di Francesco Agnoli*
*giornalista e scrittore
da La Verità, 09/11/18
Se c’è un luogo comune che la cultura progressista ama coltivare, da decenni, è un razzismo culturale al contrario, per il quale la civiltà europea è colpevole di ogni ignominia nella storia dell’umanità. Dai tempi del mito del buon selvaggio, sopratutto nella versione di Denis Diderot, la sinistra ideologica ha sistematicamente demonizzato personalità e fatti della storia europea e della religione cristiana, per santificare, nel contempo, figure, culture, religioni proprie di altre popolazioni e continenti.
Questa operazione ha portato alla mitizzazione e alla strumentalizzazione di personalità presentate a tutti come emblematiche dello scontro tra buoni (gli altri) e cattivi (noi, gli europei, i cristiani, i bianchi ecc.). Ad aver subito, suo malgrado, questa falsificazione, anche la figura celeberrima di Mohandas Karamchand Gandhi, morto nel 1948, cioè esattamente 70 anni or sono. Ma chi era davvero Gandhi? Possiamo anzitutto ricordare che egli viene considerato il “padre della nazione indiana” per il ruolo avuto dalla sua azione non violenta che ha portato l’India, colonizzata dagli inglesi, all’indipendenza nel 1947. E’ noto, dunque, come l’avversario dell’oppressione e dello sfruttamento imperialista messo in atto dagli inglesi a danno degli indiani.
Al di là di questo, però, la figura di Gandhi aiuta a comprendere più in profondità il colonialismo europeo, evitando così quella lettura semplicistica, manichea e pregiudizialmente anti-europea di cui si è detto. Gandhi stesso, infatti, e qui sta l’interessante, è stato un figlio dell’India ma anche, per moltissimi aspetti, un figlio dell’Europa, ribelle a molte idee e convenzioni religiose del suo popolo. La sua stessa morte, per mano non di un inglese ma di un induista radicale, Nathuram Godse, è lì a ricordarlo. Ad un certo punto della sua vita Gandhi comincia a combattere «la follia materialista moderna» della civiltà occidentale a lui contemporanea, in nome dei valori spirituali che l’Europa ha prima posseduto, poi smarrito. Egli ritiene che la mentalità atea degli occidentali contemporanei sia all’origine della brama di ricchezza e di sfruttamento degli inglesi, così come dello spazio lasciato alla lussuria dall’invenzione degli anticoncezionali, che distruggono il dominio di sé e la necessaria ricerca e conquista dell’«autocontrollo».
Gandhi, però, è un uomo che in una prima fase della sua vita ha visto nell’impero britannico e in generale nella cultura europea un fattore di civilizzazione e di emancipazione, e che anche nelle sue critiche alla moderna civiltà occidentale delle macchine non può non riconoscere che esse, così come la medicina “europea” e gli ospedali, invenzione dell’Europa cristiana, possono essere molto utili anche agli altri popoli, indiani compresi. Se l’Europa è stata in passato portatrice di civiltà e se ha prodotto anche tante cose buone, pensa Gandhi, dove sta l’origine del male di cui oggi è portatrice? Studiando in Europa, Gandhi ha incontrato una nuova visione del mondo, sopratutto attraverso due testi che lo hanno affascinato: il Vangelo, di cui ammira sopratutto il Discorso della Montagna, e un libro dell’autore russo Lev Tolstoj, In voi è il Regno di Dio.
Questo contatto con il mondo cristiano, in senso lato, ha condizionato molte delle sue idee future, compreso il risveglio in lui della «sete della ricerca religiosa», e lo ha spinto a contrapporre l’Europa del passato, quella che ha prodotto cattedrali come Notre Dame di Parigi, a quella, spiritualmente misera, del presente. Scrive infatti Gandhi: «La stupenda struttura di Notre Dame e la elaborata decorazione dell’interno con le sue meravigliose sculture non si possono scordare: sentii allora che coloro che avevano speso milioni per erigere quelle cattedrali divine non potevano non avere nel cuore l’amore per Dio. Avevo letto molto sulle mode e le frivolezze di Parigi, che erano visibili ovunque per strada, ma le chiese rappresentavano delle oasi: entrando in una di quelle chiese si dimenticavano il rumore e il trambusto esterno, si cambiava atteggiamento, ci si comportava con dignità e riverenza passando accanto a qualcuno inginocchiato davanti a un’immagine della Madonna». Poi, commentando la Torre Eiffel, Gandhi riporta, condividendola, la critica fatta da Tolstoj ad un «monumento alla pazzia dell’uomo, non alla sua saggezza», perché quella Torre «non ha nulla di artistico», è solo una novità attraente, con lo stesso valore che ha per il bambino un «giocattolo» nuovo (Gandhi, La mia vita per la libertà, Newton).
Se il passato dell’Europa serve a Gandhi per fare un processo al suo presente, ciò che vi ha imparato sopratutto nelle sue relazioni con alcuni cristiani europei, gioca un ruolo decisivo nella sua critica alla propria stessa civiltà. Pur rimanendo induista, infatti, egli comprende alla luce del Vangelo, che il sistema indù delle caste, ed in particolare il disprezzo e la severità verso i cosiddetti “intoccabili” (condannati all’emarginazione, ad “attività contaminanti”, a lavori infimi come cremare cadaveri, pulire le fogne…), non ha ragione d’essere ed è una colpa grave dell’induismo stesso. Arriva ad affermare che occorre una «rivoluzione totale nel pensiero indù: lo sradicamento di questa dottrina terribile e vergognosa della disuguaglianza innata degli uomini che ha avvelenato l’induismo e sta minando lentamente la sua stessa esistenza».
