Politico prolife si dichiara “donna” per contrastare l’aborto, stufo delle critiche femministe

Ideologia gender. La provocazione del senatore australiano O’Sullivan ha fatto il giro del mondo. Se a criticare l’aborto è un uomo la risposta è quella di “togliere le mani dalle ovaie delle donne”, ma se l’opposizione arriva da una donna le femministe sono più in difficoltà. Stufo di tutto ciò, O’Sullivan ha sfruttato la teoria gender.

 

La vicenda ha dell’incredibile ma è una buona sintesi della follia dei tempi moderni. Nel Senato dell’Australia qualche giorno fa si stava dibattendo su una mozione che avrebbe impedito agli attivisti pro-aborto di interrompere l’annuale “Giornata del bambino non nato”, che si celebra il 25 marzo.

A presentare tale mozione è stato il senatore Barry O’Sullivan, un politico “pro-life”. Si è lamentato dell’ipocrisia dei “pro-choice”, che protestano per  i volontari per la vita al di fuori delle cliniche abortiste ma sono i primi ad impedire le manifestazioni a favore della vita nascente.

Come riflesso pavloviano sono scattate le urla delle femministe presenti, in particolare, quelle della senatrice Larissa Waters (Verdi): «Il senatore O’Sullivan deve togliere le sue mani e i suoi rosari dalle mie ovaie e da quelle delle 10.000 donne del Queensland che abortiscono ogni anno, 10.000 donne che hanno il diritto di prendere una decisione sul proprio corpo senza l’opinione del senatore O Sullivan». La bagarre è proseguita e O’Sullivan ha tuttavia raccolto il sostegno del senatore liberale Eric Abetz.

Se è una donna a criticare l’aborto è più difficile attaccarla sul personale e solitamente la si nasconde o si minimizza, così come fecero pochi mesi fa i quotidiani argentini quando una marea femminile invase le strade di Buenos Aires ed impedì la legalizzazione dell’interruzione di gravidanza. Se però ad opporsi all’aborto è un uomo, la replica standard ricalca quella della senatrice Waters: fuori le mani del maschio dalle nostre ovaie.

Così O’Sullivan ha avuto un’idea che riteniamo geniale e infatti ha presto fatto il giro del mondo. Ha sfruttato l’ideologia gender proclamata a gran voce dagli stessi Verdi australiani e si è auto-dichiarato di genere donna, così da poter continuare a combattere l’aborto eludendo le critiche solitamente rivolte agli uomini pro-life. «Non starò zitto, non starò zitto mentre queste persone continuano ad emarginare politiche e idee a loro scomode, ma che ritengo siano ancora largamente supportate dalla maggioranza della nazione», ha spiegato il senatore australiano. Per questo, ha proseguito, «oggi dichiarerò il mio genere femminile, diventerò così una donna e non saranno più in grado di attaccarmi con la solita retorica femminista».

Non che l’idea di O’Sullivan abbia raggiunto lo scopo, le critiche non si sono placate anzi, gli è stato rimproverato di discriminare anche i transessuali. Tuttavia, non si capisce perché il transessuale italiano Luxuria, per esempio, venga considerato una “donna” basandosi esclusivamente sulla sua volontà e auto-percezione, mentre ciò non accade se lo stesso viene fatto dal senatore australiano. Se improvvisamente O’Sullivan dice di sentirsi nato “in un corpo sbagliato”, con che diritto lo si dovrebbe continuare a considerare uomo? No, da oggi O’Sullivan è una donna in più che combatte l’aborto. Gli argomenti contrari saranno usati contro tutti i transgender essendo tutto basato sulla propria auto-percezione dichiarata.

Insomma, la provocazione avvenuta nel parlamento dell’Australia ha fatto notizia. Ha fatto riflettere, sopratutto. Sia sull’ipocrisia e sull’inadeguatezza degli argomenti dei difensori dell’aborto, sia sulla follia della gender theory che profetizza il cambiamento di genere in base alla propria momentanea o duratura percezione di sé. Ma alla quale non credono nemmeno i sostenitori dato che continuano a considerare O’Sullivan come un uomo nonostante il suo pubblico coming out.

Gli studi gender, ai quali O’Sullivan ha fatto questo provocatorio riferimento, sono al centro dell’attenzione anche nel Regno Unito. Oltre 100 accademici (neuroscienziati, sociologi, filosofi, psicologi) sono infatti usciti allo scoperto con una lettera aperta al Guardian dicendosi preoccupati dall’introduzione dell’autonoma identificazione per la riassegnazione di genere». Non solo, «siamo inoltre preoccupati per la soppressione di un’adeguata discussione ed analisi accademica del fenomeno sociale del transgenderismo e delle sue molteplici cause ed effetti. I membri del nostro gruppo hanno subito proteste nei campus, richieste di licenziamento da parte della stampa, molestie, tentativi di censurare la ricerca e le pubblicazioni accademiche. Tali attacchi non sono in linea con la ricezione ordinaria di idee critiche nell’accademia, dove è normalmente accettato che il disaccordo sia ragionevole e persino produttivo. Riteniamo che non sia transfobico indagare e analizzare quest’area da una serie di prospettive accademiche critiche. Riteniamo che questa ricerca sia assolutamente necessaria ed esortiamo il governo a prendere iniziativa nella protezione di tali ricerche dall’attacco ideologico».

La redazione

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Cambia il Padre Nostro, una modifica approvata dal card. Giacomo Biffi

Bergoglio cambia il Padre Nostro? Una falsità, lo studio per una miglior traduzione del “non indurci in tentazione” iniziò nel 1988 con il sostegno di numerosi biblisti, tra cui il card. Biffi. Nel 2007 fu approvata ufficialmente con il placet di Benedetto XVI. Non è dunque una “trovata” di Papa Francesco.

 

Il nuovo ritornello è: “Dopo 2000 anni Bergoglio cambia il Padre Nostro. Lo si ripete instancabilmente nel network dei blog dei cattolici-protestanti, nemici del Papa e della Chiesa. Ma non è vero. La necessità di una miglior traduzione di una frase contenuta nell’antica preghiera nacque nel lontano 1988, fu studiata e sostenuta da insigni biblisti, tra cui il card. Giacomo Biffi, e nel 2007 i vescovi italiani votarono all’unanimità per modificare il “non indurci in tentazione”, con l’esplicita approvazione dell’allora pontefice, Benedetto XVI. Oggi Papa Francesco, per uniformità e coerenza, ha esteso la modifica anche nell’uso liturgico.

