vacanze (il paese è lo stesso citato anche da Egidio nella telefonata). Secondo la fotografa la relazione adulterina tra Anna e Giuliani era ben nota in paese, dopo la scomparsa di Emanuela si ritirò a Torano dove accolse in casa Giuliani quando questi rimase paralizzato e andò a vivere con lei fino alla morte. Da allora Anna Orlandi si fece chiamare Giuliana Giuliani, cognome al quale aveva anche intestato il telefono di casa.

Secondo l’avvocato Egidio non c’è alcun legame tra la sparizione della Orlandi e quella della Gregori. Quest’ultima potrebbe invece essere entrata in un circolo di prostituzione minorile da quanto si capisce: «Proprio per la Mirella, c’è una frase che forse inquadra la storia. La ragazza disse alla mamma di non preoccuparsi per i soldi necessari a comprare una casa, che ci avrebbe pensato lei. La madre di Mirella rimase esterefatta e quella poverina potrebbe essere caduta in un giro molto strano o qualcosa di illecito e poi quindi si è persa. Quindi allora…[…] penserei che il caso della Gregori potrebbe essere sempre un caso che rientra in quello che era magari un traffico…». Ad un certo punto in una telefonata anonima vennero descritti gli abiti anche intimi con cui scomparve Mirella, l’avvocato Egidio risponde così: «Ah guardi io poi dopo su quei dati naturalmente io domandai parecchio a tutti. In effetti per esempio la sua amica, la Sonia, sapeva molto bene quello che aveva indosso la Mirella. Perché in effetti le scarpe sapeva che le aveva comprate lei in quel negozio, il maglione glielo aveva prestato lei. La Sonia è stata sempre un elemento molto difficile, i carabinieri ci hanno provato in tutti i modi, la polizia anche. L’hanno interrogata, stra-interrogata fino al punto che diviene poi maggiorenne, non c’era più nulla da fare. La Sonia era quella che le cose… la confidente della Mirella. Prima di scomparire si rinchiusero per quindici minuti, mi pare, nella toilette del bar di Sonia. E quindi avrà senz’altro, Mirella avrà detto dove andava e per quale motivo. E chissà che magari la Sonia non dovesse andare anche lei e che in effetti è andata avanti la Mirella e Mirella è caduta nell’inganno. Hanno parlato da amiche, erano amiche del cuore con Sonia. Dopodiché Mirella sarebbe andata all’appuntamento dal quale poi non è più tornata. Ed è strano che la Sonia… Ecco, la Sonia ha avuto sempre paura di parlare».

 

10 giugno 2002
Il 6/6/12 la trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?” ha pubblicato una nota riservata destinata alla Conferenza Episcopale Italiana, datata 10/6/2002 in cui c’è scritto: «Non accogliete i giovani presentati da monsignor Pietro Vergari», ovvero il rettore della Basilica di Sant’Apollinare. Si legge ancora: «A giudizio del Dicastero della Santa Sede è necessario che gli Ordinari diocesani italiani non accolgano, né promuovano agli ordini sacri soggetti presentati da Monsignor Pietro Vergari, o comunque provenienti dal suo ambiente, e che frequentano, con permessi di soggiorno, sembra ottenuti surrettiziamente, le Università romane». In un altro documento, datato nel 2007, si afferma che don Vergari, senza alcuna autorizzazione, ha attuato per anni un’opera di “discernimento vocazionale” e si invitano a non accogliere i giovani presentati da lui.

 

13 maggio 2001
Padre Giovanni Ranieri Lucci, il parroco della chiesa di San Gregorio VII, contigua alle mura del Vaticano, ritrova nel confessionale un teschio chiuso in due buste, è piccolo, privo della mandibola, con i denti dell’arcata superiore mancanti. Tra la prima e la seconda busta c’è un santino di Padre Pio. A poche decine di metri, in piazza San Pietro, il Papa sta parlando alla folla di fedeli dell’attentato subito esattamente vent’anni prima. Dalla prima perizia effettuata sul cranio, viste le piccole dimensioni, si è supposto che potrebbe essere quello di una ragazza, forse morta quindici o venti anni fa. Da un primo tentativo di comparazione tra la foto del teschio e quella del viso di Emanuela Orlandi risulterebbe una straordinaria coincidenza di caratteristiche. E’ stato disposto l’esame del Dna e i genitori della giovane scomparsa, anche se sono convinti che non si tratti di loro figlia, si sono resi disponibili alla comparazione. La comparazione del DNA avrà esito negativo, ma questo fatto lasciò comunque molti dubbi. Successivamente il teschio sarà attribuito a quello di Mirella Gregori

Il criminologo Francesco Bruno sostiene che il teschio sia quello di Emanuela: «Una data compatibile con l’eventuale morte di Emanuela; il teschio sarebbe rimasto sepolto nella terra durante questi anni. I denti potrebbero essere stati estratti quando la ragazza era ancora in vita, o successivamente, nell’intento di non rendere possibile il suo riconoscimento. Il teschio potrebbe aver subìto dei colpi che forse hanno tramortito la vittima. Si tratta sicuramente di un corpo di reato: quella persona non è morta naturalmente».

 

06 maggio 1998
Il “Corriere della Sera” intervista l’ex premier Giulio Andreotti, il quale allontana i sospetti dal Vaticano: «Del Sant’Uffizio è rimasta solo la targa sulla piazza e ormai ha anche aperto i suoi archivi. Sono romano, ho vissuto in ambiente cattolico, ho dimestichezza con quel mondo: mi pare assai più trasparente di quanto si possa immaginare». Rispetto a Emanuela dice: «è una delle molte ragazze scomparse in Italia nel dopoguerra: unico caso tra gli abitanti del Vaticano. Purtroppo in questo tipo di eventi il mistero è quasi sempre insuperabile».

 

04 maggio 1998
In Vaticano avviene l’uccisione del colonnello Alois Estermann, sua moglie e il vicecaporale Cédric Tornay. Il colonnello Esterman era stato nominato da poche ore comandante della Guardia Svizzera. Nessuno, al di fuori delle autorità vaticane, ha mai potuto verificare come si siano svolti i fatti, e questo ha alimentato molte e contrastanti versioni. La tesi ufficiale è che Tournay in preda a raptus di follia, si sarebbe introdotto nell’appartamento del proprio comandante, il colonnello Estermann, e lo avrebbe ucciso con la pistola di ordinanza, avrebbe sparato a sua moglie e si sarebbe suicidato. Tale versione è stata messa fortemente in dubbio, e per alcuni sarebbe stata sconfessata, dalla moglie di Tournay, Muguette Baudat, e dai suoi avvocati Jacques Vergès e Luc Brossollet. A sostegno della tesi ufficiale il libro “Garde suisse au Vatican” scritto dalla guardia svizzera Stephane Sapin

Il quotidiano tedesco “Berliner Kurier” rivelerà che il colonnello Alois Estermann sarebbe stato un informatore, se non un agente attivo, della Stasi con il nome in codice “Werder”. Stessa versione verrà offerta anche dal giornale polacco “Super Express” dopo avere intervistato il capo della Stasi, Markus Wolff detto “Misha”. Estermann sarebbe stato un agente della Stasi dal 1979, ancor prima di entrare nella Gendarmeria Vaticana e in veste di spia avrebbe redatto e consegnato ai propri superiori almeno sette rapporti, fra il 1981 e l’84. Anche nel libro “L’Agente secret du Vatican” (Edizioni Albin Michel) di Vicotr Guitard, si cita la testimonianza di Giovanni Saluzzo (un prelato formato nei quadri dell’ufficio segreto internazionale “Sodalitium Pianum”, fondato nel 1909 da mons. Umberto Benigni), amico e collega di Cedric, secondo il quale Estermann sarebbe stato ucciso dopo la scoperta della sua collaborazione con la Stasi. Il 9 maggio 1998 Johan Legner, portavoce della Gauck Behoerde (l’ufficio incaricato dal governo federale tedesco di analizzare e catalogare i documenti contenuti negli archivi della Stasi), dirà a Repubblica: «Tutto ciò che è stato riferito ai giornalisti del Berliner Kurier è “deckungsgleich”, cioè assolutamente identico a quanto contenuto nelle carte della Stasi. I minimi dettagli tornano tutti». Tuttavia, dopo l’intervista al giornale polacco, Wolff ritrattò tutto in un’altra intervista al quotidiano italiano “Repubblica” nell’aprile 2005, dicendo che l’agente “Werder” non era il colonnello Estermann ma il benedettino Eugen Brammertz inserito nella redazione de “L’Osservatore Romano”. La tesi del legame con la Stasi è stata respinta dal Vaticano

Antonino Arconte, ex agente segreto italiano, ha rivelato nel 2009 di avere incontrato Estermann nel marzo 1998, con il nome di “Werder”, il quale disse che l’attentato al Papa era un ordine proveniente da Mosca, «l’impero sovietico stava franando e il Papa polacco andava fermato a qualunque costo». La regia dell’attentato era stata delegata dal Kgb ai servizi bulgari che avevano buoni contatti con i trafficanti turchi: Agca avrebbe dovuto morire in piazza San Pietro, subito dopo avere ucciso Giovanni Paolo II, così l’attentato sarebbe stato attribuito agli estremisti islamici. Ma Agca, che aveva intuito qualcosa, si è tirato indietro all’ultimo momento e ha mancato il colpo mortale. Werder si mostrò sfuggente a domande personali, disse di ricevuto minacce e che per lui tirava una brutta aria a Roma: «Mi riferì che lavorava in Vaticano, senza però precisare che ruolo avesse. Mi disse solo che, per tenerlo buono, gli avevano promesso una promozione molto importante sul lavoro. E proprio questa circostanza lo aveva insospettito. Capii che mi stava lasciando intendere di essere stato un agente doppio o un infiltrato dell’Est. Considerando che di lingua madre era tedesco, mi venne spontaneo pensare che potesse essere della Stasi». Arconte non avrà più contatti con “Werder”, la mattina del 5 maggio 1998 vide sui giornali la foto di “Werder” «e lessi che era il capo della Guardia svizzera del Papa, capii anche quello che non mi aveva detto. E compresi anche perché “Werder” voleva lasciare l’Italia».

Pochi mesi prima della morte, secondo il giornalista Ferruccio Pinotti autore di “Poteri Forti” (Rizzoli Bur), Estermann si sarebbe recato più volte, in incognito, a Danzica e Varsavia per coordinare l’arrivo di imprecisato materiale proveniente dalla Scandinavia e destinato al sindacato cattolico polacco “Solidarnosc”. Paolo Gabriele, il maggiordomo del Papa arrestato nel maggio 2012, ha affermato: «Il nostro è un Paese dove si può entrare, fare una strage e andarsene indisturbati e dopo 24 ore nessuno può mettere bocca su quello che è successo».

 

21 marzo 1998
Il giudice istruttore Rosario Priore firma la sentenza relativa alla terza inchiesta originata dall’attentato a Giovanni Paolo II il 13/08/81 assolvendo i 13 cittadini turchi indicati da Alì Agca come suoi complici. Scrive che ha dovuto fronteggiare «enormi difficoltà, ostacoli, deviazioni, se non veri e propri boicottaggi […] e ciò a dimostrazione di quanto siano forti, prepotenti e soverchianti gli interessi a che non si faccia luce sull’evento e sulle sue matrici […]. Tale delitto fu il risultato di un complotto di alto livello, e cioè che a monte dell’esecuzione, anzi degli esecutori materiali vi furono organizzatori ed entità con ogni probabilità statuali». Priore afferma anche: «Molti interrogativi di questa inchiesta avrebbero avuto necessità, per tentare di risolverli, dell’ausilio della Città del Vaticano» ma si sarebbe manifestato l’intento «di chiudere ogni indagine sul delitto e porre una pietra tombale sulla verità» (“Mistero Vaticano”, pag. 8)

 

19 dicembre 1997
Il giudice ispettore Adele Rando conclude le sue indagini mettendo per iscritto che quello della Orlandi non si è trattato di rapimento ma di messa in scena depistatrice, chiede poi uno stralcio per accusare di concorso nella scomparsa il sovrastante maggiore della polizia vaticana, Raoul Bonarelli (“Emanuela Orlandi, la verità”, pag. 19). Parla «di una strumentale connessione della scomparsa di Mirella con il caso di Emanuela, probabilmente allo scopo di accrescere la complessità del quadro investigativo di quest’ultima vicenda, rendendolo, se possibile, ancora più inestricabile». Dopo sette anni di indagini, vede un risultato privo di fondamento il movente politico-terroristico. In effetti, Agca è tornato in patria, ha ottenuto la grazia dal Presidente Ciampi il 13 giugno 2000, ma di Emanuela non si è più saputo nulla.

 

⬆ 5. Prima archiviazione (1997-2005) ⬆

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27 ottobre 1997
Alla trasmissione televisiva Telefono Giallo arriva una telefonata di un uomo che dice: «Sono Pierluigi, se parlo mi ammazzano»7G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 8.

Arriva una seconda telefonata da parte dell'”Amerikano” che chiede di parlare con l’avv. Egidio presente in studio, accreditandosi con il codice 158 (lo stesso codice fornito dall’uomo nel 1983 quando pretese una linea riservata in Vaticano). Le indagini portarono ad identificare Roberto Magnani, il quale disse effettivamente di aver telefonato quella sera ma preso dall’emozione di aver fornito false generalità. Ci saranno dubbi sull’identificazione dell’utenza che non verranno sciolti8G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 9.

 

09 ottobre 1997
Il sostituto procuratore generale della Corte d’appello di Roma, Giovanni Malerba, riportando ampi stralci della deposizione del prefetto Parisi del 9/2/94, sottolinea: «Le riferite valutazioni circa il riserbo che ha costantemente caratterizzato la condotta delle autorità vaticane, lungi dal costituire isolate e personali opinioni del teste (cioè di Parisi, ndr.), trovano concreto supporto negli atti della formale istruzione». Al sostituto procuratore generale «non risulta agevole comprendere le ragioni» della condotta assunta dalla Santa Sede. Infine: «Se tale riserbo era doveroso nei confronti dei mass media, non altrettanto può apparire nei confronti degli inquirenti».

 

07 ottobre 1997
In un’intervista Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, commenta la decisione della procura generale di archiviare l’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela, ma di continuare a indagare sui depistaggi afferma: «So che nelle vicende che lo riguardano il Vaticano non vuole esporsi, non vuole rischiare. Non so che informazioni raccogliesse il Vaticano sulla scomparsa di mia sorella. Se hanno fatto un’indagine interna, non ce l’hanno mai fatto sapere». Ha affermato che in Vaticano «ci sono sempre stati vicini con la preghiera», ma non è stato sufficiente: «Mettiamola così: il Vaticano non ha aiutato una sua cittadina». Rispetto all’operato dei magistrati: «Loro ci hanno sempre informato di ciò che hanno voluto. E il famoso segreto istruttorio, che non vedo perché debba esistere per le famiglie. Comunque i magistrati hanno lavorato. Sicuramente trovandosi di fronte al Vaticano hanno incontrato parecchie difficoltà. E un ambiente impenetrabile». Secondo lui c’è un legame con l’attentato a Giovanni Paolo II e la liberazione di Alì Agca.

In seguito a questa intervista, Pietro Orlandi -allora dipendente dello IOR- racconta di essere stato chiamato dal card. Castillo Lara, presidente del Governatorato e della Commissione cardinalizia dell’Istituto per le Opere di Religione (deceduto nel 2007), il quale si risentì molto dell’articolo pubblicato e dei sospetti, sostenendo che il Vaticano non c’entrasse nulla (“Mia sorella Emanuela”, pag. 193).

 

settembre 1997
L’ex terrorista Alì Agca scrive alla famiglia Orlandi, affermando: «nel mio cuore siete esattamente come la mia amatissima famiglia in Turchia. Voi che state soffrendo, compiendo un grande sacrificio da 15 anni per me, seppur non per colpa mia. Io assicuro tutta la vostra famiglia che Emanuela sta bene, la sua integrità fisica e morale viene garantita assolutamente. E’ una piccola questione di tempo, un giorno Emanuela tornerà a voi […], questa lettera deve rimanere un segreto assoluto tra Noi, e nessuno deve sapere nulla. Siate sereni, Emanuela è viva. integra, tranquilla e ritornerà a voi» (“Mia sorella Emanuela”, pag. 254).

 

9 luglio 1997
Un articolo de Il Messaggero rivela pubblicamente che Enrico De Pedis è sepolto nella cripta a Sant’Apollinare a Roma.

 

26 luglio 1995
Dal carcere di Montacuto (Ancona), l’ex terrorista Alì Agca chiede di essere interrogato sulla vicenda Orlandi. Racconta che il 31/12/81 ricevette la visita in carcere degli uomini del Sismi e del Sisde, che gli promisero la libertà nel giro di due anni, dato che il Pontefice e Pertini gli avrebbero concesso la grazia. Afferma che il telefonista, chiamato “l’Americano”, era un agente della Cia di nome Aldrich Ames, arrestato nel febbraio 1994 per spionaggio a favore dell’Unione sovietica e della Russia e condannato all’ergastolo (con un passato, nel ’69, Ankara, in Turchia). Secondo Agca è lui la mente del rapimento della Orlandi: «Emanuela è stata plagiata e trasferita in un altro Paese, sotto il controllo della Cia, da elementi italo-americani». Nella sua deposizione Agca afferma che a maggio e ottobre 1982, mentre era nel carcere di Rebibbia, si presentarono l’agente del Sismi Francesco Pazienza e Aldrich Ames, invitandolo ad accusare i bulgari e i sovietici dell’attentato al Pontefice, per infliggere all’Est europeo una pesante sconfitta politica: «Se tu tiri in ballo uomini dell’ambasciata di Bulgaria a Roma, sarai libero in poco tempo e nessuno sarà condannato», gli dissero, aggiungendo che il caso si sarebbe risolto politicamente e che dell’intera questione era informato Paul Henze, capo della Cia ad Ankara. Gli diedero anche una lettera di Henze in cui Agca veniva invitato a collaborare e in cambio avrebbe ottenuto la libertà: la Cia avrebbe simulato un reato, “prendendo” qualcuno del Vaticano per scambiarlo con lui. Agca sarebbe poi stato inviato in Centroamerica, Costarica o Panama. Pazienza e Ames spiegarono a Agca che per sostenere la versione c’erano documenti che provavano la volontà del Cremlino di eliminare il Papa e che nel condominio romano, in via Pola, di Sergej Antonov, colonnello dei servizi bulgari coinvolto nell’attentato a Wojtyla, abitava un agente della Cia che era pronto a sostenere di aver visto Agca assieme a Antonov, in modo da rendere credibili le dichiarazioni dell’ex terrorista turco. Diedero ad Agca dei fogli con dati dei bulgari da accusare, Pazienza -sempre secondo il racconto di Agca- rivelò che qualcuno ai vertici del Vaticano gli aveva dato incarico di seguire il suo caso personalmente. Più avanti, ha continuato il racconto di Agca, un emissario dell’agente del Sismi Pazienza contattò Agca e gli fornì dettagli della casa di Antonov, in modo che potesse provare ai magistrati di esservi stato. Parlò anche di una parete scorrevole che divideva il salotto in due vani. Agca dice infine che il caso Orlandi è strettamente legato al caso Vitaly Sergeyenich Yurchenko, colonnello del Kgb poi passato alla Cia (“Mia sorella Emanuela”, pag. 255-262).

