Colonialismo e Chiesa cattolica: sfatata la leggenda nera

La Chiesa cattolica incoraggiò il colonialismo? Si oppose alla riduzione in schiavitù degli indios? I missionari si prodigarono in conversioni forzate? Queste sono alcune delle domande a cui risponderemo in questo dossier, come sempre citando i più accreditati storici e specialisti del tema.

Se infatti, ancora oggi, la Chiesa cattolica riceve accuse e critiche per non essersi opposta energicamente al movimento colonizzatore europeo e alle brutalità commesse dai colonialisti nelle Americhe, dall’altra non pochi storici sostengono che sia stata l’unica istituzione ad aver alzato la voce in difesa degli indios.

L’eminente storico Eugene D. Genovese, ad esempio, fra i massimi esperti di schiavismo americano, ha scritto: «Il cattolicesimo ha impresso una profonda differenza nella vita degli schiavi. E’ riuscito a creare un’etica nuova ed autentica nella società schiavista americana, brasiliana e spagnola»[1].

 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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1. PRE-COLONIALISMO: LA CHIESA ABOLI’ LA SCHAVITU’ IN EUROPA

Occorre innanzitutto chiarire che il concetto di schiavitù sparì socialmente dopo l’avvento e la diffusione del cristianesimo. In particolare, come hanno spiegato due importanti storici francesi (di cui una, Andreau, direttrice dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales), «è nel corso dell’alto medioevo che si sono prodotti i cambiamenti più importanti e che si è definitivamente usciti, in Europa occidentale, dalla società schiavista» (J. Andreau e R. Descat, “Gli schiavi nel mondo greco e romano”, Il Mulino 2006, p.222).

Sulla scomparsa dello schiavismo, grazie al cristianesimo, è possibile visionare un dossier specifico proprio su questo sito web. Per la fine del X secolo la Chiesa riuscì ad eliminare la schiavitù in gran parte d’Europa: estese a tutti gli schiavi i sacramenti e fece in modo di far proibire la schiavitù per cristiani ed ebrei, tanto da ottenerne un’abolizione totale nelle terre dei re cristiani[10].


 
 

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2. I COLONIZZATORI FURONO “STATI CATTOLICI”?

Molto spesso, il fatto che paesi colonizzatori come Spagna, Francia, Portogallo ecc.. fossero ritenuti “cattolici”, ha portato molti a rivolgere le accuse alla religione piuttosto che verso la politica dei sovrani laici. Eppure il XVI secolo fu un momento difficile per la Chiesa: buona parte del Nord Europa, dall’Olanda all’Inghilterra, la Chiesa era quasi distrutta dalla riforma protestante e anglicana. I grandi intellettuali del tempo, inoltre, dagli eretici come Wycliff che invitava ad impadronirsi dei beni della Chiesa, a Macchiavelli, a Tyndale ecc., erano “fautori di Cesare” e soltanto di lui, lo Stato cominciava ad essere assolutizzato, divinizzato (il “dio visibile” di Thomas Hobbes), ad accentrare la maggioranza dei poteri.

La corona inglese, di fronte ai mercanti di schiavi neri e alla politica aggressiva e tesa unicamente al guadagno e alla conquista delle terre dei coloni-cowboys inglese, che porterà al genocidio dei pellerossa, non farà mai nulla e non ci sarà quasi mai nessuno, sino all’Ottocento, ad ostacolarla, a ricordare i diritti di neri e indigeni. Del resto chi protestasse sapeva di rischiare la morte, come avvenne con Tommaso Moro e tutti i cattolici, e non solo, che non hanno voluto seguire Enrico VIII. Inghilterra e Olanda, due stati in cui la Chiesa cattolica e il suo potere religioso sono ridotti a zero, forniranno per secoli i colini più duri e spietati e i mercanti di neri più attivi: sarà l’assoluta mancanza di scrupoli e il triangolo degli schiavi a nutrire il capitalismo anglosassone e a fare dell’Inghilterra lo stato più forte d’Europa a partire dalla fine del Cinquecento. «A metà del Settecento», nota lo storico della filosofia Domenico Losurdo, «è la Gran Bretagna a possedere il maggior numero di schiavi (878.000)» (D. Losurdo, “Controstoria del liberalismo”, Laterza 2006, p. 16,37).

In Francia, dove il gallicanesimo diventava ogni giorno più forte, i sovrani si erano arrogati la gran parte delle nomine di vescovi, abati e alte cariche ecclesiastiche, e al Papa spettava solo il compito di ratificare decisioni già prese. Ad esempio il Concordato di Bologna (1516) concedeva al re francese Francesco I il diritto di designare tutte le alte cariche della Chiesa, ottenendo così il completo controllo delle propietà e delle rendite della Chiesa. Diversi storici, come ad esempio Rodney Stark della Baylor University o lo studioso britannico Owen Chadwick, hanno spiegato che dipingere i poteri politici sottomessi al volere dei vescovi è una classica falsità storica nata in ambito protestante.

Anche negli altri stati non riformati, come la Spagna, esisteva lo stesso problema: la Chiesa aveva poca voce in capitolo e i sovrani aderivano formalmente al cattolicesimo perché avevano già imposto al papa delle condizioni a loro molto favorevoli. Ferdinando I d’Asburgo (1503-1564) e Isabella di Castiglia (1451-1504), ad esempio, riuscirono a far concordare il papa sull’illegalità della pubblicazione delle sue bolle e dei suoi decreti senza il previo consenso reale o dei possedimenti del regno. Sotto Carlo V d’Asburgo (1500-1558), re di Spagna e Imperatore del Sacro Romano Impero, la subordinazione della Chiesa crebbe ancora di più e il re ottenne anche un terzo delle decime pagate alla Chiesa. «Questi accordi -scrive Rodney Stark- svolsero un ruolo fondamentale nel far rimanere cattoliche Spagna e Francia, ma resero la Chiesa dipendente dallo Stato. Ciò ebbe disastrose conseguenze quando il papa cercò di prevenire l’introduzione della schiavitù nel Nuovo Mondo»[7]. In ogni caso, le cifre dimostrano che la colonizzazione spagnola fu molto meno cruenta di quella inglese, «mentre i pellerossa superstiti nel Nord America si contano a poche migliaia, nell’America ex-spagnola ed ex-portoghese», ha spiegato Roberto Ivaldi, esperto in storia del colonialismo, «la maggioranza della popolazione o è ancora di origine india o è il frutto di incroci di precolombiani con europei e (sopratutto in Brasile) con africani». Se negli attuali Stati Uniti la popolazione indigena è quasi sparita, nel Sud America «quasi il 90% della popolazione o discende direttamente dagli antichi abitanti o è il frutto di incroci tra indigeni e nuovi arrivati […] i quali hanno creato una cultura e una società nuove, dalle caratteristiche inconfondibili» (R. Ivaldi, “Storia del colonialismo”, Newton 1997, p. 19-20). Il matrimonio misto tra spagnoli ed indigeni, all’epoca della Conquista, fu normale e frequente, cosa che non avverrà mai nelle colonie inglesi, dove la separazione razziale rimarrà sempre quasi assoluta, come lo è tutt’oggi. Secondo l’Enciclopedia Treccani, «la differenza è dovuta in parte al minor pregiudizio di razza, che permette agli Spagnoli più frequenti e relativamente cordiali rapporti coi neri, aiutati anche dall’opera dei preti cattolici, i quali assai più dei pastori evangelici favoriscono i battesimi, i matrimoni, le manomissioni dei neri».

Già all’epoca della scoperta dell’America, la regina cattolica Isabella di Castiglia, ben diversamente da Elisabetta (che si circondò di pirati e negrieri, come John Hawkins e Francis Drake), chiede rispetto per gli indigeni: il 16 settembre 1501 Isabella firma a Granada una Istruzione per il governatore delle Indie, Nicolas de Ovando, affinché protegga in ogni istante i diritti degli indigeni dai soprusi spagnoli, invitando poi a convertire quei popoli «senza esercitare su di loro alcuna costrizione» (J. Dumont, “La regina diffamata”, Sei 1992, p. 125). Il 30 ottobre 1503, in una lettera recentemente ritrovata, scrive: «sappiate che il re nostro signore e io […] abbiamo ordinato che nessuna delle persone da noi mandate a dette terre osino prendere o catturare alcun indios per essere portano nei miei regni, né per essere portato in nessuna altra parte e che non venga fatto nessun danno a persone o a beni, e chiediamo che tutti gli indios che sono stati catturati vengano rimessi in libertà» (citata in “30 Giorni”, aprile 1991). Simile la posizione di Carlo V si impegnò a fondo a impedire soprusi e violenze, confermando incarichi e onori, politici ed ecclesiastici, a Bartolomeo de Las Casas, emanando le Leyes Nuevas e invitando i suoi sudditi a rispettare la libertà degli indiani: «Le anime degli indiani non devono essere salvate con la forza. Bisogna evitare i sacrifici umani e il cannibalismo; le immagini degli idoli e i templi devono essere distrutti. Il Dio nostro Signore ha creato gli indiani come uomini liberi, non schiavi […]. Tra la Spagna e gli schiavi è permesso solo il libero scambio. E’ vietato, pena severe condanne, portare via agli indiani ciò che loro appartiene, niente deve cambiare di proprietario senza adeguato compenso. Dobbiamo andare loro incontro nello spirito dell’amore e dell’amicizia» (citato in O. von Hasburg, “Carlo V”, Ecig 1993, p. 253).

Esistono «tante disposizione destinate alla protezione degli indigeni che fanno onore alla legislazione coloniale spagnola» (M.M. Lot, Bartolomeo de Las Casas e i diritti degli indiani, Jaca Book 1985, p. 166). In generale, «l’amministrazione spagnola», ha scritto lo storico Eduard Fueter, «si manteneva neutrale e forse si mostrava persino incline a tutelare i discendenti degli abitanti indigeni contro i discendenti dei conquistadores», mentre nelle colonie inglesi, «i resti delle tribù indiane non avevano alcuna importanza numerica e gli schiavi neri, del tutto privi di libertà, non avevano alcun peso politico» (E. Fueter, “Storia universale degli ultimi cent’anni”, Einaudi 1947). In “Storia del mondo moderno”, della Cambridge University (Garzanti 1982, p. 759), si legge: «Bisogna rendere atto al rispetto spagnolo per la libertà e per la legge se ai tempi di Carlo Vi -un grande re e un grande autocrate-, circolavano liberamente, senza suscitare scandalo, trattati in cui si denunciavano gli eccessi dei conquistadores […], si criticava l’intera impresa delle Indie». E si definisce l’imperialismo spagnolo «equilibrato, coscienzioso, prudente».