Bergoglio era ancora un lontano e poco conosciuto vescovo argentino quando la Chiesa ratzingeriana scelse ufficialmente di introdurre la formula: “non abbandonarci alla tentazione”. Ne abbiamo parlato approfonditamente qualche mese fa ma, dato che la polemica è riemersa in questi giorni, è utile sapere che tale modifica venne richiesta ancora prima, anche dall’allora arcivescovo di Bologna, il card. Giacomo Biffi. Un pastore saggio e stimato e, suo malgrado, un punto di riferimento degli attuali giornalisti antipapisti, totalmente disinformati della storia della Chiesa.

Disse infatti il card. Biffi: «Questo è il senso che anche sant’Ambrogio attribuisce a quelle parole del Padre Nostro, per questo sono d’accordo con la nuova traduzione». Lo ha ricordato l’arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, anch’egli presente quando fu votata al Consiglio permanente della CEI la nuova traduzione della preghiera insegnata da Gesù. Siamo nell’anno 2000 ed il Papa regnante era Giovanni Paolo II, in quella occasione «la posizione del più insigne teologo del Consiglio permanente, Biffi, coincise con quella del più insigne biblista, l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini», ha detto mons. Betori. «È noto che non sempre le posizioni dei due porporati italiani fossero coincidenti. In quel caso concordarono per la versione che non traduce letteralmente ma restituisce il senso profondo di quelle parole che nel verbo italiano “indurreˮ lasciavano pensare a un Dio che quasi ci forza a cadere in tentazione».

I lavori sullo studio della “modifica” del Padre Nostro iniziarono addirittura nel 1988, esattamente trent’anni fa, quando fu istituto un gruppo di lavoro di 15 biblisti, coordinati da 3 vescovi e con la collaborazione di altri 60 biblisti. Tra essi, come già detto, parteciparono anche Martini e Biffi. L’allora sottosegretario della CEI, mons. Betori, ricorda oggi:

«Eravamo nell’anno 2000 e io fui presente a quella seduta, che ricordo molto bene, in quanto sottosegretario della Cei. Il fatto che sia Biffi che Martini avessero approvato questa traduzione fu considerata una garanzia per il Consiglio permanente, e poi per tutti i vescovi italiani, della bontà della scelta effettuata. Nell’esprimere la sua approvazione alla nuova versione ricordo che Biffi fece esplicito riferimento all’interpretazione di sant’Ambrogio della frase sulla tentazione. La scelta del Consiglio permanente fu quella di intervenire solo dove fosse assolutamente necessario per la correttezza della traduzione. Nel caso del Padre Nostro prevalse l’idea che fosse ormai urgente correggere il “non indurreˮ inteso ormai comunemente in italiano come “non costringereˮ. L’inducere latino (o l’eisfèrein greco) infatti non indica “costringereˮ, ma “guidare versoˮ, “guidare inˮ, “introdurre dentroˮ e non ha quella connotazione di obbligatorietà e di costrizione che invece ha assunto nel parlare italiano il verbo “indurreˮ. Quest’ultimo sembra attribuire a Dio una responsabilità – nel “costringerciˮ alla tentazione – che non è teologicamente fondata. Si scelse allora la traduzione “non abbandonarci allaˮ che ha una doppia valenza: “non lasciare che noi entriamo dentro la tentazioneˮ ma anche “non lasciarci soli quando siamo dentro la tentazioneˮ».

Mons. Betori era invece segretario della CEI nel 2008, quando la traduzione divenne ufficiale dopo l’approvazione della Congregazione per il Culto Divino del novembre 2007, allora guidata dal prefetto Francis Arinze, e con specifica approvazione da parte del Pontefice allora regnante, Benedetto XVI e fu così pubblicata dalla Libreria Editrice Vaticana. Papa Francesco ha quindi semplicemente ripreso la volontà dei suoi predecessori e del card. Giacomo Biffi e, per uniformità e coerenza, ha esteso la “nuova versione” nell’uso liturgico.

Come cattolici siamo stati educati ad accogliere le decisioni dalla Santa Madre Chiesa, a mettere i nostri passi nel cammino tracciato dai successori degli Apostoli. La fede “adulta” non ci interessa, la ribellione nemmeno. Anche se dovessimo essere in disaccordo, come devoti cattolici ogni mattina liberamente scegliamo che l’amore alla nostra effimera opinione non vale più di quello verso la Chiesa, prosecuzione del volto di Cristo nella storia, pur con tutti i limiti dei pastori è sorretta e guidata dallo Spirito Santo. Ci basta sapere che insigni biblisti e tre pontefici abbiano sostenuto la necessità di modificare quella frase e, dopo anni di studio, riuniti in assemblea i vescovi italiani votarono a favore all’unanimità (202 favorevoli, 1 contrario).

Non faremo parte del gruppetto di “cattolici adulti” che per ripicca ideologica e rancore esistenziale continuerà ad usare la vecchia formula del Padre Nostro, esibendo la aperta ribellione sui social network e generando disorientamento e confusione nei loro amici e negli stessi figli e/o nipoti che invece verranno educati alla “nuova”, fino a che la “vecchia” sarà un lontano ricordo. La storia e i protestanti passano e si dimenticano, la Chiesa resta.

La redazione

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«Gli atei moderni? Ossessionati e noiosi», parla il filosofo laico John Gray

Ateismo contemporaneo. Nel suo ultimo libro, “Seven types of atheism”, il filosofo ateo inglese John Gray critica duramente l’ottusità dell’ateismo militante, trovando i credenti “mentalmente più aperti”. Opta per una silenziosa e stoica accettazione di un universo privo di scopo.

 

John Gray è un noto filosofo ateo britannico ma pensa che gli atei moderni abbiano reso la non credenza una dottrina intollerante, ignorante e noiosa: «Gli atei moderni non sanno nulla di storia o religione. Non hanno nulla da dire, ripropongono una versione stanca e riciclata di più interessanti forme di ateismo del 19° secolo».