Rispetto al Costarica, un comunicato del 21/08/84 del Fronte Turkesh, affermava proprio tra le condizioni della liberazione di Emanuela, un contratto tra la Santa Sede e la Costarica dove far scontare ad Agca la pena agli arresti domiciliari. L’agente Pazienza negò di conoscere Agca e lo denunciò per calunnia pluriaggravata. Rispetto alla parete scorrevole di cui Agca parlò ai giudici, non venne trovata nell’appartamento di Antonov. La mappa dell’appartamento disegnata da Agca, compreso il “muro divisorio”, corrispondeva invece perfettamente all’appartamento subito sotto quello di Antonov, nel quale abitava padre Felix Morlion (un domenicano belga noto agli inquirenti per avere avuto fortissimi legami con i servizi segreti americani, coinvolto probabilmente nell’attentato di Alì Agca a Papa Woityla). Gli venne dunque data la mappa sbagliata? Come avrebbe potuto Agca saper descrivere l’appartamento di padre Morlion, agente della Cia, se stesse dicendo il falso? L’altra ipotesi è che l’ex terrorista turco sia stato lui stesso in casa di Morlion, conoscendone l’attività. Dunque Agca aveva contatti con gli agenti della Cia? Circa la rivelazione finale di Pazienza, cioè dell’incarico ricevuto dal Vaticano, il giudice Priore confermò i suoi contatti con la Santa Sede (“Mia sorella Emanuela”, pag. 255-262).

 

07 marzo 1995
Il giudice Adele Rando invia una terza rogatoria in Vaticano, domandando di poter ascoltare personalmente i prelati Agostino Casaroli, Angelo Sodano, Giovanni Battista Re, Dino Monduzzi ed Eduardo Martínez Somalo (come nella rogatoria del 2/3/94) assieme al giudice Malerba, specificando questa volta i quesiti precisi che intende formulare, concernenti soprattutto attività d’indagine vaticana sul caso Orlandi e documenti sui contatti telefonici occorsi fra il Vaticano e i sedicenti sequestratori.

Il Vaticano ha risposto per iscritto alle domande, negando che la Segreteria di Stato si fosse riunita sul “caso Orlandi”, affermando che alla linea telefonica diretta con il card. Casaroli erano giunte «diverse chiamate tra il 9/07 e il 14/10 1983». Le autorità vaticane hanno detto di non avere mai avuto né alcuna registrazione, né alcuna trascrizione delle telefonate provenienti dall’Americano. Il giudice Rando scriverà: «L’apporto istruttorio delle rogatorie all’Autorità giudiziaria della Città del Vaticano, lungi dal soddisfare i quesiti […] si traduce nella conferma di alcuni interrogativi».

 

10 aprile 1994
Il padre di Emanuela, Ercole Orlandi, dichiara: «Siamo vittime di un’oscura ragion di stato. Un tarlo ci rosicchia: non capiamo il perché di questa tragedia. Ci devono dire qual era la trattativa. Chi erano le parti in causa? […] Quel personaggio con l’accento americano, sapendo che il nostro apparecchio era sotto controllo, non faceva durare la telefonata più di sei minuti. Doveva avere un timer. Spaccava il secondo e agganciava. Nostra figlia è stata rapita da un’organizzazione così potente, così efficiente, che non aveva nessun timore degli inquirenti italiani. È un intrigo internazionale. Dietro la scomparsa di Emanuela si sono mossi grossi apparati. Servizi segreti ma non italiani. Centrali di spionaggio straniere, ben organizzate, ben protette, con infinità libertà di movimento. Che dire… CIA, KGB…». Quanto alle telefonate, Ercole Orlandi ricorda che l’Americano gli aveva detto che era inutile tentare di registrarle perché, se avesse voluto, avrebbe potuto far apparire le chiamate in quindici posti diversi.

Effettivamente, secondo indiscrezioni riportate dall’“Indipendente”, una volta gli investigatori erano riusciti a isolare le prime quattro cifre delle telefonate, che risultarono essere partite dall’Ambasciata Americana di via Veneto. Il quotidiano dedusse, di conseguenza, che il telefonista si serviva di un apparecchio interno all’ambasciata oppure riusciva a far “rimbalzare” le chiamate sul suo centralino. Una volta arrivò una telefonata dalla cabina della stazione Termini che venne messa sotto controllo: a sorpresa, si scoprì che mentre le chiamate risultavano effettivamente in partenza dall’apparecchio pubblico della stazione, dentro la cabina non c’ era proprio nessuno. Alla fine gli specialisti della polizia si resero conto che si serviva d’un apparecchio per la triangolazione delle telefonate: un piccolo gioiello dell’elettronica capace di far rimbalzare su un’altra utenza la chiamata iniziale proteggendo il numero di partenza. Un apparecchio che non era esattamente alla portata di tutti e certamente non di comuni sequestratori.

 

02 marzo 1994
Il giudice Adele Rando presenta una seconda rogatoria all’autorità giudiziaria vaticana, chiedendo di acquisire documenti riguardanti la Orlandi ma, soprattutto, di ottenere la deposizione di cinque alti prelati in sua presenza: Agostino Casaroli (ex segretario di Stato), Angelo Sodano (il segretario di Stato), Giovanni Battista Re (l’ex assessore alla segreteria di Stato), Dino Monduzzi (l’ex reggente della Casa pontificia) ed Eduardo Martínez Somalo, che avrebbero «seguito il tentativo di stabilire un contatto con i presunti rapitori della Orlandi».

Il Vaticano non accolse la richiesta, affermando che secondo gli accordi internazionali, il magistrato italiano non doveva necessariamente essere presente all’interrogatorio e che, inoltre, non avendo il giudice specificato quali fossero le domande da porre ai prelati, l’interrogatorio non aveva potuto avere luogo. Decisione formalmente ineccepibile, dato che la Città del Vaticano è uno Stato straniero, ma che ha suscitato qualche perplessità. Quanto ai documenti, venne inviata una cronistoria degli interventi tecnici per attivare la famosa “linea riservata” e una cassetta audio che conteneva semplicemente un “pronto?”. Il 6/7/08 il Giudice unico vaticano, Gianluigi Marrone, ha affermerà che il Vaticano ha risposto a tutte le rogatorie arrivate, «altro è, naturalmente, se la risposta viene ritenuta soddisfacente o no»

 

09 febbraio 1994
Il giudice Adele Rando ascolta il prefetto Vincenzo Parisi (allora vicedirettore del Sisde) che ricorda benissimo di aver incontrato, l’11/07/93, monsignor Dino Monduzzi (reggente della Prefettura della Casa Pontificia presso cui lavorava Ercole Orlandi) nella speranza di ricavarne qualche spunto interessante. Parisi ebbe subito l’impressione che Monduzzi fosse reticente. Ha poi affermato: «L’intera vicenda Orlandi fu caratterizzata da una costante riservatezza da parte della Santa Sede che, pur disponendo di contatti telefonici, e probabilmente diversi, non rese partecipi dei contenuti dei suoi rapporti la magistratura e le autorità di polizia». E ancora: «ritengo che le ricerche conoscitive sulla vicenda siano state viziate proprio per il diaframma frapposto tra lo Stato italiano e la Santa Sede. L’intero svolgimento del caso fu caratterizzato da fini di palese depistaggio, lasciando nel dubbio gli operatori. Intendo dire che non è ancora agevole stabilire se la scomparsa della ragazza e le vicende che ne sono seguite fossero collegate da un unico nesso, o se invece l’attività destabilizzante si fosse sovrapposta alla scomparsa della ragazza, avvenuta, eventualmente, in modo autonomo».

Adele Rando, spinta dalle parole di Parisi, si convince della necessità di ascoltare alcuni prelati: Agostino Casaroli, Angelo Sodano, Giovanni Battista Re, Dino Monduzzi ed Eduardo Martínez Somalo. Secondo Pietro Orlandi, da quanto gli venne detto nel 2010 da Ali Agca, «le dichiarazioni di Parisi non furono un caso, ma una specie di regolamento di conti contro il Vaticano» (“Mia sorella Emanuela”, pag. 201).

 

03 dicembre 1993
Viene ascoltato dai giudici Adele Rando e Rosario Priore mons. Giovanni Salerno, consulente legale presso la Prefettura degli Affari Economici, il quale rivela un fatto risalente al 3 luglio 1983: «Confermo la convinzione che ho sempre avuto, e cioè che la scomparsa della Orlandi potesse in qualche modo costituire un elemento di pressione su ambienti strettamente legati al Sommo Pontefice. Ricordo che all’epoca de fatti ebbi modo di rappresentare tali convinzioni a mons. Giovanni Battista Re al quale ebbi modo di offrire una mia possibile collaborazione in tale vicenda. Mons. Re mi disse, peraltro, che non gli sembrava necessaria una verifica in tale direzione, riferendomi che avrebbe lasciato le cose così come si trovavano». Sempre in questa deposizione mons. Salerno aggiunge che la Segreteria di Stato aveva indagato ed era arrivata anche a «dei documenti ritenuti chiarificatori» (“Dodici donne un solo assassino”, pag. 18,19)

 

Ottobre 1993
Una lettera spedita dal Vaticano da un mittente anonimo, intitolata “TESTIMONIANZA RACCOLTA IN CONFESSIONE”, dice che Emanuela la sera in cui scomparve andò a Civitavecchia in auto con un prelato amante della bella vita e che il mattino dopo, rientrata a Roma, decise di non tornare più a casa (“Mistero vaticano”, pag. 206,207).

Il giornalista Pino Nicotri ha rivelato nel 2012 che l’avvocato Imposimato, legale della famiglia Orlandi, lo ha intimato a non pubblicare la lettera nel suo libro. Avendola pubblicata comunque, Nicotri è stato redarguito dalla madre di Emanuela perché “con quella lettera ha offeso la memoria di mia figlia”.

 

13 ottobre 1993
Alle 14:27 Bonarelli esce dal tribunale e viene intercettata una telefonata con la moglie Angela, la quale gli dice: «Te l’ ho detto che ti trovavi in mezzo ai guai». Lui spiega: «É uscito sul giornale di uno della sicurezza del Papa, quello che aveva adescato la figlia al bar, pensa un po’… Il parroco deve aver fatto il mio nome…Per me è uno di quelli che stava lì intorno in quel periodo… che ce ne ha avuti 3 o 4 di questi praticoni il prete, no?». Probabilmente si riferisce al parroco di San Giuseppe è probabile, in romanesco «praticoni» sta per persone un po’ losche.

 

12 ottobre 1993
Verso le ore 19:53, una telefonata intercettata dagli inquirenti, partita dal Vaticano e diretta verso il sovrastante maggiore della polizia vaticana, Raoul Bonarelli, il giorno prima di essere interrogato dai magistrati, invita a «non dire che la Segreteria di Stato ha indagato. Di’ che siccome la ragazza è scomparsa in territorio italiano, la competenza delle indagini è della magistratura italiana e non del Vaticano». L’autore della telefonata potrebbe essere mons. Bertani, “cappellano di Sua Santità”, oppure Camillo Cibin, il comandante della Gendarmeria vaticana (“Emanuela Orlandi, la verità” pag. 19 e 203)

 

29 luglio 1993
C’è la deposizione di Maria Vittoria Arzenton, madre di Mirella Gregori, la quale dice che nel 1985 avrebbe riconosciuto tra gli addetti di sicurezza del Papa in visita alla parrocchia San Giuseppe un uomo che vide più volte intrattenersi con Mirella e con Sonia De Vito nel bar di quest’ultima, vicino all’abitazione dei Gregori, tanto da notare nell’uomo un imbarazzo nell’incontro con la donna. Si tratta di Raul Bonarelli, sovrastante dell’Ufficio Centrale di Vigilanza Vaticana, attuale Gendarmeria9G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 10.

La donna tuttavia non riconosce Bonarelli e anche la descrizione dei connotati somatici non fisica corrisponde alle caratteristiche fisiche di Bonarelli10G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 10.

 

22 luglio 1993
In un’intervista per “Il Tempo”, il card. Silvio Oddi, 83 anni, rivela un ricordo di dieci anni prima: «Mi trovavo in un gruppo di persone, delle quali faceva parte anche un laico. Eravamo a qualche giorno dalla sparizione della Orlandi, e la conversazione inevitabilmente cadde sull’argomento. Sentendo parlare del sequestro il laico intervenne esclamando “ma se lo sanno tutti! Quel giorno vidi io stesso arrivare Emanuela a porta Angelica, a bordo di una macchina. L’ho vista andare a casa, tornare e risalire in automobile…”». Era «un’auto di lusso», dice ancora il cardinale. A bordo «c’era il guidatore, e forse anche un’altra persona. Penso che l’automobilista non sia entrato per evitare di essere riconosciuto dalle guardie svizzere». In un’altra intervista, alla trasmissione “Mixer”, afferma: «Per me è una storia legata a quei furti di signorine, ragazze che vogliono andare in un ambiente dove stare meglio, diventare ricche, dove sposano una persona facoltosa e credono alle balle che gli raccontano». Ha poi aggiunto che il sequestro sarebbe secondo lui stato organizzato per vendetta nei confronti del padre, il quale «visto che aveva le chiavi della biblioteca, degli uffici e dell’archivio della Segreteria di Stato magari nottetempo, poteva aver visto qualcuno aggirarsi per rubare», oppure, «essendo addetto allo svuotamento dei cestini poteva essersi imbattuto in fogli interessanti».

Ercole Orlandi ha protestato a Palazzo Apostolico per queste dichiarazioni poco eleganti (“Mia sorella Emanuela”, pag. 282-283). La sorella di Emanuela, Federica, ha smentito questa ricostruzione affermando di essere rimasta a casa e di non aver mai visto Emanuela tornare (“Mia sorella Emanuela”, pag. 282).

Il card. Silvio Oddi ridimensiona il suo racconto: «Erano solo chiacchiere ascoltate per strada, da qualcuno che stava parlando della scomparsa di Emanuela Orlandi, come in quei giorni facevano un po’ tutti dalle parti di San Pietro». Tuttavia, interrogato come testimone, aveva sostenuto la stessa cosa davanti al magistrato Adele Rando il 24 giugno 1993

 

23 marzo 1990
Nel 2012 si scoprirà che in questa data il comune di Roma ha autorizzato la traslazione della salma di Enrico De Pedis dal Verano alla Basilica di Sant’Apollinare. Nella basilica infatti non vige l’extraterritorialità, se non per i profili fiscali.

Si ricorda che De Pedis è stato sepolto in modo regolare (confermato dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, dal magistrato Andrea De Gasperis e dal ministro Cancellieri) per volontà della famiglia, con permesso dal Vaticano e dal Comune di Roma, in una basilica dove non ci sono Papi o Cardinali (ma gente del quartiere) in terra non consacrata e -come ricordato dalla vedova e da mons. Vergani- per aver fatto beneficenza ai poveri del quartiere. De Pedis è morto incensurato per la giustizia italiana, tanto da avere addosso -al momento della morte- regolare patente, carta di identità valida e passaporto valido.

 

10 marzo 1990
L’allora Vicario della diocesi di Roma, cardinale Ugo Poletti, rilascia il nulla osta per la sepoltura di De Pedis nella cripta sotterranea nella basilica di Sant’Apollinare di Roma.

 

06 marzo 1990
Mons. Pietro Vergari, l’allora rettore della basilica di Sant’Apollinare, emette una richiesta al Cardinale Poletti, allora Vicario di Roma, per l’accoglimento nei sotterranei di S. Apollinare del De Pedis, secondo le richieste della moglie. La lettera dice: «Si attesta che il signor Enrico De Pedis nato in Roma – Trastevere il 15/05/1954 e deceduto in Roma il 2/2/1990, è stato un grande benefattore dei poveri che frequentano la basilica ed ha aiutato concretamente a tante iniziative di bene che sono state patrocinate in questi ultimi tempi, sia di carattere religioso che sociale. Ha dato particolari contributi per aiutare i giovani, interessandosi in particolare per la loro formazione cristiana e umana».

Le parole di mons. Vergari, circa la generosità di De Pedis, sono state confermate dalla vedova di De Pedis. Giulio Andreotti ha affermato: «Forse De Pedis non era un benefattore dell’umanità, ma di Sant’Apollinare sì».

 

02 febbraio 1990
Enrico De Pedis viene ucciso in via del Pellegrino. Secondo la ricostruzione, De Pedis era disarmato, si era recato ad un incontro di affari e ha ricevuto un colpo di pistola alla gola dopo una lite con il suo assassino.

 

21 gennaio 1988
Enrico De Pedis viene scarcerato e pienamente assolto dall’accusa di appartenenza alla banda della Magliana. Lo riportano anche i quotidiani dell’epoca, qui e qui.

De Pedis era stato arrestato nel 1984 (assieme a Sabrina Minardi), dopo un periodo di latitanza a causa di un mandato d’arresto per l’appartenenza alla banda della Magliana. Venne arrestato anche il 20/05/74 per una rapina in solitario, scontò una pena fino all’aprile del 1980. La Cassazione -dopo la relazione di un perito dell’accusa-, affermò che non poteva essere stato lui l’autore di quella rapina. De Pedis sposerà Carla Di Giovanni nella Basilica di S. Apollinare, il matrimonio verrà celebrato da mons. Piero Vergari, rettore della basilica.

