Brexit, un’Europa senz’anima non può che disgregarsi

brexitCome un corpo senza anima, anche l’Europa si disgrega. Un’unione basata solo sulla convenienza economica è destinata prima o poi alla divergenza degli interessi.

L’inascoltato appello di Giovanni Paolo II che al tempo dell’elaborazione del Trattato europeo, in cui veniva costruita la nostra identità, chiedeva un forte riferimento alle radici cristiane, mostra in maniera sempre più evidente cosa comporta unire dei popoli senza una profonda fondazione ideale. A questo va unita la continua erosione dell’antropologia umana e cristiana, cioè di un essere umano portatore di un’essenza che lo salvaguarda dalla infinita plasmabilità e manipolabilità.

L’Europa si disgrega, i popoli e le famiglie umane in generale si disgregano, perché l’idea-uomo si disgrega. Senza verità nobile su chi siamo, tutto viene ricondotto alla modulazione di individui e popoli elaborata e decisa dal forte di turno. Solo la verità religiosa dell’uomo e della vita hanno la forza di resistere al dominio di chiunque, perfino di poteri religiosi. Mi sembra ancora una volta inutile che per rimediare allo scarso appeal dell’Europa si continui ad insistere esclusivamente su economia e flessibilità finanziarie, su minore invasività burocratica e su maggiore sicurezza e occupazione. Questi sono effetti. E a livello ideale risuonano come cimbali stonati i riferimenti a parole ormai vuote perché svuotate di verità.

Fraternità: come è possibile senza un padre comune? Davvero si crede che possa bastare la cieca “madre natura” a fare degli individui una famiglia? Non è invece il Creatore a fare delle creature una famiglia solidale?
Libertà: siamo davvero liberi o questa parola è un’illusione? Concepirci senza spirito, solo materia assemblata casualmente e in cui ogni nostro aspetto è ad essa traducibile senza residui, estingue l’autonomia delle nostre qualità più specifiche come l’estetica, il pensiero, la religiosità, l’etica: epifenomeni illusori di “vibrazioni” atomiche, cioè forme virtuali della totale non intenzionalità e necessità deterministica del fondo materiale.
Euguaglianza: che fine fa la dignità umana, che fonda i diritti umani, senza la dimensione spirituale? L’eliminazione dell’immagine divina presente in ogni creatura umana porta in evidenza ed esalta le differenze congiunturali degli individui che si costituiscono in blocchi reciprocamente insuperabili. Che c’è in comune tra vecchi e giovani, bianchi e neri, embrioni e adulti, ricchi e poveri, malati e sani? Mondi monadici. Isole drasticamente separate.

L’uscita della Gran Bretagna dall’Europa è un sintomo della tendenza disgregatrice che colpisce l’Europa senza radici né verità nobile sull’uomo e la vita. I padri fondatori erano intrisi di visione sacra della vita e forse la davano per scontata. Oggi va recuperata per ridare all’Europa quell’ambizione mondiale di essere faro della dignità e della libertà umana.

Massimo Zambelli

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Strage di Orlando, uno dei superstiti: «cambio vita, torno a frequentare la chiesa»

angel colon«Voglio cambiare la mia vita, tornerò a frequentare la chiesa». Così ha dichiarato Ángel Colón, omosessuale e uno dei superstiti della strage di Orlando (Florida), avvenuta qualche settimana fa nella discoteca Pulse.

«Ángel ha cantato nel coro della chiesa per molto tempo, prima di abbandonarla», ha detto il padre. «E’ convinto che Dio lo abbia salvato per dargli un’altra possibilità di vita». La comunità cattolica di Orlando, si legge, è in prima linea nell’aiutare e sostenere le famiglie delle vittime.