Lo scrive nel suo nuovo libro, Seven Types of Atheism (Allen Lane 2018). Gray insegna Filosofia analitica alla London School of Economics and Political Science, e si dichiara ateo,  pro-choice, pro-Lgbt ed antifascista. Ma è noto per criticare il fondamentalismo irreligioso, più che quello religioso. In un’intervista ha dett: «circa 10 o 15 anni fa Daniel Dennett [un noto filosofo ateo, NDA] ha scritto che il fondamentalismo religioso sarebbe stato distrutto dal telefono cellulare. E’ un’affermazione tipica di qualcuno che conosce zero storia, zero politica, zero sul terrorismo e zero sulla religione. Paradossalmente, l’Isis oggi utilizza proprio la tecnologia video per promuovere i suoi atti terroristici!». E’ più facile parlare con un teista che con un ateista, confida ancora il filosofo inglese, «i credenti sanno mantenere una mentalità più aperta».

Nel suo ultimo libro, Gray ha rincarato la dose: «l’attuale ateismo organizzato è per lo più un fenomeno mediatico e andrebbe apprezzato come fenomeno di intrattenimento». I predicatori del laicismo «scambiano la religione per il fondamentalismo protestante americano. E’ un dibattito campagnolo, noioso». Nel capitolo dedicato all’ateismo scientifico e politico del ‘900, ha invece osservato: «I nuovi atei non amano che si ricordi che le loro idee si sono propagate sopratutto nei secoli XIX e XX. Eppure se un “nuovo ateo” fosse vissuto nel 1920, nel 1930 o nel tardo XIX secolo, probabilmente sarebbe stato un razzista scientifico. Perché quello era il tipo di scienza all’avanguardia in quel momento».

Dipingere i credenti in modo grossolano è un grande limite del mondo anti-teista contemporaneo, il quale effettua una caricatura della fede sostenendo che i cristiani credano letteralmente a quanto descritto nella Genesi. Eppure, ha giustamente ricordato Gray, «se torniamo indietro di 2000 anni troviamo già studiosi ebrei e cristiani che dicono: “Non si legga questo come letterale”. I miti non sono fallite teorie scientifiche, sono complesse strutture d’immagini e storie che gli esseri umani hanno sviluppato per trovare un significato alle loro vite. Il mito della Genesi non è un’antica forma di darwinismo o un’antica teoria dell’origine delle specie, è qualcosa di completamente differente». «È un errore confondere i fondamentalisti religiosi con la vasta e ricca tradizione della vita religiosa», ha aggiunto in un’altra intervista. «La religione non è una teoria esplicativa del mondo, è un modo per dare un senso alla vita nel mondo».

Negli ultimi due capitoli del libro il filosofo laico opta per un “ateismo senza progresso” e un “ateismo del silenzio”, una stoica accettazione di un universo privo di scopo, vicino al pensiero di Joseph Conrad, George Santayana e Baruch Spinoza. Ed è interessante la sua idea del progresso, la quale -afferma- «proviene dalla religione monoteista, dal cristianesimo in particolare, che dice che Cristo tornerà un giorno. Gli umanisti laici hanno semplicemente sostituito l’idea di Dio con quella di umanità». L’ateismo che confida ciecamente nel progresso e nella scienza, ha quindi concluso il filosofo inglese, è una forma di fondamentalismo religioso e commette lo stesso errore del marxismo il quale, confidando i questi dei, ha provocato i maggiori massacri del secolo passato.

Le riflessioni di Gray ricordano molto i giudizi già espressi da altri intellettuali rigorosamente laici, come il sociologo Frank Furedi, secondo cui «il nuovo ateismo si è trasformato non solo in una religione laica, ma in una religione secolare fortemente intollerante e dogmatica. Pensano di contrastare le religioni con argomenti razionali, ma le loro pretese spesso sfiorano l’irrazionale e diventano isteriche». Mentre l’etologo Frans De Waal ritiene che «i nuovi atei sono talmente ossessionati dalla non esistenza di Dio che li si trova costantemente sui media, indossano le loro T-shirt con scritte contro la fede ed invocano l’ateismo militante. Ma che cosa ha l’ateismo da offrire perché valga la pena lottare in questo modo?».

La redazione

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La Grande guerra, fotografie dei cattolici al fronte: la Messa prima della battaglia

Cattolici nella Prima guerra mondiale. Alcune impressionanti fotografie di soldati al fronte durante la celebrazione della Messa, poco prima della battaglia. Tra richieste di aiuto e di perdono.

 

L’11 novembre scorso cadeva il centenario della firma che pose fine alla Prima guerra mondiale, la più grande carneficina della storia. «L’inutile strage», come la definì Benedetto XVI. I numeri sono impressionanti: in quattro anni vennero mobilitati 65 milioni di uomini, 8,5 milioni furono le vittime e 27 milioni i feriti. Il continente europeo fu devastato, decimata un’intera generazione di giovani, compresi molti cattolici.

Uccisero anche loro, certamente. Tanti però si distinsero anche per il loro valore morale e alcuni diventarono Santi. Ad esempio San Riccardo Pampuri, un eroe che mise a repentaglio la sua vita per salvare un ospedale da campo, indispensabile per curare i feriti. Rimendiando però una pleurite a causa della pioggia battente che sopportò per due giorni consecutivi e che lo portò alla morte, non prima di aver continuato a prestare aiuto nell’ambulatorio che gli fu affidato, testimoniando una fede incrollabile e confortando i malati con la speranza. Morì a 33 anni.

Anche migliaia di soldati erano persone di fede, dilaniati moralmente nel dover affrontare col fucile i loro fratelli di altri paesi. Lo struggimento di questi cattolici, obbligati ad uccidere, è testimoniato in migliaia di lettere spedite dal fronte a mogli, mamme e fidanzate. Solo in questo contesto si capisce l’intensa partecipazione nelle trincee all’Eucarestia, ma anche negli ospedali da campo e sul fronte. Sopratutto prima delle battaglie, dove si chiedeva aiuto ma anche perdono.

