Stati Uniti: stabili da 30 anni i cristiani convinti (calano solo i “tiepidi”)

“America religiosa, Europa laica? Perché il secolarismo europeo è un’eccezione” (Il Mulino 2010). Così si intitolava un interessante libro di alcuni anni fa. Un recente studio, otto anni dopo, ne ha sostanzialmente confermato la tesi: gli Stati Uniti rimangono un paese fortemente religioso, il più devoto di tutte le democrazie occidentali.

Certo, molti sociologi hanno osservato che anche l’America ha iniziato a prendere la strada della secolarizzazione, seguendo la vecchia Europa, ma il cristianesimo venne dato per spacciato già nel 1966, si ricordi la famosa copertina del Time: “Is God dead?”. Una recente indagine, cinquant’anni dopo, ha mostrato che il 55% degli statunitensi dichiara di pregare quotidianamente, rispetto al 25% degli abitanti del Canada, al 18% di quelli dell’Australia e al 6% dei cittadini della Gran Bretagna.

In un secondo studio, anch’esso da poco pubblicato (da studiosi della Harvard University e dell’Indiana University Bloomington), viene meglio esplicitata la negazione di un declino del cristianesimo, e si proclama, addirittura, che la religione continua a godere di «intensità persistente ed eccezionale».

I ricercatori hanno rilevato la percentuale di coloro che possiedono una “forte religiosità” (circa il 40% della popolazione), valore rimasto pressoché identico dal 1990. L’unico calo si è verificato (dal 55% al 45%) per coloro che vivono una “religiosità moderata”, mentre negli ultimi quindici anni sono cresciuti i “non affiliati religiosamente” (dal 10 al 20%).

Qualche dato in più: la percentuale di americani che afferma di pregare più volte al giorno e che frequenta la chiesa più volte a settimana, è rimasta «palesemente persistente» e costante negli ultimi 30 anni. E la stessa percentuale non è così piccola: un americano su tre prega più volte al giorno e si reca a Messa ogni settimana. Un altro dato interessante è che sono aumentati i cristiani fortemente convinti: se nel 1989, il 39% di coloro che apparteneva ad una religione affermava di avere una fede forte, oggi lo afferma il 47%.

I dati sono in coerenza con quanto scrive uno (e non solo lui) dei principali sociologi della religione, Rodney Stark, il quale ha scoperto che la percentuale di americani che frequentano le chiese rispetto alla popolazione totale è oggi oltre quattro volte superiore a quella del 1776. Il numero di praticanti, dunque, ha continuato a crescere ogni decennio nella storia statunitense fino ai giorni nostri (R. Stark, What Americans Really Believe, Baylor University Press 2008).

«Soltanto la religiosità moderata sembra essere in declino», hanno concluso i ricercatori statunitensi, «i più ardenti religiosi invece persistono e oggi sono quasi una quota maggiore rispetto a coloro che sono moderatamente religiosi. Allo stesso modo coloro che frequentano saltuariamente le celebrazioni si stanno spostano verso la non frequenza, ma non si osserva un declino in coloro che frequentano le celebrazioni più volte a settimana».

Una fede tiepida, formale, abitudinaria e non alimentata da ragione ed affezione, non è testimone di nulla ed è facilmente messa da parte, lentamente. Rivolgendosi a quei cristiani «che non sono né freddi, né caldi», il Santo Padre li avverte che la loro tranquillità è un inganno. Perché Dio non c’è in «quella ricchezza dell’anima che tu credi di avere perché sei buono, fai tutte le cose bene, tutto tranquillo: un’altra ricchezza, quella che viene da Dio, che sempre porta una croce, sempre porta tempesta, sempre porta qualche inquietudine nell’anima». I tiepidi, dice il Papa quasi anticipando i risultati della ricerca di cui abbiamo parlato, «perdono la capacità di contemplazione, la capacità di vedere le grandi e belle cose di Dio».

La redazione

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Il primo libro ad essere stampato? Una Bibbia a Francoforte.

«Il successo dell’Occidente, inclusa l’ascesa della scienza, si basa interamente su fondamenta religiose, e le persone che lo favorirono erano devoti cristiani». Così scrive, nel suo bestseller La vittoria della ragione (Lindau 2006), il sociologo Rodney Stark. Un esempio concreto è la nascita della stampa moderna, con la pubblicazione della Bibbia da parte di Johannes Gutenberg.

La cosiddetta “Bibbia a 42 linee” fu infatti il primo libro ad essere stampato nella storia dell’umanità, a Francoforte nel 1450, in caratteri gotici e con tiratura 180 copie (andate a ruba). Un bibliologo di Princeton, Eric Marshall White, nel suo recente Editio Princeps. A History of the Gutenberg bible (Harvey Miller Publishers 2018), ha ricostruito la storia della prima edizione a stampa di un testo.

Pio II venne subito a conoscenza del lavoro del cristiano Gutenberg, che cambierà per sempre la storia del mondo. Una pagina stampata in un giorno e quasi tre anni per realizzare almeno 150 copie (un monaco amanuense terminava di copiare a mano una Bibbia in due anni). Prima della fine del secolo vi erano stampatori in almeno 240 città europee.

Non sorprende che la scelta del primo libro da stampare cadde sul testo biblico, «il grande codice della civiltà», come lo ha definito il critico letterario Northrop Frye. O “alfabeto per leggere il mondo”, secondo l’espressione del celebre drammaturgo Bertolt Brecht: quel «testo che dice brutalmente e senza indorare la pillola la nuda verità della vita e della morte, l’ eros e la violenza, l’ incanto e il sapore di cenere, l’ altezza cui possono arrivare gli uomini salendo al di sopra di se stessi fino a concepire un assoluto che li trascende, li sorregge o li annienta, e la bassezza cui quegli stessi uomini possono giungere».

La redazione

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Pena di morte, di fatto era già inammissibile: risposta alle perplessità

Questa volta i quotidiani hanno scritto il vero: Papa Francesco non solo si è posto in continuità con i suoi predecessori nell’opporsi radicalmente alla pena di morte, ma ha ottenuto l’introduzione della sua inammissibilità, senza alcuna eccezione, nel Catechismo cattolico (modificando il punto numero 2267). Ma è davvero una radicale novità?

In realtà, no. Il Catechismo avvertiva che la pena capitale era inaccettabile, ad eccezione di un caso: l’impossibilità di rendere inoffensivo il reo (o criminale). Tuttavia, citando Giovanni Paolo II, si conveniva che, grazie ai moderni sistemi carcerari, tale eccezione era «praticamente inesistente». La logica vuole che dichiarando inesistente l’unica eccezione, di conseguenza l’inammissibilità della pena di morte era già respinta integralmente. Francesco ha quindi reso categorico ciò che era logicamente sottinteso nel Catechismo, volendo rendere più solida la posizione del “favor vitae”.