 
 

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3. 1430, IMMEDIATE OPPOSIZIONI AL COLONIALISMO: EUGENIO IV E PIO II

Nel 1430, appena la schiavitù riemerse anche in Europa, papa Eugenio IV (1383-1487) indirizzò subito alle autorità religiose delle isole Canarie la bolla “Sicut Dudum” (1435) con la quale, in modo netto e senza ambiguità, condannò la schiavitù delle popolazioni indigene e, sotto pena di scomunica, concesse a chi era coinvolto nello schiavismo, 15 giorni dalla ricezione della bolla, per «riportare alla precedente condizione di libertà tutte le persone di entrambi i sessi una volta residenti delle dette Isole Canarie, queste persone dovranno essere considerate totalmente e per sempre libere («ac totaliter liberos perpetuo esse») e dovranno essere lasciate andare senza estorsione o ricezione di denaro»[12].

Il 7 ottobre 1492, anche papa Pio II (1405-1464) attraverso la lettera “Rubicensem”, ricordò al vescovo della Guinea portoghese che la schiavitù è un «un grande crimine» («magnum scelus»)[13].

 
 

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4. 1500-1900: LA CHIESA IN DIFESA DEGLI INDIGENI

Dal 1500 in poi la storia è costellata di uomini, pontefici, vescovi e sacerdoti cattolici che usarono la loro vita per difendere le popolazioni indigene e creare un’etica morale nei colonizzatori. Ne elenchiamo solo alcuni:

Paolo III. Il 2 giugno 1537, papa Paolo III (1468-1549), scontrandosi con le autorità laiche, emanò la memorabile bolla “Veritas Ipsa” (conosciuta anche come “Sublimis Deus”), con la quale spazzò via tutti gli appetiti schiavistici sulle popolazioni del Nuovo Mondo, proclamando che “Indios veros homine esse” e scomunicando tutti coloro che ridurranno in schiavitù gli indios o li spoglieranno dei loro beni (in realtà lo fece già nella lettera al Cardinale di Toledo del 29 maggio 1537). Condannò le tesi razziste, riconobbe agli indiani, cristiani o no, la dignità di persona umana, e avanzò il divieto di ridurli in schiavitù. Il papa definì i coloni dei “violenti” e i portatori di potenti interessi coloniali addirittura «manutengoli di Satana, desiderosi di soddisfare la loro avidità, e costringere gli Indios occidentali e meridionali e altri popoli, che ci sono venuti a conoscenza in questi ultimi tempi, a servirli come fossero animali bruti, sotto il pretesto che non hanno la fede. Con l’autorità apostolica e attraverso questo documento stabiliamo e dichiariamo che i predetti Indios, e tutti gli altri popoli, anche se non appartenenti alla nostra religione, non si possono privare della libertà e del dominio della loro proprietà, e che è lecito ad essi godere della loro libertà e dei loro beni e acquisirne, né che si debbono ridurre in schiavitù. Se qualche cosa sarà fatta in contrario dichiariamo nulla e invalida alla detta fede in Cristo»[20]. Gli storici ritengono che la bolla abbia avuto un forte impatto sul “dibattito di Valladolid” e che questi principi divennero la posizione ufficiale di Carlo V del Sacro Romano Impero e re di Spagna[21]. Secondo molti studiosi la bolla di Paolo III servì ed ebbe l’effetto di annullare tre bolle precedenti, quelle di papa Niccolò V, la “Dum Diversas” (1453) e la “Romanus Pontifex (1455) e quella di papa Alessandro VI, la “Inter Caetera” (1493), attraverso le quali si autorizzavano formalmente le conquiste coloniali e la schiavitù[22]. Questi pontefici, comunque, fecero vergognare la Chiesa anche per molte altre azioni immorali, contro la tradizione cristiana, il celibato sacerdotale e la dottrina della Chiesa stessa. Vennero presto dimenticati e le loro tombe praticamente ignorate.

De Montesinos. Nel 1510, il frate domenicano Antonio de Montesinos (1475-1540), fu assieme a frate Pedro de Córdoba (1482-1521) uno dei primi religiosi ad essere spedito nel Nuovo Mondo, approdando sull’isola di Hispaniola. Ben presto venne a conoscenza della condizione degli indiani e del trattamento disumano ricevuto da parte dei coloni e decise così di denunciare immediatamente e pubblicamente tutte le forme di riduzione in schiavitù e l’oppressione dei popoli indigeni delle Americhe[14]. Sono rimasti famosi i suoi sermoni del 21 e 28 dicembre 1511: «Allo scopo di farvi conoscere i vostri peccati contro gli Indiani sono venuto su questo pulpito, io che sono la voce di Cristo che grida nel deserto di quest’isola e perciò dovete ascoltarla. Questa voce dice che voi siete in peccato mortale, che voi vivete e morite nel peccato mortale, a causa della crudeltà e della tirannia che voi usate nel trattare con queste genti innocenti. Ditemi, per quale diritto o giustizia tenete questi Indiani in tale crudeltà e orribile schiavitù? Sulla base di quale autorità avete dichiarato una guerra detestabile a questa gente, che viveva tranquillamente e pacificamente nella propria terra? Quanta conoscenza avete voi conquistatori sulla dottrina e sul Dio creatore? Sul battesimo, sul partecipare alla messa e santificare le feste e la domenica? Non sono uomini questi? Non hanno anime razionali? Non siete tenuti ad amarli come amate voi stessi?” State certi che in questo stato non potete salvare nessuno e nemmeno mantenere la fede in Gesù Cristo»[15]. Le forti accuse, il rimprovero verso un comportamento anti-cristiano e la rivendicazione della responsabilità cristiana causarono forte disagio nei conquistatori e nei funzionari che erano presenti, tra cui il governatore Diego Colombo. In molti reagirono contro i monaci, impedendo loro di pronunciarsi nuovamente su questi temi e chiedendo di ritrattare pubblicamente le dichiarazioni. Accadde anche, però, che uno dei più arrabbiati amministratori presenti, Bartolomé de Las Casas, venne così profondamente colpito da questi sermoni che optò per una vera conversione e divenne il primo ecclesiastico a prendere gli ordini sacri nel Nuovo Mondo. Las Casas diventò nel tempo uno dei più attivi difensori dei diritti dei popoli indigeni d’America[16], ma ne parleremo più sotto.

Il re Ferdinando II d’Aragona, invece, scoperto l’accaduto si lamentò duramente con la congregazione dei domenicani in Spagna e chiese sanzioni per i religiosi sull’isola, minacciando perfino di espellerli. Nel frattempo ai frati vennero negati i mezzi di sussistenza. Nonostante le intimidazioni i Domenicani non si fermarono, sostenendo che la loro dottrina era il risultato dello studio della verità e della lettura del Vangelo. Il re arrivò così ad annunciare che nessun religioso avrebbe più messo piede sull’Isola[17]. De Montesinos decise di tornare nuovamente in Spagna col proposito di informare le autorità reali sulla vera situazione dei popoli indigeni e sui motivi che lo avevano spinto a predicare così duramente. Re Ferdinando ordinò al suo Consiglio di esaminare approfonditamente le questione e convocò una commissione di teologi e giuristi (il “Consiglio di Burgos”). I frutti di questo studio furono la promulgazione della Leggi di Burgos (1512), primo codice di ordinanze per la protezione delle popolazioni indigene (verrà rispettato molto poco), nel quale si prevedeva che il re di Spagna aveva titoli di padronanza del Nuovo Mondo, ma senza il diritto di sfruttare l’indiano, il quale era un uomo libero e poteva possedere sue proprietà. Si limitarono inoltre le richieste lavorative che i coloni spagnoli potevano avanzare, le donne in gravidanza furono esentate dal lavoro, fu proibita ogni tipo di punizione, si obbligò al rispetto delle autorità locali, aumentarono le condizioni igieniche ecc. Si ordinò anche l’obbligo di catechizzare gli indios e venne condannata la bigamia. Come già detto, quest’obbligo era dovuto sopratutto a causa dei cruenti riti sacrificali che gli indigeni praticavano continuamente a causa della loro religione, con tanto di cannibalismo e incisione delle vertebre dei bambini[18]. Per perpetuare la memoria di frate De Montesinos e ricordare la sua lotta per la giustizia per gli indigeni del Nuovo Mondo, venne creata una grande statua in suo onore nella città di Santo Domingo (Repubblica Dominicana)[19]

Francesco da Vitoria. Frate Francesco da Vitoria (o Francisco De Vitoria) (1492-1546), conosciuto nel suo paese come il “Socrate spagnolo”, si preoccupò subito di elaborare le basi teologiche e filosofiche in difesa dei diritti umani delle popolazioni indigene colonizzate, divenendo così uno dei fondatori del “diritto internazionale” che regola i rapporti tra le nazioni[23] e fondatore della filosofia politica globale[24]. Lo storico Francesco Maria Feltri, dell’Università di Modena, ha scritto che Da Vitoria spinse «la Corona a prendere una serie di provvedimenti destinati a migliorare la condizione degli abitanti indigenti del Nuovo Mondo», con l’effetto che in Perù, «i coloni spagnoli arrivarono persino a ribellarsi al re, che cercava di porre dei limiti al feroce sfruttamento che essi praticavano nei confronti degli indios» (F.M. Feltri, “I giorni e le idee”, Torino 2002, Vol I, p.195). Vennero così consolidati i diritti degli indios, tra i quali la nativa libertà, la loro dignità umana, la capacità giuridica e il diritto di rifiutare la conversione. Le sue opinioni (e quelle del vescovo Las Casas) vennero ascoltate da un tribunale spagnolo nel 1542 e vennero così promosse le Leyes Nuevas (1542), che misero gli indiani sotto la diretta protezione della Corona (ne parleremo più sotto).