Il rapporto tra utilizzo delle armi e fede religiosa è d’attualità sopratutto negli Stati Uniti ed è stato studiato da due ricerche indipendenti, la prima realizzata dalla Baylor University e la seconda dalla Wake Forest University. In entrambi i casi è emerso che le persone più religiose e che più frequentavano la vita cristiana erano meno erano disponibili ad utilizzare un arma ed inferiore era la probabilità che possedessero un arma in casa. Il sociologo David Yamane ha tentato di spiegare questa relazione negativa tra possesso di armi e importanza della religione ipotizzando che possa essere correlata ai livelli più alti di fiducia che le persone cristiane formano all’interno delle comunità religiose.

Recentemente sono state pubblicate alcune impressionanti fotografie di soldati al fronte, ne riproponiamo alcune qui sotto accompagnate da una breve didascalia.

Italia. Soldati sul fronte italo-austriaco nelle montagne del Tirolo (27 febbraio 1916)

 

Francia. Messa per le truppe francesi al fronte di Champagne (1915)

 

Francia. Messa al fronte (febbraio 1915)

 

Austria. I soldati austriaci ricevono la benedizione del Santissimo Sacramento sui monti Carpazi (23 maggio 1915)

 

 

Francia. Messa al fronte.

 

 

Francia. Messa per il 262° reggimento di fanteria (1915).

 

 

Francia. Messa prima della battaglia (1916).

 

 

Francia. Messa per le truppe francesi in una cappella in trincea (1917).

 

 

Francia. Messa in una chiesa trasformata in ospedale.

La redazione

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A Pisa si cambia: sì al crocifisso e stop alla lobby arcobaleno Re.a.dy.

Novità a Pisa. La nuova giunta comunale ha intrapreso due ottime iniziative, confermando il volere dei cittadini della storica cittadina. “Un ritorno al Medioevo”, hanno urlato gli oppositori: non c’era complimento migliore per Pisa, un ritorno alle sue origini.

 

A parte la Torre, molte cose si stanno raddrizzando nella città toscana di Pisa. Soltanto negli ultimi giorni, infatti, almeno due notizie hanno raccontato il rinnovamento culturale intrapreso dalla stupenda cittadina che diede i natali a Galileo.

Innanzitutto, sulla scia di altre grandi città e regioni italiane, Pisa è riuscita a staccarsi dal braccio politico della lobby arcobaleno: RE.A.DY. La solita rete di associazioni LGBT che sotto la maschera dell’inclusione e della non discriminazione impone alle realtà comunali iniziative propagandistiche su omosessualità, gender, adozioni gay e utero in affitto.

Una ventata di sana aria fresca introdotta dalla nuova giunta comunale guidata dal sindaco Michele Conti (Lega), che ha prevedibilmente raccolto i mal di pancia di Cirinnà&CO. ma il sostegno della cittadinanza. Il nuovo sindaco, sostenuto dalla coalizione di centrodestra, ha vinto recentemente le elezioni con il 52,29% dei voti.

Una seconda iniziativa è stata resa nota proprio oggi. Il Crocifisso sarà riappeso nella sala del Consiglio comunale e in tutte le sale istituzionali, negli uffici scolastici e negli istituti scolastici. Anche in questo caso la proposta è stata approvata grazie ai voti compatti della maggioranza, ricevendo la contrarietà della coalizione di estrema sinistra guidata da Rifondazione Comunista. Il M5S si è astenuto e il PD è uscito dall’aula. Ciccio Auletta, consigliere comunale della sinistra, ha urlato al “ritorno al Medioevo”. Non c’era complimento migliore per Pisa, stupenda città medioevale e che, proprio durante il Medioevo, raggiunse il suo massimo prestigio che ancora oggi caratterizza profondamente la sua cultura, la sua architettura e la sua arte. Un ritorno alle sue origini, dunque.

Una news anche per quanto riguarda Milano. Come già qualcuno saprà, domani sabato 17 novembre (ore 10) il Palazzo della Regione Lombardia ospiterà, come nel 2016, un convegno a favore della famiglia naturale, organizzato da Massimo Gandolfini. Ad aprire gli interventi sarà il Presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana a cui seguirà il Ministro per la Famiglia e le Disabilità, Lorenzo Fontana. Quasi 100 sono gli amministratori locali, compresi numerosi sindaci, che hanno aderito all’invito. Ci auguriamo che l’evento sarà di stimolo per introdurre nelle città da loro governate quei raddrizzamenti culturali che stanno avvenendo all’ombra della pendente Torre di Pisa.

La redazione

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Le scuole paritarie sono le più formative, premiate da Eduscopio 2018

 
 

di Luisa Ribolzi*
* docente di Sociologia presso l’Università di Genova e vice presidente di ANVUR

da Il Sussidiario, 10/11/18
 

Un aspetto particolare di Eduscopio, la ricerca della Fondazione Agnelli che fornisce indicazioni sulla qualità delle scuole secondarie superiori partendo dall’analisi del destino lavorativo o universitario dei diplomati, ha suscitato quest’anno un insolito interesse: la massiccia presenza in classifica, nelle prime posizioni, di un rilevante numero di scuole paritarie.

Ma come, non erano tutti diplomifici, in cui i ragazzi benestanti ma un po’ stupidi barattavano la qualità della formazione in cambio di una retta? E invece, toh! I ragazzi che escono da queste scuole si fanno onore quanto e più dei loro coetanei.

 

La letteratura scientifica, al netto di ogni pregiudizio a favore o contro la scuola non statale, fornisce almeno tre spiegazioni per questo fenomeno.

1) Per la riuscita dei ragazzi è fondamentale l’esistenza di un progetto educativo coerente, condiviso dagli insegnanti e dalle famiglie, che agisce anche sulla motivazione ad apprendere: in questo senso, le scuole paritarie non hanno l’esclusiva dei progetti coerenti, ma poiché questo rappresenta uno dei loro punti di forza, e spesso anche la ragione della loro esistenza, la mission della scuola viene formulata più chiaramente e seguita in modo vincolante. Se la scuola è legata (come spesso accade) all’esistenza di una comunità funzionale, sia essa territoriale, di appartenenza etnica o religiosa, di idea politica, si parla di un vero e proprio capitale sociale, derivante dalla condivisione dell’approccio all’educazione, che portò negli anni Ottanta Anthony Brik e il gruppo di ricercatori che lavoravano con lui a parlare di effetto scuola cattolica, che agisce su tutti gli studenti, anzi è particolarmente forte per i ragazzi afroamericani di modesta condizione, per lo più non cattolici.