 

27 ottobreo 1987
Durante la trasmissione televisiva Telefono Giallo, puntata dedicata al caso Orlandi-Gregori con presenti in studio l’avvocato Gennaro Egidio e il commissario Nicola Cavaliere, capo della Squadra Mobile della polizia di Roma, arriva al centralino della trasmissione la chiamata di un uomo che con accento in apparenza straniero chiede all’operatore di parlare con l’avvocato, non prima di avere pronunciato queste parole: «Dica all’avvocato “Codice 158“». L’attesa dura due o tre minuti, e infine la linea cade senza che la chiamata possa essere trasferita nello studio televisivo. Il carabiniere in ascolto al centralino, non appena sente dire «158» fa scattare il «blocco della chiamata» e i tecnici ne accertano la provenienza dal numero 5629815 di Ostia Lido, utenza intestata a Roberto Magnani. I magistrati ordineranno fin dal giorno dopo la messa sotto controllo di quel numero e del 5626650, intestato a Studio K srl Centro Elaborazione Dati Aziendali, che fa capo alla moglie di Magnani, signora Silvestri.

Magnani viene interrogato e messo alle strette ammette: «Sì, è vero, ho telefonato io. Ho chiamato l’8262 da casa mia». Perché l’ha fatto? «Mah, volevo qualche chiarimento sulla vicenda Orlandi dall’avvocato Egidio o dal commissario Cavaliere, ma la linea è caduta e così non ho richiamato». Una perizia fonica collegiale confronta la chiamata che cita il codice 158 con le telefonate effettuate nel 1983 dal cosiddetto «Americano» scopre che si tratta della stessa voce. La perizia di confronto tra la voce dell’«Americano» e quella di Magnani intercettata al telefono di casa sua non viene fatta perché gli orologi del carabiniere e dei tecnici della Sip che hanno effettuato il blocco della chiamata a Telefono Giallo non coincidono: quello del primo segnava le ore 00:09, quello dei secondi invece 00:17, cioè l’esatta identificazione dell’utenza dalla quale era stata effettuata la chiamata «Codice 158» non è certa (da Pino Nicotri, “Emanuela Orlandi: la verità”).

 

07 maggio 1987
La famiglia Orlandi e Gregorio annunciano di voler dare 1 miliardo di lire a chi porta informazioni e fa ritrovare Emanuela e Mirella.

 

21 novembre 1986
Arriva un altro Komunicato firmato dal sedicente «Fronte liberazione turkesch» (nel Komunicato del 28/11/85 avevano invece detto che quello era “purtroppo l’ultimo”). Il messaggio giunge alla sede dell’Ansa di Milano con allegata una foto polaroid che ritrae il busto e la testa di un giovane dai capelli scuri e scomposti e dal viso affilato. Si afferma che si tratta di Ilario Mario Ponzi, scomparso da giorni e il cui giubbetto è stato trovato in mare a S. Benedetto del Tronto. Ora, dicono, sarebbe nelle loro mani. Il giovane Ponzi è stato accusato il 30/11/85 di essere l’autore di almeno 5 delle molte lettere inviate dal «fronte turkesch».

 

13 novembre 1986
Il giudice istruttore Ilario Martella inoltra la prima rogatoria internazionale nei confronti del Vaticano per chiedere “la trasmissione di ogni utile notizia” e “se effettivamente siano pervenuti nello Stato della Città del Vaticano, o siano stati indirizzati alle autorità del medesimo, messaggi telefonici o scritti riferentisi alla scomparsa delle due giovani”. La Santa Sede, per mano del card. Casaroli, rispose per via epistolare precisando che «nessuna inchiesta giudiziaria è stata esperita dalla magistratura vaticana, essendo i fatti avvenuti fuori dal territorio», aggiungendo «le notizie relative al caso, occasionalmente pervenute negli uffici della Santa Sede, sono state trasmesse a suo tempo al pubblico ministero dott. Sica». Il 9/10/97, tuttavia, il sostituto procuratore generale della Corte d’appello di Roma, Giovanni Malerba, osserverà che «di tali notizie lo scrivente non rinviene traccia in atti», mentre il 6/7/08 il Giudice unico vaticano, Gianluigi Marrone, in un’intervista per “L’Osservatore Romano” affermerà rispetto anche al “caso Orlandi” che non è vero che il Vaticano non ha mai risposto, lui stesso si è adoperato nelle risposte».

 

05 febbraio 1986
Il Pm che indaga su Ali Agca, Antonio Marini, ha un forte sospetto che il terrorista turco abbia fatto di tutto per screditare la sua persona facendo naufragare il suo processo. Sospetta che sia stato ricattato o condizionato dal rapimento di Emanuela Orlandi, che potrebbe essere servito per lanciare messaggi ad Agca in modo che ritrattasse le accuse ai Lupi grigi e ai bulgari.

 

1986
Grazie ad alcune rogatorie internazionali, furono ascoltati cittadini turchi residenti in Germania, legati agli ambienti dei Lupi grigi. Emerse l’ipotesi che Emanuela potesse aver subito una plastica facciale in Olanda e vivesse in Francia. Nel 1986 avvenne un blitz in seguito a turchi legati a Oral Celik: venne individuata una villa vicino a Parigi dove si era convinti fosse reclusa Emanuela. Ma non era così. Pochi giorni dopo una telefonata anonima all’avvocato Egidio disse: «Avvocato siete passati vicinissimi alla ragazza…non ricordi che, all’uscita del casello autostradale, vicino alla villa, c’era una roulotte parcheggiata a destra? Emanuela era lì dentro…» (“Mia sorella Emanuela”, pag. 188).

 

15 dicembre 1985
In questa data -secondo una successiva deposizione ai giudici Malerba e Rando-, Maria Vittoria Arzenton, madre di Mirella Gregori, durante la visita del Papa alla parrocchia romana di San Giuseppe, ha riconosciuto nel sovrastante maggiore della polizia vaticana, Raoul Bonarelli: «il parroco aveva fatto in modo che il Papa ci ricevesse […], durante il tragitto ci imbattemmo in un signore, palesemente addetto alla tutela del Santo Padre, che io conoscevo bene, anche se di vista. Si trattava della stessa persona che avevo visto intrattenersi in un bar vicino la nostra abitazione, assieme a Sonia De Vito, la figlia dei gestori, e a mia figlia Mirella. Nel vedermi ebbe come un moto di stizza e di imbarazzo […]. Nei giorni di chiusura settimanale del bar dei De Vico, l’uomo era solito sedere ad altro bar, ubicato all’incrocio tra via Nomentana e via Reggio Emilia».

Da successivi accertamenti, risultò effettivamente che Bonarelli abitava in quella zona, in via Alessandria (“Mia sorella Emanuela”, pag. 204, 205). Interrogato dagli inquirenti, Bonarelli confermò di essere stato presente alla visita del Papa, ma negò di essere cliente del bar de De Vico. Dopo otto anni, il 13 ottobre 1993, la signora Arzenton, nel confronto diretto, confermò le precedenti dichiarazioni, ma sorprendentemente non riconobbe Bonarelli né di persona né nel filmato sulla visita pontificia. (“Mia sorella Emanuela”, pag. 205). La sorella di Mirella, Maria Antonietta, dirà nel 2013: «Ci mettono otto anni a chiamare mia madre per un confronto con questo signor Bonarelli, che nel frattempo diventa misteriosamente cittadino Vaticano. E quando dopo tutti questi anni mia madre è richiamata a dichiarare di nuovo che è lui quello che lei vide interloquire con Mirella, ormai è una donna stanca e malata (morirà di li a poco), si confonde, o forse si spaventa, e non conferma al cento per cento quello che otto anni prima aveva dichiarato ai Carabinieri».

 

30 novembre 1985
Mario Ilario Ponzi, 22 anni, marchigiano, viene accusato di essere l’autore di alcuni messaggi e telefonati inviati a giornali e agenzie firmati «Fronte Turkesh», che collegavano il caso della ragazza alla vicenda di Ali Agca. Ponzi sarebbe stato l’autore del messaggio giunto alla redazione Ansa di Milano il 21 agosto 1984, quello nel novembre ’84 e due telefonate anonime nel 1985. Tuttavia il 21/11/86 un altro comunicato parlerà di Ponzi, dicendo che è innocente. Pare che lo abbia di fatto scagionato.

 

28 novembre 1985
Il “Fronte anticristiano di liberazione turca”, Turkesh, afferma che Emanuela è stata uccisa e che questo sarebbe l’ultimo Komunicato, vengono forniti particolari generici sulla ragazza: “a 8 anni aveva una cicatrice”: cadde dal motorino a 10 anni, con conseguente cicatrice; “chiede di un amico chiamato Carlo”: nome generico, ma c’è un amico con questo nome; “i capelli gli hanno dato noia per qualche tempo”: effettivamente si lamentava spesso che al risveglio aveva i capelli sulla fronte. Ricordiamo che altre volte hanno dato notizia dell’uccisione di Emanuela: nel settembre 1983 e nell’ottobre 1983.

 

18 settembre 1985
Il testimone turco Yalcin Obzey, al processo per l’attentato a Wojtyla, afferma: «Quando chiesi a Celik della ragazza, la figlia del prete rapita di cui avevo letto sui giornali, lui fece una risata e disse che la sua salute era buona». Obzey conferma la versione di Ali Agca, incolpando i Lupi Grigi del rapimento della Orlandi per ottenere la liberazione del terrorista turco. I Lupi Grigi avrebbero anche la responsabilità dell’attentato al Papa, senza nessun coinvolgimento dei bulgari.

 

04 agosto 1985
Alle 15,52 un anonimo con inflessione straniera chiama la Questura dicendo di essere un uomo dei Lupi Grigi e avverte: «Emanuela Orlandi è viva e il Vaticano ne è a conoscenza». Poi racconta che l’organizzazione ha sequestrato a Nola un ragazzo di venti anni di nome Giovanni Carenzio. Lo sconosciuto spiega di aver già informato l’Ansa di Napoli. La telefonata viene recuperata e si accerta che era stata fatta dalla Capitale. Poco dopo, intorno alle 17 viene fermato, sempre a Roma, un ragazzo in apparente stato confusionale che dice di essere Carenzio. Racconta di essere stato rapito a Nola dai Lupi grigi e di essere stato portato in un appartamento dove avrebbe visto una donna di spalle: i rapitori gli avrebbero detto che si trattava di Emanuela Orlandi. Poi lo avrebbero liberato. Le indagini si chiudono con una denuncia: Carenzio non viene ritenuto credibile, anche perché si scopre che da poco era stato dimesso da una casa di cura in Puglia dopo un grave incidente, e viene riaffidato ai genitori. Il 5 agosto in un’udienza del processo ad Alì Agca, il terrorista torna a parlare del rapimento della Orlandi attribuendolo ai Lupi Grigi.

Carenzio, nato a Pompei, era stato seminarista, ma aveva presto rinunciato a farsi prete e aveva completato gli studi al Rosmini di Palma Campania. Diventerà un broker finanziario e finirà in manette nel 2013 nell’ambito dell’inchiesta sul riciclaggio che ha coinvolto monsignor Nunzio Scarano e l’ex 007 Giovanni Zito.

 

04 luglio 1985
Ali Agca accusa nuovamente il bulgaro Dontchev dell’attentato a Lech Walesa. Inizialmente aveva ritrattato perché, dice, voleva alleggerire la posizione dei bulgari. Afferma che subito dopo la sparizione della Orlandi ha cominciato a ritrattare tutto quanto aveva affermato in precedenza per cercare di confondere le acque, screditare la sua persona e alleggerire la posizione dei bulgari. Tuttavia, riportano i giornali, il suo comportamento ha di fatto avvalorato la “pista bulgara”. Ha poi affermato: «i bulgari vogliono condizionarmi», sostenendo che loro hanno Emanuela (complici i Lupi Grigi). Il rapimento sarebbe avvenuto per condizionare le sue dichiarazioni in merito all’attentato al Pontefice.

 

01 luglio 1985
Ali Agca incolpa Sedat Sirri Kadem, , amico di scuola del terrorista (all’inizio aveva tentato di coprirlo), come complice per l’attentato a Giovanni Paolo II. Agca ha giustificato le sue continue ritrattazioni affermando di essere vittima di un ricatto: «Lupi Grigi e bulgari hanno rapito Emanuela Orlandi perché io ritrattassi, confondessi e screditassi la stampa che aveva parlato di URSS e Bulgaria». Dice di aver riconosciuto, nei messaggi che arrivano alla famiglia Orlandi da parte dei presunti rapitori, la calligrafia di Oral Celik (uno dei suoi complici).

 

14 giugno 1985
Ali Agca viene interrogato e afferma che il rapimento di Emanuela Orlandi è collegato alla sua vicenda e all’attentato al Papa: «Emanuela Orlandi è stata sequestrata dalla potente organizzazione massonica P2 di Lucio Celli, perché quella gente sapeva con certezza che io sono Gesù Cristo. Voleva inserirmi nel Vaticano e usarmi come uno strumento. Io sono per tutta l’umanità e non sarò mai uno strumento di nessuno. Non raccomando perciò alcuno scambio». Ha poi detto: «Posso dire però che lupi grigi non hanno possibilità di nascondere una persona per due anni, con messaggi da tutto il mondo». Un messaggio delirante, Agca -che è una mente finissima secondo i pubblici ministeri che lo hanno interrogato per anni- tenta probabilmente di passare per pazzo e quindi di annullare la sua credibilità.

 

04 marzo 1985
Si apre la cosiddetta “Pista di Bolzano”: avviene la deposizione ufficiale ai carabinieri di Josephine Hofer Spitaler, abitante di Terlano, la quale afferma che il 15/8/83 vide arrivare presso la casa in cui abita un’autovettura tipo A112 targata Roma, da cui scesero un uomo e una ragazza alta circa un 1.60/1.65. Racconta che la ragazza indossava un girocollo in materiale non metallico dai colori sbiaditi. Secondo Pietro Orlandi si tratta di un particolare fondamentale dato che si tratta di una fascetta gialla e rossa, i colori della squadra di calcio preferita da Emanuela (la si vede nella famosa foto, appesa anche a Roma, ma in bianco e nero) (“Mia sorella Emanuela”, pag. 178). La Hofer dice che la ragazza era sporca e barcollante, forse sotto effetto di sedativi, ed entrò assieme all’uomo nell’appartamento sotto di lei, abitato da Kay Springorum e Francesca di Teuffenbach. La ragazza vi rimase per tre giorni, poi arrivò un uomo in uniforme, forse austriaco o tedesco, con una Bmw verde metalizzata (particolare importante, è lo stesso modello del presunto rapitore romano di Emanuela secondo la deposizione del vigile Sambuco in data 2/07/1983) che in tedesco disse che il giorno dopo la ragazza sarebbe stata prelevata da una persona proveniente dalla Germania e portata lì. Così avvenne: il 19/8/83 arrivarono, a bordo di una Peugeot, Rudolf di Teuffenbach -cognato di Kay Springorum-, sua moglie e un’altra donna. La Hofer dice che nel settembre dello stesso anno, vedendo le foto di Emanuela in televisione, ha collegato la vicenda. Ne ha così parlato con Kay Springorum, accusandolo di aver preso la ragazza ma lui «se ne vantò». La donna afferma ai carabinieri di voluto parlare solo ora perché al tempo venne fermata da suo marito, che le consigliò di non immischiarsi (“Mia sorella Emanuela”, pag. 179-181).

Il giudice istruttore interroga Kay Springorum, sua moglie Francesca di Teuffenbach e la moglie di Rudolf di Teuffenbac, Patrizia Wanner. La Hoffer, messa di fronte ai sospettati, conferma il racconto. Secondo gli atti del 5/8/97, gli indiziati si ritengono estranei affermando che i loro ospiti quel giorno erano la sorella di Francesca, Micaela, e tal Klaus Mayer (dunque non Rudolf di Teuffenbach). Negli atti del 19/12/97, il giudice Adele Rando scrive a pag. 28 che Rudolf di Teuffenbach è risultato appartenere al Sismi, con funzioni di capocentro della sede di Monaco di Baviera (si ricorda che la Hofer non poteva saperlo e ha affermato di aver sentito che Emanuela sarebbe stata portata in Germania). La sentenza conclusiva assolve gli indiziati, anche perché il segretario di Rudolf di Teuffenbach, Antonio Trono, ha rilevato che il 19 agosto 1983 il funzionario era in servizio e non poteva trovarsi a Terlano. Pietro Orlandi, per nulla soddisfatto di questa sentenza, afferma: «le indagini in quella direzione si sono fermate proprio per la presenza di un funzionario dei nostri servizi segreti militari» (“Mia sorella Emanuela”, pag. 186).

Sempre in questa data, presso gli uffici del Nucleo operativo dei carabinieri di Bolzano, viene convocata la professoressa Giovanna Blum, insegnante di musica presso il conservatorio altoateisno. Racconta: «Tra fine di luglio e inizio agosto del 1983, tra la mezzanotte e l’una, in casa mia squillò il telefono. Risposi. Una giovane, parlando rapidamente, disse: sono Emanuela Orlandi, mi trovo a Bolzano, informi la polizia. Poi attaccò». La donna disse di essere rimasta perplessa, ma «subito dopo ricevetti un’altra telefonata. Una voce maschile mi ordinò: “Dimentichi quello che ha sentito, capito?” Poi interruppe la comunicazione. Spaventata, chiamai il 113: mi dissero di chiudermi in casa». La donna disse di essere stata più volte a Roma e di aver distribuito a colleghi o allievi i propri biglietti da visita. Disse di conoscere la scuola di musica di Emanuela “per la sua notorietà” e di non avere avuto contatti specifici (“Mia sorella Emanuela”, pag. 182).

 

01 febbraio 1985
Si rende pubblica una taglia fino a 250 milioni a chi fornisce notizie utili circa la sorte di Emanuela Orlandi e Mirella Gregorio.