Bartolomé de Las Casas. Il vescovo cattolico spagnolo Bartolomé de Las Casas (1484–1566) è stato ufficialmente nominato “Protettore degli Indios”[25]. Trascorse infatti 50 anni della sua vita a combattere attivamente la schiavitù e l’abuso violento dei colonizzatori verso le popolazioni indigene. In particolare cercò di convincere le autorità spagnole ad adottare una politica più umana di colonizzazione. I suoi sforzi hanno portato diversi miglioramenti dello status giuridico degli indigeni e una maggiore attenzione sull’etica del colonialismo. Las Casas è spesso visto come uno dei primi sostenitori dei diritti universali dell’uomo[26]. Subito dopo la conversione, avvenuta -come già accennato- ascoltando i sermoni di frate Antonio di Montesinos a favore della libertà e dignità degli Indios nel Nuovo Mondo, entrò nel 1515 nell’ordine domenicano ed iniziò immediatamente la sua instancabile battaglia a favore degli indigeni: condannò senza eccezioni il colonialismo, il sistema dell’encomienda e l’espansionismo degli europei, viaggiò nelle terre americane e attraversò molte volte l’oceano per portare in Spagna le sue proteste. Nei suoi testi, Las Casas offre una puntuale descrizione delle qualità fisiche, morali e intellettuali degli indios, finalizzata alla difesa dell’umanità degli abitanti del Nuovo Mondo, contro la tesi della loro irrazionalità e bestialità avanzata da altri suoi contemporanei, soprattutto di cultura umanista[27]. Condannò la violenza e l’imposizione, ma non la proposta, del cristianesimo. Anzi, proprio dal cristianesimo Las Casas trasse quella spinta universalistica e quell’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini che ne animano l’opera e che lo spingeranno a denunciare anche le violenze dei portoghesi in terra d’Africa[28]. Il religioso riuscì ad influenzare l’imperatore Carlo V, il quale -lo abbiamo già detto- promulgò le Leyes Nuevas (1542): divieto di schiavizzare gli indiani e abolire l’encomienda, buon trattamento degli indiani, divieto di lavorare senza la propria volontà e senza il risarcimento dovuto ecc. Quando poi sostanziosi numeri di schiavi africani vennero introdotti nelle regioni spagnole del Nuovo Mondo -ha spiegato lo storico Anthony Gill dell’Università di Washington-, vescovi locali riuscirono a far accettare alla corte spagnola il Còdigo Negro Espanol (Codice Nero Spagnolo, o anche The Black Code), che mitigò in gran parte le effettive condizioni di schiavitù[29]. I successori di Las Casas, nominati “Protettori degli Indios”, furono: il frate domenicano Julián Garcés (1452-1542), il vescovo Francisco Marroquín (1499-1563), Hernando de Luque (1483-1532) ecc[30]. L’opposizione della Chiesa e dei suoi vescovi riuscì a limitare l’impudente schiavitù dei nativi anche grazie al fatto che, come ha osservato Herbert S. Klein, storico della Columbia University, «il basso clero, soprattutto a livello di parrocchie, metteva regolarmente in pratica queste norme» (H.S. Klein, Anglicanism, Catholicism and the Negro Slave, in L. Foner e E.D. Genovese, Slavery in the New World, Prentice-Hall 1969, p. 145), riferendosi appunto al Code Noir (Codice nero) e al Codigo Negro Espanol.

Gregorio XIVI. In un decreto datato 18 aprile 1591, papa Gregorio XIV (1535-1591) ordinò che i nativi delle Filippine, costretti in schiavitù dagli europei, fossero lasciati liberi e, sotto pena di scomunica, comandò che si interrompesse la tratta degli schiavi[31].

Ordine della Santissima Trinità. Nel 1599, papa Clemente VIII (1536-1605) approvò la Congregazione dei fratelli riformati e scalzi dell’Ordine della Santissima Trinità, istituita per osservare la Regola di San Giovanni di Matha in tutto il suo rigore. Giovanni di Matha (1150-1213) fondò infatti nel XII° secolo un nuovo progetto di vita religiosa nella Chiesa, concentrandosi sull’opera di liberazione dalla schiavitù, in particolare il riscatto dei cristiani caduti prigionieri dei mori (il nome per intero è Ordine della Santissima Trinità e redenzione degli schiavi). L’ordine esiste ancora oggi e da quando è stato fondato ha riscattato circa 900.000 schiavi. I trinitari nel XVI e XVII secolo riuscirono anche a costruire degli ospedali per gli schiavi a Tunisi e ad Algeri[32].

Battaglia di Mbororè: Gesuiti e Nativi contro i colonialisti europei. Dopo la fondazione del Collegio di San Paolo di Piratininga nell’attuale Brasile (1554), che originò il nucleo attorno al quale sarebbe sorta la città di San Paolo, arrivarono dall’Europa avventurieri, disertori e naufraghi per sfruttare a fondo il nuovo territorio. Il bisogno di manodopera a basso costo crebbe notevolmente e i coloni cominciarono ad organizzare delle bandeiras, cioè vere e proprie spedizioni per catturare schiavi indigeni. Si spinsero fino nell’attuale Paraguay, proprio mentre i padri Gesuiti iniziavano la loro opera di evangelizzazione degli indios guaraní. Lo scopo delle missioni, chiamate “riduzioni”, era quello di creare una società con i benefici e le caratteristiche della società cristiana europea, però priva dei vizi e degli aspetti negativi. In meno di tre generazioni gli indigeni delle “Riduzioni” si svilupparono enormemente (come abbiamo già detto all’inizio). I nativi erano liberi da ogni servitù, vennero create chiese, case per le vedove e gli orfani e scuole. Il governo civile era gestito dagli indigeni stessi, mentre l’amministrazione della giustizia restava a carico dei gesuiti. I reati erano rari e di conseguenza le pene minime. Non si ricorreva quasi mai alla prigionia o a condanne all’esilio, ritenuta la somma disgrazia. Ogni famiglia riceveva un terreno, ereditario, che forniva il sostegno principale, le altre aree erano “proprietà di Dio” i cui frutti spettavano alla comunità. Nei villaggi i missionari introdussero nuove tecniche di agricoltura e di allevamento del bestiame, insegnarono elementi di architettura, scultura, pittura, incisione, poesia, musica, teatro, oratoria e scienze. L’educazione laica e religiosa era considerata indispensabile. I Gesuiti migliorarono la lingua guaranì creando una scrittura con caratteri latini e produssero opere letterarie. Una buona parte degli indigeni fu alfabetizzata in guaranì, castellano e latino. Vennero stampati calendari, tavole astronomiche e spartiti[33].

Tra il 1628 e il 1631 i capi bandeirantes ordinarono diverse incursioni nelle missioni del Guayrá catturando migliaia di schiavi (vennero uccisi o schiavizzati almeno 60.000 indios battezzati). Le incursioni lasciarono una scia di esodi di intere città, migliaia di morti, famiglie distrutte, orfani, vedove e carestie e per i padri gesuiti e i principali cacique (capi tribù dei nativi) non poteva esistere altra soluzione che quella di organizzare una resistenza armata[34]. Nel 1638 i padri Antonio Ruiz de Montoya e Francisco Díaz Taño partirono per la Spagna con l’obbiettivo di informare re Filippo IV dei drammatici eventi accaduti nelle missioni. Il sovrano rispose inviando una Cedola Reale (21 maggio 1640) con la quale permise ai guaraní di usare armi da fuoco per la propria difesa. I Gesuiti fornirono anche istruzione militare agli indigeni, grazie a religiosi ex militari (Juan Cárdenas, Antonio Bernal e Domingo Torres), formando così un vero e proprio esercito “missionario” di 4.000 elementi armati ed addestrati. Le truppe guaraní attaccarono i bandeirantes a Caazapaguazú, facendoli fuggire precipitosamente[35]. Intanto padre Francisco Díaz Taño, reduce dalle sue ambasciate a Madrid e a Roma, tornò con la bolla pontificia Commissum Nobis (1639) di Urbano VIII, che condannava duramente le bandeiras e il traffico di indigeni (ne parleremo sotto). Ciò comportò la reazione della Camera Municipale di San Paolo, che espulse tutti i gesuiti della città ed organizzò un’ulteriore spedizione contro gli Indios. I missionari crearono un esercito ancora più numeroso, attrezzato ed organizzato. Le forze bandeirantes attaccarono l’11 marzo 1641, nella cosiddetta battaglia di Mbororé, ma si trovarono di fronte un esercito enorme. Si ritirarono definitivamente e la vittoria consolidò le riduzioni gesuite e frenò l’avanzata colonialista portoghese[36].

Questi fatti portarono all’espulsione violenta dell’ordine dei Gesuiti in Portogallo (1759) e in Spagna (1767), quando divennero primi ministri il marchese di Pombale, Carvalho, e il conte di Aranda, entrambi illuministi e massoni. Quest’ultimo addirittura fece rinchiudere nelle carceri portoghesi, lasciandoli morire, «circa 180 gesuiti provenienti dalle missioni» (V. Bangert, Storia della compagnia di Gesù, Marietti 2009, pp. 370-396). Lo storico italiano Franco Cardini ha scritto: «l’esperimento delle “reducciones” non si chiuse per naturale esaurimento». Nel 1750 parte di esse della “repubblica dei guarani” passarono dal dominio spagnolo a quello portoghese, ma «il Portogallo non riconobbe le prerogative dei “papisti” gesuiti, che la Spagna aveva rispettato: l’economia schiavista aveva bisogno di nuova braccia. Così, dopo il disastroso terremoto di Lisbona del 1755, il primo ministro portoghese – l’illuminista marchese di Pombal – additò al suo paese un facile capro espiatorio, la Compagnia di Gesù, che nel 1759 fu espulsa dai confini dell’impero e nel 1773 soppressa. La porta in gioco era ricca e ghiotta. Ci vollero diciannove anni, dal 1750 al 1768, per eliminare del tutto la “repubblica di guaranì”, che i “caccicchi” indios difesero sino all’ultimo. Contro i padri gesuiti si scatenò una ridda infernale di calunnie, appoggiate e finanziate dai coloni spagnoli e portoghesi d’America che avevano interesse a razziare schiavi e dalla potenza britannica che combatteva così il “papismo” e favoriva (ebbene, si!) lo sviluppo dell’economia moderna: che ha anche queste vergognose origini. Non stupisce che il signor di Voltaire ne difendesse i paladini, tra cui gli illuministi francesi, spagnoli e portoghesi: anche lui aveva investito in azioni della “Compagnia del Maranhao” appoggiata dal Pombal» (F. Cardini, Le «riduzioni» in Paraguay? Non erano lager, “Avvenire” 04/05/2000).