La tematica, piuttosto semplice, include dei corollari che la rendono più complessa. Questo giustifica parzialmente molte perplessità in merito. L’errore più gettonato è quello di ritenere la dottrina sulla pena di morte una verità rivelata, irriformabile, esibendo la posizione favorevole di Tommaso d’Aquino e sostenendo che l’attuale decisione di modifica andrebbe contro l’insegnamento secolare della Chiesa. Eppure, come chiunque dovrebbe sapere, non siamo di fronte ad un dogma di fede ma a una questione di disciplina e morale, per sua natura riformabile al mutare delle circostanze. Ed infatti -lo ha spiegato il teologo morale Mauro Cozzoli- la posizione di grande apertura di San Tommaso e del Concilio di Trento nei confronti della pena di morte è stata radicalmente superata nel tempo, fino al testo in voga oggi e nelle battaglie di Giovanni Paolo II per una abolizione internazionale della pena capitale, da lui definita “inutile” e “crudele”. Superata ma non sconfessata, in quanto era legittima in passato come forma di difesa in un contesto di precarietà del sistema carcerario. Riteniamo comunque utile pubblicare una serie di risposte alle posizioni più riscontrate -sia critiche che esultanti o deridenti- che abbiamo colto sui quotidiani e sui social network, mostrando che vi è soltanto un’obiezione fondata alla recente modifica del Catechismo, seppur vi sia modo di replicare adeguatamente anche ad essa.

 

LA CHIESA ARRIVA IN RITARDO RISPETTO ALLA MODERNITA’?
Molti anticlericali stanno vantando in queste ore la superiorità dell’etica laica che sarebbe arrivata prima a condannare la pena di morte, rispetto alla Chiesa. Eppure, non è affatto sinonimo di modernità l’opposizione alla pena di morte, considerando che nei modernissimi Stati Uniti, 23 stati contro 19 ancora oggi prevedono e applicano tale condanna. Inoltre, la pena capitale è ampiamente prevista e legittimata in Corea del Nord, dove l’ateismo è ufficialmente la guida morale dello Stato. Non si conoscono prese di distanza ufficiali da parte delle associazioni atee verso l’applicazione nordcoreana dell’etica laica. Si dimenticano, infine, i ripetuti ed incessanti interventi degli ultimi tre Pontefici nel condannare universalmente il ricorso alla pena di morte. Giovanni Paolo II pronunciò decine di discorsi ufficiali -sopratutto a partire dal 1998- chiedendo una moratoria sull’abolizione della pena capitale, intervenendo di volta in volta negli Stati Uniti per invocare clemenza verso i condannati.

 

LA CHIESA CHE LEGITTIMAVA LA PENA DI MORTE, SI CONTRADDICEVA SULLA SACRALITA’ DELLA VITA?
Questa posizione è riscontrabile non solo in molti atei e anticlericali, ma anche in tanti cattolici che stanno salutando con favore la recente iniziativa della Congregazione per la dottrina della fede, liberati da una presunta contraddizione. Il punto chiave è che l’esecuzione della pena di morte è stata considerata ammissibile solamente come extrema ratio nell’alveo della legittima difesa della stessa vita (seppur senza essere ad essa ridotta), sopratutto in situazioni passate di arretratezza nella capacità di rendere inoffensivo il reo. Per questo, non c’è contraddizione con il principio di sacralità della vita (dunque con l’opposizione all’aborto) e nemmeno con il quinto comandamento, che si riferisce all’uccisione dell’innocente. E’ legittimo difendere la propria vita o la vita di altre persone di cui si ha responsabilità anche arrivando, come atto estremo, all’uccisione dell’attentatore. Sempre che l’atto di difesa sia proporzionato a quello di attacco.

 

IL VECCHIO CATECHISMO QUINDI SBAGLIAVA? LA CHIESA DEVE CONSERVARE LA TRADIZIONE SENZA MODIFICHE?
E’ la posizione classica di chi fatica ad accettare il Concilio Vaticano II, i cui documenti -come la Dei verbum-, esprimono invece un concetto di Tradizione non fissa e non immutabile. «La sacra tradizione», si legge infatti, «progredisce…cresce…tende incessantemente alla verità finché non giungano a compimento le parole di Dio». Vi sono, inoltre, dottrine irriformabili ed altre no. Il Magistero sulla pena di morte non è verità di fede, non è dogma irriformabile e lo dimostra il fatto che l’insegnamento magisteriale è stato via via modificato nel tempo.

Un esempio pratico: il Concilio di Trento (1545-63) permise la condanna a morte per «reprimere i facinorosi e difendere gli innocenti. Applicandola, i magistrati non solamente non sono rei di omicidio, ma, al contrario, obbediscono in una maniera superiore alla Legge divina, che vieta di uccidere, poiché il fine della Legge è la tutela della vita e della tranquillità umana. Ora. le decisioni dei magistrati, legittimi vendicatori dei misfatti, mirano appunto a garantire la tranquillità della vita civile, mediante la repressione punitiva dell’audacia e della delinquenza». In seguito la posizione della Chiesa si è modificata/evoluta radicalmente: la legittimità morale della pena capitale venne via via accordata solo agli omicidi (escludendo i “facinorosi” e i “delinquenti”) e non più vista come “obbedienza alla Legge divina”, ma come eccezione e decisione estrema allorquando gli altri mezzi di contenimento del reo non fossero sufficienti. Già nel 1975, il Dizionario di antropologia pastorale approvato dalla Conferenza episcopale tedesca, precisava che «il cristiano non ha il minimo motivo di invocare la pena di morte o di dichiararsi favorevole ad essa». Nel 1978, nel documento Elementi di riflessione redatto dall’episcopato francese, si indicava come l’esecuzione capitale fosse «incompatibile con il Vangelo».

Nel 1992 il Catechismo cattolico ha subito la prima modifica, nel 1997 la legittimità è stata ufficialmente ancor più ristretta, fino ai tanti pronunciamenti di Giovanni Paolo II: «Rinnovo quindi l’appello per abolire la pena di morte, che è crudele e inutile» (1999). Nel 2000, il cardinale Silvano Piovanelli, vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana guidata dal Ruini, emise un documento a nome dei vescovi della Toscana con scritto: «Una più profonda comprensione del Vangelo nella Chiesa, e una più matura esperienza umana forgiata dalle tante tragedie del secolo scorso, ci spingono oggi, insieme a tutti gli uomini di buona volontà, a considerare inaccettabili sia sul piano morale che su quello giuridico tutte le ragioni che hanno sostenuto la pena di morte e che ancora in molti Paesi della terra vengono addotte per giustificarla». Una posizione distante anni luce da quella del Concilio di Trento, modificata ulteriormente da Benedetto XVI nel 2002: «L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani». Ma «i casi di assoluta necessità di soppressione del reo « sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti».