2) Le scuole paritarie sono scuole di scelta, a cui le famiglie decidono di mandare i propri figli anche sostenendo dei costi aggiuntivi, in Italia quasi la totalità, e questo fa crescere la partecipazione. In realtà, ciascun cittadino maggiorenne finanzia la spesa per la scuola con circa 3mila euro l’anno delle proprie tasse (dato rozzamente stimato, ma non lontano dal vero), ma questo non viene percepito come una spesa diretta, e quindi non è controllato, mentre le famiglie che pagano una retta si aspettano che la scuola, scelta in base alla sua proposta educativa, mantenga il “patto” che ha stipulato con loro al momento dell’iscrizione, e si danno da fare non solo per controllare la qualità dell’educazione, ma anche per migliorarla in modo diretto. Dal punto di vista dei gestori della scuola, se il parere delle famiglie non viene ascoltato, nulla impedisce che vadano altrove, e questo li rende attenti a cogliere i bisogni dei propri utenti.

3) A parte il fondamentale aspetto della libertà nella scelta dei docenti (coartata dal fatto che lo Stato se li prende sistematicamente, ormai formati, e senza consentire il completamento del ciclo o quantomeno dell’anno in corso, come invece ha fatto per gli insegnanti “deportati” dal Sud al Nord), in Italia dal 2000 scuole statali e non statali dispongono della medesima autonomia didattica e organizzativa, ma proprio per far fronte in modo più stringente ai bisogni diversificati dell’utenza le scuole paritarie tendono a farne un uso maggiore, potenziando alcuni aspetti e assumendosi qualche margine di rischio in più.

Un’ultima considerazione. Nel presentare il liceo classico al primo posto per Milano (la scuola paritaria Alexis Carrel) la giornalista del Corriere della Sera evidenzia in prima pagina la retta, 4.900 euro l’anno; il dirigente del Parini, che pur lodevolmente conduce la sua nave in un mare tempestoso, butta là che si può far bene anche senza il pagamento di una retta, e cito solo due esempi. Ora, per correttezza, si potrebbe aggiungere che nella scuola “gratuita” uno studente statale costava nel 2015 (dati Ocse 2018) 8.969 dollari, equivalenti, al cambio odierno, a 7.838,81 euro, cioè circa il 60% in più dello studente della Carrel. Questo significa che si può far bene spendendo di meno; forse non sono pochi i soldi, ma è il modello organizzativo che non funziona. E questo non lo dico solo io, da una trentina d’anni, ma lo confermano tutte le ricerche più recenti in un elevato numero di Paesi.

Dato che chi manda i figli alla scuola paritaria finanzia con le sue tasse anche i ben più costosi studenti statali, facciamola finita con questa fake news (più fake che news, a dire la verità) che basta pagare per avere una buona scuola, e cominciamo magari a chiedere conto di come vengono spesi nella scuola statale i molti soldi usciti dalle tasche dei cittadini.

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La conversione di Giuni Russo, folgorata da Santa Teresa d’Avila

Scopri la storia di Giuni Russo, celebre cantante italiana, la cui conversione al cattolicesimo e la fede profonda hanno influenzato la sua musica. Esplora le citazioni che svelano la sua spiritualità e la scelta di essere sepolta nel monastero delle Carmelitane Scalze, un legame con Cristo fino alla morte nel 2004..

 
 
 

Un anno fa è stato pubblicato “Armstrong”, l’album postumo di Giuni Russo, contenente brani inediti, a tredici anni dalla sua morte. La storia di Giuni Russo è poco conosciuta, soprattutto la sua conversione al cattolicesimo e la sua richiesta di essere sepolta nel monastero delle Carmelitane Scalze.

Secondo Maria Antonietta Sisina, sua amica e collaboratrice storica, Giuni meditava sugli “Esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola” e ne fu profondamente colpita. Sisina ha dichiarato: «Ho ancora con me il libro che lei leggeva con grande attenzione, con le sue annotazioni e sottolineature. Si chiedeva chi potesse guidarla in questo esercizio e dove trovare un sacerdote o una comunità per vivere un’esperienza simile».

 

Giuni Russo: l’ispirazione di Teresa d’Ávila

Più recentemente, Sisina ha raccontato che negli anni ’90 Giuni rimase affascinata dalla figura di Teresa d’Ávila. Ha spiegato: «A volte mi svegliava di notte e mi diceva: ‘Dobbiamo musicare questa donna, è meravigliosa’, e io rispondevo: ‘Ma figurati, è del 1500, non credo di riuscirci’».

La storica collaboratrice ricorda che un giorno, mentre erano in macchina, sentì Giuni cantare una poesia di Teresa d’Ávila. Non avendo matite o registratori e per paura di dimenticare la melodia che le era venuta in mente, continuò a cantare fino a quando arrivarono a casa e poterono registrarla. Così nacquero alcune delle sue canzoni, l’ispirazione arrivava improvvisamente.

 

Giuni Russo: il monastero come luogo di sepoltura

Si è parlato della sua omosessualità, anche se non l’ha mai mostrata apertamente. Invece, ha manifestato la sua attenzione per Edith Stein e Giovanni della Croce. Nonostante fosse autrice di canzoni più popolari come “Un’estate al Mare” o “Alghero”, ha interpretato la canzone “La sposa” insieme alle suore carmelitane di Milano.

Sisini ha raccontato: «Giuni era di casa in quel monastero, tanto che ha scelto di essere sepolta lì quando è morta. Durante la sua agonia, ho visto che fissava un angolo della stanza. Il suo viso si è illuminato e ha cambiato aspetto. Ha sorriso meravigliata, come se ci fosse una presenza celestiale nella stanza. Alla fine, Giuni era una persona innamorata di Cristo».

In un’intervista al Movimento Ecclesiale Carmelitano, intitolata “Muoio d’Amore per te” (non più rintracciabile online), la stessa cantante ha rivelato: «Non so cosa Teresa voglia da me, ma so che quella donna dice la verità. Ho trovato in Teresa la chiave per aprire le porte. Credo di aver capito che Teresa, come dice lei, ci aiuta a conoscere Gesù».

 

L’accettazione e la fede di Giuni Russo nella malattia

Successivamente, Giuni venne colpita da una malattia, il cancro, nel 1999. Nonostante ciò, nel 2003 ha partecipato a Sanremo con la canzone “Morirò d’amore per te”.