Urbano VIII. Nel 1639, come abbiamo già detto, papa Urbano VIII (1568-1644), su richiesta dei gesuiti del Paraguay, emise la bolla Commissum Nobis (1639), riaffermando la scomunica che Paolo III aveva imposto a coloro che erano coinvolti nella tratta degli schiavi e proibendo di «di ridurre in schiavitù gl’Indiani occidentali o meridionali; venderli, comprarli, scambiarli o donarli: separarli dalle mogli e dai figli; spogliarli dei loro beni; trasportarli da un luogo ad un altro; privarli in qualsiasi modo della loro libertà; tenerli in schiavitù; favorire coloro che compiono le cose suddette con il consiglio, l’aiuto e l’opera prestati sotto qualsiasi pretesto e nome, o anche affermare e predicare che tutto questo è lecito, o cooperare in qualsiasi altro modo a quanto premesso»[37]. La bolla suscitò nei governanti e negli schiavisti una tale reazione da spingere all’espulsione dei Gesuiti dal Paese. Nel Nuovo Mondo, i vescovi locali tutti designati dal re di Spagna (come si è detto all’inizio) non appoggiavano la posizione di Roma ed inoltre era diventato illegale pubblicare bolle antischiaviste, come qualsiasi altra dichiarazione papale, senza il consenso del re (che non arrivò mai). Quando i gesuiti lessero illegalmente in pubblico la bolla di Urbano VIII, a Rio de Janeiro si scatenò una rivolta che provocò il saccheggio del loro collegio locale e il ferimento di diversi sacerdoti. A Santos, la folla travolse il vicario generale gesuita quando tentò di pubblicare la bolla. Nel 1767 i gesuiti vennero brutalmente espulsi dal Nuovo Mondo per aver continuato a opporsi alla schiavitù e aver dato vita, con successo, a comunità di nativi notevolmente avanzate[38].

Benedetto XIV. Nel 1741, papa Benedetto XIV (1675-1758) emanò la bolla Immensa Pastorum, contro l’asservimento dei popoli indigeni delle Americhe e di altri paesi[39].

Soppressione dei Gesuiti. Nel 1773 la Compagnia di Gesù venne soppressa da Clemente XIV, condizionato da fortissime pressioni spagnole e da notizie false sui gesuiti. Come ha ricostruito lo storico Claudio Ferlan nel libro “I gesuiti”recensito ottimamente dal Paolo Mieli- nelle città schiaviste in mano ai portoghesi le missioni di aiuto dei gesuiti ai nativi divennero assai impopolari, tanto che essi vennero espulsi dal Brasile e dal Portogallo e contro di loro iniziarono «una serie di provvedimenti antigesuitici preceduti da un’articolata campagna diffamatoria alimentata da libelli accusatori pubblicati e diffusi in buona parte d’Europa proprio con il sostegno del primo ministro portoghese». La guerra ai gesuiti iniziò, infatti, non in Occidente ma in America Latina a causa della loro ostilità allo schiavismo.

Pio VII (1742-1823). Al Congresso di Vienna del 1815, papa Pio VII chiese la proibizione del commercio di schiavi.

Gregorio XVI. Nel 1839, papa Gregorio XVI (1765-1846) emanò la bolla In Supremo Apostolatus, ricollegandosi ai suoi predecessori nella condanna verso la schiavitù e la tratta degli schiavi. Affermò che sia gli Indiani sia i Negri erano creature umane, e che presso Dio non esiste discriminazione: «Con la Nostra Apostolica autorità ammoniamo e scongiuriamo energicamente nel Signore tutti i fedeli cristiani di ogni condizione a che nessuno, d’ora innanzi, ardisca usar violenza o spogliare dei suoi beni o ridurre chicchessia in schiavitù, o prestare aiuto o favore a coloro che commettono tali delitti o vogliono esercitare quell’indegno commercio con il quale i Negri vengono ridotti in schiavitù, quasi non fossero esseri umani, ma puri e semplici animali, senza alcuna distinzione, contro tutti i diritti di giustizia e di umanità, destinandoli talora a lavori durissimi. Noi, ritenendo indegne del nome cristiano queste atrocità, le condanniamo con la Nostra Apostolica autorità: proibiamo e vietiamo con la stessa autorità a qualsiasi ecclesiastico o laico di difendere come lecita la tratta dei Negri, per qualsiasi scopo o pretesto camuffato, e di presumere d’insegnare altrimenti in qualsiasi modo, pubblicamente o privatamente, contro ciò che con questa Nostra lettera apostolica abbiamo dichiarato»[40].

Charles Lavigerie e Leone XII. Nel 1888 il cardinale Charles Lavigerie (1825-1892) fondò a Bruxelles, con l’appoggio di papa Leone XII, l’associazione Anti-Slavery Society per fornire un sostegno economico agli antischiavisti e in particolare finanziare quattro spedizioni militari per combattere i commercianti di schiavi arabi che operavano nel territorio orientale del Congo[41]. Sempre nel 1988, Papa Leone XII (1760-1829) scrisse inoltre a tutti i vescovi del Brasile affinché eliminassero completamente la schiavitù dal loro paese.

Giovanni XXIII. Una chiara e definitiva posizione contro il neocolonialismo venne infine offerta anche da Giovanni XXIII (1881-1963) attraverso l’enciclica Mater et Magistra (1961), diventata poi un pilastro della Dottrina sociale della Chiesa cattolica.

Nel 2015 Papa Francesco ha ricordato al mondo l’esempio di Fra Junípero Serra durante la cerimonia per la sua beatificazione, uno dei missionari che «portarono il Vangelo al Nuovo Mondo e al tempo stesso difesero gli indigeni contro i soprusi dei colonizzatori».

 

La voce della Chiesa rimase inascoltata.
Nonostante tutte queste iniziative, la Chiesa venne poco ascoltata e la pubblicazione di questi documenti di condanna della schiavitù portarono a tumulti e all’assalto di chiese e monasteri, da parte di coloro che vedevano nella Chiesa un ostacolo ai loro lucrosi traffici. «In questo periodo i papi godevano di ben poco potere tra spagnoli e portoghesi. Gli spagnoli comandavano su gran parte dell’Italia e nel 1527 avevano persino saccheggiato Roma», spiegò infatti l’eminente storico Kenneth Scott Latourette, presidente dell’American Historical Association. «In base al trattato che ne conseguì, fu dichiarato illegale persino pubblicare i decreti papali in Spagna o nei possedimenti spagnoli senza l’approvazione del re, e il re di spagna nominava tutti i vescovi spagnoli. Quando, a Rio de Janeiro, i gesuiti lessero pubblicamente una bolla papale contro la schiavitù, una folla inferocita attaccò il locale collegio dei gesuiti e ferì molti sacerdoti. Quando poi un tentativo analogo di pubblicizzare la condanna papale della schiavitù venne fatta a Santos, i gesuiti furono espulsi dal Brasile. Infine, tutti i gesuiti furono violentemente cacciati dall’America Latina e successivamente dalla Spagna» (K.S. Lotourette, A History of Christianity, vol. 2, HarperSanFrancisco 1975, p. 944).

I documenti papali, molto spesso vennero occultati e boicottati. «Molti vescovi locali», ha osservato il sociologo Rodney Stark in La vittoria della ragione (Lindau 2006, p. 299-300), «designati dal re di Spagna, non appoggiavano la posizione di Roma». Tuttavia «la continua pressione della Santa Sede portò almeno all’emanazione nel XVIII secolo di codici sul modo di trattare gli schiavi, come il Code Noir francese e il Còdigo Negro Espanol», i quali mitigarono in gran parte le effettive condizioni di schiavitù. Lo storico Rosario Romeo, rettore dell’Università Luiss di Roma, ha scritto: «L’elemento religioso contribuì all’ampliamento della coscienza europea con l’appello all’immediato sentimento cristiano della carità e della giustizia contro gli orrori perpetrati dai conquistadores nelle terre americane […]. Anche nella stessa Spagna non mancarono, fin dall’inizio, scrupoli religiosi: e ne fanno fede, ad esempio, i dubbi della regina Isabella nella questione della vendita di indiani come schiavi; l’impegno della maggioranza del clero in difesa degli indigeni, che diede luogo a vivaci conflitti nelle colonie; le perplessità, persino, di Hernàn Cortés, che nel suo testamento raccomandava ai propri eredi di liberare gli schiavi […]. Interventi non mancarono neanche, com’è noto, da parte dell’autorità pontificia» (R. Romeo, Le scoperte americane nella coscienza italiana del Cinquecento, Laterza 1989, p. 39-53).

L’effetto di tali “intromissioni” da parte della Chiesa non riuscì ad eliminare il male, ma lo limitò. «Anche se nel Nuovo Mondo le bolle contro la schiavitù furono ignorate, gli sforzi della Chiesa cattolica portarono ad un trattamento degli schiavi meno brutale nei Paesi cattolici che in quelli protestanti» (R. Stark, Il trionfo dell’Occidente, Lindau 2014, p. 353). Lo storico della Chiesa, Fidel González Fernández, ha osservato infatti che i Paesi protestanti, contrariamente a quanto si pensa, furono i maggiori organizzatori della tratta degli schiavi. Inoltre, le colonie inglesi e olandesi non avevano regolamenti circa il trattamento degli schiavi e i padroni, riferisce lo storico Robert William Fogel, premio Nobel e docente di Harvard, «potevano esercitare violenza illimitata per imporre il lavoro» (R.W. Fogel, Without Consent or Contract: The Rise and Fall of American Slavery, W.W. Norton 1989, p. 36). Il tasso di mortalità degli schiavi era significativamente più elevato nelle colonie protestanti che in quelle cattoliche (cfr. P.D. Curin, The Atlantic Slave Trade: A Census, University of Wiscoins Press 1969).