 

22 novembre 1984
Arriva un altro “Komunicato” del Fronte Turkesh all’agenzia Ansa, nel quale si chiede la scarcerazione di Agca e si elencano 7 particolari/prove per dimostrare il possesso di Emanuela: 1) “Emanuela formulò una frase che rese di ghiaccio suo padre due giorni prima di essere rapita”: è vero, accadde a cena a casa dello zio Mario, quando Emanuela sorprese tutti annunciando che sarebbe andata in vacanza con sua sorella e la cugina, ricevendo un rimprovero dal padre perché non gli aveva detto nulla. 2) “Emanuela sa che sua sorella ha un problema”: si tratta di Federica, la quale si confidò con lei del fatto di essersi fidanzata senza dire nulla ai genitori. 3) “Emanuela ha un paio di scarpe bianche in un armadio”: vennero trovate in fondo all’armadio. 4) “Via Frattina 1982”: c’è il dentista di Emanuela, nell’82 vi andò più volte. 5) “C’è bisogno di un medico che prescriva calmanti adatti a lei, la sua pressione è alta”: particolare non verificabile 6) “Chiede di un amica che si chiama Anna”: un nome comune, ma anche la fidanzata di Pietro, anche se non erano molto amiche. 7) “Un leggero blocco renale ha prodotto l’intorpidità della mano”: particolare non verificabile (“Mia sorella Emanuela”, pag. 122,123)

Nell’aprile 2013 alla trasmissione televisiva “Chi l’ha visto” (e anche alla sorella di Mirella Gregori) verrà inviata una lettera anonima contenente messaggi in codice, una ciocca di capelli, un fiore colorato di merletto, terriccio, stoffa scura e un negativo fotografico che riproduce un teschio. Tra le varie parole scritte apparentemente in modo casuale appare anche: «Via Frattina 103».

 

01 novembre 1984
Il giudice istruttore Ilario Martella chiede il rinvio a giudizio dei turchi Serdar Celebi, Oral Celik e Bekir Celenk e dei bulgari Sergej Antonov, Jelio Vassilev e Todor Ajvazon a conclusione del’inchiesta sull’attentato a Wojtyla.

 

03 settembre 1984
Compare una nuova sigla, il “Nomlac”, ovvero «Nuova organizzazione musulmana per la lotta anticristiana», nel messaggio sono poste cinque condizioni per il rilascio di Emanuela, in caso contrario sarà uccisa11G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 7.

Il messaggio è scritto a mano, si afferma che Emanuela non è prigioniera del Fronte di liberazioni anticristiano Turkesh e si trova in Europa. In un secondo messaggio chiedono al Vaticano 20 milioni di dollari, affermando di avere la ragazza12P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 121.

 

21 agosto 1984
Il «Komunicato X» del sedicente Fronte di liberazione turco anticristiano Turkesh viene inviato da Ancona alla redazione milanese dell’agenzia Ansa, si pongono quattro condizioni per la liberazione di Emanuela, tra cui una firma di un trattato tra la Santa Sede e il Costarica dove Agca avrebbe potuto scontare la sua pena agli arresti domiciliari13G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 7.

Finisce con una presunta frase di Emanuela: «Papà, ricordati i ritagli…». Secondo Ercole Orlandi si riferisce ad una ricerca di geografia in cui aiutò Emanuela a ritagliare illustrazioni e cartoline da incollare sul quaderno14P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 120.

Il 30/11/85 Mario Ilario Ponzi, giovane marchigiano, verrà accusato di essere l’autore di questo Komunicato. Ponzi è stato ritenuto uno dei responsabili della vicenda di Emanuela Orlandi, è stato accusato di essere l’autore di tutti i Komunicati del fronte Turkesh, di aver avuto rapporti con la banda della Magliana e di essere stato incarcerato vicino o assieme ad Ali Agca. Ponzi ha negato tutto e ha denunciato per diffamazione lo scrittore Max Parisi che ha indagato su questi collegamenti. Il 21/11/86 un Komunicato parlerà di Ponzi, dicendo che è innocente. Questo, per alcuni, non significa che Ponzi non abbia mai scritto dei Komunicati ma solo che ne ha redatti solo alcuni (“Dodici donne un solo assassino?”, pag. 50)

 

11 e 24 luglio 1984
Ercole Orlandi e Raffaella Gugel vengono ascoltati dai carabinieri sui pedinamenti prima della sparizione di Emanuela (“Mia sorella Emanuela”, pag. 61).

 

12 giugno 1984
Arrivano all’Ansa e a “Il Messaggero” due lettere uguali da Francoforte e scritte in tedesco: «Non avete adempiuto alla nostra richiesta di liberare subito Agca, Celebi e gli altri nostri amici. Emanuela Orlandi non è tornata», si legge.

Pochi giornali riprendono la notizia, e nessuno cita la parte finale, dove i misteriosi mittenti minacciano i familiari del giudice Ilario Martella15G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 7, al quale spetta la decisione di liberare o meno il bulgaro Serghej Antonov. La cosa sospetta è che la moglie ed i figli del magistrato proprio in quei giorni rientravano a Roma, pur vivendo abitualmente all’estero (una cosa simile accadde il 10/7/83, dopo che Martella aveva loro telefonato dall’Ambasciata italiana a Sofia dove si era recato per interrogare Celenk, Ayzavozov e Kolev).

 

26 aprile 1984
Il “Corriere della Sera” pubblica un’intervista al papà Ercole Orlandi in cui egli ribadisce la pista politico-terrorista. L’articolo è corredato da una foto con Giovanni Paolo II, Emanuela e una bambina di profilo, poco riconoscibile. La stessa mattina arriva una telefonata a quella bambina, si tratta di Gabriella Giordani, amica d’infanzia di Emanuela. Risponde la madre, la voce, con inflessione anglofila, chiede di Gabriella ma la madre dice che non c’è e chiede chi stia parlando. L’anonimo risponde: «Non ha importanza…Signora, dica a sua figlia che Emanuela sta bene e la saluta». Alla donna in seguito venne fatta ascoltare la voce dell’Americano, che lo riconobbe al 90%. I familiari della Orlandi ipotizzarono: “il nome ai rapitori non può che averlo detto Emanuela, quindi è viva” (“Mia sorella Emanuela”, pag. 119).

 

22 aprile 1984
Arriva l’ottavo e ultimo appello di Giovanni Paolo II per Emanuela.

 

27 dicembre 1983
Giovanni Paolo II si reca in carcere per incontrare il suo attentatore, Ali Agca. Nessuno sa cosa si dicono, tuttavia il Pontefice dichiara pubblicamente: «Ho parlato con lui come si parla con un fratello al quale io ho perdonato e che gode della mia fiducia»

 

24 dicembre 1983
Papa Giovanni Paolo II va a trovare la famiglia Orlandi per gli auguri di Natale, dicendo: «Cari Orlandi, voi sapete che esistono due tipi di terrorismo, uno nazionale e uno internazionale. La vostra vicenda è un caso di terrorismo internazionale». Secondo Pietro Orlandi, quelle parole furono sincere: «L’ha detto lui, il papa, il massimo rappresentante della verità in terra, e in quel momento era sincero, partecipava al nostro dramma!» (“Mia sorella Emanuela”, pag. 127). In quell’occasione il Papa seppe che Pietro Orlandi voleva diventare banchiere e promise un’assunzione allo IOR, la banca del Vaticano, che infatti avvenne poco dopo, spinto sopratutto dal padre Ercole (“Mia sorella Emanuela”, pag. 192).

 

28 novembre 1983
Sempre al giornalista Richard Roth arrivano due lettere spedite sempre da Boston dallo stesso autore e comunicate agli inquirenti soltanto il 2/7/84 al rientro a Roma. Viene scritto che sarà comunicato soltanto al card. Casaroli il nome della cittadina soppressa il 5/10/83, nella seconda lettera si richiede il rilascio di detenuti politici affinché non siano state inutili le soppressioni eseguite16G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 7.

 

13 novembre 1983
Il gruppo Phoenix fa trovare l’ultimo comunicato, allegato ad esso la tessera scolastica con la foto di Emanuela e la ricevuta di versamento, entrambi già fatti ritrovare il 6/7/83. Questi documenti, finiti agli atti dell’inchiesta, potevano averli o i rapitori o la polizia. Nel messaggio si annuncia che i rapitori di Emanuela saranno puniti, la modalità verrà scelta dalla famiglia Orlandi. Si parla di un “pentito” all’interno dei rapitori che avrebbe divulgato informazioni sull’organizzazione. Si rivolgono ai rapitori dicendo che «i contatti ‘diplomatici’ non vi serviranno, siete raggiungibili ovunque. L’ambasciatore che porta pena è responsabile» (“Mia sorella Emanuela”, pag. 142).

 

Novembre 1983
Secondo la testimonianza rilasciata nel novembre 2009 da Sabrina Minardi, sedicente amante di Enrico De Pedis, Emanuela sarebbe stata uccisa in questo periodo da Sergio Virtù, autista di Renatino, e il suo corpo gettato in una betoniera a Torvajanica

 

28 ottobre 1983
Vengono diffusi due identikit dei presunti rapitori di Mirella Gregori. Sono due giovani che sono stati visti il 6 maggio 1983, la sera prima della sparizione della ragazza, nella festicciola che venne fatta nel bar dei genitori per la fine della ristrutturazione, stavano in disparte e osservavano la scena. Negli ultimi contatti dei presunti rapitori con l’avvocato delle due famiglie, Egidio Gennaro, è stato scoperto che essi conoscono molti dettagli della festicciola al bar dei Gregori.

Una lettera spedita da Boston a Richard Roth afferma: «Comunicheremo al Segretario di Stato cardinal Casaroli il nominativo della cittadina soppressa il 5-10-83 a causa della reprensibile condotta vaticana».

 

27 ottobre 1983
Il giornalista americano Richard Roth riceve una lettera da Boston in cui si dice che Mirella è stata rapita nel piazzale di Porta Pia, poco distante da casa e che nello stesso mese erano state sequestrate due cittadine americane17G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 7.

Nel frattempo l’Americano chiama l’avvocato Egidio dove gli riferisce di preparare i genitori di Mirella Gregori perché per lei non esiste più nessuna possibilità. «Inizieremo a restituire il corpo della Gregori e poi a creare delle soppressioni»18G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 6 19P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 124.

 

21 ottobre 1983
L’Americano fa trovare in un furgone postale in piazza San Pietro una audiocassetta in cui una donna straniera afferma che nel maggio precedente erano state sequestrate due minorenni statunitensi e una cittadina italiana. Dice che il nome di quella italiana verrà detto il 24/10/83, conclude annunciando l’imminente soppressione di una giovane italiana in conseguenza del messaggio Phoenix del 22 settembre20P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 125 21G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 7.

Nella stessa data il portiere di Via della Conciliazione n. 30 riceve un messaggio autografato di analoga grafia a quello del 27/9/83, nel quale si ribadisce l’esclusività dei contatti del gruppo con il direttore della CBS, Richard Roth22G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 7.

 

20 ottobre 1983
Il capo dello Stato Sandro Pertini, dopo aver più volte incontrato la famiglia Gregori e l’avvocato Egidio, rilascia all’Ansa un’intervista dove invita i sequestratori a rilasciare “immediatamente” Mirella e Emanuela23G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 6. Non accenna a scambi nel rispetto di “una linea di estrema fermezza nella lotta al terrorismo”. Dunque Pertini, commenta Pietro Orlandi, credeva allo scenario politico-terroristico24P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 123.

Nel pomeriggio l’Americano risponde a Pertini chiamando l’avvocato Egidio e facendo trovare un messaggio in un bar di via della Conciliazione. Il plico contiene una lettera inviata dallo stesso Americano e ricevuta da Pertini il 26 settembre ’83 e tenuta riservata. Verso sera un messaggio fatto trovare davanti alla sede delle linee aeree turche lamenta del fatto che le autorità italiane non abbiano dato pubblicità alla missiva inviata la presidente25P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 124.

Ali Agca persiste nell’incolpare dell’attentato al Pontefice la Bulgaria e Antonov, raccontando al giudice istruttore Ilario Martella tutti i particolari di quel giorno, 13 maggio 1981. Spiega come la macchina che aveva portato lui e il suo complice Celik in Vaticano era stata parcheggiata in via della Conciliazione, davanti all’ambasciata canadese e che poi lui, Celik e il bulgaro Antonov erano andati a prendere un caffè in un bar poco lontano, via Traspontina 9. Il giudice Martella ordina così riscontri sull’ambasciata e sul bar. Qualche ora dopo –proprio in via della Conciliazione 30 e in via Traspontina 9– vengono fatti ritrovare due messaggi riguardanti il rapimento di Emanuela Orlandi: i sedicenti rapitori della ragazza chiedono la liberazione di Agca in cambio. «Singolare coincidenza!»dirà nel 2011 Martella, «me ne accorsi quando mi venne affidata anche l’indagine sulla Orlandi. C’è quell’ispezione, alla presenza di magistrati italiani e bulgari, della polizia e dello stesso Agca e poco dopo, negli stessi luoghi, si trovano volantini sul caso Orlandi…».

 

17 ottobre 1983
All’agenzia Ansa arriva un comunicato firmato “Dragan” dove si legge che Emanuela sarebbe stata giustiziata da un tale Aliz, che starebbe partendo per la Turchia o l’Algeria assieme a Mirella Gregori per evitarle la stessa sorte. C’è anche una domanda: «perché non interrogate il giocatore di Lazio Spinozzi?».

Si tratta di Arcadio Spinozzi, ma che si è verificato non c’entrare nulla con la vicenda, con il tempo si è però sospettato che non si trattasse di un depistaggio ma un messaggio di allarme per Renatino De Pedis della Banda della Magliana. Questo perché l’ex amante Sabrina Minardi era infatti stata la moglie di un giocatore della Lazio, Bruno Giordano. Il comunicato termina con un disegno di un piccolo riquadro all’interno del quale compare il nome “Sergio” seguito dalla parola “Morte”.

Sabrina Minardi, nel 2006, rivelerà che l’autista di De Pedis si chiamava Sergio (Sergio Virtù) e lo vide gettare due sacchi con dentro due persone in una betoniera accesa, confidando che secondo lei erano i corpi di Emanuela Orlandi e del piccolo Domenico Nicitra, figlio di un membro della Banda della Magliana rapito nel 1992 (su quest’ultimo riconobbe di essersi sbagliata).

 

08 ottobre 1983
Sempre il gruppo Phoenix fa trovare una fotocopia di una lettera scritta a macchina all’interno di un confessionale della chiesa di piazza S. Silvestro a Roma. Si invita a liberare immediatamente Emanuela altrimenti «estirperemo alla radice questa pseudo organizzazione». Si conclude con: «Traffico internazionale di bambole for order ADC».

 

05 ottobre 1983
Un esame grafologico sulla lettere dei sedicenti rapitori stabilisce con certezza che la lettera fatta ritrovare dall'”Amerikano” a Castelgandolfo il 04/09/83 con allegata la fotocopia degli spartiti di musica che Emanuela aveva nello zaino il giorno della sparizione, è scritta con la stessa calligrafia di quella del contorto comunicato spedito da Boston e arrivato il 28/09/83 nella sede romana della “CBS News”.

 

Fine settembre 1983
Pietro Orlandi ha affermato di ricordare che verso fine settembre, Giulio Gangi si presentò a casa Orlandi dicendo che entro “10-15 giorni” Emanuela sarebbe tornata. Diceva di essere sicuro, che a riportarla sarebbero stati gli uomini del Sisde e aggiunge che Emanuela era molto provata. «Emanuela non tornò», scrive Pietro Orlandi. «Riuscimmo a parlarci solo dopo alcuni mesi e Gangi, con noncuranza, si limitò a dirci che era andato tutto all’aria». Nella requisitoria del 1997 il giudice Malerba stigmatizzerà il “non lineare comportamento” di Gangi (“Mia sorella Emanuela”, pag. 1242,143).

 

27 settembre 1983

Lo stesso anonimo che ha chiamato nei giorni precedenti al bar dei Gregori, richiama nuovamente per sollecitare l’intervento di Pertini. L’apparecchio è sotto controllo e la polizia scopre che la telefonata è partita da una cabina telefonica sulla circonvallazione Cornelia26G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 6.

All’arrivo degli agenti però il telefonista non c’è più, uno degli agenti disse di averlo visto allontanarsi con un cappello in testa, girare l’angolo e sparire27P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 116.

Richard Roth, corrispondente a Roma della “Cbs”, riceve una lettera spedita da Boston (precisamente dalla Kenmore Station) il 22/09/83, nella quale in maniera sconclusionata si parla del “materiale precedentemente posto a conoscenza del presidente della Repubblica”, Sandro Pertini e di un “episodio tecnico che rimorde la nostra coscienza”.

All’interno della busta vi è anche un cartoncino bianco con scritto a penna “795 RNL” (lettere contenute nel cognome Orlandi?).

Secondo la perizia grafica voluta dal giudice Domenico Sica, il messaggio partito da Boston, la lettera recapitata alla mamma di Mirella Gregori l’8 settembre e quello infilato il 4 settembre nel furgone della Rai sono stati vergati dalla stessa mano.

In un’altra perizia del 2013, la grafologa Sara Cordella rileva che il segno grafico che si osserva «si trova soprattutto nelle scritture femminili».

Una seconda lettera, firmata “Gruppo Phoenix” e datata 19 settembre 1983, arriva alla redazione del TG2. Anche in questo comunicato ci si rivolge ai presunti rapitori di Emanuela:

«In seguito ad un nostro personale interessamento legato esclusivamente al rispetto di una giovane vita, è stato deciso in data odierna di porre termine, con i mezzi a nostra disposizione, a questa “bravata” farsa turca codice 158 che sta insozzando l’Italia oltre confine. Contrariamente ai nostri usi, ci siamo avvalsi dei mezzi di informazione per dare pubblicamente un chiaro avvertimento. Da comunicare attraverso i canali di informazione: in via eccezionale è concessa agli elementi implicati nel prelevamento di Emanuela Orlandi la scelta della propria sorte, se risponderanno esattamente alla richiesta del 6-9-83, nella eventualità di una mancata o irregolare obbedienza di quanto loro chiesto, la sentenza sarà irrevocabile. Roma+++++Milano, Pierluigi è assai pericoloso stare in quella trattoria con le spalle verso la porta perché ci sono troppe “correnti d’aria”: un nostro vecchio “amico” ha fatto una brutta fine davanti ad un piatto di spaghetti, vogliamo generosamente ricordare a Mario che nella pineta c’è tanto posto per aumentare la vegetazione. La persona amica che ha tradito può assolvere le proprie colpe perché è meglio una confessione oggi che la morte domani, a tutti gli elementi implicati giova ricordare che sono ovunque raggiungibili. Order N.Y. A.D.C.».