Nel frattempo è emerso che l’attentatore, Omar Mateen, era lui stesso omosessuale, frequentava la discoteca da tre anni e un suo presunto amante, che lo avrebbe frequentato per due mesi, ha dichiarato che il motivo della strage è per vendicarsi del modo in cui «si sentiva usato» dagli omosessuali di quel locale. Se lo scopo di Mateen fosse stato quello di uccidere più persone possibile, ha proseguito l’uomo, sarebbe andato al Parliament, un altro locale gay di Orlando che contiene molte più persone del Pulse. L’uomo è stato ascoltato anche dall’FBI.

Comunque sia, il giovane Colón poteva essere una delle vittime, ma nonostante abbia subito sei colpi di pistola è vivo e ricoverato all’Orlando Regional Medical Center. Il padre, che lo assiste in ospedale, ha raccontato alla stampa: «sta abbastanza bene, ha recuperato in fretta e i medici stanno facendo un lavoro enorme. Mio figlio crede che l’essersi salvato abbia uno scopo, ha pregato Dio chiedendogli: “Signore, non lasciare che me ne vada in questa condizione”. Dice che tornerà alla sua vecchia vita, frequentando la chiesa dove era solito cantare».

La redazione

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L’ontologica differenza tra l’uomo e l’animale, ne parla il filosofo Sergio Givone

scimmia uomo 

di Sergio Givone*
*ordinario di Filosofia ed estetica presso l’Università degli Studi di Firenze

da “Luce d’addio. Dialoghi dell’amore ferito” (Olschki 2016)

 

Baghdad, Mosul e Damasco hanno poco a che fare con Orlando, Parigi e New York. Ma è sempre la stessa violenza? Si, è sempre la stessa. Cambiano i modi e le forme del suo manifestarsi, ma in fondo… Questo fondo è ciò che da sempre si è deciso chiamare l’animo umano, è lì che va stanata se vogliamo capirci qualcosa. Lì abitano le ossessioni e i fantasmi che la generano. A cominciare dall’idea demoniaca che solo la violenza possa eliminare la violenza e portare la pace.

Lo schema è il seguente. Poiché l’altro e il diverso minacciano la nostra identità, invece di mettere in questione questa pretesa identità preferiamo opporci all’altro, al diverso, allo straniero. Fino al loro annientamento. Sperando così di ricompattare l’identità sociale a rischio di disgregazione. Ma a essere innescata è una spirale che sancisce il trionfo della violenza, non la sua limitazione. Lo si vede tanto nelle faide tribali quanto nelle guerre fra gli Stati, come nel caso del terrorismo.

Tutto ciò fa pensare che la violenza sia una pulsione connaturata all’essere umano e che le occasioni scatenanti possano essere molteplici, praticamente infinite. Ma dire che la violenza appartiene all’uomo per natura si presta a più di un equivoco. Che cos’è infatti “natura” per l’uomo? E’ la sua provenienza. E’ l’antica selva da cui proviene e in cui è stato forgiato il suo carattere, il suo peculiare modo di essere. Non a caso la nostra origine è posta in quello che si chiama stato di natura. Ossia lo stato dove vige una sola legge: uccidere o essere uccisi. E dove homo homini lupus.

C’è però da dubitare che la nostra origine sia davvero quella. Con ciò non si vuole assolutamente mettere in discussione l’evoluzione della specie. Ma alzare lo sguardo su un piano di ordine superiore, il piano etico. Bisogna farlo, non si può non farlo, dal momento che l’uomo è bensì natura, ma anche cultura. Ebbene, se immaginiamo la vita dell’uomo nello stato di natura (e non è poi così difficile, visto che l’uomo nello stato di natura ricade sempre di nuovo, oggi come ieri, e lo dimostra proprio la violenza di cui è capace), dobbiamo concludere che quello stato non è affatto originario. Noi non siamo fatti per esso (“fatti non foste per vivere come bruti”). Non siamo fatti per uccidere o essere uccisi. Siamo fatti per altro. In una parola: per essere quelli che dovremmo essere, ossia creature capaci di moralità.