 
 

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5. EVANGELIZZAZIONE E CONVERSIONI FORZATE NEL NUOVO MONDO?’

E’ sicuramente vero che la Chiesa, constatando di non essere particolarmente ascoltata, tentò perlomeno di condizionare il colonialismo per creare un’etica di aiuto e sostegno, invece che di depauperamento dei territori e delle popolazioni colonizzate.

Tuttavia il messaggio cristiano venne spesso imposto e non proposto da parte di molti coloni. Un torto, comunque, in parte giustificato dal fatto che i colonizzatori europei trovarono popolazioni totalmente sottomesse al capriccio dei loro pretenziosi e crudeli dèi: è stato dimostrato, ad esempio, che il popolo Azteco smise di praticare sacrifici umani e altre violente forme autoctone di culto proprio grazie alla conversione cristiana di molti dei suoi membri (inizialmente, forzata o meno che fosse)[3].

La storica e antropologa australiana Inga Clendinnen, considerata un’autorità internazionale della civiltà azteca, nel suo famoso libro Aztecs: An Interpretation (Cambridge University Press 1991) ha scritto: «Dispiacersi della scomparsa dell’impero azteco è come rammaricarsi della sconfitta dei nazisti nella seconda guerra mondiale».

La Clendinnen -autrice anche di un libro sull’olocausto nazista (considerato il libro migliore del 1999 dal New York Times)- ha spiegato infatti che il sistema di sterminio nazista era decisamente più soft delle centinaia di sacrifici umani quotidiani che avvenivano a Tenochtitlán, capitale azteca. «Le persone», ha proseguito l’antropologa, «venivano coinvolte nella cura e nella preparazione delle vittime e alla dei corpi: lo smembramento, la distribuzione di testa e arti, la divisione di carne, sangue e pelle scorticata». Tutta la cultura azteca era costruita attorno al sacrificio umano di massa. Nel 1487 in occasione dell’inaugurazione del Templo Mayor, ha riportato l’antropologa, il numero di vittime è stato di 20mila in un solo giorno, mentre in giornate di normali festività la media era di 2000 vittime.

Lo stesso si può dire degli Incas e dei Maya: «Ad insanguinare ogni giorno i gradini degli enormi templi era quest’ansia ossessionante di non lasciare finire il mondo, un’ansia che raggiungeva il suo culmine ogni cinquantadue anni, quando la minaccia delle catastrofi si faceva più concreta ed imminente» (dalla prefazione a B. Diaz del Castillo, “La conquista del Messico”, Longanesi 1968).

Le cerimonie con sacrifici umani di massa duravano anche giorni, venivano sacrificati donne, schiavi, bambini e prigionieri per placare gli dèi, per propiziare il raccolto: «I prigionieri di guerra erano l’offerta più stimata e avevano tanto più pregio più erano valorosi […]. Talvolta in occasione dei riti di fertilità furono uccisi donne e bambini, per assicurare la crescita delle piante. Saltuariamente si ebbero casi di cannibalismo cerimoniale. Infliggersi ferite a sangue era un altro modo di assicurare il favore divino. La popolazione faceva orribili penitenze, mutilandosi con lame o trapassandosi la lingua di spaghi cui erano annodate spine» (G.C. Vaillanti, “La civiltà Atzeca”, Einaudi 1962, p. 184-188).

Il condottiero spagnolo Hernán Cortés, nel 1519, sbarcò sulle terre dell’impero atzeco, in Messico e trovò subito l’alleanza di moltissime tribù che decisero di sostenerlo contro la sanguinaria tirannia atzeca, senza il loro appoggio non avrebbe mai vinto alcunché. Cortés fu sì avido di ricchezze, ma nello stesso tempo disgustato dai sacrifici di massa praticati dagli atzechi, sentendosi davvero un liberatore.

Bernal Diaz del Castillo, che accompagnava Cortès, nel 1555 scrisse che «nella piazza [di città del Messico] dove si trovavano le loro cappelle, c’erano pile di teschi sistemati in modo tanto regolare che era possibile contarli, e io ho calcolato che fossero più di centomila […]. In seguito abbiamo avuto modo di vedere molte cose del genere […] perché la stessa usanza fu osservata in tutte le città» (B. Diaz del Castillo, La conquista del Messico, Longanesi 1968). Le descrizioni degli spagnoli sono supportate da affreschi atzechi, dai loro libri sacri e soprattutto dall’archeologia.

Lo storico ed antropologo dell’Università di Harvard, David Carrasco, ha scritto un famoso libro sui sacrifici umani presso gli atzechi dopo aver visto un ripostiglio rituale in cui «resti ossei di 42 bambini giacevano come un caotico rimasuglio di una preziosa offerta del XV secolo agli dei della pioggia» (C. Carrasco, City of Sacrifice: The Aztec Empire and the Role of the Violence in Civilization, Beacon Press 1999, p. 2). L’età media era di 5 anni e le vittime quasi tutte sgozzate, Carrasco osserva che simili sacrifici umani sono stati rintracciati in altri ottanta luoghi diversi della capitale e «donne e bambini erano sacrificati in oltre un terzo delle cerimonie, i sacrifici erano accompagnati da coreografia rituale e compiuti di fronte a grandi folle» (p. 3).

Alle vittime si estraeva il cuore ancora pulsante, la testa mozzata veniva issata su una rastrelliera mentre «il corpo veniva fatto rotolare giù dagli scalini del tempio fino alla base dove era scuoiato e smembrato» (p. 83). I tagli migliori venivano distribuiti ai presenti che li portavano a casa per mangiarli.

L’archeologia, oltre ad aver ritrovato ossa umane cotte e accuratamente scarnificate a conferma della dilagante pratica del cannibalismo, ha smentito coloro che hanno sempre sostenuto che lo scalpo (la pratica dello strappare il cuoio capelluto) sarebbe stato insegnato agli indiani dai colonizzatori inglesi.

«Probabilmente l’esempio più spettacolare di violenza preistorica in Nord America proviene da Crow Creek, nel South Dakota», hanno invece scritto gli storici Michael Haines e Richard Steckel. «Scavi archeologici hanno portato alla luce 486 scheletri in un fossato di fortificazione alla periferia dell’area abitativa. Il sito risale al 1325 d.C. e le analisi hanno rivelato che il 90% degli individui presentano i tagli caratteristici dello scalpo» (A Population History of North America, Cambridge University Press 2000, p. 68).

E’ anche ormai evidente che le civiltà pre-colombiane -a dispetto di tanti racconti fantasiosi- non vivessero affatto in armonia e rispetto nemmeno con la natura, considerando la massiccia deforestazione (una delle ipotesi principali per spiegare la scomparsa dei Maya) e l’esaurimento dei campi: «L’evidenza empirica», ha infatti scritto l’illustre archeologo ambientale Karl Butzer, «contraddice il concetto romantico secondo cui gli indigeni americani disponevano di qualche auspicabile metodo di usare la terra senza lasciarvi una palese e talvolta sgradevole impronta» (K. Butzer, The Americans Before and After 1492: An Introduction to Current Geographical Research, Annals of the Association of American Geographers n. 82, 1992, p. 348).

A fronte di tutto questo non stupisce che Cortés abbia potuto facilmente arruolare guerrieri di tribù ansiose di abbattere l’impero atzeco, predisponendo il divieto ufficiale di sacrificare i bambini, prima, e poi quello di sacrificare chiunque, sotto minaccia di pena di morte. Che non abbia avuto alcuna preclusione di tipo “razzista” verso gli indigeni lo segnala il matrimonio con Marina, un’indigena, e come lui faranno molti suoi soldati.

I colonizzatori europei e spagnoli trovarono popolazioni totalmente sottomesse al capriccio dei loro crudeli dèi. Così, l’insegnamento e, spesso, l’imposizione dei valori cristiani ed evangelici sulla sacralità della persona e della vita umana, l’evangelizzazione di un Dio compagno dell’uomo e non padrone assetato di sacrifici umani, fu anche un tentativo di civilizzare un popolo barbaro e sanguinario.

Lo storico tedesco Klaus Koschorke ha dimostrato nel suo A History of Christianity in Asia, Africa, and Latin America, che la popolazione atzecha smise di praticare uccisioni di massa ed altre violente forme autoctone di culto proprio grazie alla conversione cristiana -forzata e spontanea- di molti dei suoi membri.

Nel 2021 Gianpaolo Romanato, docente di Storia contemporanea all’Università di Padova, ha pubblicato uno studio sulle riduzioni gesuite in cui smentisce il mito del “buon selvaggio”, «diffuso da letterati e filosofi europei che non avevano mai messo piede nel Nuovo Mondo». Coloro che sbarcano, invece, videro che i nativi americani non vivevano in un “paradiso terrestre” ma in un inferno verde, dove la lotta per la sopravvivenza era feroce e combattuta quotidianamente contro animali e uomini.

Lo storico italiano ha quindi valorizzato l’iniziativa dei gesuiti di trovare una convivenza tra indios ed europei, senza violenza né sopraffazione, Le Riduzioni gesuite civilizzarono quei popoli e tracciarono i confini delle nuove nazioni, come il Paraguay.

 
 

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6. EFFETTI DEL COLONIALISMO E DEI MISSIONARI: DECULTURAZIONE?