Cristiana Dobner, carmelitana scalza, era molto vicina a lei e ha raccontato: «Le sue braccia tese in preghiera sul palcoscenico di Sanremo non erano solo uno stratagemma pubblicitario. Giuni ormai viveva in una dimensione pura e purificata. Il suo sguardo, così affascinante e sereno, aveva una nuova trasparenza, rappresentava tutta la sua umanità, che conosceva la colpa. Quando cantava ‘Morirò d’amore per te’, quel ‘te’ avrebbe dovuto essere scritto con la T maiuscola, proprio per rappresentare Te: lo cantava da una terapia all’altra, mentre il suo corpo veniva divorato dall’inarrestabile verme».

In una delle ultime interviste nel 2004, Giuni Russo ha rivelato: «Ho fatto pace con la mia malattia. Ma nonostante la mia fede, ho avuto paura. Ho urlato, pianto e litigato con il Crocifisso. Alla fine, però, ho accettato la malattia in ginocchio».

 

Qui sotto il brano La Sua figura, le parole sono di San Giovanni della Croce.

 

La redazione

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Condannato Viganò: rubava al fratello disabile e faceva la morale al Papa

Condanna mons. Viganò. Il tribunale di Milano ha condannato l’ex nunzio apostolico di Washington ad un maxi risarcimento verso il fratello disabile, don Lorenzo, che ha chiesto attenzione per i “lupi travestiti da agnelli”. L’oscuro moralizzatore di Papa Francesco aveva appena scritto che “il Signore renderà secondo le nostre azioni”.

 

“Oscura”. Così avevamo definito la biografia di Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico di Washington, quando decise di pubblicare il suo memoriale contro Papa Francesco, chiedendone apertamente le dimissioni. Si, perché notammo subito che il monsignore moralizzatore era coinvolto in appalti gonfiati e false fatturazioni, denunciato dalla sorella Rosanna per l’appropriazione di 900 milioni di lire e accusato dall’altro suo fratello, Lorenzo, di essere un bugiardo ed aver mentito perfino a Benedetto XVI. Ne emerse un ritratto oscuro, per l’appunto: soldi, vendetta e potere.

Tuttavia, allora contava il suo dossier, la sua ricostruzione sul caso McCarrick e le sue molteplici accuse di immoralità a decine di suoi confratelli e al Pontefice. Di quello ci occupammo, dimostrando che la sua principale critica a Francesco era falsa: non aveva affatto riabilitato il cardinale abusatore, il quale già prima del 2013 frequentava assiduamente il Vaticano e la vita cattolica di Washington. Lo stesso Viganò, nonostante fosse al corrente degli abusi, aveva premiato pubblicamente McCarrick come “ambasciatore pontificio”, abbracciandolo e dichiarandoli affetto, con lui aveva celebrato l’Eucarestia. Senza il minimo rimorso e andando ben oltre la diplomazia.

Alla fine è emerso che il Vaticano era a conoscenza degli abusi di McCarrick già dal 2000 e, nonostante questo, l’allora arcivescovo fece una formidabile carriera. “L’operazione Viganò”, al di là degli abbondanti sforzi di usare l’attuale Papa come capro espiatorio di tutto, si è lentamente trasformata in un atto d’accusa verso la cattiva gestione del “caso McCarrick” durante i pontificati precedenti. In uno dei suoi ultimi scritti, infatti, l’ex nunzio e i suoi sostenitori più accaniti hanno rinunciato a chiedere le dimissioni di Francesco. Mons. Viganò ha spiegato comunque le vere motivazione del plateale atto d’accusa a Papa Francesco: la pedofilia nella Chiesa non c’entrava nulla, solo il tentativo di destituire un Papa che non proclamerebbe la “sana dottrina morale”. Nessuno dei suoi più accesi sostenitori, da Aldo Maria Valli a Marco Tosatti, da Riccardo Cascioli a Roberto De Mattei, sono noti per battaglie contro la pedofilia ma solamente per l’accusa al Papa di ambiguità dottrinale, rimasti silenti quando è stato confermato che lo stesso mons. Carlo Maria Viganò ha protetto l’arcivescovo conservatore abusatore Nienstedt, facendo insabbiare il caso.

 

Infine, ieri sera, attraverso la sentenza 10.359/2018, il tribunale di Milano ha condannato l’ex nunzio Viganò a versare a suo fratello don Lorenzo, un sacerdote disabile, un maxi-risarcimento milionario. Il moralizzatore Viganò, infatti, aveva mantenuto e gestito la cointestazione dei beni loro assegnati alla morte del padre, senza nessun tipo di rendicontazione al fratello disabile, insigne studiosi di testi mesopotamici. L’eredità comprende numerosi immobili per un valore stimato di quasi 20 milioni e mezzo di euro, oltre ad una rilevante somma di denaro (oltre sei milioni e settecentomila euro). Il Tribunale ha accertato che l’ex nunzio aveva sempre percepito i proventi dei beni immobili, detenendo per sé tutta la liquidità facente parte della comunione, beneficiando complessivamente «di operazioni per un importo netto di euro 3.649.866,25». Adesso dovrà pagare al fratello la metà di quella cifra, notizia che ancora non appare sui blog degli adulatori di Viganò, le varie bussole cattoliche che dicono essere fatte per la verità.

Così, mentre scomunicava Papa Francesco per immoralità, mons. Viganò –“martire della verità” e della “sana dottrina morale cattolica”-, sottraeva l’eredità di famiglia al suo stesso fratello. Un disabile, oltretutto. Ma non è finita qui perché, lo stesso don Lorenzo, aveva rivelato che Carlo Maria fu allontanato da Benedetto XVI, tramite il suo braccio destro il card. Bertone, per accuse di corruzione che si erano dimostrate prive di fondamento, ma volle resistere al trasferimento impostogli. Così si appellò direttamente al Papa emerito, adducendo come impedimento la «necessaria, doverosa e diretta assistenza» in cui era impegnato nei confronti proprio del fratello disabile, che lui definì incapace di intendere e di volere. Don Lorenzo ha commentato: «mio fratello ha scritto il falso al Papa» dal momento che è disabile, ma non mentalmente e mai è stato accudito da Carlo Maria. «Ha scritto il falso al Papa, strumentalizzandomi per fini personali», ha denunciato Lorenzo Viganò. E ancora: «Carlo Maria non si è mai degnato di fornire alcun chiarimento e gli unici contatti di quest’ultimo e di taluni miei fratelli sono stati improntati, da un lato, a cercare di spaventarmi con subdoli e fantomatici avvertimenti minacciosi, poi ad invitarmi a sottoscrivere una divisione completamente iniqua».