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24 settembre 1983
Lo stesso anonimo che ha chiamato al bar dei Gregori il 12/9/83, telefona nuovamente e dice al fidanzato della sorella di Mirella, Filippo Mercurio, di prendere nota dei vestiti di Mirella e comunicarli alla madre di Mirella che avrebbe capito: maglieria Antonia, jeans con cintura, maglietta intima di lana, scarpe con tacco nero lucido, marca Saraian di Roma28G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 6.

La mamma di Mirella confermò: «Tutto esatto. Quando Mirella sparì era vestita in quel modo. E solo io ne sono a conoscenza»29P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 115 30G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 6.

Mercurio conferma inoltre che la voce è la stessa a quella del telefonista del 12/9/83 che aveva parlato con Maria Antonietta e che lui aveva sentito avvicinandosi alla cornetta31G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 6.

 

22 settembre 1983
Il “Fronte Turkesh” invia il suo quarto Komunicato all’Ansa di Milano con 20 particolari su Emanuela. Alcuni molto vaghi: “gli piace il gelato” o “una volta vomitò aranciata”, altri più precisi: “anche il tè non gli andava”. Viene fatto cenno anche della “ragazza con i capelli neri e ricci che sembrava sua amica”, che riporta alla famosa “terza amica” come nella testimonianza di Maria Grazia Casini del 29/7/8332P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, pp. 113, 114.

I familiari confermano la veridicità dei dettagli forniti33G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 6.

Nel messaggio si legge che ci si augura che il metodo Turkesh possa portare alla salvezza di Emanuela e viene formulato un ultimatum ai rapitori34G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 6.

Sempre in questa data un’ulteriore sigla, “Phoenix”, compare sulla scena. Con una telefonata a Il Tempo segnala nella basilica di Santa Maria degli Angeli, vicino la stazione Termini, un foglio. Su di esso si parla di “cinque componenti tra cui ‘P’ e ‘M'” (Pierluigi e Mario?) e che le loro personalità sono note e che dovranno rispondere all’appello della famiglia e dire se Emanuela è viva o meno. Inoltre si attestano i messaggi rinvenuti nelle chiese di San Roberto Bellarmino e S. Maria della Mercede in data 24/9/83, quello pervenuto al giornalista Joe Marrazzo, nel quale si invitano i rapitori a rispondere agli appelli della famiglia Orlandi. Infine, loro sarebbe anche il messaggio dell’8/10/83 rinvenuto nella chiesa di S. Silvestro che, ancora una volta, impone un ultimatum ai sequestratori a rilasciare Emanuela. Tutti i messaggi sono dattiloscritti e rinvenuti all’interno di chiese35G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 6.

Il 14/11/83 il vicedirettore del Sisde, Vincenzo Parisi, in un rapporto riservato (emerso 12 anni dopo), esaminò i 34 messaggi pervenuti tra il 5 e il 24 ottobre affermando che 6 erano di mitomani, 4 di difficile attribuzione, 16 dal gruppo che ha operato il sequestro. Gli altri 8 sono di due gruppi: Turkesh e Phoenix, che -secondo Parisi- «non sembrano implicati nella scomparsa della ragazza, ma soltanto nella gestione del caso»36P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 140.

 

12 settembre 1983
Un anonimo con inflessione straniera telefona al bar gestito dai Gregori in via Volturno 2. Si qualifica alla sorella Maria Antonietta come appartenente allo stesso gruppo che ha rapito la Orlandi e sollecita l’intervento del capo dello Stato. Conclude la telefonata dicendo alla sorella Maria Antonietta: «Fate finta di niente, appena attaccherò tornate ai vostri posti. Lei alla cassa e il suo fidanzato dietro al banco». L’uomo li stava evidentemente osservando37G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 6 38P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 113.

 

08 settembre 1983
Alla madre di Mirella Gregori arriva una lettera con la richiesta di un pubblico intervento del presidente della Repubblica Sandro Pertini a favore della liberazione di Agca. E’ il primo contatto dei presunti rapitori con la famiglia Gregori. La grafia è simile a quella del manoscritto trovato nel furgone della Rai il 4/9/8339G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 6. In totale è il terzo messaggio in cui i rapinatori citano Mirella Gregori.

Secondo la perizia grafica voluta dal giudice Domenico Sica nel 1983, la lettera recapitata alla mamma di Mirella Gregori, quella infilato il 4 settembre nel furgone della Rai e il messaggio partito da Boston che arriverà il 28 settembre, furono vergati dalla stessa mano.

 

04 settembre 1983
Con una telefonata all’Ansa torna a farsi vivo “l’Americano” facendo ritrovare una lettera in furgone della Rai a Castelgandolfo. E’ l’occasione della prima udienza che Giovanni Paolo II tiene dopo l’attentato, le misure di sicurezza sono eccezionali, eppure è riuscito a superare il muro dei controlli.

Secondo la perizia grafica voluta dal giudice Domenico Sica nel 1983, la lettera nel furgone della Rai, quella che verrà recapitata alla mamma di Mirella Gregori l’8 settembre e il messaggio che arriverà da Boston il 28 settembre, furono vergati dalla stessa mano.

Ha anche lasciato una busta gialla in un cestino dei rifiuti in via Porta Angelica, a pochi metri da casa Orlandi con la fotocopia del frontespizio di un album con gli spartiti per flauto del compositore Hugues, che Emanuela aveva con sé il giorno del rapimento. Sulla pagina ci sono appunti di nomi e indirizzi di tre persone (il padre Ercole ha riconosciuto la calligrafia di Emanuela): Laura Casagrande, Gabriella Giordani e Carla De Blasio, con rispettivi indirizzi.

Nella busta vengono trovati anche 4 sassolini, secondo gli inquirenti sono collegati alla telefonata dell’Americano all’Ansa, dove afferma: «Mi hanno detto di riferirvi che nelle vicinanze della basilica di Santa Francesca Romana il pontefice celebra la Via crucis». A domanda del giornalista, chiarisce: «La scelta della basilica è inerente il giorno della scadenza del 20 luglio». Il sospetto è che i 4 sassolini corrispondano alle ultime stazioni della Via crucis: crocefissione, morte, deposizione e sepoltura. Il corpo venne cercato attorno alla chiesa ma senza risultato40P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 112.

Nelle tre facciate manoscritte si afferma che la questione Orlandi si era chiusa il 20 luglio (se ne deduce con la sua uccisione), e che la colpa è del Vaticano che non ha voluto lo scambio con Agca. Si accusa anche il Vaticano di aver fatto sparire il nastro del 14/7 e viene negata l’esistenza del fronte “Turkesh”, attribuendo i Komunicati (del 4, 8 e 13) a funzionari italiani o vaticani. Si avverte infine che la loro ultima comunicazione risale al 21 luglio.

 

02 settembre 1983
All’Ansa di Milano arriva una lettera anonima scritta in turco e spedita dalla Svizzera, in particolare dalla città di Olsen. In una prosa sgrammaticata, l’autore incolpa i Lupi Grigi del sequestro della Orlandi, citando Serdar Celebi, Omar Bagci, Alì Agca e Ilyas Kaya. Quest’ultimo si legge che sarebbe il presidente dei “Lupi Grigi” in Svizzera. Segue l’indirizzo dei “Lupi Grigi” a Olter, ed una sigla misteriosa: “G. F. B. T. B.”.

 

01 settembre 1983
Un anonimo informa con un messaggio in lingua turca che Emanuela è stata rapita e portata in Svizzera, fornendo il recapito dei Lupi grigi presso la Turk Kultur Ocagi di Olten, nel Canton Soletta. La stessa missiva venne inviata qualche giorno prima nell’ambasciata a Basilea. Lo stesso si verificò il 20/11/84 e il 3/08/85. La polizia andò a Olten, presso l’indirizzo comunicato, ma trovò solo l’abitazione di un turco.

 

28 agosto 1983
Giovanni Paolo II da Castelgandolfo rivolge un altro appello per la liberazione di Emanuela e Mirella, affermando di pregare per i rapitori e per il suo attentatore. Pietro Orlandi fa notare che: «Giovanni Paolo II, anche se il fronte Turkesh veniva considerato dalle autorità italiane non attendibile, rispettò il termine del 28 agosto», e «fa un esplicito riferimento ad Agca, così come gli era stato richiesto, anche se con parole diverse»41P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 108.

All’avvocato Egidio arriva una lettera scritta a macchina a firma Emanuela, in cui racconta alcune sevizie subite. Non viene riconosciuta come attendibile42P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 107.

 

15 agosto 1983
Secondo la testimonianza resa da Josephine Hofer Spitaler ai carabinieri di Terlano (Bolzano) il 18/02/85, Emanuela sarebbe stata vista dalla donna a Terlano mentre entra nell’appartamento sotto a lei, di proprietà di Kay Springorum, capocentro Sismi della sede di Monaco (così risulta agli atti), e Francesca di Teuffenbach (“Mia sorella Emanuela”, pag. 106).

 

13 agosto 1983
Il “Fronte Turkesh” invia il terzo “Komunicato” con il quale sollecita il Papa a parlare entro il 28 agosto e invia una piantina dell’area del monte Amiata, in Toscana, indicata come zona della prigione.

I presunti rapitori dicono che lunedì 20 giugno Emanuela cenò con “parenti molto stretti”, effettivamente era da zio Mario e zio Lucia. Pietro Orlandi rivela che questo dettaglio era conosciuto soltanto in famiglia ed erano stati gli agenti del Sisde a suggerire di porre la domanda43P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 106.

Nel Komunicato si forniscono anche 8 particolari su Emanuela, tra cui che era bionda da bambina e che amava le canzoni di Gino Paoli
44G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 6.

Inoltre, scrivono che Emanuela sarebbe appassionata di fotografia (elemento smentito dai familiari), aggiungendo: «Attenti voi a giovane con la lettera B».

 

8 agosto 1983
Il gruppo Turkesh fornisce un secondo “Komunicato” dove chiede che il Papa affermi che “Agca è un essere umano come Emanuela Orlandi, come tale va trattato”.

Il Vaticano ha risposto successivamente che una dichiarazione di questo sarebbe superflua perché ovvia, soprattutto dopo che Giovanni Paolo II ha parlato di Agca come “fratello”. Fanno sapere che il Pontefice si è frequentemente esposto in poco più di un mese per ben 7 volte.

 

6 agosto 1983
La madre di Mirella Gregori annuncia che fino ad ora mai ha collegato la sparizione di sua figlia con quella di Emanuela, ma in seguito al primo Komunicato del gruppo Turkesh ha deciso di affidare al legale della Orlandi, Egidio Gennaro, anche il caso di Mirella.

 

04 agosto 1983
Compare per la prima volta un “Komunicato 1” del “Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh”, sigla sconosciuta ad Ankara, che rivendica di avere prigioniera Emanuela che verrà uccisa il 30 ottobre. Viene nominata per la prima volta anche Mirella Gregori e si chiede la scarcerazione di Agca.

Vengono citati dei dettagli “significativi”45G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 5: Emanuela nel 1974 ha avuto una “crisi di repulsione al latte” (non le è mai piaciuto, ma mai nessuna crisi di repulsione, disse la madre), suoi amici sono 3 e con capelli neri (circostanza confermata), a 13 anni ha avuto una crisi nervosa (falso, secondo la madre), è andata in chiesa il 22 aprile (la madre inizialmente non ricordava, ma effettivamente quel giorno cantò in occasione di una celebrazione a Sant’Apollinare), ha sei nei sulla schiena (ne aveva tanti, rispose la madre)46P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 74. Lo zio Meneguzzi ne confermò l’autenticità47G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 5.

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Gli inquirenti ipotizzarono che gli autori del messaggio abbiano un misterioso “terminale” nell’ambiente della scuola di musica48P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 104, poiché «chi ha scritto, dicono gli inquirenti, quanto meno ha in qualche modo avuto delle informazioni sostanzialmente vere, seppure generiche, su Emanuela Orlandi» (cfr. Agenzia Ansa 6/8/83). Mirella Gregori viene citata per la prima volta abbinata a Emanuela, curiosamente di lei si parlò nell’ultima settimana del mese precedente in un’inchiesta della rivista “Panorama”49P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 75.

 

Fine luglio-inizio agosto 1983
Secondo la testimonianza resa da Giovanna Blum, insegnante di musica presso il conservatorio di Bolzano, ai carabinieri di Bolzano il 4 marzo 1985, tra la mezzanotte e l’una di fine luglio e inizio agosto è arrivata a casa sua una telefonata dove una giovane, parlando rapidamente, le ha detto: «sono Emanuela Orlandi, mi trovo a Bolzano, informi la polizia». Pochi istanti dopo, in una seconda telefonata, una voce maschile ordinò alla Blum: “Dimentichi quello che ha sentito, capito?”. La professoressa chiamò il 113, le dissero di chiudersi in casa. La Blum non conosceva personalmente Emanuela, però la Orlandi frequentava una scuola di musica a Roma e la Blum vi si recava spesso per congressi, dove distribuiva i suoi biglietti da visita a colleghi insegnanti.

 

Luglio 1983
Una fonte confidenziale dell’avvocato di famiglia racconta che Emanuela era finita nel monastero di suore di Peppange, nel cantone di Esch-sur-Alzette, in Lussemburgo. Vengono mostrate fotografie di una giovane vestita di scuro, con una tunica e i capelli raccolti dietro. Era seduta accanto ad un organo. Ercole, Maria e Pietro partono con il giudice Adele Rando e gli investigatori. I poliziotti fanno un blitz nel monastero ma la ragazza non è Emanuela (“Mia sorella Emanuela”, pag. 18)

 

29 luglio 1983
Maria Grazia Casini, studentessa della scuola di musica, presente la sera della sparizione di Emanuela alla fermata del 70 in corso Rinascimento, proprio insieme alla Orlandi (che conosceva solo di vista), viene interrogata dalla 3° Sezione del Reparto Operativo dei Carabinieri di Roma. Afferma che assieme a Emanuela, oltre che a Raffaella Monzi, c’era anche un’altra ragazza. La Casini e la Monzi hanno salutato Emanuela, lasciandola con questa ragazza che -secondo lei- frequentava la scuola di musica: circa 15 anni, poco più bassa di Emanuela, capelli neri, ricci e corti.

 

28 luglio 1983
Un funzionario della “Avon” smentisce categoricamente che sulla piazza romana operino o abbiano operato rappresentanti di sesso maschile. Lo ha fatto anche la responsabile della “Avon” per la zona di Roma, Anna Paola Lorenzini alla Squadra mobile: la ditta impiegava solo personale femminile e fra le 19 direttrici e le circa 200 presentatrici, nessuna aveva un’auto Bmw (“Mistero Vaticano”, pag. 30 e “Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 23).

 

27 luglio 1983.
Al termine di un’udienza generale in piazza San Pietro, il Papa recita un’Ave Maria per Emanuela assieme alle migliaia di fedeli. Nel 2002 Ercole Orlandi racconta che «quello stesso giorno il Santo Padre mi fece chiamare da mons. Monduzzi. Wojtyla ci abbracciò, si mise a piangere e ci disse che nostra figlia era stata rapita da un’organizzazione internazionale di terroristi. Ma, contrariamente a quanto riportato spesso dai giornali, non parlò del Kgb» (Mistero Vaticano, pag. 74). Ne ha parlato nel 2011 anche Pietro Orlandi.

Nella sede del “Corriere della Sera” un anonimo con accento straniero detta questo testo: «Per Emanuela ultima voce in Vaticano dice: molto terrorizzata perché forse paura restata incinta. Due cose possibili: ricoverata convento segreto o Emanuela finita per sempre. Ordine cardinal Casaroli» “Mia sorella Emanuela”, pag. 102).

 

26 luglio 1983
Una telefonata anonima, con accento straniero, alla redazione “Famiglia Cristiana” minaccia di morte Emanuela e il Pontefice (“sovversivo della Cia”) se non verrà liberato Ali Agca: «se abbiamo fallito il 13/5/81, non falliremo stavolta». L’interlocutore spiega che «un’eventuale conclusione negativa della vicenda è legata alla responsabilità del Papa».

Mons. Pietro Canisio Van Lierde ha intanto officiato, con presenti i genitori di Emanuela, una messa nella chiesa di sant’Anna, invitando a pregare per Emanuela. Ha affermato ad un certo punto: «Ci hanno tolto Emanuela Orlandi, hanno rubato un innocente. L’hanno rubata, ce l’hanno non con chi è veramente colpevole, ma con un innocente. L’hanno rubata all’ambiente del Vaticano». Ha destato curiosità l’affermazione “ce l’hanno non con chi è veramente colpevole”, forse solo un’espressione infelice. Disse poi di aver ritrovato un cartoncino di auguri di Natale inviato in passato da Emanuela, Pietro Orlandi commenta nel 2011: «Altro che fuga da casa! Qualcuno ha osato insinuare che Emanuela facesse la geisha, l’intrattenitrice per alti prelati. Come si fa ad essere tanto cattivi? La verità è che lei aveva un rapporto sincero con la fede, come dimostrano gli auguri a mons. Van Lierde» “Mia sorella Emanuela”, pag. 101).

 

24 luglio 1983
Arriva il sesto appello di Giovanni Paolo II, con il quale invita a pregare per Emanuela (“Mistero Vaticano”, pag. 70).