 

LA PENA DI MORTE E’ SEMPRE STATA LEGITTIMATA? VA INCLUSA NELL’ACCETTAZIONE DELLA LEGITTIMA DIFESA?
La pena di morte era autorevolmente legittimata nel lontano passato, in contesti completamente differenti. Con il mutare dei tempi la sua necessità si è ridotta, fino al renderla ammissibile solo in caso di impossibilità di contenimento della reiterazione del delitto. La posizione ecclesiale su questo specifico tema si è giustamente modificata al rafforzamento dei sistemi di difesa carcerari. Questo ha dato modo alla Chiesa di perfezionare il proprio insegnamento. Non c’entra nulla la “pena vendicativa”, il fattore deterrente o l’espiazione della colpa, come invece è stato scritto confondendo la pena capitale con la generale funzione della pena (carceraria, ad esempio) conseguente ad un delitto. Il Catechismo cattolico (citando Giovanni Paolo II) conviene che allo stato attuale «i mezzi incruenti sono più che sufficienti» e, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo «sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti». Si esclude la pena di morte, tranne che in casi d’eccezione. Dato che i casi d’eccezione sono ormai “inesistenti”, si esclude la legittimità della pena di morte. Venendo meno tale casistica, mancando la condizione giustificante, infatti, cade di conseguenza l’unica eccezione all’illegittimità della pena capitale. Questa è la posizione logica che emerge dal Catechismo, già prima della modifica apportata da Francesco.

Sbaglia anche chi assimila del tutto la pena di morte alla legittima difesa. Nel secondo caso c’è un rischio diretto ed imminente di uccisione della vita, nel primo caso invece è supposto, probabile, indiretto. L’inammissibilità, senza eccezioni, della pena di morte, così come voluta da Francesco, non intacca per nulla l’ammissibilità della legittima difesa: «resta in piedi», si dichiara infatti, «il dovere della pubblica autorità di difendere la vita dei cittadini, come è stato sempre insegnato dal Magistero e come conferma il Catechismo della Chiesa Cattolica nei numeri 2265 e 2266».

 

NON C’E’ PIU’ L’OPPORTUNITA’, MA NON SI POTEVA MANTENERE IL PRINCIPIO PER UN IPOTETICO FUTURO?
Ribadiamo il punto chiave, senza il quale si perde di vista la questione: secondo la visione moderna della Chiesa cattolica (dagli anni ’90 in poi, in modo sostanziale), l’impossibilità di difendere i cittadini è l’unica eccezione ammessa al giudizio di generale inammissibilità della pena di morte. Un’eccezione concretamente «inesistente», secondo Giovanni Paolo II, in quanto i sistemi di detenzione assicurano -senza eccezioni- la doverosa difesa dei cittadini. Nell’eliminare l’accenno di tale eccezione dal Catechismo, Papa Francesco ha agito in totale e corretta coerenza con la realtà e con la visione dei suoi predecessori (ampiamente citati nella Lettera di modifica del n. 2267 del Catechismo). «Il nuovo testo», si legge, «seguendo le orme dell’insegnamento di Giovanni Paolo II in Evangelium vitae, afferma che la soppressione della vita di un criminale come punizione per un delitto è inammissibile perché attenta alla dignità della persona, dignità che non viene perduta neanche dopo aver commesso dei crimini gravissimi. A questa conclusione si arriva anche tenendo conto della nuova comprensione delle sanzioni penali applicate dallo Stato moderno, che devono orientarsi innanzitutto alla riabilitazione e reintegrazione sociale del criminale. Infine, visto che la società odierna possiede sistemi di detenzione più efficaci, la pena di morte risulta non necessaria come protezione della vita di persone innocenti».

Preso atto di tutto questo, se è certamente vero che la situazione attuale ha fatto decadere il senso dell’extrema ratio della pena di morte, che dire del futuro? Non è così remoto, purtroppo, uno scenario apocalittico di guerra mondiale, dove ipoteticamente potrebbero (ri)diventare insufficienti i moderni sistemi di contenimento dei criminali. Era davvero necessario, perciò, arrivare a modificare così radicalmente l’articolo del Catechismo, senza lasciare più prudentemente aperta la possibilità del ritorno di una situazione di caos e, perciò, del riaffacciarsi della necessità della pena capitale in difesa della vita dei cittadini? Tale obiezione è l’unica ragionevole e la condividiamo in parte, ma è anche vero che riflettere su casi ipotetici futuri e linee di principio non è di aiuto per nessuno e risulta essere uno sforzo di fantasia e di casistica. Inoltre, come già visto, il tema specifico della pena di morte è uno di quelli sottoposti a riforma e sviluppo: in caso futuro di ritorno dell’eccezione all’inammissibilità, potrà nuovamente venire ripristinata la precisazione dell’esistenza di un’eccezione alla regola. La necessità di rinforzare il “favor vitae” della Chiesa ha giustificato la modifica del Catechismo, anche considerando che la posizione sulla pena di morte, come già detto, rientra in quella dottrina riformabile che si perfeziona rispetto alle nuove circostanze storiche di tempi e luoghi.

 

AGGIORNAMENTO ORE 21:30
Ottimo l’intervento dell’arcivescovo Rino Fisichella, stretto collaboratore di Benedetto XVI e del card. Camillo Ruini, nonché attuale presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. «Adesso, Papa Francesco – in continuità con il magistero di Giovanni Paolo II e di Papa Benedetto – accetta di esplicitare ulteriormente l’argomento facendo compiere un passo ulteriore», afferma mons. Fisichella. «E questo passo, come viene detto “alla luce del Vangelo”, fa comprendere che la pena di morte è inammissibile. E quindi ci sono parole chiare, nette, che non lasciano equivoci di sorta su questo insegnamento». Oltre a ben spiegare la motivazione che ha portato al cambiamento del numero 2267 del Catechismo («il superamento di una visione restrittiva perché a nessuno può essere tolta la possibilità di una riabilitazione, quindi di una reintegrazione, anche nel tessuto sociale»), il teologo ha esplicitato come la tradizione sulle materie riformabili (come la pena di morte, appunto), «è viva, per sua stessa natura. Questo è l’insegnamento del Concilio. Questa è anche la comprensione della tradizione e che la tradizione dà di sé stessa. La tradizione, se non è viva, se non è mantenuta viva da un magistero sempre vivo, come insiste la “Dei Verbum”, la Costituzione dogmatica sulla Rivelazione, non è più la tradizione. Quindi penso che siamo davanti a una considerazione notevole, importante. Si compie un passo veramente decisivo che aiuterà anche l’impegno dei cattolici nella vita sociale e politica dei propri Paesi».

La redazione

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Sindone e le “macchie false”: il dott. Di Lazzaro smentisce lo studio su Rai 1 (video)

Torniamo, seppur brevemente, al recente studio sulla Sindone di Torino, riguardante il percorso effettuato dal sangue. Gli autori, Luigi Garlaschelli e Matteo Borrini, hanno spruzzato del liquido ematico su un manichino e sul corpo dello stesso Garlaschelli, confrontando le traiettorie del sangue osservabili sul famoso sudario e concludendo la non compatibilità. Ma l’errore è macroscopico, come abbiamo scritto.