La lotta per ridare dignità a milioni di intoccabili intrapresa da Gandhi è figlia del suo incontro non con il socialismo e il comunismo, dottrine che disprezza per il loro ateismo e la loro violenza, ma con la Cristianità, ed era stata già cominciata da alcuni europei. Nel 1878, ad esempio, il ministro anglicano James Vaughan aveva invitato migliaia di persone ad un pranzo, vicino a Bhoborpara imponendo a tutti di «mangiare assieme fra appartenenti a tutte le caste, bramini e paria compresi. Secondo la tradizione sociale indiana, mangiare assieme tra membri di caste diverse è impensabile, impossibile, assurdo, mentalmente e fisicamente ripugnante». Ne era nato un «pandemonio e una rivolta contro Vaughan e i suoi collaboratori», come sarebbe successo anche in futuro, in seguito al tentativo dei missionari cristiani di infrangere le barriere castali (così rigide che, secondo un’antica regola, se l’ombra di un paria avesse toccato quella di un bramino, il paria avrebbe dovuto scontare la “colpa” con la morte). Oltre a rivedere il concetto stesso di “intoccabili”, Gandhi, sempre grazie al confronto con la civiltà europea, riconosce che c’è qualcosa di sbagliato nella concezione induista della donna, ritenuta in tutto e per tutto inferiore all’uomo, così come nelle tradizioni delle mogli bambine, della prostituzione sacra, dell’annegamento dei bambini nei fiumi sacri ecc. La critica più o meno radicale di Gandhi a questi costumi propri del mondo indiano richiama alla memoria altri influssi europei e cristiani destinati a mutare, piano piano, la mentalità e la vita degli indù, segnandone la storia anche dopo la colonizzazione.
Un esempio è la pratica del sati: per secoli le donne sono state seppellite vive, oppure bruciate sul rogo insieme ai loro mariti defunti; per secoli sono andate incontro a questa morte indossando abiti nuziali e gioielli, mentre la gente e i familiari festeggiavano e banchettavano per l’occasione; mentre qualcuno controllava che le vedove, in preda alla paura, non cercassero di scappare dal fuoco, pronti a respingervele con bastoni, o non tentassero di annegarsi prima di salire sul rogo, durante il bagno di purificazione nel fiume sacro. Questo perché le vedove, così facendo, divenivano degne di rispetto, di ricordo e di vera venerazione. Nella cultura induista, non segnata dalla predicazione di un San Paolo («Non c’è più né giudeo né greco, né maschio né femmina, né schiavo né libero»), né da quello di San Giacomo (con il suo celebre invito a servire «orfani e vedove»), infatti la moglie è chiamata a servire e seguire il marito, come l’ombra segue il corpo, anche nella morte, pena il divenire impura, priva di identità sociale, preda di botte e del disprezzo dei suoi stessi parenti (Marzio Barbagli, Congedarsi dal mondo, Il Mulino).
Se questo oggi avviene ormai sempre più raramente, è merito degli influssi dei costumi europei su quelli indiani. E’ infatti nel 1813 che il Parlamento inglese, su spinta di un movimento evangelico in crescita, quello stesso che stava lottando per l’abolizione della schiavitù, costrinse la Compagnia delle Indie ad accettare i missionari, che proprio in quell’anno «cominciarono a chiedere che il sati fosse abolito». I missionari non condussero questa battaglia soltanto in nome del cristianesimo, ma spesso, con grande sensibilità, provarono a cercare nella storia indiana attestazioni di una opposizione locale a questa consuetudine feroce. Tra coloro che si diedero da fare per abolire il sati, ricordiamo almeno l’abate Jean Antonie Dubois -il quale nelle sue Maniere, costumi e cerimonie induiste, notava come i bramini così attenti alla vita «degli insetti più insignificanti» e delle loro mucche sacre, guardano con «soddisfazione» all’uccisione di «esseri umani innocenti» (Arvind Sharma, Sati, Historical and Phenomenical essay, Delhi)- e il brahamano bengalese Ram Mohan Roy, anch’egli segnato, come Gandhi, dall’incontro con il cristianesimo, che gli permise di guardare con occhi nuovi al rogo di una parente vedova che implorava di essere risparmiata.
Se vogliamo concludere ricordando la celebre “non violenza” di Gandhi, strumentalizzata in tempi recenti anche dai radicali di Marco Pannella, come non ricordare che da una parte «i nazionalisti indù facevano riferimento ad un passato differente, un passato guerriero, in cui gli antenati indù si erano distinti per la loro virilità, le lotte e il ricorso alla forza», mentre dall’altra Gandhi scriveva: «I versetti evangelici: “Ma io vi dico, accettate il male: a chi vi colpirà sulla guancia destra, offrite anche l’altra, e a colui che vi prende il mantello, date anche la cappa”, mi incantarono oltre ogni dire» (Christine Jordis, Gandhi, Feltrinelli).