Lo dimostra una semplice considerazione. L’uomo che si comporta come nello stato di natura non è un uomo. E’ un animale selvaggio, una bestia, un mostro, ma non un uomo. Ancor più dell’antropologia, la metafisica aiuta a far luce su questo tratto fondamentale dell’essere umano. Nello stato di natura l’uomo appare spaesato e perso. Come precipitato in un mondo che non è il suo. La violenza lo degrada. Qualsiasi atto di violenza lo svilisce, lo rende indegno. Non così l’animale. La vita dell’animale è pura violenza. Ma l’animale che aggredisce e uccide poi torna in pace con se stesso e con il suo mondo. Al contrario nell’uomo non c’è violenza che si lasci ricomporre senza strascico. Tanto che l’uomo, dopo aver ucciso, arriva a profanare il cadavere della sua vittima: lo ha fatto Achille su Ettore e lo fa chiunque partecipi ad un genocidio. Ed è proprio questo di più, questo eccesso a evidenziare la contraddizione. A questo proposito la metafisica parla di una decaduta e di una natura originalmente integra, a significare l’abdicazione dell’uomo alla propria umanità.

Allora la violenza da dove viene? Dobbiamo scendere ancora più a fondo in quel fondo senza fondo che è l’anima dell’uomo. Per trovare che cosa? Per trovare ciò per cui l’uomo è davvero fatto, per trovare la vera origine dell’uomo. L’uomo non è fatto per fare il male. L’uomo è fatto per fare il bene o il male. E se è fatto per fare il bene o il male, questo vuol dire che l’uomo si trova originariamente, in ogni momento della sua vita a scegliere: fra il sì e il no, fra l’essere e il non essere, fra la vita e la morte. E’ il momento vertiginoso della libertà. Vertiginoso perché non è che esperienza del nulla, come ben sa chi non è da nulla costretto, a nulla vincolato, ma nondimeno deve scegliere, deve decidere.

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Sandro Magister attacca anche Benedetto XVI: «ha messo sottosopra la Chiesa»

magister benedettoxvi«La rivoluzione di papa Francesco sta mettendo sottosopra la Chiesa. Ma anche il suo mite predecessore di nome Benedetto non è da meno». Comincia così ciò che era inevitabile: gli antibergoliani non possono che scoprirsi anche antiratzingeriani. Ad uscire finalmente allo scoperto, in questo caso, è stato Sandro Magister, vaticanista del noto settimanale anticlericale l’Espresso.

Nel giugno 2015, Magister è stato sospeso dalla Sala stampa del Vaticano per aver violato l’embargo sull’enciclica Laudato si’, diffondendo prima del permesso la bozza del documento: «una iniziativa scorretta, fonte di forte disagio per moltissimi colleghi giornalisti e di grave turbamento del buon servizio di questa sala stampa», ha scritto padre Federico Lombardi. Magister non rilasciò dichiarazioni ma, da allora, ha amplificato la sua battaglia mediatica anti-Bergoglio, alla quale dedica tutto se stesso con quotidiano impegno.

Favorevole al sacerdozio femminile e ridicolizzatore di San Giovanni Paolo II («Il guaio, per lui, è che c’è chi lo prende in parola», diceva del Papa polacco), come abbiamo segnalato, oggi il giornalista Magister è curiosamente visto dal mondo tradizionalista come l’araldo del vero cattolicesimo. Di fatto, è la musa ispiratrice dei quotidiani vaneggiamenti di Antonio Socci, altro noto antipapista italiano. Il secondo cita continuamente il primo, mentre Magister lo ignora da sempre. Anzi, ha perfino ampiamente confutato uno dei tanti complotti socciani, quello del Conclave invalido del 2013. Ovviamente è stata l’unica volta in cui Socci ha preferito non citare il pensiero del fido Magister.