 

23 luglio 1983
Il magistrato titolare dell’inchiesta, Margherita Gerunda, cede il caso al collega Domenico Sica. Pietro Orlandi ricorda che la Gerunda «insisteva nel dirci, con una certa insistenza, che Emanuela era stata sicuramente presa da un maniaco sessuale» (“Mia sorella Emanuela”, pag. 99)

 

22 luglio 1983
In una conferenza stampa, Mario Meneguzzi annuncia che la famiglia ha nominato un proprio legale, l’avvocato Gennaro Egidio. Il 12/7/93 Ercole Orlandi ha sostenuto che la scelta di questo prestigioso legale era stata “suggerita” dal funzionario del Sisde Gianfranco Gramendola, il quale aveva provveduto anche a presentarglielo. Gramendola smentirà la circostanza (“Mistero Vaticano”, pag. 69). Nel 2002 Ercole Orlandi ha aggiunto: «noi a Egidio non abbiamo mai pagato neppure una lira, la questione economica era già stata sistemata prima che mi facessero firmare il documento preparato dal Sisde per la nomina del legale. Per giunta solo dopo vari anni mi hanno comunicato che con quella firma avevo nominato un altro avvocato, Massimo Krogh, come sostituto di Egidio in caso di suo impedimento» (“Mistero Vaticano”, pag. 69).

 

21 luglio 1983
Il Pontefice lancia un quarto accorato appello per la liberazione della giovane, “in nome di Dio e dell’umanità” (“Mia sorella Emanuela”, pag. 96).

Alla redazione Ansa di Milano arriva una lettera in tedesco, spedita da Francoforte (il 17/7), con la richiesta di scarcerazione di Ali Agca, il suo presunto complice Serdar Celebi e “altri amici”. In caso contrario «seguiranno altre azioni punitive come con Emanuela Orlandi». Per la prima volta viene avvalorata la pista dei Lupi grigi (“Mia sorella Emanuela”, pag. 97). L’ex giudice Ferdinando Imposimato, oggi legale della famiglia Orlandi, ebbe modo di parlare nel 2001 con un ex ufficiale della Stasi (servizi segreti Germania dell’Est), Gunter Bohnsack che rivelò la loro iniziativa a sfruttare il “caso Orlandi” con lettere false per riportare Agca ad incolpare sui Lupi grigi così da scagionare la Bulgaria dalle accuse sull’attentato al Papa. Questa lettera, del 21/7/83, venne con certezza scritta dagli agenti della Stasi (“Mia sorella Emanuela”, pag. 110 e 97).

 

20 luglio 1983
E’ il giorno dell’ultimatum dato dai presunti rapitori di Emanuela per la liberazione di Agca, Giovanni Paolo II al termine di un’udienza generale recita un'”Ave Maria” per Emanuela, esortando migliaia di fedeli ad unirsi a lui (“Mistero Vaticano”, pag. 65).

Un telefonista senza alcuna inflessione chiama l’Ansa dicendo che il Governo della Repubblica e lo Stato del Vaticano intendono venir meno alla scadenza dell’ultimatum con conseguente uccisione dell’ostaggio50G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 5.

Alle 12:00 l’Amerikano telefona al priore della chiesa di Santa Francesca Romana dicendo: «Il governo della Repubblica italiana con il placito dello Stato Vaticano intende non venire meno al possesso di uno strumento di propaganda quale il detenuto Alì Agca. Pervenendo alla soppressione del 20 luglio, non perdiamo speranza nella volontà di quanti possono adoperare un gesto ultimo e risolutore». Poche ore dopo un anonimo con accento italiano volle accertarsi che l’Ansa avesse pubblicato la notizia, aggiungendo che l’ultimatum scadeva alle ore 24:00 (“Mia sorella Emanuela”, pag. 96).

 

19 luglio 1983
Alle ore 10:00 il vicedirettore della sala stampa vaticana, mons. Pastore, rilascia una dichiarazione ufficiale, dove dice che il Papa ha già perdonato Ali Agca, tanto che né lui né la Santa Sede si è costituita parte civile. Afferma che comunque la condanna di Agca è inappellabile, il Vaticano può solo rimettersi alle leggi italiane e che lo stesso Agca non ha intenzione di chiedere la liberazione (si sente minacciato e sta bene in carcere, ha detto)(“Mistero Vaticano”, pag. 60).

Alle ore 11:22 mons. Pastore informa che in Vaticano si è aspettata la telefonata del presunto rapitore, ma nessuno si è fatto vivo. Verso le 14:25 il codice “158” viene scandito al centralino del Vaticano da qualcuno che telefonava da un bar rosticceria di viale Regina Margherita (a 100 metri dal bar di Mirella Gregori), che però ha interrotto la telefonata subito dopo aver detto “Pronto?” (“Emanuela Orlandi, la verità”, pag. 83). Il 15/9/10, la trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?” ha mandato in onda due registrazioni pervenute alla redazione, si tratta di due telefonate tra “l’Americano” e il centralino della Santa Sede. “L’Americano” riferisce il codice “158”, ma in entrambe le telefonate appena mons. Casaroli risponde, la registrazione si interrompe. Probabilmente le registrazioni si riferiscono proprio alle telefonate del 19/07.

Alle 15:19 arriva una seconda telefonata in Vaticano, un anonimo definitosi “colombo dell’organizzazione” chiede del card. Casaroli, ma interrompe la comunicazione. Alle 19:00 riesce a parlare con il Segretario di Stato, ma si limita a chiedere che i quotidiani romani pubblichino integralmente il testo del comunicato registrato nell’audiocassetta del 17/7/83 (“Mia sorella Emanuela”, pag. 96). Una “puntuale” caduta di linea nella centrale Sip di via Sant’Agnese impedisce agli inquirenti di individuare la provenienza della telefonata (“Mistero Vaticano”, pag. 61). Verso le 20:15 un anonimo dalla voce straniera telefona all’Ansa da una cabina di viale De Nicola (meno di 30 metri dal bar della Gregori), riferisce di aver parlato con il card. Casaroli e di aver chiesto la pubblicazione ai quotidiani del messaggio fonico (come di fatti avvenne). Un’ora dopo telefona a casa Orlandi domandando se il segretario di Stato avesse informato dell’avvenuto colloquio, lo zio Mario risponde di “si” (“Mia sorella Emanuela”, pag. 96).

Quella sera, ricorda Pietro Orlandi, la famiglia percepì la presenza di una “talpa” in Vaticano: il giudice Domenico Sica raggiunse gli uffici della Segreteria di Stato in incognito perché una telefonata era prevista tra le 22 e le 23, ma al centralino del Vaticano non chiamò nessuno. Si trattenne nel Palazzo Apostolico fin quasi alla mezzanotte, poi se ne andò. Un quarto d’ora dopo l’Americano telefonò al cardinal Casaroli dicendogli di non fare i furbi, che questi trucchetti non gli piacevano. Verso la fine del 1983 accadde una cosa simile: l’Americano invitò l’avvocato Egidio a rivolgersi alla Segreteria di Stato per risolvere la questione di Emanuela. Egli andò a parlare, come faceva spesso, con mons. Giovan Battista Re. Nel pomeriggio l’Americano telefonò nuovamente dicendo: «Avvocato, tanto lo so che stamattina sei stato da mons. Re» (“Mia sorella Emanuela”, pag. 197). Occorre ricordare che prima della caduta del muro di Berlino in Vaticano erano tollerate delle “spie”, come il domenicano Felix Morlion, confidente della Cia, il frate Eugen Brammentz, agente della Stasi, alcuni uomini della polizia segreta di Berlino che lavoravano all’Osservatore Romano, le cui finestre si affacciano proprio sulle finestre degli Orlandi.

 

18 luglio 1983
Oltre a una telefonata all’Ansa in cui viene ricordato il termine della trattativa al 20/07/83, alle ore 20:00 il Vaticano emette una nota ufficiale, in cui viene affermato che «la linea telefonica diretta è stata installata, il numero relativo è 6985 al quale va aggiunto il codice indicato [158, nda] dalle ore 10 alle 11 di domani risponderà a tal numero la persona desiderata [il segretario di Stato Casaroli, nda]», in altri momenti ci sarà la segreteria telefonica.

Viene effettuata una chiamata anche in Vaticano, subito interrotta. Gli inquirenti ne stabilirono comunque l’origine da un bar rosticceria di Viale Regina Margherita n. 4. Dopo una serie di telefonate in Vaticano, l'”Amerikano” riesce a parlare con il card. Casaroli al quale chiede la pubblicazione su Il Messaggero, Il Tempo e Paese Sera del messaggio del 17/07/83
51G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 5.

L’Amerikano chiama anche l’Ansa divulgando il messaggio lasciato al card. Casaroli, un’ora dopo telefona a casa Orlandi per sollecitare ancora la pubblicazione del messaggio del 17/07/83 e chiedendo se il card. Casaroli li avesse informati del messaggio ricevuto. Lo zio Meneguzzi risponde affermativamente
52G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 5.

Le perizie sulle 12 telefonate “ufficiali” fatte dai presunti rapinatori, dal 4 al 18 luglio, hanno stabilito che ad alternarsi alla cornetta sarebbero state 4 voci: due stranieri, forse arabi, e due italiani.

 

17 luglio 1983
Papa Giovanni Paolo II lancia un terzo appello ai rapitori di Emanuela dalla residenza estiva di Castel Gandolfo.


 

L’audiocassetta con le sevizie

Verso sera i presunti rapitori chiamano l’Ansa e in ottimo italiano dicono che il nastro che avevano lasciato il 14/07 in piazza San Pietro è «stato preso da funzionari del Vaticano». Ne hanno lasciato un altro in via della Dataria
53G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 5.

L’audiocassetta viene trovata, è incisa su due lati: da una parte dei gemiti prolungati di donna, poi una voce femminile dice: «Ma perché mi fai questo? Oddio ma cos’è? Sangue! Mi sento male, mio Dio, mi fa male…la prego, mi lasci dormire in pace».

Qui sotto è possibile ascoltare il “lato B” della cassetta:

 

Lo zio Mario Meneguzzi riconosce subito che la frase «Per favore, mi lasci dormire» è di Emanuela. Il resto è di difficile comprensione.

Il fratello Pietro Orlandi nel 2011 non esclude che possa essere Emanuela, mentre l’amica Raffaella Monzi dirà: «Non ritengo di riconoscere la voce. Emanuela appartiene alla categoria dei contralti e lo sviluppo di quella voce registrata non mi sembra di quella categoria»54P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, Anordest 2011, p. 95). Oltre alla voce di donna si sospetta che vi sia un riversamento da un film pornografico.

Nell’altro lato dell’audiocassetta c’è una voce maschile con accento straniero legge un lungo testo, a volte incomprensibile, ribadendo i termini della richiesta per la liberazione di Agca e pertenendo risposte dal Vaticano per la predisposizione di una linea telefonica dedicata, la quale però è già stata messa a disposizione con il numero 6385 e il codice fornito dai presunti rapitori. Infine vengono ripetuti nuovamente le solite “prove” (la data di nascita della sorella maggiore, il fatto che abbia portato gli occhiali e che il sacerdote che celebrerà il matrimonio è un amico di famiglia).

Secondo la relazione del Sisde (Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica) del 25/07/1983, le voci maschili sono di soggetti italiani e «tradiscono un accento simile al romanesco». Si sospetta che le voci in sottofondo possano essere sovraincisioni inserite durante la trascrizione delle copie magnetofoniche.

Più dettagliata la relazione del Sismi (Servizio per le informazioni e la sicurezza militare): si tratta di una registrazione in diretta sovrapposta a base registrata con voci e rumori vari, la parte finale è una ripetizione della prima con tonalità più sfumate. Vi si riconoscono 3 voci maschili diverse, la prima di origine turca per il corretta pronuncia del nome “Agca”, la seconda di sicura lingua italiana e la terza con accento romanesco. Per quanto riguarda la voce femminile, l’indagine riscontra sovrapposizione con quella della Orlandi, soprattutto nel timbro e nella tonalità. La relazione psicologica ravvisa l’autenticità della sofferenza.

Una terza relazione, quella della polizia scientifica, analizza i rumori di sottofondo e, oltre a percepire il rumore del proiettore si ode il motore di un’auto Diesel nelle vicinanze oppure tale rumore d’auto si troverebbe già nella ripresa cinematografica «perché effettuata in un camper con motore diesel». Questa seconda ipotesi è più probabile rispetto alla registrazione dell’audio in una stanza, in quanto «dopo l’accelerazione dell’auto vi è il rumore di un oggetto che cade, dovuto allo spostamento del camper (o roulotte)». Un’altra prova è che non si odono rumori di passi.

 

15 luglio 1983
I carabinieri rilanciano la pista dello sfruttamento della prostituzione minorile e diffondono due identikit, secondo le testimonianze delle amiche, di due giovani che avevano potuto “seguire Emanuela Orlandi nei giorni precedenti la scomparsa”. Una pista improbabile perché, come dissero funzionari della Squadra Mobile, non avrebbero certo inscenato un traffico di telefonate, messaggi anonimi e richieste di scambio di persona (“Mistero Vaticano”, pag. 58). Il 25/6/08, durante una puntata della trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?”, una telespettatrice ha chiamato il centralino dopo aver osservato questi identikit e ha fornito (minuto 00:20:00) nome e cognome di uno di loro dicendo che è una persona di sua conoscenza. Ha affermato che si trattava di un pregiudicato, che aveva avuto problemi con la giustizia negli anni 1980-1981 e, proprio per questo fatto, i suoi dati erano presenti negli archivi della polizia. Effettivamente era così, la foto del pregiudicato era incredibilmente somigliante a quella dell’identikit realizzato.

 

14 luglio 1983
Alle 19:30 squilla il telefono di Carla De Blasio, un’amica di scuola di Emanuela. Risponde la madre e il telefonista detta un messaggio: in Piazza San Pietro, in direzione della finestra dell’Angelus, depositiamo un nastro ai determinati periti che ritengono un falso il primo documento fonico. Il nastro non viene trovato. Dalla comparazione della voce con l'”Amerikano” si tratta di due persone diverse55G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 4.

L’anonimo dice alla donna che il numero di telefono l’ha fornito Emanuela e la invita a recarsi in piazza San Pietro (“che è vicino alla sua abitazione”). La donna non può uscire di casa e allora l’anonimo la invita a chiamare l’Ansa (le fornisce il numero) per inviare un cronista. Non verrà trovato nulla56P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 9.

 

13 luglio 1983
Lo zio Meneguzzi nega che il Vaticano “stava stretto a Emanuela”: è un’altra falsità», scrive. Il tempo libero, afferma, lo passava proprio in Vaticano, frequentava l’Azione Cattolica e non aveva mai dato segni di insofferenza.

 

12 luglio 1983
Un’allieva della scuola di musica di Emanuela, Marta Szepesvari, riferisce che il giorno prima della scomparsa di Emanuela aveva notato un giovane di 22-26 anni, capelli color castano chiaro ondulati, di media statura, che fissava l’ingresso della scuola come se attendesse qualcuno. Lo “sembro” riconoscere fotograficamente in Sergio Virtù57G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 18.

 

11 luglio 1983
Secondo la deposizione del 9/2/94 del prefetto Vincenzo Parisi (allora vicedirettore del SISDE) al giudice Adele Rando (pag. 84), in questa data (in luogo imprecisato) egli avrebbe incontrato mons. Dino Monduzzi, prefetto della Casa Pontificia, trovandolo reticente. Parisi morì nel 1997, mons. Monduzzi, dopo la sua morte, negherà di averlo mai incontrato (“Mia sorella Emanuela”, pag. 202).

 

10 luglio 1983
L’Amerikano chiama Paese Sera, ribadisce la liberazione di Agca e fornisce indicazioni per il recupero di uno scritto della Orlandi indirizzato ai genitori presso la cappella dell’aeroporto di Fiumicino58G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 4.

Sull’altare, vicino al leggio, si trova infatti un foglio sul quale è fotocopiato il retro della tessera della scuola di musica con quattro timbri e corredata da diciture di validità inerenti gli anni 1970, 1980, 1981, 1982 e 1983. Inoltre c’è una scritta auotografa attribuita a Emanuela: “Per Ercole e Maria Orlandi. Cari mamma e papà non state in pensiero per m io sto bene”59G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 4.

Pietro Orlandi racconta che i caratteri apparivano meno rotondeggianti, venne sentito un grafologo che affermò: «E’ stato scritto con animo turbato e ansioso»60P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 91. Un perito calligrafo del Tribunale di Roma, Francesco Pesce, affermò invece che «la grafia [di Emanuela] è molto semplice, e data l’esiguità della frase un imitatore non avrebbe da penare»61citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 53.

Papa Giovanni Paolo II rivolge un secondo appello manifestando un impegno diretto: «Per parte mia posso assicurare che si sta cercando di fare quanto è umanamente possibile per contribuire alla felice soluzione della dolorosa vicenda»62P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, pp. 91, 92.

 

08 luglio 1983
Verso le 16:00 squilla il telefono a casa di Laura Casagrande, studentessa della scuola di musica che Emanuela ha conosciuto solo poco tempo prima del giorno della scomparsa.

Risponde la madre, la voce con forte accento mediorientale le detta un testo da consegnare all’agenzia Ansa in cui nega di far parte di organizzazioni terroristiche, vuole la liberazione di Agca, preannuncia documento che sarà inviato alle autorità vaticane, sollecita per la trattativa una predisposizione di una linea telefonica riservata con il segretario di Stato Casaroli, ribadendo il 20/07/1983 come termine per la scadenza63G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 4.

Il telefonista dice di aver atteso l’appello di Giovanni Paolo II, che la “cittadina” (non dirà mai “cittadina vaticana”) Emanuela Orlandi non si trova in stato italiano. Rivendica come suoi solo tre contatti: quello del 5 luglio al Vaticano, quello subito dopo a casa Orlandi e la telefonata all’Ansa il 6 luglio, “le precedenti telefonate non ci appartengono”, afferma. Pietro Orlandi fa notare che il telefonista anonimo riconosce l’Americano ma non la telefonata di Pierluigi e Mario (anche se l’Americano li aveva citati entrambi): «Una divaricazione tra gruppi criminali, è come se il livello gerarchicamente superiore si volesse dissociare dalla manovalanza che aveva gestito le prime fasi del sequestro»64P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 90.

Arriva un’altra telefonata all’Ansa da un uomo con accento straniero che ribadisce la liberazione di Agca65G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 4.