Il tipo di superficie su cui un liquido scorre è fondamentale nell’imprimere ad esso un certo tipo di traiettoria rispetto ad un altro. Per questo, è metodologicamente scorretto aver messo a confronto la plastica liscia di un manichino e la pelle pulita ed intatta di Garlaschelli, in un asettico laboratorio, con il corpo dell’Uomo della Sindone, vittima di torture, flagellazioni, ferite, tumefazioni della pelle e disidratazione. Senza considerare, oltretutto, la differente densità del sangue di un uomo morto a causa di stress traumatici da quello utilizzato nell’esperimento.

Tutte variabili che chiaramente hanno influito in modo determinante nella direzione del sangue: tenendo conto le due situazioni profondamente diverse che sono state messe a confronto, sarebbe stata irrealistica e impossibile una sovrapponibilità di risultati. La critica è decisiva, tanto che i due ricercatori non hanno mai risposto pur avendone avuta la possibilità.

Il fisico Paolo Di Lazzaro, dirigente di ricerca presso l’Enea di Frascati e vicedirettore del Centro Internazionale Sindonologia, ha espresso le stesse critiche durante la puntata de La vita in diretta del 17 luglio scorso, seppur nel pochissimo spazio di replica che gli è stato concesso. Matteo Borrini, presente in studio, ha voluto replicare solamente al fatto che il sangue utilizzato non era solo quello contenente anticoagulante, affermando erroneamente che, in ogni caso, «non importa se il sangue sia più o meno liquido, più o meno viscoso, perché si comporta sempre in base alla forza di gravità, va sempre nella stessa direzione». Non è così: la viscosità di un liquido può determinare traiettorie irregolari, ancor di più la velocità di scorrimento. Altro dato -non conosciuto- trascurato da Borrini e Garlaschelli.

Presente in studio anche lo storico scettico Andrea Nicolotti, che ha messo perfino in dubbio che quelle sulla Sindone siano macchie di sangue, invitando a «ricominciare tutto da capo». Siamo alla fantascienza: due scienziati statunitensi, membri dello STURP, il biofisico John H. Heller ed il biochimico Alan D. Adler (oltre al medico legale Pierluigi Baima Bollone), giunsero – indipendentemente tra loro – ad accertare la presenza di sangue sulla Sindone, pubblicando i risultati sul Canadian Society of Forensic Sciences Journal. Le fotografie di fluorescenza a luce violetta hanno infatti stabilito che le macchie e la cintura di sangue hanno le proprietà ottiche del siero, osservando commistione tra sangue vitale e cadaverico e la presenza di sangue arterioso e venoso. La conferma della conferma arrivò da Leoncio Garza Valdés, microbiologo dell’University of Texas Health Science Center di San Antonio, che individuò anche il gruppo sanguigno AB. L’approccio scientifico di Nicolotti alla Sindone è quindi quantomeno lacunoso, ma lo è ancor più –come già abbiamo rilevato– quando affronta la tematica dal punto di vista storico.

Nel filmato qui sotto, Matteo Borrini espone l’esperimento effettuato, seguito dalla confutazione da parte di Paolo Di Lazzaro. A conclusione le sagge parole di don Gaetano Saraceno, il quale si compiace del dibattito scientifico ricordando però la posizione della Chiesa: «la fede non si fonda sulla Sindone, ma nella Sindone trova mistero ed eloquente testimonianza».

 

Qui sotto il video de La vita in diretta (pubblicato anche sul nostro canale Youtube)

 
La redazione

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Medaglia Fields, l’ultimo italiano fu Enrico Bombieri: «che è cattolico e va a messa»

Un italiano è tornato a vincere la Medaglia Fields, considerato il Nobel per la Matematica. E’ stato assegnato ad Alessio Figalli, 34 anni e ordinario al Politecnico di Zurigo. Il celebre premio si tinge così con il tricolore dopo 44 anni, quando venne assegnato ad Enrico Bombieri.

Bombieri, docente presso l’università di Princeton (Stati Uniti), è sempre stato visto con un po’ di fastidio dal prof. Piergiorgio Odifreddi, che nel suo libro Perché Dio non esiste (Aliberti 2010), si lamentava: «Carlo Rubbia mi pare che sia cattolico. Enrico Bombieri, medaglia Fields, è cattolico e va a messa» (p. 122).

Avevamo già ripreso la bella intervista che Bombieri rilasciò allo scrittore Francesco Agnoli, nella quale il matematico ebbe modo di riflettere a lungo sul rapporto tra scienza e metafisica, spiegando: «Per me la matematica è un modello della verità sia pure un modello assai ristretto da chiare regole di consistenza, che ci dice che una Verità assoluta (con la V maiuscola) deve esistere anche se non possiamo comprenderla. La matematica, che è la scienza della verità logica, certamente ci aiuta a comprendere le cose ed è naturale per un matematico che crede in Dio, qualunque sia la sua denominazione, di riconciliare il concetto dell’esistenza di Dio con la sia pure limitata verità che proviene dalla matematica».

«Per me», proseguì il celebre matematico italiano, «è sufficiente il Metastasio, quando dice: “Ovunque il guardo giro, immenso Dio ti vedo”. Guardare l’universo, nel nostro piccolo, nel grande al limite dell’incomprensibile, e anche nell’astratto della matematica, mi basta per giustificare Dio». D’altra parte, «il Big Bang dell’astrofisica moderna non solo ci fa pensare alla creazione biblica, ci dice anche che il tempo è stato creato insieme all’universo, un concetto che risale alla metafisica di sant’Agostino. La matematica è essenziale per dare consistenza a tutto questo, ma da sola non basta per dire che questa visione dell’origine dell’universo stellato di Kant sia esatta al 100 per cento».

Citando i suoi due riferimenti scientifici, Blaise Pascal ed Ennio De Giorgi, Bombieri rifletté sul fatto che entrambi «avevano compreso che Dio non è solo un Dio platonico, astratto, geometrico, aritmetico, o semplicemente creatore di un universo lasciato a se stesso. Essi avevano la visione di un Dio che è più difficile da comprendere, un Dio che è fatto non solo di potenza ma anche di amore infinito. Solamente così diventa possibile, con umiltà, accettare il concetto cristiano della Redenzione».

Il nome di Bombieri e altre sue citazioni sul rapporto tra scienza e fede, sono incluse nel nostro dossier sui principali scienziati cristiani e cattolici della storia. Odifreddi invece non compare, ma le vie del Signore sono infinite.

La redazione

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«Albania, così l’Inquisizione atea torturò a morte i credenti. Io c’ero»

Pubblichiamo alcuni stralci apparsi su L’Osservatore Romano del volume L’arca della morte. 10.000 giorni nelle prigioni comuniste (Mauro Pagliai 2018), scritto da Pjetër Arbnori. Fu soprannominato “il Mandela dei Balcani”, per aver resistito a una detenzione lunga 28 anni nelle carceri albanesi. Alla sua morte, nel 2006, l’Albania gli ha riservato i funerali di Stato.