Quasi tutte le descrizioni moderne mettono l’accento sull’avidità e sul razzismo come basi dell’espansione coloniale europea. Certo, entrambi ebbero un ruolo importante, purtroppo, ma furono importanti anche l’idealismo e la carità, soprattutto da parte dei missionari cristiani cui stava a cuore istruire e modernizzare i Paesi stranieri, almeno quanto proporre la fede cristiana. Per esempio nel 1910 le organizzazioni missionarie inglesi e americane avevano fondato 86 università, 522 istituti magistrali e migliaia di scuole elementari in Asia e Africa (cfr. J. Dennis, H. Beach, C.H. Fahs, World Atlas of Christiani Missions Student Volunteer Movement for Foreign Mission 1911, pp. 83, 84). Naturalmente vi furono casi brutali di colonialismo e di esclusivo sfruttamento, forse la dominazione del re del Belgio, Leopoldo II, ne costituisce l’esempio più noto. Ma tuttavia, ha osservato il sociologo statunitense Rodney Stark, «l’impatto maggiore dell’Occidente è stato quello di migliorare immensamente la qualità della vita in altre parti del mondo» (R. Stark, La vittoria dell’Occidente, Lindau 2014, p. 543).

Ad esempio in Paraguay, l’arrivo dei missionari permise ai Guaranì, di progredire civilmente e abbandonare l’Età della Pietra, le carestie e le guerre pressoché ininterrotte con conseguente sterminio degli abitanti del villaggio sconfitto: si praticava infatti il cannibalismo rituale. In meno di tre generazioni gli indigeni, grazie al cristianesimo, passarono da un livello di vita estremamente primitivo ad uno stadio di civiltà piuttosto elevato[4]. Anche in Messico i missionari fornirono benessere alle popolazioni mediante l’istituzione di scuole e ospedali ed insegnarono agli indiani metodi di allevamento migliori, aumentando l’aspettativa di vita[5]. In California diffusero la dottrina cristiana tra gli indigeni locali ed introdussero il bestiame europeo, frutta, verdura e l’industria. Migliorarono anche la modalità di trasporto e crearono reti sociali decisamente civilizzate[6]. La conversione cristiana, anche forzata, era dunque vista -e infatti si rivelò tale- come la condizione essenziale per abbandonare comportamenti disumani e raggiungere un più alto livello di civiltà.

Forse la più bizzarra accusa contro i missionari cristiani (e i colonialisti in generale) è che imposero la modernità su gran parte del mondo non occidentale, rovinando la cultura locale. Ma si toglie subito il disagio verso il cosiddetto imperialismo culturale appena si pensa ai crimini contro le donne, come la fasciatura dei piedi, la circoncisione femminile, la pratica del Sati, che obbligava le vedove a morire tra le fiamme sulla pira funebre del marito, e la lapidazione delle vittime di stupro in quanto colpevoli di adulterio. E ancora, l’imperialismo occidentale “impose” la democrazia laddove avevano sempre prevalso dittature e schiavitù, pratiche abituali delle tradizioni locali. Analogamente occorre considerare l’alto tasso di mortalità infantile, la perdita dei denti all’inizio dell’età matura, la castrazione dei ragazzini e l’analfabetismo. Bisognerebbe valutare l’azione dei missionari dai frutti prodotti: un notevole studio pubblicato nel 2012 dalla prestigiosa American Political Science Review, condotto da Robert D. Woodberry (Baylor University), ha dimostrato che ai missionari cristiani va il merito maggiore dell’ascesa e della diffusione di democrazie stabili nel mondo non occidentale. Tanto più elevato era, nel 1923, il numero di missionari cristiani ogni diecimila abitanti locali, tanto più elevata era la possibilità che il Paese avesse oggi una democrazia stabile. L’effetto dei missionari era di gran lunga maggiore di altre cinquanta variabili di controllo, come il prodotto interno lordo e il fatto se il Paese era stato o meno una colonia britannica. Secondo Woodberry, i missionari favorirono l’istruzione di massa, fondarono scuole e università (inviando studenti in Inghilterra e America), crearono giornali e stampa locali, organizzazioni di volontariato locale, comprese quelle di orientamento nazionalista e anti-coloniale. Non è un caso che molti leader dei movimenti anticoloniali si siano laureati in Occidente, come Gandhi, Nehru, Jomo Kenyatta. Dati i risultati sconvolgenti, il ricercatore fu costretto a consegnare l’intero database agli editori della rivista per un’indagine approfondita, che confermò la correttezza dei dati.

Un grande beneficio apportato dai missionari fu anche nell’ambito medico. Fecero enormi investimenti in strutture sanitarie nei Paesi non occidentali: nel 1910 avevano già fondato 111 scuole di medicina, oltre 1000 dispensari e 576 ospedali (cfr. J. Dennis, H. Beach, C.H. Fahs, World Atlas of Christiani Missions Student Volunteer Movement for Foreign Mission 1911). E lo fecero reclutando e addestrando infermiere e medici locali. E’ ancora una volta lo studio del sociologo Woodberry ad aver dimostrato che quanto più elevato era, nel 1923, il numero di missionari ogni mille abitanti, tanto più basso era il tasso di mortalità infantile nel 2000, un effetto oltre dieci volte maggiore di quello dell’attuale prodotto interno lordo pro capite. Se questi effetti costituiscono “imperialismo coloniale”, ben venga. Nel 2014 perfino l’antropologo americano Brian Palmer, docente alla Uppsala University, al termine di un’indagine sulla “medicina missionaria”, ha concluso: «Come ateo, cerco di fare delle scelte basate su prove e ragioni. Quindi, finché non saremo pronti a investire pesantemente nella medicina laica in l’Africa, suggerisco di lasciare che Dio faccia il suo lavoro». Si riferiva appunto all’ottimo lavoro dei missionari cristiani, i quali «non traggono un personale profitto dal loro lavoro, sono pagati molto male, forse per nulla. Molti rischiano la vita». Essi, ha proseguito lo studioso, «sono di stanza in tutta l’Africa, negli avamposti rurali e nelle baraccopoli urbane. Invece di paracadutarsi durante le crisi, come fanno alcuni specialisti di medicina internazionale, molti di loro hanno assunto impegni a lungo termine per affrontare i problemi di salute dei poveri africani». Come ha ricordato Benedetto XVI: «Essere missionari è chinarsi, come il buon Samaritano, sulle necessità di tutti, specialmente dei più poveri e bisognosi, perché chi ama con il cuore di Cristo non cerca il proprio interesse, ma unicamente la gloria del Padre e il bene del prossimo. Sta qui il segreto della fecondità apostolica dell’azione missionaria, che travalica le frontiere e le culture, raggiunge i popoli e si diffonde fino agli estremi confini del mondo».

Giampaolo Romanato, docente di Storia contemporanea e di Storia della chiesa moderna e contemporanea all’Università di Padova, ha riflettuto sulle Riduzioni gesuite del Paraguay riconoscendo una costante preoccupazione dei missionari di non imporre la cultura occidentale ma preservare il più possibile quella locale: «Nelle Riduzioni si parlava solo il guaranì, lingua organizzata dai gesuiti che ne crearono l’alfabeto», ha scritto. «Le prime Riduzioni erano molto vaste, costruite in legno e paglia, per lasciare i guaranì il più possibile vicini al loro modo di vivere. Poi il modello fu modificato, man mano che crebbero le nuove generazioni nate all’interno delle missioni. Col tempo cambiò completamente la struttura e la tecnica di costruzione delle chiese, che inizialmente si richiamavano alle abitazioni indigene collettive e venivano edificate partendo dal tetto, in legno e paglia. Gli studi più recenti concludono che nell’intreccio di stile europeo e guaranì sarebbe prevalso quello locale dei guaranì, con il risultato di dar vita a un genere artistico autonomo, se non proprio originale». Anche le «funzioni amministrative, dopo il primo periodo in cui furono ricoperte dai padri, vennero sempre affidate ai guaranì ed erano elettive. Ciascuna Riduzione era amministrata da una sorta di giunta comunale a capo della quale era il corregidor, una figura simile al nostro sindaco. Solo il corregidor non era eletto dalla popolazione ma nominato dagli spagnoli su una terna indicata dai religiosi. Il sistema fu normalizzato con un Regolamento generale emanato nel 1689, che imponeva di conservare in ogni Riduzione il Libro de Ordenes, una sorta di codice civile e penale. La giustizia penale, pure gestita dai guaranì, era estremamente mite e non prevedeva la pena di morte. È indubbio che all’interno di ciascun villaggio l’autonomia dei locali fu reale e non fittizia, ma è noto che i rapporti esterni, civili e commerciali, furono largamente gestiti dai gesuiti. Tuttavia la durata nel tempo delle missioni – un secolo e mezzo – non si può giustificare solo con la tutela dei padri, che non furono mai più di due o tre per villaggio. Il consenso e l’attiva collaborazione degli indigeni furono altrettanto indispensabili. Fu una forma di deculturazione, per quanto morbida, soave e senza violenza, o un geniale cammino di incivilimento? Il quesito rimane aperto e sostanzialmente irrisolto. Il fatto però di discuterne ancora, a tre secoli di distanza, testimonia l’originalità e l’intelligenza di ciò che è avvenuto nelle foreste del Sud America, con il consenso del governo spagnolo e sotto la costante sorveglianza dei vertici romani dell’Ordine, ma anche – bisogna ribadirlo – in piena armonia con i guaranì».