L’antipapismo si autoalimenta in modo incessante sui social network, anche grazie alla complicità e alla stretta alleanza con il folto -seppur in via d’estinzione-, gruppo di sedevacantisti, rimasti all’ultimo pontefice valido: Pio XII. Se c’è, però, una cosa che manda velocemente in fumo il loro estenuante lavorio quotidiano, è la fedeltà e l’unità che i fedelissimi vescovi, cardinali e teologi di Benedetto XVI e Giovanni Paolo II mostrano continuamente a Papa Francesco. Parliamo, ad esempio, del card. Angelo Scola, primo sostenitore della contestata (almeno in certi ambienti) Amoris Laetitia, nella quale, ha scritto, Francesco «ribadisce con chiarezza la verità del matrimonio indissolubile nel suo senso cristologico (come segno oggettivo dell’amore di Cristo per la Chiesa) ed antropologico (come espressione del desiderio del “per sempre” radicato nel cuore di ogni uomo e di ogni donna)». Posizione simile a quella all’arcivescovo ratzingeriano Luigi Negri, per il quale -sempre a proposito dell’esortazione papale, «la chiarezza c’è, non c’è obiezione alla tradizione magisteriale precedente. Bisogna stare alle cose che sono scritte non all’enorme fenomeno di manipolazione nel quale siamo incorsi. L’ottavo capitolo della Amoris laetitia è una sfida ad essere realmente pastori».

Anche il card. Camillo Ruini, principale collaboratore di Benedetto XVI (attualmente presidente del comitato scientifico della Fondazione Joseph Ratzinger), è sceso in campo più volte al fianco di Papa Bergoglio: «Bisogna essere ciechi per non vedere l’enorme bene che papa Francesco sta facendo alla Chiesa e alla diffusione del Vangelo», ha detto. Il guineano card. Robert Sarah (la cui caratteristica principale, secondo Antonio Socci, è «l’assoluta fedeltà alla dottrina della Chiesa») ha affermato: «cosa pensare di un figlio o di una figlia che critica pubblicamente il padre o la madre? Come potrebbe la gente rispettare quella persona? Il Papa è nostro padre. Gli dobbiamo rispetto, affetto e fiducia (anche se le critiche non sembrano dargli fastidio), personalmente, ho piena fiducia in lui ed esorto ogni cristiano a fare lo stesso». Il card. Gerhard Müller, prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, ha a sua volta manifestato ampia stima di Francesco, scrivendo: «sta perseguendo una spirituale purificazione del tempio, nello stesso tempo dolorosa e liberatrice, allo scopo di far risplendere nella Chiesa la gloria di Dio, luce di tutti gli uomini». Qualche giorno fa è anche intervenuto anche il biografo americano di Giovanni Paolo II, George Weigel, lamentandosi delle «teorie cospiratorie di giornalisti (soprattutto italiani) con tanto spazio da riempire». Non è difficile capire a chi si riferisse.

Si potrebbe continuare a lungo, altri autorevolissimi esponenti sono citati nel capitolo dedicato del nostro dossier, preferiamo concludere con il segretario personale di Papa Ratzinger, padre Georg Gaenswein. Anche Sandro Magister ha dovuto riconoscere che «nessuno dubita» del fatto che le parole pubbliche di mons. Gaenswein «corrispondano al pensiero» di Benedetto XVI, «e siano state da lui autorizzate». Un giusto riconoscimento che, tuttavia, non giova all’onestà intellettuale del noto vaticanista, il quale ha sempre evitato di riportare le tante dichiarazioni del segretario di Papa Ratzinger sull’unità, l’amicizia e la continuità tra Francesco e il Papa emerito. «Tra i due c’è davvero un rapporto molto cordiale e rispettoso», ha dichiarato ad esempio padre Georg nel marzo 2015. «La stima di Benedetto [per Papa Francesco, nda] è molto alta, ed è aumentata per il coraggio del nuovo papa, settimana dopo settimana», ha riferito nel febbraio 2014. E ancora: «Non è un segreto che fra i due Papi c’è una buona relazione. Si parlano, si scrivono, si telefonano…quello che si dicono faccia a faccia non posso saperlo». «Non conosco dichiarazioni dottrinali di Francesco che siano contrarie a quelle del suo predecessore. Benedetto e Francesco sono diversi, talvolta molto diversi, i modi di espressione. Ma li accomuna la sostanza, il contenuto, il depositum fidei da annunciare, da promuovere e da difendere. Chi dubita di Papa Francesco ha poco senso della Chiesa», ha detto un anno fa.