 

di Pjetër Arbnori*
scrittore e attivista albanese

 

È stata proclamata ufficialmente una lunga lista di martiri albanesi, che saranno canonizzati secondo una direttiva di Giovanni Paolo II. Io ho conosciuto da vicino molti di loro, tutti servi in Cristo, tutti uomini coraggiosi, che in condizioni difficilissime hanno mostrato una comune caratteristica: non hanno negato l’esistenza di Dio in nessuna circostanza, lo hanno testimoniato con le opere e hanno professato la loro fede pubblicamente.

Nei confronti di tutti coloro che ho nominato finora, e anche di altri che non ho citato, io posso tranquillamente testimoniare che senza alcun dubbio, né ombre di nessun tipo, hanno meritato il processo di beatificazione e santificazione. Io ho parlato spesso di questi testimoni di Cristo, che sono stati fucilati, sono morti nelle prigioni o hanno sofferto nei campi di lavoro, sempre sotto la costante minaccia dei sostenitori del regime: «Noi vi togliamo la maschera!». Demistificare e smascherare significava, per i comunisti, deridere e disprezzare. Io posso confermare tutto, perché c’ero.

Ed ero anche presente nelle occasioni di disseppellimento, quando per loro è venuto il momento dell’onore postumo, in sepolcri decorosi, e accompagnati da cerimonie solenni organizzate dallo Stato democratico. Questi dunque sono i miei ricordi, vivi come se avessi vissuto ieri le scene di cui parlo, anche se ormai, nel momento in cui scrivo, sono passati tredici anni e tante cose sono cambiate in Albania. Ma tanti di voi, amici lettori, potrebbero chiedersi legittimamente a questo punto: «Qual è stata la ragione di una guerra così spietata dichiarata dal comunismo ateo di Enver Hoxha al clero cattolico?». A questa domanda si possono dare diverse risposte.

Primo motivo. I martiri erano tutti, sempre, esempio di santità, ma soprattutto apparivano testimoni di uno spirito diverso da quello allora corrente in un’Albania arretrata, carica di aggressività atea, declinata in persecuzioni su larga scala da parte dei comunisti. Erano visti dai più come una strana specie, come aliena, quasi non avesse avuto precedenti né radici nel paese. I martiri testimoniavano non solo la luce dello spirito, ma anche l’apertura della mente. Erano quasi tutti molto colti, conoscitori profondi delle loro materie, leader indiscutibili in molti campi della conoscenza: teologi, filosofi, scrittori, pubblicisti, pittori, musicisti, politici, sociologi, pedagoghi, storici, folcloristi, naturalisti, medici, architetti, demografi. Non c’è campo della cultura albanese che non abbia avuto in loro dei precursori e dei maestri.

Per comprenderlo è sufficiente aprire un libro di letteratura: balza agli occhi come essi abbiano creato l’alfabeto albanese in lettere latine, invece di quelle cirilliche. Ma come mai proprio loro, e non altri? Per molti è ancora un mistero il ruolo fondamentale nella formazione della cultura albanese moderna e del suo consolidarsi insieme al senso di appartenenza nazionale. Per altri invece nella cosa non vi è nulla di misterioso: è come se, essendo pieni della loro fede, essi sentissero profeticamente che era venuto il momento di dare il massimo contributo vitale alla costruzione dello spirito del nostro popolo.

Qui c’entrava naturalmente la fedeltà a Cristo: sentivano come un dovere il fatto di essere al servizio della fede e della cultura occidentale, per formare personalità in grado di diffonderla. Era questo, precisamente, che gli atei detestavano. Il comunismo influenzava piuttosto le masse ignoranti, i semi-intellettuali, quelli che giravano invano per sei o sette anni negli istituti d’Europa, e che tornavano in Albania dopo aver completato solo uno o due anni di corso: personalità incompiute. Questa fu la categoria che mostrò la maggiore avversione nei confronti del clero.

Secondo motivo: il clero cattolico costituiva di fatto la colonna portante del patriottismo albanese, in conflitto naturale con l’internazionalismo marxista, disceso quest’ultimo su di noi come un’entità estranea, decisa a reprimere e a cancellare i caratteri secolari del popolo.

Terzo motivo: il clero cattolico ha formato sempre una barriera contro il panslavismo, dunque un impedimento diretto per i piani dei comunisti slavofili, che intendevano mettere l’Albania sotto l’egida jugoslava. In quello snodo storico decisivo i comunisti comprendevano che il clero cattolico doveva essere eliminato, perché sino a quando avesse continuato a esercitare un’influenza avrebbe sempre impedito la realizzazione di quel disegno. Difatti, dagli ultimi dati, portati alla luce recentemente, risulta che la fucilazione di molti ecclesiastici sia stata commissionata espressamente dal regime jugoslavo. Una volta tolte di mezzo le anime ribelli, inscindibili dal sentimento indipendentista, si sarebbe potuto raggiungere lo scopo finale, che prevedeva addirittura l’annessione dell’Albania alla Jugoslavia, senza che una voce si levasse per opporsi.

Quarto motivo: i comunisti atei, per imporre il dittatore Enver Hoxha come il “Dio” nuovo dell’Albania, avevano bisogno di far sparire l’altro Dio, quello del cielo. Inevitabile, dunque, la liquidazione del clero che, con la sua stessa esistenza, teneva viva la fede nel principio rivale. Afferma Albert Kamy: «Quando il cielo si spopola del Dio vero, allora la terra è piena di dei che hanno sete di sangue umano».

I metodi per dissetarsi con questo sangue erano molti: alcuni conosciuti, altri tenuti nascosti. Qui ne esamino principalmente tre.
a) Le accuse, senza prove, di collaborazione con il nemico, con il fascismo e il nazismo. I comunisti seguivano il principio «o con noi o contro di noi».
b) La creazione di organizzazioni immaginarie, false. Queste costruzioni fittizie erano messe in piedi da dei provocatori. Un esempio ne sono stati il “partito democristiano”, che in realtà non è mai esistito, neppure nell’illegalità oppure l’organizzazione “Unione Albanese”. Per avervi preso parte furono fucilati tre famosi membri del clero, che probabilmente non l’avevano nemmeno sentita nominare. Può darsi che alcuni adolescenti entusiasti abbiano fatto dichiarazioni compromettenti e abbiano ceduto alle torture, ma è certo che le loro ultime affermazioni davanti alle corti siano state di negazione totale rispetto a quanto possono aver confessato sotto i colpi degli inquisitori. Costoro, in particolare, hanno smentito che i loro superiori ecclesiastici — già destinati a essere sottoposti al martirio — fossero stati gli iniziatori della contestata organizzazione “sovversiva”. Il loro comportamento dignitoso, fino ai limiti dell’eroico, risalta tanto di più, in quanto essi erano molto giovani e furono vittime di atroci torture e minacce.
c) È esistita poi una variante albanese, del tutto originale anche rispetto all’Est comunista. Il partito ha provveduto a collocare di nascosto depositi di armi dentro alle chiese, per poter gridare al “complotto” e procedere alla repressione di una “banda armata”. I pacifici frati francescani si sono così visti accusare di aver nascosto armi persino dietro gli altari. L’esito dell’operazione fu quello di condannarne molti a morte e tanti altri a lunghe condanne di prigione.