Lo sconosciuto vuole controllare che il messaggio del primo telefonista sia stato ricevuto, aggiungendo che il numero di Laura Casagrande è stato loro fornito da Emanuela stessa. Il numero di Laura compariva anche sull’elenco telefonico, ma effettivamente la ragazza aveva dato il suo recapito a Emanuela proprio il giorno della sparizione. Da quel giorno Laura (e Raffaella Monzi) non è più tornata alla scuola di musica66R. di Gioacchino, Storie di alti prelati e gangster romani, p. 12.

L’anonimo dice che Agca «dovrebbe recarsi con i suoi mezzi e se vuole a Brandeburgo, nella Germania orientale» e si auspica l’intervento del Papa per concedergli la graziaP. Nicotri, Mistero Vaticano, p.48.

Intanto, interrogato in carcere, Agca afferma di non capire cosa stiano dicendo queste persone. Urla ai giornalisti: «condanno l’attentato al papa! Sono stato uno strumento del Kgb. Antonovo è mio complice, sono stato molte volte in Bulgaria. Sono coinvolti i servizi segreti bulgari e il Kgb», e rispetto a Emanuela: «sono contro questa azione criminosa, sono con la ragazza innocente e con la famiglia che sente dolore, rifiuto ogni scambio con qualcuno, sto bene nelle carceri italiane» (“Mia sorella Emanuela”, pag. 91).

In Vaticano telefona invece un anonimo che precisa: «La cittadina Emanuela Orlandi attualmente non si trova in territorio italiano» (“Mia sorella Emanuela”, pag. 90). Da notare che l’anonimo chiama Emanuela “cittadina” (e non “cittadina vaticana”), così come ha fatto poche ore prima chi ha chiamato Laura Casagrande. Probabilmente si tratta della stessa persone.

 

07 luglio 1983
Alle 16:45 l’Americano chiama casa Orlandi e dice che si è recato dalla ragazza. Offre alcuni particolari: Emanuela non è nata in Vaticano e vi è arrivata solo dopo un anno, Natalina metteva gli occhiali e ora non li mette più, il sacerdote che deve celebrare il suo matrimonio è un amico di famiglia, il cantante preferito da Emanuela è Claudio Baglioni e che lei è innamorata di Alberto, ora a militare. Emanuela avrebbe chiesto di non divulgare questa ultima notizia per pudore. Pietro Orlandi ha spiegato che questo pudore era tipico di Emanuela (“Mia sorella Emanuela”, pag. 89). I dati forniti dall’Americano sono veri, tranne il fatto che Emanuela non sia nata in Vaticano: infatti per un banale errore anagrafico era attribuita la sua residenza in via Niccolò V e l’arrivo in Vaticano solo tre mesi prima del giugno 1983. «Ma Emanuela ha sempre vissuto qui, fin da dopo la nascita», ha affermato Ercole Orlandi (“Mistero Vaticano”, pag. 17). Questo errore dimostra che l’Americano non ha avuto queste informazioni direttamente da Emanuela, come potrebbe altrimenti sbagliarsi su un dato così preciso? Probabilmente le ha avute da persone che conoscevano la ragazza e i suoi documenti dell’anagrafe (in cui era riportato l’errore). Dalla telefonata si capisce anche che l’Americano non conosce personalmente Ercole Orlandi, infatti a rispondere è lo zio Mario Meneguzzi che viene scambiato appunto per il papà di Emanuela (lo chiama “signor Orlandi”). Anche la notizia su Alberto è vera, era uno studente di chitarra da un mese a militare, ma nessuno della famiglia ne era a conoscenza, solo qualche amica alla scuola di musica.

 

06 luglio 1983
Un anonimo dalla voce giovanile telefona all’agenzia Ansa, dice di appartenere a un gruppo che mira a ottenere la liberazione di Agca e segnala in un cestino di rifiuti di Piazza del Parlamento un messaggio in cui si troverà la fotocopia della tessera di iscrizione alla scuola di musica con fotografia di Emanuela, una ricevuta di versamento, il numero telefonico della ragazza e una frase di saluto autografata: “Con tanto affetto la vostra Emanuela”67G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 4.

La fotocopia di ricevuta del versamento della rata scolastica per la scuola di musica da 5000 lire datata 6/5/83 (poche settimane prima della scomparsa) era rimasta nella sua borsa di cuoio. La frase di sei parole è stata riconosciuta come autentica da Pietro, fratello di Emanuela68P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 89 69G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 4 e da Ercole Orlandi70P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 42.

 

05 luglio 1983
Alle 12:50 in Vaticano arriva una telefonata (mantenuta riservata dal Vaticano e rivelata dallo zio Meneguzzi) di una voce, chiamata poi “l’Americano” per via del suo accento anglosassone (per alcuni artefatto). Afferma di avere in ostaggio Emanuela e per vederla libera bisogna liberare Ali Agca entro e non oltre il 20 luglio. I contatti successivi a questa telefonata, spiega, avranno come riconoscimento un codice di tre cifre 15871G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p ,4.

Dopo un’ora circa, alle 14:00, l’Americano chiama a casa Orlandi (dove risponde Mario Meneguzzi). Dice che ha chiamato il Vaticano e informa che le persone corrispondenti ai nomi “Pierluigi” e “Mario” fanno parte dell’organizzazione. Fa sentire una registrazione di una voce femminile72G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 4 (riconosciuta poi da Mario Meneguzzi come la voce di Emanuela) che dice ripetutamente: «Scuola convitto nazionale Vittorio Emanuele secondo..dovrei fare il terzo liceo quest’altr’anno..». Aggiunge poi: «Funzionari vaticani non mancheranno di aver contatto con lei [il fischio di un treno copre le parole]»

Un ex compagno di Emanuela riferirà che alla scuola di musica tempo prima erano state realizzate delle brevi presentazioni audio di alcuni allievi. Vennero realizzate sullo sfondo di prove strumentali probabilmente si scelse di usare una frase in cui non c’erano altri rumori identificativi e montarla a ripetizione. I presunti rapitori potevano avere un complice dentro la scuola oppure Emanuela poteva avere una copia della registrazione nella borsa73R. di GioacchinoO. Lupacchini, M. Parisi, Dodici donne un solo assassino?, Koiné 2006, pp. 24, 2574.

 

03 luglio 1983
Al termine dell’Angelus, Giovanni Paolo II dice pubblicamente: «Desidero esprimere la viva partecipazione con cui sono vicino alla famiglia Orlandi, la quale è nell’afflizione per la figlia Emanuela, 15 anni, che da mercoledì 22 giugno non ha fatto ritorno a casa, non perdendo la speranza nel senso di umanità di chi abbia responsabilità in questo caso. Elevo al Signore la mia preghiera perché Emanuela possa presto tornare incolume ad abbracciare i suoi cari che l’attendono con strazio indicibile. Per tale finalità invito anche voi a pregare».

L’appello scatenò un’attenzione internazionale al caso. Secondo Pino Nicotri, studioso del caso Orlandi, questo fu fatale per le sorti di Emanuela e mostrò come il Vaticano fosse a conoscenza di un rapimento, quando le forza di polizia ancora ritenevano possibile un allontanamento volontario della ragazza. Per altri era la prova che il Vaticano sapesse anche che Emanuela era ormai morta e dunque non c’era pericolo di inquinare le indagini. Il magistrato Otello Lupacchini e Max Parisi ritengono invece che qualcuno avesse già preso contatto con il Vaticano e avesse preteso un appello pubblico del Pontefice, così «Emanuela divenne di colpo un’arma formidabile di pressione nelle mani di chi aveva solidissimi motivi per ricattare la Santa Sede» (“Dodici donne un solo assassino“, pag. 18). Pietro Orlandi riferirà che sul comunicato della sala stampa vaticana per gli appelli del Papa era scritta la categoria dei vari interventi, «per quell’appello la categoria era: sequestri di persona». Però prima di quell’appello, nessun giornale aveva parlato di un rapimento

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In questa data, secondo la deposizione avvenuta il 3/12/92, mons. Giovanni Salerno, consulente legale presso la Prefettura degli Affari Economici offre la sua collaborazione a mons. Giovan Battista Re, assessore alla Segreteria di Stato della Santa Sede, ma egli disse che non la riteneva necessaria, volendo lasciare le cose come si trovavano (“Dodici donne un solo assassino”, pag. 18,19)

 

02 luglio 1983
Arriva anche la controversa deposizione ufficiale del vigile urbano Alfredo Sambuco al comando dei Carabinieri di via Selci a Roma. Dice di aver visto arrivare Emanuela in Corso Risorgimento attorno alle 15:30 ma da piazza Cinque Lune, ovvero come se si stesse allontanando dalla scuola di musica. Si sarebbe fermata a parlare «davanti al civico 57 con un uomo sceso da una Bmw verde metallizzato» ed Emanuela gli avrebbe domandato dove trovare la Sala Borromini (“Mistero Vaticano”, pag. 23). Sambuco, assieme agli agenti, ha realizzato un identikit dell’uomo visto assieme a Emanuela. Un carabiniere, ha raccontato Domenico Cagnazzo l’allora comandante dell’unità operativa di via Selci, notò la somiglianza tra l’identikit realizzato e il volto di Enrico De Pedis. Su questo identikit c’è comunque un altro mistero inspiegabile: rimase completamente dimenticato per anni e anni e nessuno fece vedere al vigile la foto di De Pedis. E’ possibile tuttavia che sia il vigile Sambuco che il poliziotto Bosco si siano confusi tra i fatti reali e quelli racconti loro dalla famiglia.

 

01 luglio 1983
In tutta Roma compaiono 3mila manifesti, attaccati di notte da Pietro Orlandi e suoi amici, con la foto di Emanuela e la parola “scomparsa”, con invito a telefonare al numero di casa (“Mia sorella Emanuela”, pag. 81). La data è confermata anche dai quotidiani dell’epoca

 

28 giugno 1983
Alle 19:00 telefona a casa Orlandi un certo Mario, la telefonata è stata registrata (minuto 00:11:10). Spiccato accento romano, dice di avere 35 anni e possedere un bar dalle parti di ponte Vittorio (vicino al Vaticano) dove ha visto “Barbarella” (lo stesso nome usato da Pierluigi). Dice che ha riconosciuto la ragazza dalla foto sui giornali, che però ora ha i capelli tagliati a caschetto (lo ha detto anche Pierluigi) e dice di essere di Venezia. “Barbarella” avrebbe detto che se n’è andata perché «c’ho ‘na vita piatta, una vita troppo comune». Sarebbe però tornata a settembre per il matrimonio di un parente (ritorna il particolare delle nozze di Natalina). Mario rivela un particolare di sé, descrivendo “Barbara” afferma: «capelli corti, scuri, alta, alta più de me perché so’ un po’ bassetto». Lo zio Meneguzzi domanda precisione sull’altezza della ragazza: «Un metro e cinquanta, sessanta?». Mario appare titubante e viene in suo aiuto una seconda voce in sottofondo, che dice: «No de più, de più». Il telefonista Mario, aggiunge anche che telefona per scagionare un suo amico rappresentante della Avon (nessun giornale ha ancora parlato della Avon!), che forniva a Barbara e ad altre amiche i prodotti da vendere (stessa cosa detta da “Pierluigi”)(“Mistero Vaticano”, pag. 34).

Nel febbraio 2006 uno dei boss della banda della Magliana, Antonio Mancini, collaboratore di giustizia, affermerà d’aver riconosciuto nella voce di Mario uno dei killer della Magliana, col soprannome di Rufetto, ovvero Libero Angelico. Per Mancini costui era «alle dipendenze unicamente di De Pedis, era il suo sicario personale e già all’epoca possedeva un ristorante a Tratevere» (“Dodici donne un solo assassino“, pag. 48,49). Il confronto della voce tra Mario e Libero Angelico, realizzato dalla polizia, avrebbe però dato esito negativo.

Sempre in questa data, il poliziotto Bruno Bosco, anche lui in servizio a Palazzo Madama (come il vigile Sambuco), mette per iscritto ai suoi superiori di aver visto il 23 giugno «una ragazza che parlava con un automobilista sceso da una Bmw turing di colore verde chiaro, il quale le mostrava un tascapane di colore militare con la scritta Avon contenente probabilmente dei prodotti cosmetici». A verbale il poliziotto spiega che la scena avveniva davanti al civico n°3 di piazza Madama, descrive fisicamente l’uomo ma non la ragazza, dice solo che aveva uno zainetto sulle spalle. Il poliziotto Bosco, dopo quel giorno, non ha più voluto parlare di Emanuela Orlandi.

Sempre in questa data Raffaella Monzi, amica di Emanuela e probabilmente una delle ultime persone ad averle parlato quel giorno, dichiara al procuratore Domenico Sica come avesse appreso, dalla stessa Emanuela, che l’offerta di lavoro le era stata fatta in compagnia di un’amica della quale, però, non ricordava il nome. Quando lasciò Emanuela alla fermata dell’autobus 70 la vide parlare con una donna dai capelli rossi (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 11). Occorre ricordare che Raffaella lavorava per la “Avon”, nell’estate 1983 entrerà in profonda crisi depressiva dalla quale non emergerà più. Abbandonò la scuola di musica per iscriversi all’Accademia di Santa Cecilia, ma il suo stato mentale peggiorò: nessun lavoro, anni di terapie psicologiche e medicinali (“Dodici donne un solo assassino”, pag. 33). Secondo gli inquirenti Raffaella sa più cose di quante ne abbia mai raccontate (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 12). Nel 2008 la madre dichiarerà: «Gli identikit dei presunti rapitori non vennero mai mostrati a mia figlia nel corso degli innumerevoli interrogatori nonostante fosse stata l´ultima persona a vedere Emanuela Orlandi. In ogni caso da quel giorno la vita di Raffaella non è stata più la stessa. Dovemmo andare via da Roma ma c´erano persone che hanno continuato a seguirci e a controllarci. Eravamo tanto esasperati e spaventati che decidemmo di andare via da Roma e di trasferirci a Bolzano. Raffaella fu seguita da un giovane biondino. Ogni volta ce lo trovavamo davanti e un giorno disse a Raffaella: “Vieni via con me, lascia i tuoi genitori…”. Fu un episodio che ci colpì anche se decidemmo di non darci peso pensando che fosse uno spasimante. Tornati a Roma, Raffaella mi raccontò che una persona la fotografava per strada. E un giorno ricevetti una telefonata: “Ho visto tua figlia sul treno: è bellissima. La voglio sposare”. Non ho mai saputo chi fosse e come avesse avuto il nostro numero di telefono. Di certo era una persona che controllava Raffaella. Per mia figlia è stato un incubo dal quale non si è più ripresa».

Sempre in questa data, l’ex terrorista turco Alì Agca ritratta per la prima volta le sue accuse ai bulgari circa l’attentato di Giovanni Paolo II. Più avanti spiegò di aver agito in questo modo a causa di minacce ricevute in carcere due finti giudici bulgari, in realtà agenti segreti dell’Est. Il giudice Ilario Martella, presente quel giorno nel carcere, confermò di essersi allontanato con uno dei due, lasciando Agca con l’altro (“Mia sorella Emanuela”, pag. 258,259).

 

26 giugno 1983
Pierluigi telefona per la terza volta alle ore 20, c’è rumore di piatti e stoviglie in sottofondo, dice di essere in un ristorante al mare con i suoi genitori e aggiunge che “Barbarella” vendeva anche prodotti cosmetici della “Avon” forniti da un tizio che poi la pagava una percentuale sul venduto. (nessuno ancora ha parlato della “Avon”!). Avrebbe dovuto suonare il flauto al matrimonio della sorella e la sorella maggiore ha portato per un periodo gli occhiali, entrambi questi indizi sono veri (“Mistero Vaticano”, pag. 32). Occorre sottolineare la sorpresa del telefonista Pierluigi quando lo zio Meneguzzi gli chiede un incontro “qui in Vaticano”. A quel punto Pierluigi rifiuta l’incontro e sorpreso domanda se sta per caso parlando con un prete (“Emanuela Orlandi, la verità”, pag. 50). Questo fatto è decisivo: ammesso che non sia una finta sorpresa, Pierluigi ignora dunque che Emanuela sia una cittadina vaticana

 

25 giugno 1983
Al posto di Vulpiani, assieme a Gangi, arriva in casa Orlandi Gianfranco Gramendola, carabiniere in forza anche lui al Sisde, che si presenta come “Leone”. Gangi più avanti dirà che si trattava del suo capo sotto falso nome (“Emanuela Orlandi, la verità”, pag. 67) e sospetterà fortemente del suo operato domandandosi: «e se fosse stato un complice del rapimento?» (“Dodici donne un solo assassino?”, pag. 54)

Pietro e Gangi tornano dal vigile urbano Alfredo Sambuco e dal poliziotto Bruno Bosco i quali confermano di averla vista in compagnia di un uomo sui 30 anni, attorno alle 15:30. L’uomo aveva una Bmw vecchio tipo di colore verde chiaro e mostrava a Emanuela una borsa con la scritta “Avon” contenente cosmetici. All’esplicito invito del vigile Sambuco di allontanarsi in ragione del divieto di fermata, l’uomo avrebbe risposto “vado via subito”. Il vigile notò lo strumento musicale di Emanuela e parve che i due fossero in confidenza tra loro (“Dodici donne un solo assassino”, pag. 30). Dopo un’ora, attorno alle 18:00, uno sconosciuto ha chiesto al vigile dove si trovasse la Sala Borromini, ma non si ricorda se la persona fosse l’uomo con la Bmw visto parlare con la ragazza (sentenza istruttoria del giudice del Tribunale di Roma, Adele Rando, 19/12/97). Sambuco dirà all’Ansa: «Notai quel 22 giugno Emanuela Orlandi per due volte: la prima quando la ragazza, proprio davanti alla sede del Senato, è stata avvicinata da un uomo; la seconda dopo l’uscita da scuola mentre parlava forse con lo stesso uomo che si trovava al volante di una Bmw nera» (“Dodici donne un solo assassino”, pag. 31)

Gangi scopre che una Bmw Turing verde tundra si trova un’officina in zona Vescovio (intervista a Gangi, autunno 2005). L’auto ha il finestrino lato passeggero rotto dall’interno, non ha documenti e chi l’ha portata lì è una donna alta, bionda, ha detto che è di un suo amico e lei risiede al residence Mallia. La donna si arrabbia e non risponde alle domande di Gangi, il quale tornato in ufficio viene redarguito da Emanuele De Francesco, direttore del Sisde, con tanto di nota di demerito “per avere compiuto accertamenti non opportuni sul caso Orlandi” e viene allontanato dal caso Orlandi. Gangi ha dichiarato il 1/9/08: «Mi sono sempre chiesto come avessero fatto ad individuarmi, e tanto rapidamente: mi ero presentato come un poliziotto, il nome era di copertura, naturalmente». Anche la targa era finta, ma «anche ammesso che la donna avesse qualche amico in questura, questo poteva risalire ad un’anonima SRL, che corrispondeva ad una società di copertura. Il contatto doveva essere più in alto» (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 20).