Le parole di mons. Gaenswein sono state sempre ignorate da Magister e da tutti i sedicenti “combattenti per la verità”. L’unica volta che il segretario personale di Ratzinger è stato preso in considerazione dall’antipapismo, è stata per una dichiarazione del maggio scorso. «Dall’elezione del suo successore, Papa Francesco – il 13 marzo 2013 – non ci sono due Papi, ma di fatto un ministero allargato con un membro attivo e uno contemplativo», ha riferito mons. Georg durante la presentazione pubblica di un libro. «Per questo, Benedetto non ha rinunciato né al suo nome né alla talare bianca. Per questo, l’appellativo corretto con il quale bisogna rivolgersi a lui è ancora ‘Santità’». Antonio Socci ha subito scritto di “dichiarazioni esplosive”, trovandovi linfa nuova per il suo vecchio complotto dell’elezione invalida di Papa Francesco. Poi, ha preferito declinare sul più classico misterismo, sulle abusate “verità non rivelate”, sui fantomatici “scritti riservati”, arrivando a dipingere come “clamoroso giallo” uno scritto di Papa Francesco in cui parla della rinuncia di Benedetto XVI all’«esercizio attivo del ministero petrino». Frase presentata da Socci come clamorosa, apocalittica, esplosiva, che sarebbe «imbarazzante per i “bergogliani”». Un’altra bufala del giornalista di Libero: di «decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero» ne ha parlato lo stesso Benedetto XVI durante la sua ultima udienza, nel lontano 27/02/13. Altro che giallo!

Sandro Magister, al contrario, molto più ragionevolmente ha reagito con stizza, facendo giustamente notare che mons. Georg è il «più intimo contatto» di Papa Ratzinger e quel che dice corrisponde al pensiero di Benedetto XVI. Per questo, ha deciso di scagliarsi contro il Papa emerito: «La rivoluzione di papa Francesco sta mettendo sottosopra la Chiesa. Ma anche il suo mite predecessore di nome Benedetto non è da meno. Nessuno si sarebbe aspettato che da lui provenisse un gesto di così inaudita rottura nella storia del papato, totalmente senza precedenti». Accuse pesanti, questa volta contro Benedetto XVI. «Il reale comportamento di Ratzinger», ha proseguito Magister, contraddirebbe le sue intenzioni di ritirarsi in preghiera: «Ratzinger ha rotto più volte il silenzio che aveva fatto presagire dopo le dimissioni. Sono ormai una dozzina le volte in cui ha scritto o detto qualcosa in pubblico, ogni volta obbligando a studiare che cosa sia in accordo e che cosa no tra lui e il magistero del papa “attivo”». Nella frase conclusiva, il giornalista dell’Espresso accusa di “ambiguità” anche Papa Ratzinger, utilizzando una frase molto furba: «Nel magistero di Francesco l’ambiguità trionfa, ma anche il “papato emerito” di Benedetto è un enigma insoluto». Tre giorni fa, Magister ha raddoppiato la dose, accusando Benedetto XVI di discontinuità rispetto a Giovanni Paolo II, avendo «deliberatamente introdotto la figura del “papa emerito”», verso la quale Papa Wojtyla sarebbe stato contrario.