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Omogenitori, l’antropologo risponde al prete Lgbt: «mai allontanarsi dalla natura»

Se non fosse per quei ripetuti post a favore della causa Lgbt e i discutibili selfie a petto nudo, il parroco di Coreglia Antelminelli, Nando Ottaviani (nella foto, a destra), non sembra essere uno dei soliti preti mediatici. Più mediatici che preti. Tuttavia, quel tradimento della dottrina cattolica sulle relazioni omosessuali lo rende autore di un messaggio confuso. Ben venga il chiarimento di un suo confratello,  mons. Fiorenzo Facchini, emerito di Antropologia all’Università di Bologna.

Don Nando Ottaviani si definisce semplice prete di montagna, ma ama la visibilità e la ricerca su Facebook. I suoi video in cui ripete che “Dio ama i gay” sono virali, così come i suoi continui messaggi contro la discriminazione. E ha ragione, ovviamente: le persone omosessuali meritano lo stesso rispetto di tutti (c’è bisogno di precisarlo?) possono e devono aspirare alla santità, come ha spiegato di recente il teologo Angelo Bellon. Ma un conto è sostenere il battesimo per i figli in adozione alle coppie gay, a cui non vanno “fatte pagare” le scelte dei “genitori”, un altro sono le relazioni tra omosessuali, la richiesta di unioni civili e matrimonio, l’accesso all’adozione e all’utero in affitto. Tematiche profondamente diverse su cui la Chiesa, giustamente, ha differenti giudizi morali.

Il non leggere mai alcuna distinzione di tutto ciò nelle parole di don Ottaviani e, anzi, il suo ribadire apprezzamento per il mondo arcobaleno tout court, per gli omosessuali che «condividono un percorso d’amore e la propria sessualità» e l’invito al ministro della Famiglia, Lorenzo Fontana, di «andare a trovare i figli delle coppie gay» per comprendere quanto siano normali e felici, è un fraintendimento di quel magistero cattolico che dovrebbe trasmettere come pastore. E, come sorprendentemente ha riconosciuto il quotidiano di destra La Verità, è in contraddizione con «le parole infuocate di Papa Francesco (appositamente oscurate dalla stampa liberal) contro il gender e le nuove colonizzazioni ideologiche che minacciano la famiglia».

Non solo. E’ un tradimento anche della natura. Quasi contemporaneamente al nuovo video-appello arcobaleno di don Ottaviani, infatti, è comparso per coincidenza su Avvenire un approfondimento di mons. Fiorenzo Facchini, presbitero dell’Arcidiocesi di Bologna, antropologo e paleontologo, membro della Pontificia Accademia per la Vita, della Pontificia Accademia delle Scienze e professore emerito di Antropologia dell’Università di Bologna. L’evoluzionista ha osservato: «C’è una variabilità di ordine biologico e psicologico che si colloca, o è interpretata, nell’ambito della normalità. Oltre certe soglie le espressioni della variabilità vengono interpretate come devianti sul piano statistico e meritevoli di attenzione per le possibili implicazioni». Occorre perciò «prendere atto di questa variabilità oggettiva e misurarsi con essa nella costruzione dell’identità della persona». L’aspetto culturale, non deve prescindere da tale dato oggettivo della natura, «si pensi al riconoscimento di una duplice paternità o maternità avvenuto in diversi casi, una posizione che se non fosse per le implicazioni a cui potrà dare luogo per il bambino, sembrerebbe così ridicola da non potersi prendere sul serio. In questa situazione, che caratterizza l’epoca moderna, il rapporto natura umana e cultura si dimostra quanto mai critico, esposto a qualunque scelta. Ma resta fondamentale un corretto rapporto. Se le regole della società si allontanassero troppo dal dato della natura ci si avvierebbe a un declino inevitabile della società».

Mons. Facchini ha concluso osservando che «la voce della Chiesa, chiara nei documenti magisteriali, non arriva come dovrebbe al popolo cristiano e stenta a essere interpretata correttamente nella pubblica agorà. Cosicché nella riflessione e nel dibattito culturale, anche del mondo cattolico, si ha l’impressione che nell’affrontare il confronto col pensiero dominante (in cui sono affermate istanze insostenibili sul piano etico, sino alla omogenitorialità), si dimentichi spesso che i veri nodi prima di essere di ordine religioso stanno nella interpretazione del dato della natura. Quello su cui tutti si sentono autorizzati a dire ciò che vogliono, allontanandosi dalla oggettività delle cose».

Una posizione chiarissima, come sempre, quella dell’antropologo cattolico. La voce della Chiesa e di Papa Francesco fatica ad arrivare, senza censure o strumentalizzazioni, nel dibattito pubblico, anche a causa di alcuni sacerdoti silenti o, addirittura, in disaccordo. Personaggi che, tuttavia, ci sono sempre stati: da don Gallo a don Farinella, da Alberto Maggi a don Antonelli. Ma il popolo cattolico, fedele alla dottrina, sa chi sono i pastori di cui fidarsi: per questo, sopratutto su questi temi, urge un laicato cattolico maturo, indipendente e con più voce. Guardiamo perciò con favore la ricomposizione del comitato promotore del Family Day.

La redazione

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Il Papa contro la tratta dei migranti: oscurato il suo discorso (ma lo aveva già detto!)

«Le rotte migratorie sono spesso utilizzate da trafficanti e sfruttatori per reclutare nuove vittime della tratta». No, non ci siamo messi anche noi a citare Matteo Salvini. Lo ha detto Papa Francesco durante l’Angelus di domenica. Parole riprese dagli organi di stampa vicini all’attuale governo e oscurate dagli altri, troppo impegnati a dipingere il Pontefice come sponsor dell’immigrazionismo a prescindere (riuscendo ad ingannare molti).