Pietro Orlandi afferma che la donna bionda non è Sabrina Minardi, la cosiddetta supertestimone della Magliana che spunterà nel 2008: «a Gangi è stata mostrata la foto e non l’ha riconosciuta» (“Mia sorella Emanuela”, pag. 75). Tuttavia nel 2007, Max Parisi, autore di “Dodici donne un solo assassino” (Koinè 2007), ha pubblicato un’intervista fatta a Giulio Gangi, gli mostrò una foto in bianco e nero, del 1997, di Sabrina Minardi chiedendogli se era lei la donna del Mallia, lui ha risposto: «Guarda, l’ho vista per 10 minuti 14 anni fa, non escludo che sia lei, se non è lei è una che le somiglia davvero molto». Gangi smise anche di occuparsi del caso perché la sua presenza, per la famiglia, si stava ormai facendo soffocante

Attorno alle 18:00, dopo tante telefonate di sciacalli, a casa Orlandi arriva la telefonata di un certo Pierluigi (il telefono non è ancora dotato di registratore). Risponde lo zio Meneguzzi e a lui dice di avere 16 anni (Pietro Orlandi riferisce che non aveva una voce adatta a quell’età), e di essere stato spinto a chiamare dalla sua fidanzata che ha visto le foto di Emanuela sui giornali. La sua fidanzata –continua– afferma di aver incontrato Emanuela il 23/06 (giorno della scomparsa) in Campo dei Fiori mentre vendeva collanine fatte a mano, portava capelli tagliati di recente a caschetto, diceva di chiamarsi Barbarella, era assieme ad un’amica più grande e aveva con sé un flauto riposto in una custodia nera (“Mistero Vaticano”, pag. 31,32). Aveva vergogna di suonarlo in pubblico anche perché «per leggere avrebbe dovuto mettersi un paio di occhiali con la montatura bianca che la imbruttivano», preferendo la marca Ray Ban come indossava la fidanzata di Pierluigi. Tutti i dati forniti da Pierluigi sono veri, curioso il fatto che due estati prima, a Torano, Emanuela e alcune amiche avevano venduto ad un banchetto di strada delle collanine, particolare anche la questione della montatura Ray Ban: Ercole Orlandi ha ricordato che proprio un discorso del genere venne fatto durante l’estate precedente, sempre a Torano, tra la mamma di Emanuela, Emanuela e una sua amica, Ines Giuliani, «figlia non ricordo se di un vigile urbano o di un poliziotto che comunque si chiamava Nicola e abitava a Roma in via Portinari» (“Mistero Vaticano”, pag. 33).

Attorno alle 21:00, Pierluigi richiama, e dice: «mi sono ricordato che Barbara aveva detto di avere l’astigmatismo ad un occhio, per questo doveva portare gli occhiali». Anche questo dato è vero.

 

⬆ 4. I telefonisti, le sigle e i depistaggi (1983-1997) ⬆

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24 giugno 1983
Il Tempo riporta un breve comunicato scritto dove si descrive la ragazza sormontata da una foto-francobollo, con in fondo il numero di telefono di casa Orlandi (“Dodici donne un solo assassino”, pag. 37)

Alla sera, vicino alla mezzanotte, arriva a casa Orlandi Giulio Gangi (secondo Rita de Giovacchino, autrice di ”Storie di alti prelati e gangster romani”, Gangi arriverà invece il 26/06/83) giovane agente segreto del Sisde (ex servizi segreti italiani), conoscente di Meneguzzi (zio materno di Emanuela) e in particolare della figlia Monica (cugina di Emanuela). Gangi si presenta come amico, assieme al collega Marino Vulpiani (anche lui amico di famiglia, incontrato dagli Orlandi in villeggiatura): «Ho visto un fax in ufficio con il nome di Emanuela e sono venuto ad aiutarvi», spiega Gangi. «Anche perché ho una pista precisa, la tratta delle bianche…». Gangi, Volpiani e Pietro Orlandi si recano subito in via Ottaviano, nel presunto covo dei rapitori di ragazzine bianche, senza trovare nulla (“Mia sorella Emanuela”, pag. 71).

Su Gangi e Volpiani c’è qualcosa di particolare: Ercole Orlandi ha affermato nel 2002: «Mi dissero che erano del Sisde e che stavano facendo una indagine sulla tratta delle bianche. Vulpiani disse che era originario di Torano e Gangi aggiunse che pure lui frequentava Torano. Questa coincidenza con il paese delle nostre vacanze mi colpì molto, ma non avevo alcun motivo per insospettirmi. Gangi non mi disse però né che a Torano aveva conosciuto Emanuela, né che là aveva conosciuto bene mia nipote Monica: notai solo che mio cognato Mario, quando lo vide fuori dei gradini di casa, in piazzetta sant’Egidio, lo salutò esclamando “Ah sei tu”, e capii che si conoscevano». I due agenti vollero setacciare in modo approfondito (anche nei giorni seguenti) le cose di Emanuela. «Se portarono via qualcosa, io non posso sapere…ovviamente mi fidavo, nessuno li controllava», ha ricordato il padre di Emanuela (“Mistero Vaticano”, pag. 33,34).

 

23 giugno 1983
Natalina Orlandi, sorella di Emanuela, denuncia la scomparsa all’Ispettorato di Pubblica sicurezza presso il Vaticano75G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 2.

Giovanni Paolo II alle 19 atterra a Ciampino dopo il suo viaggio in Polonia. E’ già stato avvertito da mons. Casaroli, segretario di Stato, prima di salire sull’aereo, della sparizione di una cittadina vaticana. Appena rientrati a Roma viene convocata la Segreteria di Stato a Palazzo Apostolico (“Mia sorella Emanuela”, pag. 57). Il Papa, secondo il racconto del suo segretario di Camera, Angelo Gugel, rimase turbato tutta la sera senza toccare cibo (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 27)

In questa data, 19 ore dopo la sparizione di Emanuela, il pescatore Carlo Lazzari rivela di aver visto alle 14.30 due giovani “a valle del ponte della Magliana” vicini ad una Fiat 127. Poi, continua il testimone, «ho sentito il rombo del motore con l’acceleratore bloccato e visto l’auto balzare in acqua. E’ in quell’istante che ho notato un braccio penzolare dal finestrino posteriore» da cui sporgeva penzolante un avambraccio. L’auto fu cercata per giorni senza risultati.

 

22 giugno 1983
Ecco il giorno della sparizione di Emanuela: il secondo anno di Liceo Scientifico è finito ma lei continua a seguire, tre pomeriggi a settimana, le lezioni di flauto e canto corale al “Tommaso Ludovico da Victoria”, scuola collegata al Pontificio Istituto di Musica Sacra.

Per recarsi alla lezione Emanuela presumibilmente prende l’autobus 64 da san Pietro a corso Vittorio Emanuele, poi imbocca a piedi corso Rinascimento per 400 metri prima di arrivare alla suola di musica in piazza Sant’Apollinare. Il fratello Pietro ha ricordato di aver litigato con Emanuela perché la ragazza voleva con insistenza farsi accompagnare in moto alla lezione di musica.

Nella deposizione della sorella Natalina, viene ricordato che alle 19 Emanuela chiama la sorella Federica riferendole che un rappresentante della Avon le aveva proposto un’attività propagandistica in occasione della sfilata che la casa di moda Fontana avrebbe tenuto a Palazzo Borromini, per il compenso di 375mila lire76G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 2.

Emanuela avrebbe spiegato di voler prima chiedere il permesso ai genitori, l’uomo le avrebbe detto allora che l’avrebbe aspettata dopo la lezione di musica per sapere la decisione. La ragazza entra a lezione di flauto alle 16:30, in ritardo di mezz’ora. Poi lezione di canto corale, durante la quale dice all’amica Sabrina Calitti che deve uscire prima e infatti chiede al professore il permesso per lasciare l’aula 10 minuti prima delle 19:00 (il giornalista Pino Nicotri sostiene che tutte le studentesse uscirono prima perché perché festeggiava le nozze d’argento la segretaria dell’istituto e a verbale ci sono testimonianze di altre studentesse che uscirono assieme a lei). Emanuela telefona a casa dalla cabina telefonica di piazza Cinque Lune dopo aver detto alla sua amica Raffaella Monzi che “c’è quello della Avon che mi aspetta, ci vediamo alla fermata dell’autobus” (“Storie di alti prelati e gangster romani”, Fazi Editore 2008, pag. 11). Al telefono di casa Orlandi risponde la sorella Federica a cui riferisce la proposta ricevuta da un rappresentante della Avon, Federica le suggerisce di non prendere impegni e di parlarne prima con i genitori (che al momento sono usciti). E’ l’ultimo contatto con la famiglia.

Emanuela viene accompagnata dalla sua amica Raffaella Monzi alla fermata dell’autobus 70 in via Panisperna, attendono fino alle 19:30, poi Raffaella sale sull’autobus e saluta Emanuela lasciandola assieme ad “un’altra ragazza” dai capelli rossi (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 11), sconosciuta alla Monzi e mai identificata (come riportato nella sentenza istruttoria del giudice Adele Rando del 12/12/1997 e nella deposizione di Natalina Orlandi del 23/6/83). Questa “amica” assieme a Emanuela viene vista anche da un’altra ragazza della scuola di musica, Maria Grazia Casini, che si trova a passare da lì (come ha riferito nell’interrogatorio del 29/7/83). Alcuni inquirenti ritengono che questa amica sia Laura Casagrande, ma lei ha negato.

Sua sorella Cristina -che ha con lei un appuntamento- la cerca senza risultato in piazza Sant’Apollinare, poi torna a casa da sola. Verso le 20:00 Ercole e Pietro si recano alla scuola di musica, gli viene aperto e fanno una veloce ispezione: non c’è più nessuno. Denunciano la scomparsa al commissariato di piazza del Collegio Romano dove vennero invitati a rivolgersi all’Ispettorato di Pubblica Sicurezza del Vaticano. Vengono chiamati gli ospedali sospettando un incidente, telefonano alla direttrice della scuola di musica, suor Dolores, la quale chiama tutti gli studenti e viene a sapere da Raffaella Monzi dell’appuntamento di Emanuela dopo la scuola (“Dodici donne un solo assassino”, pag. 33,34).

Proprio nel giorno della scomparsa di Emanuela, papa Giovanni Paolo II parte dalla Polonia per tornare in Italia in seguito ad un viaggio molto contestato dal Cremlino nei mesi precedenti. Il Pontefice ha rilanciato la sua offensiva contro il regime comunista, contravvenendo a quella ostpolitik di apertura all’Est portata avanti da diversi esponenti nella Santa Sede, compreso il segretario di Stato Agostino Casaroli.

Il magistrato Otello Lupacchini e Max Parisi fanno notare che l’aver avvicinato Emanuela in quella zona tanto trafficata e piena di telecamere è stata un’azione poco furba, anche perché c’era la possibilità di entrare in contatto con lei in altre zone meno trafficate (“Dodici donne un solo assassino”, pag. 29,30). L’ex agente del Sisde Giulio Gangi il 1/9/08 affermerà: «Tutto fa pensare che l’uomo della Bmw volesse essere notato: dal colore squillante dell’auto usata al fatto che avesse parcheggiato la vettura in direzione contraria la senso di marcia, al posto prescelto, cioè proprio di fronte all’ingresso del Senato. Non mi sono sembrate scelte casuali […]. L’appuntamento in quel luogo non poteva che servire a sviare le’attenzione, a convogliare le indagini su una falsa pista» (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 22).

Occorre ricordare che anche Natalina Orlandi due anni prima lavorò per qualche settimana per la “Avon, e Emanuela lo sapeva. Inoltre proprio due settimane prima Emanuela era andata con Raffaella Monzi proprio ad una sfilata delle Sorelle Fontana vicino a piazza di Spagna. Non verrà mai accertato il motivo per il quale fu presente a quella manifestazione d’alta moda per signora (“Dodici donne un solo assassino”, pag. 32). Secondo Rita Di Giovacchino, la Orlandi non ci andò con Raffaella ma con un’altra amica (interrogatorio della Monzi a Domenico Sica). Secondo voci interne al conservatorio, invece, ci sarebbe stata anche la Monzi assieme, ma lei non ha confermato (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 16).

 

⬆ 3. La sparizione di Emanuela Orlandi (1983) ⬆

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15-20 giugno 1983
Emanuela Orlandi è in via Corridori e sta tornado a piedi dal mare assieme alla sorella Maria Cristina e alcuni amici della parrocchia, una A112 con due giovani a bordo la affianca, il passeggero tocca Emanuela e dice al guidatore: “E’ lei” (“Mia sorella Emanuela”, pag. 41). Questo episodio non è certo che sia avvenuto (“Dodici donne un solo assassino?”, pag. 36 e “Storie di alti prelati e gangster romani“, pag. 13)

Sempre pochi giorni prima della sparizione di Emanuela, in via Monte Zebio vicino al liceo scientifico di Emanuela Fabiana Valsecchi, una compagna di scuola di Emanuela viene avvicinata da due giovani a bordo di un Bmw blu. Uno dei due, un ragazzo biondo di età compresa tra i 22-24 anni, le propone di fare pubblicità per prodotti commerciali in cambio di 200 mila lire, ma lei rifiuta. Lo stesso metodo verrà usato con Emanuela. Secondo l’ex magistrato e legale della famiglia Orlandi, Ferdinando Imposimato, i rapitori cercavano in questo modo di adescare la cittadina vaticana attraverso sue amiche.

 

20 maggio 1983
Emanuela Orlandi, con tutti i suoi compagni di classe del liceo scientifico da lei frequentato, partecipa al programma televisivo Tandem, seduta a fianco alla conduttrice.

 

07 maggio 1983
Si registra la denuncia presso l’Autorità di polizia da parte di Maria Vittoria Arzenton della scomparsa della figlia quindicenne Mirella Gregori, la quale non ha fatto rientro a casa (via Nomentana 91) dopo essere uscita alle 15:30 dello stesso giorno a seguito della chiamata al citofono di una persona qualificatasi come “Alessandro”, identificato da Mirella come Alessandro De Luca, suo compagno delle scuole medie77sentenza di archiviazione, Tribunale ordinario di Roma, 19/10/2015.

Nell’agosto 1983 la madre Maria Vittoria testimoniò che Mirella, dopo la citofonata, le disse che scendeva di sotto ad incontrare Alessandro ma che sarebbe tornata entro dieci minuti. Non prese nulla con sé, né la borsa con i documenti, né i soldi.

In un’intervista pochi giorno dopo, la madre di Mirella aggiunse che oltre a Alessandro ci sarebbero stati ad aspettarla anche «altri amici».

Nella sentenza di archiviazione del 2015 si legge che Mirella disse che si sarebbe recata a Piazza Porta Pia presso il monumento del Bersagliere per incontrare Alessandro e che sarebbe tornata dopo 15 minuti. Tale appuntamento viene confermato dall’amica Sonia De Vito, con la quale Mirella si sarebbe intrattenuta presso il bar di quest’ultima, sito vicino all’abitazione, per qualche minuto prima di recarsi all’appuntamento con Alessandro.

 

⬆ 2. La sparizione di Mirella Gregori (1983) ⬆

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06 maggio 1983
Viene inaugurato a Roma (Termini) il bar dei genitori di Mirella Gregori. «Quel giorno, tra i tanti curiosi che vennero al Bar per l’inaugurazione, mia madre si arrabbiò moltissimo con due uomini che tentavano di fotografare con insistenza Mirella e gli chiese di uscire», dirà nel febbraio 2013 Maria Antonietta, sorella di Mirella. L’identikit dei due uomini assomiglia molto a quello realizzato per le persone che furono viste pedinare Emanuela Orlandi prima della scomparsa.

 

Marzo 1982
Il responsabile della Vigilanza Vaticana, Camillo Cibin confida in privato al sovrastante dell’Ufficio centrale di vigilanza del Vaticano, Giusto Antoniazzi, preoccupazioni nei riguardi di sua moglie e sua figlia le quali si sentono pedinate quando sono fuori dal Vaticano. Antoniazzi deporrà questa rivelazione ai Carabinieri del Reparto Operativo di Roma nel 1983. Nell’estate del 1982 anche la figlia, Raffaella di 15 anni, di Angelo Gugel, aiutante di camera di Papa Woityla, si accorge di essere seguita tanto che la madre si rivolge alla Vigilanza vaticana. Nell’agosto-settembre 1982 Natalina Orlandi, sorella di Emanuela, confermerà di aver ricevuto confidenze dall’amica Raffaella circa il sentirsi pedinata da una persona sui 28-30 anni, nazionalità turca, che la fissava sull’autobus.

L’11 e il 24/07/84, un anno dopo la sparizione di Emanuela, Raffaella Gugel metterà a verbale che, dopo l’attentato a Giovanni Paolo II (13/05/81), il padre l’aveva avvertita di un possibile sequestro di una cittadina vaticana in cambio della liberazione dell’attentatore Alì Agca. Effettivamente sia Gugel che Cibin vennero informati di questo pericolo: un uomo dei servizi francesi (Sdece), tramite il marchese Alexander De Marenches, aveva avvertito la segreteria di Stato. Nessuno però informò la famiglia Orlandi, presumibilmente perché venne sottovalutato il ruolo di Ercole Orlandi, padre di Emanuela, un semplice postino papale (“Mia sorella Emanuela”, pag. 56).

 

13 maggio 1981
Attentato in piazza San Pietro a Giovanni Paolo II da parte del terrorista turco Alì Agca. Per molti il “caso Orlandi” inizia da qui.

 

⬆ 1. Gli antefatti alle sparizioni (1981-1983) ⬆

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