Probabilmente il giornalista dell’Espresso non può più mascherare la sua insofferenza e ha capito che, se si tratta di “ministero allargato”, le sue quotidiane bordate contro il ministero “attivo” di Francesco vanno a colpire anche quello “passivo” di Benedetto XVI, che lo sostiene intimamente e pubblicamente. Cosa intenda con precisione mons. Gaenswein quando parla di “ministero allargato” non lo sappiamo, una risposta la si può trovare nelle parole di Benedetto XVI durante la sua, già citata, ultima udienza. Ciò che ormai risulta invece chiaro, è che dietro ad un antibergogliano non può che trovarsi anche un antiratzingeriano. Per amore all’insegnamento di Benedetto XVI sull’inseparabilità tra fede e ragione, ci auguriamo che i cattolici che frequentano il web sappiano lasciarsi alle spalle il rumoroso gruppetto di giornalisti che sta combattendo mediaticamente Papa Francesco, riversando sui rispettivi lettori i loro problemi esistenziali, che invece sarebbe meglio risolvessero con l’aiuto di un buon confessore.

La redazione

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In Italia minor omofobia rispetto a Francia, Spagna, USA e Inghilterra

MappamondoAd ascoltare i paladini del progressismo, l’Italia sarebbe stata – fino all’approvazione delle unioni civili di qualche tempo fa – un vero e proprio covo d’intolleranti che solo la determinazione politica del Governo Renzi, manifestata sul piano parlamentare con richieste di fiducia a raffica, avrebbe finalmente incamminato verso il luminoso sentiero dei “diritti”.

Questa, dicevamo, la narrazione, ma non i fatti. Sì, perché non esistono dati attendibili che testimonino l’oscurantismo che, fino a ieri appunto, avrebbe regnato sovrano nel nostro Paese. Anzi, per la verità ne esistono che provengono da fonti insospettabili e che dicono l’opposto collocando proprio la cattolica e “retrograda” Italia fra le nazioni più tolleranti d’Europa se non del mondo.

Gli ultimi riscontri in questo senso provengono dal Global Attitudes Survey on LGBTI, maxi indagine dell’ILGA – acronimo che sta per International Lesbian and Gay Association, effettuata a livello globale in oltre cinquanta Stati per un totale di 96.331 persone interpellate. I quesiti con i quali questa ricerca globale – i cui esiti sono sintetizzati in un report di una dozzina di pagine – è stata condotta, erano finalizzati a rilevare, sondando le opinioni di almeno 700 soggetti per Paese, gli atteggiamenti verso la punibilità dell’essere LGBTI, la considerazione dell’attrazione omosessuale quale fenomeno del mondo occidentale, e l’atteggiamento rispetto alla possibilità di avere un vicino di casa con tendenze omosessuali.

Sorprendentemente, quello che si nota è che, sostanzialmente in tutti gli ambiti, l’Italia – dei dodici Paesi europei considerati – figura costantemente fra quelli i cui cittadini manifestano maggiore apertura mentale. L’idea, per esempio, della punibilità dell’essere LGBTI – che dovrebbe accomunare i più «omofobi» fra gli «omofobi» – vede solo l’11% degli Italiani favorevoli, contro il 13% degli spagnoli, il 15% degli olandesi, il 17% dei francesi e il 22% degli inglesi. La stessa forte contrarietà a simili posizioni interessa più gli italiani (67%) degli spagnoli (66%), degli inglesi (53%) e dei francesi (52%). Un po’ dura, alla luce di questi dati – raccolti, meglio ricordarlo, da un’associazione internazionale LGBTI–, continuare a presentare furbescamente l’Italia come un Paese arretrato.

Anche le problematiche dell’avere un vicino di casa omosessuale coinvolgono non più del 22% degli Italiani, quasi la stessa percentuale degli osannati Stati Uniti di Obama (21%), la stessa della Francia e comunque una percentuale minore, per esempio, di quella registrata in Inghilterra (26%), Paese considerato un autentico faro in tema di diritti civili (non a caso prevede la cosiddetta “maternità surrogata” da decenni).