Giustamente sul quotidiano La Verità, si legge: «Papa Francesco, da alcuni considerato un paladino dell’antisalvinismo, ha inferto un duro colpo ai fanatici dell’accoglienza senza se, senza ma, senza limiti e senza regole». E la reazione è stata questa: Repubblica ha completamente evitato di parlarne, mentre su Il Corriere è apparso solo un trafiletto. Anche Famiglia Cristiana ha taciuto il discorso (bisognerebbe quindi domandarsi sul suo uso strumentale della religione a fini politici, cioè la stessa accusa che la rivista rinfaccia -non senza torti, seppur con toni assurdi- al ministro Salvini). Al contrario, ampio spazio hanno avuto le parole del Papa su Libero, Il Giornale e blog di destra. Accompagnate, purtroppo, con sciocchi commenti: “si è svegliato, finalmente”, “ha scoperto l’acqua calda” e “inizia a dire cose cattoliche”. Il ministro dell’Interno, Salvini, si è detto «contento» per il fatto che «anche il Santo Padre ritenga la tratta di esseri umani un crimine infame». Paradossalmente, però, ha più ragione chi non ha riportato la notizia piuttosto che coloro che l’hanno ritenuta una novità. Infatti, la notizia non c’è: anche in questo caso, Francesco lo aveva già detto in diverse occasioni.

Se domenica, Giornata Mondiale contro la tratta di persone, ha ricordato che «è responsabilità di tutti denunciare le ingiustizie e contrastare con fermezza questo vergognoso crimine», cioè la tratta di migranti, nel febbraio scorso Papa Bergoglio si era scagliato contro «le organizzazioni criminali, dedite alla tratta di persone, che usano queste rotte migratorie per nascondere le proprie vittime tra i migranti e i profughi. Invito pertanto tutti, cittadini e istituzioni, a unire le forze per prevenire la tratta e garantire protezione e assistenza alle vittime».

Nel giugno 2018 Francesco aveva ribadito che l’accoglienza degli immigrati dev’essere fatta «con la virtù della prudenza», perché «un Paese deve accogliere tanti rifugiati quanti ne può integrare, educare, dare lavoro». Ha avuto anche parole di elogio per Italia e Grecia, che «sono stati generosissimi», ma nessuno deve tirarsi indietro. Infine ha condannato «le carceri dei trafficanti», ricordando che «i governi si preoccupano perché i migranti non cadano nelle mani di questa gente. C’è una preoccupazione mondiale». Nel febbraio 2017, ancora una volta, il Pontefice invocava «programmi tempestivi e umanizzanti nella lotta contro i “trafficanti di carne umana” che lucrano sulle sventure altrui» e intrappolano i migranti «nelle spire di organizzazioni criminali senza scrupoli».

Ovviamente, accanto a queste condanne, il Papa continua a ricordare che accogliere lo straniero in difficoltà che bussa alle porte è un dovere cristiano. Spesso Francesco lo fa citando il suo predecessore, anche questo è un tabù per molti pseudo-ratzingeriani. Era Benedetto XVI, infatti, a ricordare spesso che «chi lascia la propria terra lo fa perché spera in un futuro migliore, ma lo fa anche perché si fida di Dio che guida i passi dell’uomo, come Abramo. E così i migranti sono portatori di fede e di speranza nel mondo» (13 gennaio 2013). Oltre al diritto a non emigrare, Benedetto XVI sottolienava «il diritto della persona ad emigrare è iscritto tra i diritti umani fondamentali, con facoltà per ciascuno di stabilirsi dove crede più opportuno per una migliore realizzazione delle sue capacità e aspirazioni e dei suoi progetti» (12 ottobre 2012). E ancora: «Il volto di quanti hanno fame e sete, degli stranieri, di quanti sono nudi, malati o prigionieri, insomma di tutte le persone che soffrono o sono messe da parte; il comportamento che noi abbiamo nei loro confronti sarà dunque considerato come il comportamento che abbiamo nei confronti di Gesù stesso» (20 novembre 2011).

Tante volte Francesco è stato accusato per aver indicato nella storia di Gesù un esempio ai dell’accoglienza ai migranti. Nessuno ha fatto notare che prima di lui, lo aveva detto Benedetto XVI: «anche i genitori di Gesù dovettero fuggire dalla propria terra e rifugiarsi in Egitto, per salvare la vita del loro bambino: il Messia, il Figlio di Dio è stato un rifugiato. La Chiesa, da sempre, vive al proprio interno l’esperienza della migrazione. Affidiamo alla protezione della Vergine Maria tutti i migranti e quanti si impegnano in un lavoro pastorale in mezzo a loro» (16 ottobre 2010).

Siamo di fronte quindi a due forme di disinformazione. La prima è quella di far passare Francesco come un supporter di un’immigrazionismo incontrollato (falsità già smentita), oscurando tutti i passaggi e i discorsi in cui invita invece prudenza, misura, controllo, sicurezza, rispetto della cultura religiosa di chi ospita. La seconda, censurare l’identica posizione del suo predecessore, Papa Ratzinger (nonché quella di Giovanni Paolo II), il quale ripeteva le stesse cose riguardo al fenomeno immigratorio. «Tempi bui ci aspettano», ha commentato recentemente Michele M. Ippolito, direttore de La Fede Quotidiana. «Per quanto mi riguarda ho un’unica certezza: per una parte del mondo cattolico è arrivato il momento di lanciare una battaglia culturale per resistere a questa deriva».

La redazione

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Quel giorno che il prete progressista Panikkar chiese perdono

Se non conoscete Raimundo Panikkar allora questa storia è nuova per voi. Se invece sapete chi è, sarà comunque una novità perché nessuno -ma proprio nessuno- racconta come terminò il cammino terreno di questa icona del progressismo post-sessantottino.

Figlio di una spagnola e di un padre indiano, filosofo e teologo sincretistico, prete sospeso, ex membro dell’Opus Dei, membro del Consejo Superior de Investigaciones Científicas (CSIS) e professore ad Harvard e all’Università della California. Tutto questo fu, in sintesi, Pannikkar.

Ordinato prete cattolico nel 1946, fu uno dei primi sacerdoti dell’Opus Dei. Il suo viaggio in India nel 1955 e il contatto con le dottrine spiritualiste aprì in lui convinzioni radicalmente sincretiste che, ben presto, lo condussero in una personale crisi d’identità («si perse in dettagli della religione indiana: parafrasando il titolo di un suo libro, tra il silenzio di Dio e le risposte del Buddha», ha scritto Armando Torno). «Ho lasciato l’Europa come cristiano, mi sono scoperto indù e torno come buddista, senza aver mai cessato di essere cristiano», una sua famosa citazione. Nel 1961 scriverà uno dei suoi libri più famosi, Il Cristo sconosciuto dell’Induismo, dove afferma: «Appare ovvio che il logos, che era nel Principio e che poi si incarnò nel tempo, non può essere identificato senza qualifiche con Gesù di Nazaret. Gesù è il Cristo, ma il Cristo non può essere identificato totalmente con il figlio di Maria» (p. 31).