Circa l’aspetto economico e produttivo, lo storico Romanato ha osservato che «nelle Riduzioni fiorì col tempo un’organizzazione economica invidiabile, fondata sull’agricoltura, l’allevamento del bestiame e l’artigianato. I campi a ridosso delle Riduzioni producevano mais, manioca, legumi, canna da zucchero, cotone, erba mate. Quest’ultimo è un prodotto oggi diffusissimo in Argentina, Rio Grande e Uruguay, la cui coltivazione iniziò allora. I guaranì non avevano nella loro cultura il concetto di proprietà privata, tanto che nelle Riduzioni vigeva più il baratto che l’uso del denaro e non risultano lasciti in eredità. Ciò favorì la crescita di una solida economia comunitaria, che contenne sempre l’insorgere di conflitti di interesse. La seconda fonte di sostentamento delle Riduzioni era l’allevamento del bestiame. La terza attività, l’artigianato, è quella che più dà da pensare. Sfruttando lo straordinario talento imitativo dei guaranì, i gesuiti li resero capaci ed esperti tipografi e li addestrarono alla costruzione di molti oggetti sofisticati, come gli strumenti musicali, che servivano per le pubbliche esibizioni nelle chiese e nelle piazze. Li avviarono anche alla produzione artistica nel campo dell’arte sacra – statue e dipinti – con risultati che raggiunsero livelli di elevata raffinatezza. Ne sono oggi testimonianza i musei sorti attorno alle Riduzioni e il florido mercato antiquario alimentato in America Latina dalla statuaria prodotta allora. Un aspetto ben conosciuto ma che solo di recente si è potuto documentare riguarda la musica. Era noto che i gesuiti avevano coltivato l’innato talento musicale dei guaranì promuovendo quasi in ciascuna riduzione la nascita di cori, bande, orchestre che si esibivano con notevole maestria. Anche culturalmente, dunque, il livello raggiunto nelle Riduzioni fu sorprendente. Su queste basi le Riduzioni si organizzarono in un sistema economico e produttivo integrato, perfettamente autosufficiente e in grado di produrre reddito anche a beneficio della Compagnia, che manteneva con i proventi del commercio riduzionale la sede provinciale di Asunción. Nacque da ciò la leggenda delle favolose ricchezze che i gesuiti avrebbero accumulato alle spalle degli indios».

In conclusione, lo storico italiano ha scritto che «in ogni Riduzione era prevista un’idonea assistenza, con infermieri stanziali e medici, soprattutto italiani, itineranti – le scuole maschili e femminili dai sei ai dodici anni, l’incivilimento secondo i parametri della vita europea, elevarono le condizioni dei guaranì fino a portarle a un livello probabilmente non inferiore, e in qualche caso superiore, rispetto al livello dell’America spagnola. Ciò che fecero i gesuiti, indipendentemente dal giudizio di valore che ne possiamo dare, ha il sigillo delle cose rare e geniali. Solo un lampo di creatività poteva progettare grandiose città d’arte per popolazioni semiprimitive in mezzo alle foreste tropicali o sulla riva di un lago, in cima alle Ande. A due secoli dalla loro scomparsa, che cosa rimane delle Riduzioni? Che eredità ci lasciano? Credo che il loro lascito più importante siano i guaranì, l’unica popolazione autoctona del Sud America la cui lingua è diventata lingua ufficiale; l’unica che visse per tutto il periodo coloniale in un rapporto di collaborazione con gli europei, alla pari con essi; l’unica che è stata posta in grado di progredire e svilupparsi all’interno dei propri termini di riferimento, senza subire violenze».

Un’ultima accusa ai Paesi europei è quella di aver depredato le colonie costringendole a vendere loro materie prime a un prezzo troppo basso e ad acquistare manufatti a un prezzo troppo alto. Venne avanzata nel 1902 dall’economista inglese J.A. Hobson e ripresa nel 1915 da Lenin. Da allora divenne dogma di fede credere che le nazioni occidentali abbiano rubato la ricchezza da quelle non occidentali, impedendo il loro sviluppo. Anche in questo caso, è stato dimostrato da Patrick O’Brien, storico dell’economia dell’Università di Oxford, che i Paesi sviluppati non potevano aver ricavato la propria ricchezza sottraendola alle nazioni povere perché tra di esse gli scambi commerciali erano minimi. L’errore di Hobson è stato focalizzarsi sull’arricchimento di alcuni europei dal commercio con il mondo non occidentale e generalizzare i dati attribuendoli alle economie nazionali. Invece questa ricchezza era troppo piccola per aver avuto un impatto significativo sulle economie nazionali. Di certo non c’è dubbio che, nell’era dell’imperialismo, in generale (con l’eccezione della Spagna, seppur solo a breve termine) nelle proprie colonie i Paesi europei hanno perso denaro (P. O’Brien, European Economic Development: The Contribution of the Periphery, Economic History Review, n. 35, 1982, p. 1-18).

Certamente molti conquistadores commisero crudeltà ed ingiustizie, tra esse la requisizione dei beni dei popoli colonizzati. Tuttavia alcuni furono messi in crisi dalla loro coscienza cristiana, si pentirono e cercarono di riparare il loro errore restituendo i beni sottratti. La storica Lourdes Díaz-Trechuelo, fondatrice della Escuela de Estudios Hispanoamericanos di Siviglia, ha studiato archivi e testamenti, scoprendo «non soltanto la guerra, la violenza e i maltrattamenti ma anche il peccato di omissione; il non avere compiuto bene l’obbligo di catechizzare gli indios a loro affidati e finalmente il complicatissimo problema della restituzione dei beni materiali usurpati ingiustamente» (L. Díaz-Trechuelo Lopez Spinola, La conciencia y los problemas de la conquista, in “Historia de la Evangelización de America”, Simposio Internacional 11-14/05/1992).

Molti teologi dell’epoca, come padre Francisco de Vitoria, predicavano la restituzione dei beni conquistati illecitamente agli indios, e questo contribuì alle crisi di coscienza dei conquistadores e dei loro successori. Alcuni decisero così di passare i proventi alla Corona, altri fondarono numerose opere di carità in favore degli indios (come fece lo stesso Cortés), altri restituirono direttamente il frutto delle conquiste ai legittimi padroni, come Cortés stesso e parecchi conquistadores del Perù (cfr. G. Lohman Villena, La restitución por conquistadores y encomenderos. Un aspecto de la incidencia lascasiana en el Perú, “Anuario de Estudios Amencanos”, vol. XXIII, 1966, pp. 43, 44). Lo storico peruviano G. Lohman Villena ha studiato numerosi casi da lui studiati in Perù di conquistadores che lasciarono i loro beni agli indios, anche attraverso esecutori testamentari istruiti per compiere le dovute riparazioni (p. 21-89). L’arcivescovo di Lima, il domenicano fra Jerónimo de Loaysa, pubblicò l’opera Avisos para los confesores de estos reinos del Perú proprio per dare delle normative sul tema della restituzione. Le ricerche di archivio di Díaz-Trichuebo mostrano coloni sposati con donne indiane che lasciano i loro beni ai loro figli meticci ed altri che vogliono riparare anche i peccati di omissione lasciando i loro beni perché il vescovo del luogo ripari per loro. Ordinano di celebrare sante messe per gli indios come un dovere della loro coscienza (G. Lohman Villena, La restitución por conquistadores y encomenderos. Un aspecto de la incidencia lascasiana en el Perú, “Anuario de Estudios Amencanos”, vol. XXIII, 1966, pp. 657, 658).

 
 

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7. ILLUMINISTI E ANTICLERICALI, FAVOREVOLI AL COLONIALISMO E ALLA SCHIAVITU’

Mentre la Chiesa era così impegnata contro il neocolonialismo e la schiavitù, dal 1600 in poi il popolo illuminista, ateo e anticlericale (qui vedremo l’opinione di alcuni principali esponenti) si distinse particolarmente nella promozione della cultura razzista. Ovviamente trovarono linfa vitale nella strumentalizzazione riduzionista e anti-cristiana del pensiero darwinista (darwinismo sociale), creando la gerarchia delle «razze» (razzismo, eugenetica, nazionalsocialismo, antisemitismo) e delle «classi» (marxismo, comunismo). Alcuni di questi argomenti sono stati affrontati più approfonditamente in: “Razzismo ed eugenetica nascono nell’ateismo materialista“.

Voltaire. Il paladino della “tolleranza” Voltaire (1694-1778), profondo anticlericale e illuminista, ebbe a scrivere: «Sbarco nel paese della Cafraria, e comincio a ricercare un uomo. Vedo macachi, elefanti e neri. Tutti sembrano avere un baleno di una ragione imperfetta. Tutti hanno un linguaggio che non capisco e tutte le loro azioni sembrano ugualmente essere relazionate con qualche causa. Se dovessi giudicare le cose per il primo effetto che mi causano, crederei, inizialmente, che tra tutti questi enti l’elefante è l’animale ragionevole. Però, per non scegliere futilmente, prendo i piccoli di queste vari bestie. Esamino un piccolo di nero di sei mesi, un piccolo di elefante, un macachetto, un leonetto, un canetto. Vedo, senza dubbio, che questi giovani animali hanno incomparabilmente più forza e destrezza, più idee, più passioni, più memoria del negretto ed esprimono molto più sensibilmente tutti i loro desideri che quell’altro. Però, dopo un tempo, il negretto ha tante idee quante tutti loro. Mi dò questa definizione: l’uomo nero è un animale che ha lana sulla testa, cammina su due zampe, è quasi tanto pratico quanto una scimmia, è meno forte che gli altri animali della sua taglia, possiede un poco più di idee ed è dotato di maggior facilità di espressione. […] Vado alle regioni marittime dell”India Orientale. Adesso sono uomini d’un bel tono giallastro, non hanno lana, ma hanno la testa coperta da grande criniere nere. […] Incontro una specie ancora più singolare che tutte queste. È un uomo vestito bene con un lungo abito nero, che si dice fatto per istruire agli altri [un prete, N.d.A.] Tutti questi uomini che vedi, mi dice lui, sono nati da uno stesso padre. E, allora, mi racconta una lunga storia. Però, quello che questo animale dice mi pare molto sospetto. Mi informo se un nero e una nera, di lana nera e naso piatto, gerano qualche volte bambini bianchi, di capelli biondi, naso adunco ed occhi blu. Mi hanno risposto di no, che i neri trapiantati, per esempio, alla Germania sono rimasti a generare neri»[42].

David Hume e John Locke. Il filosofo illuminista, precursore dell’ateismo scientista, David Hume (1711-1776), scriveva nel 1754: «Non è mai esistita una nazione civilizzata che non fosse bianca: sono portato a sospettare che i negri, e in generale tutte le altre specie umane, siano per natura inferiori ai bianchi». Decise poi di investire i suoi risparmi, come John Locke (1632-1704), nel commercio degli schiavi[43]. Locke fu maestro del liberalismo anglosassone, simbolo dell’illuminismo inglese e azionista della Royal African Company che trafficava schiavi africani, per lui l’indiano d’America era assimilabile alle «bestie selvagge», per cui «potrà essere distrutto come un leone o una tigre» (citato in D. Losurdo, “Controstoria del liberalismo”, Laterza 2006, p. 25-26).