Soltanto poche ore fa Carlo Maria Viganò, forse credendosi il confessore spirituale dell’episcopato statunitense, aveva inviato un messaggio ai presuli americani: «Non temete di alzarvi e di fare la cosa giusta per le vittime, per i fedeli e per la vostra salvezza. Il Signore renderà a ognuno di noi secondo le nostre azioni e omissioni. Sto digiunando e pregando per voi». Il Signore renderà secondo le nostre azioni e omissioni, appunto. Chissà cosa renderà quando un pastore decide di dividere la Chiesa, di accarezzare lo scisma con false accuse al successore di Pietro, quando sceglie di derubare i suoi stessi parenti dell’eredità familiare (lo scrive don Lorenzo: «Altro che moralizzatore, mio fratello mi ha derubato»), quando non si fa scrupoli del fratello disabile. Ritorna il monito inviato a mons. Viganò dal card. Marc Ouellet: «non puoi concludere così la tua vita sacerdotale, in una ribellione aperta e scandalosa. Esci dalla tua clandestinità, pentiti della tua rivolta». Attuale, più che mai.

 

AGGIORNAMENTO ore 15:00
Apprendiamo ora alcune dichiarazioni di don Lorenzo Viganò nei confronti del fratello di Carlo Maria Viganò: «Non ritengo più umanamente possibile continuare a sopportare le angherie di soggetti che fanno finta di indossare la pelle di agnelli dissimulando la loro vera natura di lupi». Il quotidiano Il Giornale ha aggiunto che l’ex nunzio Viganò ha anche sottratto con l’inganno una casa in Svizzera alla sorella Rosanna.

La redazione

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Papa Paolo III, il primo sostenitore dell’eliocentrismo di Copernico

Eliocentrismo, Copernico e Chiesa cattolica. La ricostruzione dei fruttuosi rapporti tra scienziati ed ecclesiastici, in particolare riguardo alla rivoluzione apportata dall’eliocentrismo.

 

Un argomento che accende come pochi altri i fervori anticlericali di coloro che oppongono il cattolicesimo al progresso scientifico. Eppure la studiosa britannica Valerie Shrimplin ha ben ricostruito le relazioni tra Copernico -astronomo e agostiniano cattolico-, Michelangelo e Papa Paolo III Farnese. I tre si frequentarono fin da giovani e la visione dell’universo del Buonarroti -espressa simbolicamente nel Cristo-Apollo della Cappella Sistina, in Vaticano-, anticipa di 7 anni la pubblicazione eliocentrica di Copernico. Nell’estate del 1533 fu Clemente VII, entusiasta sostenitore dell’eliocentrismo, a commissionare a Michelangelo la realizzazione del Giudizio universale, progetto prontamente ripreso dal suo successore, Paolo III. Proprio a quest’ultimo è dedicato il De revolutionibus orbium coelestium, trattato in cui Copernico esporrà la sua rivoluzionaria tesi.

Un intreccio di rapporti fruttuosi tra artisti, scienziati e uomini di Chiesa che dimostra quanto ingenuo sia l’errore anticlericale. Il rinomato storico della scienza David C. Lindberg, già presidente della History of Science Society, e il suo collega Ronald Leslie Numbers, docente presso l’University of Wisconsin–Madison, hanno scritto: secondo molti, «le forze religiose reazionarie soffocarono con rapidità l’idea di una cosmologia eliocentrica a causa della sua incompatibilità con alcuni passi biblici che venivano interpretati in favore della dottrina geostatica. Ovviamente, un attento esame delle fonti storiche rivela un quadro piuttosto differente» (D.C. Linderg & R.L. Numbers, Dio e Natura, La Nuova Italia 1994, p. XXVI).

E’ così, infatti. E’ vero, diversi teologi (cattolici e, sopratutto, protestanti) troppo legati alla cosmologia tolemaica e al letteralismo biblico respinsero erroneamente la tesi copernicana, assieme ai filosofi aristotelici, ma essa trovò il favore della Chiesa nelle sue più alte sfere (almeno inizialmente). Infatti, l’opera di Copernico, «non sarebbe mai stata pubblicata, se non fosse stato per le pressioni del canonico Tiedemann Giese, che divenne poi vescovo di Kulm, che è forse il suo amico più intimo, il primo a cui Copernico aveva rivelato, le “sue segrete conoscenze astronomiche” (il Giese fu anche autore, come altri ecclesiastici dopo di lui, di un trattato sulla compatibilità tra il sistema eliocentrico e la Bibbia); e poi il cardinale Nikolaus von Schönberg, arcivescovo di Capua e uomo di fiducia di ben tre papi, compreso quello allora in carica, il quale il 1° novembre 1536 gli scrive per invitarlo formalmente a dare alle stampe il libro di cui aveva sentito parlare tanto bene da Johann A. Widmannstetter, segretario di papa Clemente VII (la lettera di Von Schönberg fu posta proprio in apertura del De revolutionibus)» (F. Agnoli, Scienziati in tonaca, Siloe 2013, pp. 23, 24).

Se davvero l’eliocentrismo “detronizzava l’uomo” e “si opponeva alla Bibbia”, come poteva trovare pieno sostegno da ecclesiastici e pontefici? «Va detto con chiarezza», ha scritto lo storico della scienza Paolo Musso, docente presso l’Università dell’Insubria di Varese, «che la fine del geocentrismo non significò affatto, come oggi si cerca insistentemente di far credere, anche la fine dell’antropocentrismo, inteso nel senso di una radicale svalutazione dell’uomo e della sua importanza nel disegno complessivo del cosmo». Per un cristiano, infatti, all’epoca di Copernico, come prima e dopo di lui, «il valore dell’uomo non può dipendere dalla sua collocazione geografica, né da alcun altro fatto materiale, ma solo dal suo rapporto con l’infinito» (P. Musso, La scienza e l’idea di ragione, Mimesis 2011).