Abbandonò l’Opus Dei nel 1966, alternando la sua vita tra l’India e gli Stati Uniti, dove divenne docente di Studi religiosi. Sempre più lontano dalle sue origini, si ritirò a Tavertet, in Catalogna, e il 6 dicembre 1984 contrasse un matrimonio civile, venendo per questo sospeso a divinis dalla Chiesa, che gli tolse la facoltà di esercitare gli ordini sacri. In Occidente divenne un simbolo dell’ingenuo progressismo ribelle, un portavoce -anche a suo discapito- della filosofia new-age e del cattolicesimo disobbediente. Ancora oggi, ad esempio, il teologo Vito Mancuso usa il suo nome per invocare l’abolizione del celibato sacerdotale.

Tuttavia, nel 2005, Pannikkar volle inviare una lettera a Javier Echevarría, responsabile dell’Opus Dei: «La comunione dei santi è una realtà», scrisse. «Mi ricordo di tutti voi. Che Dio ti benedica e ti illumini nel tuo delicato compito». I rapporti con la prelatura si intensificarono negli ultimi dieci anni della sua vita, ricevendo amici di vecchia data, come i sacerdoti Ferran Blasi e Juan Antonio González Lobato. Chi lo incontrava vedeva in Pannikkar una riscoperta e una nostalgia della vocazione e dell’ordinazione sacerdotale, vista da lui come il fatto più importante della sua vita, tanto che avviò una trattativa per una soluzione della sua irregolare situazione canonica. Il suo caso venne studiato da Benedetto XVI.

Il passo decisivo avvenne il 15 febbraio 2008, quando il “prete ribelle” scrisse: «Voglio chiedere pubblicamente il perdono per il cattivo esempio che ho dato nella disobbedienza al celibato. Mi pento sinceramente, accetto e riaffermo umilmente la mia obbedienza alla Chiesa. Annullo tutti i legami che ho a causa del matrimonio contratto». Il 3 aprile 2008 venne revocata la sua sospensione e due anni dopo, a Tavertet, Pannikkar è morì completamente riconciliato con la Chiesa. «Mi sento un prete della Chiesa. E voglio continuare tale comunione fino alla fine». «Era un uomo e un intellettuale con i suoi errori e le sue genialità, ma fedele nei suoi sentimenti verso la Chiesa», ha ricordato il suo amico don Ferran Blasi.

La redazione

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Nicaragua, Filippine e Messico: la violenza trova l’ostacolo dei vescovi

Tre paesi al centro delle preoccupazioni internazionali: Nicaragua, Filippine e Messico. Un picco di violenza che mostra la pericolosità di concepire la struttura statale come il supremo cardine della giustizia e della verità.  In mezzo al cammino di questi stati-dei, si è frapposto un ostacolo: la Chiesa.

Quello che sta accadendo in Nicaragua ha qualcosa di incredibile e assurdo. Il presidente Ortega era già stato alla guida del paese nel 1979, e per ben 11 anni ha portato avanti idee sandiniste e marxiste. Tenne per sé il potere senza concedere elezioni, e quando nel 1990 le permise, venne sconfitto. Nel 2006 riuscì a riottenere il potere facendo un accordo col partito conservatore, nonostante la continua concentrazione di potere sulla sua persona e nella sua famiglia, Ortega è riuscito a mantenere la stabilità nel paese con l’aiuto dei finanziamenti del Venezuela.

La situazione è precipitata quando, nel mese di aprile di quest’anno, alla mancata attenzione del governo per un incendio nel sud-est del paese, sono sorte proteste anti-governative. Anche la riforma del sistema previdenziale ha destato parecchi malcontenti nella popolazione che, grazie a questi pretesti, è arrivata a una vera e propria protesta contro il presidente, che ha reagito sopprimendo con violenza le proteste. I paramilitari hanno già ucciso diverse persone, tra cui alcuni studenti che manifestavano il loro dissenso. La sollevazione ha quindi coinvolto l’intero paese e la reazione del presidente Ortega e della moglie, vicepresidente è stata trasformarsi in un governo di stampo dittatoriale. Le vittime hanno superato i 300 morti, senza contare il numero di feriti. Per giustificare le sue azioni, Ortega sta accusando i detrattori di essere complici di un golpe, fomentato dagli USA e dalla stessa Chiesa Cattolica.

Proprio contro quest’ultima c’è un particolare accanimento. Il rapporto con i vescovi, prima di questi ultimi mesi, aveva visto in realtà una certa stabilità: lo stesso Ortega aveva ottenuto l’appoggio della Chiesa nel 2006, che in cambio chiese l’abolizione della legge sull’aborto terapeutico. Ma oggi la Conferenza Episcopale sta apertamente contrastando il governo e i paramilitari sono arrivati a sparare contro gli edifici sacri, ad aggredire vescovi e sacerdoti e profanare i tabernacoli. Il cardinale José Brenes Solorzano, primate del Paese, ha cercato a lungo il dialogo con il governo ma si è arreso davanti al ricorso di una violenza mai vista nel Paese. La Chiesa è rimasta l’unica istituzione ad opporsi al dittatore, radunando il suo popolo nella preghiera e nel digiuno, invocando l’intervento della comunità internazionale. Anche Papa Francesco ha fatto sentire la sua vicinanza ai vescovi nicaraguensi.

Anche dall’altra parte del mondo i vescovi sono chiamati ad un’azione coraggiosa di resistenza: il presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, in questi ultimi due anni ha dato tali dimostrazioni di forza da far attirare l’attenzione di mezzo mondo su di lui. Alla guida del paese dal 2016, sta combattendo la guerra alla droga ricorrendo a violenza e omicidi, non lesinando la sua lingua tagliante a chi si oppone ai suoi tirannici metodi, tra cui l’alleato americano e un gran numero di capi di stato.  Nel 2016 la Conferenza Episcopale non guardava con favore la sua elezione e, anche per questo, Duterte è arrivato ad attaccare i vescovi del paese e la stessa fede cristiana. Dio? Uno stupido, ha dichiarato, chiedendo che se verrò provata la sua esistenza sarà pronto a dimettersi.

Sono già otto i giornalisti uccisi in Messico quest’anno. Anche qui è tanta la violenza che si registra nel Paese e, anche in questo caso, è quella della Chiesa locale la voce che più delle altre si leva lanciando appelli alla società, «per serrare i ranghi e ridurre efficacemente la violenza», come ha scritto il segretario della Conferenza episcopale, mons. Miranda Guardiola. «La Chiesa chiede ai cittadini di non addormentarsi, poiché è necessaria la loro partecipazione impegnata per risolvere i problemi del Paese». Dicendosi poi disposto, a nome dei suoi confratelli, «a collaborare nel processo di riconciliazione proposto dal Presidente eletto, Andrés Manuel López Obrador».

La situazione in questi tre paesi fa riflette sul senso di potere assoluto dello stato moderno. Già con le teorie hegeliane di metà Ottocento e con l’esplosione di queste idee nel Novecento, sappiamo bene a quali mostruosità possano arrivare gli uomini che assumono il potere. La Chiesa Cattolica, la fede cristiana ha sempre rappresentato il grande ostacolo alla causa statalista, ed anche in questi attualissimi casi la storia si conferma.

Luca Bernardi

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