Arthur de Gobineau e Napoleone. L’illuminista Arthur de Gobineau (1816–1882) è l’autore del «Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane» (1853-1855), nel quale interpreta la storia umana affermando che la purezza della razza determina la capacità di sopravvivenza e di dominio sulle popolazioni inferiori. Concetto poi ripreso dall’ideologo del nazismo Rosemberg e dagli assertori dell’eugenetica. E mentre i re cristiani del Medioevo riuscirono ad eliminare la schiavitù, fu Napoleone Bonaparte (1769-1821), ateo, anticlericale e materialista, a ristabilirla nelle colonie francesi (1802)[44].

Karl Marx. L’ateo materialista Karl Marx (1818-1883) aveva anch’egli le idee chiare sulla schiavitù: «La libertà e la schiavitù costituiscono un’antagonismo. Mi riferisco alla schiavitù diretta, alla schiavitù dei neri in Suriname, in Brasile, nelle regione del Sud dell’Ameria del Nord. La schiavitù diretta è il pivot sopra il quale il nostro industrialismo quotidiano fa girare il macchinaio, il credito, ecc. Senza la schiavitù non ci sarebbe nessuno cotone, senza cotone non ci sarebbe nessuna industria moderna. È la schiavitù che dà valore alle colonie, furono le colonie ad aver creato il commercio mondiale, e il commercio mondiale è la condizione necessaria per l’industria di macchina in grande scala. Senza schiavitù, l’America del Nord, la nazione più progressista, si sarebbe trasformata in un paese patriarcale. Abolire la schiavitù sarebbe spazzare l’America del Nord fuori dalla carta»[45].

Friederich Nietzsche, Il capostipite dell’ateismo moderno, Friedrich Nietzsche (1844-1900) non esitava a rivendicare la permanente validità dell’istituto della schiavitù quale fondamento della civiltà. I suoi testi contengono riferimenti sprezzanti a Beecher-Stowe, l’autrice della “Capanna dello zio Tom”, il celebre romanzo abolizionista che tanto eco suscitò in Europa e nella stessa Germania. In “Umano troppo umano” (1878) il filosofo scrisse: «Tutti desiderano l’abolizione della schiavitù, eppure bisogna ammettere che gli schiavi sotto ogni riguardo vivono più sicuri e più felici del moderno operaio e il lavoro degli schiavi è ben poca cosa rispetto a quello dell’operaio». Nietzsche risentì molto chiaramente dell’influenza della nuova “scienza”, l’eugenetica, inventata in Inghilterra dall’antropologo ateo Francis Galton, cugino di Darwin. Così scrisse: «La vita stessa non riconosce nessuna solidarietà, nessuna “uguaglianza di diritti” fra le parti sane di un organismo e quelle degenerate: queste ultime devono essere amputate. Avere compassione dei decadentés, concedere uguaglianza di diritti anche ai falliti, sarebbe la più profonda immoralità, sarebbe l’antinatura posta come morale»[46].

 
 

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8. CONCLUSIONE

Abbiamo contribuito a dimostrare che i paladini nella difesa dei colonizzati furono quasi esclusivamente uomini di Chiesa, religiosi e veri cristiani, al contrario di quel che sostengono i teorici della cospirazione. Le accuse comunque hanno una base di verità, poiché è vero che i sovrani, spagnoli, inglesi, portoghesi ecc.., usurparono fortemente il potere religioso per sottometterlo al potere politico, incoraggiando lo schiavismo e la colonizzazione, anche tramite interpretazioni personalistiche e forzate dell’Antico Testamento (in particolare rispetto alle teorie secondo cui gli indigeni non avevano l’anima, passaggi comunque che non andrebbero mai interpretati letteralmente). Per amore alla verità occorre anche dire che nel corso dei secoli purtroppo le turpitudini coloniali furono perpetrate anche da alcuni uomini di Chiesa, che assumeranno sempre (distaccandosi dalla stessa istituzione che avrebbero dovuto rappresentare) atteggiamenti e posizioni opposti ai pronunciamenti solenni dei Pontefici e dei numerosi religiosi che abbiamo elencato. Inoltre, questo sarà fatto in netta contrapposizione all’insegnamento del Vangelo («Non c’é più giudeo né greco, non c’é più schiavo né libero, non c’é più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal, 3, 28) e dell’autorità ecclesiale. Il cardinal Ratzinger scrisse correttamente: «Tutti i peccati dei cristiani nella storia non derivano dalla loro fede nel Cielo, ma dal fatto che non credono abbastanza nel Cielo».

 
 

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Note
1^ E. Genovese, “Roll, Jordan, Roll: The World the Slaves Made”, 1974, pag. 179
2^ Wikipedia/Colonialismo/NelCattolicesimo
3^ Koschorke, A History of Christianity in Asia, Africa, and Latin America 2007, pag. 31–32; McManners, Oxford Illustrated History of Christianity 1990, pag 318
4^ Wikipedia/RiduzioniGesuite/Sviluppo
5^ Samora, A History of the Mexican-American People, 1993, pag. 20
6^ Wikipedia/RomanCatholicChurchAndColonialism, Wikipedia/SpanishMissionInBajaCalifornia
7^ R. Stark, La vittoria della ragione, Lindau 2006, pag. 296-298; O. Chadwick, The reformation, Penguin 1972, pag. 26
10^ Wikipedia/SchiavismoNelMedioevo
11^ Wikipedia/OrdineDiSantaMariaDellaMercede
12^ R. Stark, La vittoria della ragione, Lindau 2006, pag. 299,300, Wikipedia/SicutDudum e Wikipedia/PapaEugenioIV/Biografia
13^ J.M.d. Serna, The Historical encyclopedia of world slavery, pag. 153 e Wikipedia/PioII/Papa
14^ H. Lewis, The Hispanic American Historical Review, 1946, pag 142; Warner Carl, “All Mankind Is One”: The Libertarian Tradition In Sixteenth Century Spain, The Journal of Libertarian Studies 1987, pag. 295, Wikipedia/CatholicChurchAndTheAgeOfDiscovery e Wikipedia/PedroDeCordoba
15^ B.D. Las Casas, Historia de las Indias, en Obras Completas e Wikipedia/AntonioDeMontesinos/PrimeroSermon
16^ W. Carl, “All Mankind Is One”: The Libertarian Tradition In Sixteenth Century Spain, The Journal of Libertarian Studies 1987, pag. 299; Wikipedia/AntonioDeMontesinos/SeguendoSermones e Wikipedia/AntonioDeMontesinos/Life
17^ Wikipedia/AntonioDeMontesinos/DefensaDelIndio
18^ Wikipedia/SacrificiUmaniNellaCulturaAzteca e alcune immagini del film “Apocalipto” di Mel Gibson
19^ Wikipedia/AntonioDeMontesinos/Biografia e Wikipedia/AntonioDeMontesinos/Life
20^ Papa Paolo II, Sublimis Deus, 1537; Panzer, The popes and slavery, Alba House 1997, pag. 8
21^ J. F. Maxwell, “Slavery and the Catholic Church,The history of Catholic teaching concerning the moral legitimacy of the institution of slavery”, Chichester Barry-Rose 1975, pag. 68-70
22^ P. Thornberry, “Indigenous peoples and human rights”, Manchester University Press 2002, pag. 65
23^ T. Woods, Come la Chiesa cattolica costruito la civiltà occidentale, Regenery 2005, pag. 5-6; Wikipedia/FranciscoDeVitoria e Wikipedia/CatholicChurchAndTheAgeOfDiscovery
24^ Johannes Thumfart, Die Begründung der globalpolitischen Philosophie. Zu Francisco de Vitorias “relectio de indis recenter inventis”, Von 1539 2009, pag. 256 e Wikipedia/FranciscoDeVitoria
25^ Wikipedia/BartolomèDeLaCasas e Wikipedia/NewLaws/Origins
26^ M. Beuchot, Los fundamentos de los derechos humanos en Bartolomé de las Casas, Anthropos Editoria 1994 e Wikipedia/BartolomèDeLaCasas
27^ B.D. Las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle Indie, Mondadori, 1997 e Wikipedia/BartolomeoDeLasCasas/Biografia
28^ Wikipedia/BartolomeoDeLasCasas/Opere
29^ A. Gill, Rendering unto Caesar: the catholic church and the state in Latin America, University of Chicago Press 1998, pag. 22 e R. Stark, For the glory of God: how monothesim led to reformations, science, witch-hunts, and the end of slavery, Princeton University Press 2003, cap.1
30^ Wikipedia/ProtectoríaDeIndios
31^ Wikipedia/PopoGregoryXIV/Papacy
32^ Wikipedia/OrdineDellaSantissimaTrinità
33^ Wikipedia/RiduzioniGesuite
34^ Wikipedia/BattagliaDiMbororè/PrimiAttacchiAlleMissioniGesuite
35^ Wikipedia/BattagliaDiMbororè/LoScontroDiApóstolesDeCaazapaguazú
36^ Wikipedia/BattagliaDiMbororè/Conseguenze
37^ Wikipedia/CommissumNobis
38^ R. Stark, For the glory of God: how monothesim led to reformations, science, witch-hunts, and the end of slavery, Princeton University Press 2003, cap.1
39^ Wikipedia/PopeBenedictXIV/Life
40^ Wikipedia/InSupremoApostolatus
41^ Wikipedia/SociétéAntiesclavagisteBelge
42^ Voltaire, Trattato di Metafisica, 1978, pag. 62-63
43^ Wikipedia/Schiavismo/Abolizionismo
44^ Wikipedia/Abolizionismo/Francia e Wikipedia/NapoleoneBonaparte/GuerraInEuropaEAscesaAll’Impero
45^ Lettera di Karl Marx a Pavel Vasilyevich Annenkov, Parigi 28 dicembre 1846, citata in Marx Engels Collected Works, International Publishers (1975), vol. 38, pag. 95
46^ F. Nietzsche, La volontà di potenza, af. 734

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