La cosmologia aristotelico-tolemaica era precristiana, l’Europa cattolica l’aveva ereditata, mantenuta e modificata. Ma la centralità fisica della Terra non era affatto sinonimo di preminenza o superiorità. La divulgatrice scientifica americana Dava Sobel ha infatti chiarito: «gli astronomi colleghi di Copernico avrebbero osservato che la Terra stava bene al centro di tutto non perché la dimora del genere umano meritasse un posto d’onore, ma al contrario, perché al centro finiva col cadere e giacere ogni cosa materiale e perché crollo, cambiamento e morte erano il destino degli abitanti della Terra. In breve la Terra era al centro perché era non il culmine ma il fondo del creato, e non si doveva osare mettere il Sole, che molti chiamavano il lume celeste, nel buco infernale posto al centro del cosmo» (D. Sobel, Il segreto di Copernico, Rizzoli 2012).

Nonostante la decisa condivisione iniziale, nel 1616 (quasi 70 anni dopo la pubblicazione!) la Sacra Congregazione dell’Indice pubblicò un decreto di condanna del De revolutionibus orbium caelestium. Il teologo e filosofo della scienza spagnolo Rafael Martínez ha ricostruito la vicenda studiando le carte vaticane originali, rilevando la superficialità con cui agì la Curia romana. Innanzitutto venne data troppa fiducia al giudizio della “scienza” allora dominante, che riteneva falso il sistema copernicano, in secondo luogo non vi fu alcun esame teologico riguardo le tesi copernicane. Per questo «la decisione della Congregazione dell’Indice» di sospendere prudenzialmente l’insegnamento di una tesi ritenuta “pericolosa”, conclude Martinez, venne presa «su insufficienti basi filosofiche e teologiche».

Un errore, quello del Santo Uffizio, che avrà importanti conseguenze ideologiche nella storia ma che -secondo noi- può essere parzialmente ridimensionato dando maggior peso all’accoglienza positiva che le tesi copernicane immediatamente ricevettero -dopo un reale approfondimento- dai pontefici Clemente VII e Paolo III e da gran parte degli ecclesiastici della seconda metà del ‘500.

La redazione>

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Guarda il video pro-aborto più controproducente che esista

Video sull’aborto. Ha fatto di più un filmato di 40 secondi che decenni di battaglie pro-life. Peccato che sia stato pubblicato poche ore fa a sostegno di Planned Parenthood, la più grande catena di cliniche per l’aborto. Brutalmente onesto.

 

Ci sono o ci fanno? Nasce spontanea la domanda dopo aver guardato il video pubblicato da qualche ora da Agenda Project, un’associazione a sostegno di Planned Parenthood, la più grande catena di cliniche dell’aborto degli Stati Uniti. Un filmato che sta scatenando polemiche ed incredulità da ambo le parti, sopratutto tra i sostenitori dell’interruzione di gravidanza che, imbarazzati, si chiedono se sia una beffa pro-life.

Si tratta di un breve video (qui sotto) di 40 secondi intitolato “The Chosen” (La scelta), in cui appare una tenera e felice neonata ed, accompagnati dal sottofondo musicale di Lullaby, si è invitati a leggere alcune frasi: «Lei merita di essere amata». E, subito dopo: «Lei merita di essere desiderata». Ed infine, la frase agghiacciante che non ti aspetti: «Lei merita di essere una scelta». Cioè, “merita” che qualcuno scelga se lasciarla vivere o farla morire. Il video si conclude con l’invito ad appoggiare Planned Parenthood, mentre l’immagine si affievolisce.

«Questo dev’essere uno scherzo», ha commentato orripilato il governatore del Texas, Greg Abbott. «Altrimenti è davvero sconvolgente». L’attrice pro-aborto Patricia Heaton ha a sua volta scritto: «Ehm…quale genio di @PPFA ha deciso che questa era una buona idea? Mostrare una bella bambina ed elencare i criteri necessari per evitare di abortirla!?». La cantante pop Kaya Jones non è invece riuscita a trattenere il disgusto: «Per favore prepara a te stesso, questa è la cosa più demoniaca. Il male, è il male puro». Una giornalista del National Review, infine, ha commentato: «Questo spot dovrebbe essere stato creato da un gruppo anti-aborto o da uno spettacolo di satira per far sembrare le persone pro-choice come orripilanti mostri. Ma non è così».

Se ci si pensa un attimo, le cose sono ancora più tragiche. Concentriamoci sulla scritta: «lei merita di essere una scelta». L’omicidio violento di una bambina viene presentato come qualcosa che la bambina stessa “merita”, ne è dunque degna. Se una cosa è “meritata” significa che è una ricompensa o una punizione. I produttori di questo video apprezzerebbero di essere “premiati” nel modo che loro auspicano per altri esseri umani? Immedesimandosi nella brutale e omicida filosofia dei “pro-aborto”, si può pensare che si siano dimenticati del testo. Forse, avrebbero voluto dire: «Lei merita di essere amata, merita di essere desiderata, ma se non lo è, allora merita di morire». Tuttavia, ciò presuppone che tutti coloro che non sono amati o desiderati dai loro genitori “meritano” che un altro decida sulla loro vita. Il che coincide perfettamente con il pensiero delle femministe di Non una di meno, ma non è meno disumanamente brutale.

La seconda cosa che rende tale video così inquietante è che è schiettamente onesto. Non ci viene mostrato un “grumo di cellule” ma una bambina, alla quale ci si riferisce con il pronome “lei” e non con “it”, che in inglese si utilizza per indicare animali, oggetti o tumori da estirpare, come i gruppi pro-choice a volte chiamano i bambini non nati. Sembra quasi che si faccia il possibile per evidenziare la bellezza, l’amabilità ed il miracolo della vita. Eppure l’ultima frase arriva come una pugnalata, sia per i sostenitori che per gli oppositori.

Nessun pro-life avrebbe potuto pensare un video più scioccante ed onesto di questo, che più aiuta la causa della difesa della vita. Ha fatto più un filmato di 40 secondi che decenni di battaglie per cercare di spiegare la disumanità di scartare le persone indesiderate, solo perché non ancora nate. Chapeau!

La redazione

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