Cosa insegna il Global Attitudes Survey on LGBTI (qui sotto la tabella tradotta), presentato in occasione della giornata contro l’omofobia ma non pubblicizzato quasi da nessuno in Italia (chissà perché)? Tre cose, almeno. Primo: non esiste – con buona pace dei cantori dei “nuovi diritti” – un legame certo fra l’introduzione delle nozze o delle adozioni gay e l’eliminazione di atteggiamenti «omofobi», come mostra il fatto che l’Italia, pur risultandone priva (i dati ILGA son stati raccolti fra dicembre 2015 e gennaio 2016), non sia affatto risultata intollerante. Secondo: la cultura cattolica di un Paese non ha a che vedere con l’”omofobia”, anzi, come prova pure la vicinanza ai valori dell’Italia rilevata per un altro Paese di fama cattolica, vale a dire l’Irlanda.

Terza e più importante considerazione: l’Italia non ha bisogno, dati LGBTI alla mano, di leggi contro l’omofobia. Proprio nessuno. Una recente notizia dell’avvenuta condanna di un coinquilino reo di aver perseguitato la coppia gay vicina di casa con insulti e minacce dimostra che chi si rende responsabile di atteggiamenti discriminatori o aggressivi ai danni di persone con orientamento omosessuale, già oggi – giustamente -, paga; senza che servano altre norme di alcun tipo in un Paese, quale l’Italia, tollerante da sempre, nel quale la depenalizzazione della condotta omosessuale risale addirittura all’Ottocento, mentre invece – per fare un esempio – in Germania gli omosessuali sono stati perseguibili fino all’11 giugno del 1994. E i “retrogradi” saremmo noi?

 

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Giuliano Guzzo
(studio inserito nel nostro dossier sull’inesistenza del fenomeno omofobia)

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«L’ateismo è un atto di fede, chi dice il contrario è un dogmatico»

andre comtesponville«Io non so se Dio esiste o no; io credo che non esista. L’ateismo non dogmatico è un ateismo che ammette il proprio status di credenza, nel caso specifico di credenza negativa. Essere atei non dogmatici significa credere (anziché sapere) che Dio non esiste». Illuminante la riflessione di André Comte-Sponville, noto filosofo razionalista francese, molto simile a quella che abbiamo già presentato tempo fa del filosofo Iain T. Benson.

Sostenere apoditticamente che Dio non esiste è un’affermazione dogmatica pronunciata paradossalmente proprio dagli oppositori dei dogmi cattolici, è una dichiarazione priva di dimostrazione scientifica paradossalmente pronunciata proprio da coloro che idolatrano la scienza come unica forma certa di conoscenza. Ed invece, ha riconosciuto Comte-Sponville, l’ateismo è una credenza, una fede personale a cui si può giungere per motivi vari e, secondo noi, per un uso sbagliato e riduttivo della ragione.

Riconosco che  «il mio ateismo non è un sapere», ha spiegato il filosofo razionalista. «Come potrebbe esserlo? Nessuno sa, nel senso vero e forte del verbo “sapere”, se Dio esiste o no. Se qualcuno vi dice: “So per certo che Dio non esiste”, non avete a che fare con un ateo, ma con uno sprovveduto. La verità e che non lo si sa. In breve, io non so se Dio esiste o no; io credo che non esista». Allo stesso modo, per Comte-Sponville «se incontrate qualcuno che vi dice: “So che Dio esiste”, è uno sprovveduto che ha la fede, e che, scioccamente, confonde la fede con il sapere».

Ben venga questo riconoscimento, anche se non apprezziamo la separazione tra fede e sapere promossa apertamente da Comte-Sponville. La fede, infatti, può diventare conoscenza certa, tanto quanto (se non di più) una dimostrazione scientifica, basandosi su ciò che chiamiamo certezza morale. Siamo moralmente certi che nostra madre ci vuole bene, anche se non possiamo dimostrarlo scientificamente, non possiamo dimostrare l’onestà del nostro migliore amico, né l’amore di nostro/a marito/moglie. Eppure, potremmo metterci la mano sul fuoco, siamo più certi moralmente di tutto questo che nemmeno la rotazione della Terra attorno al Sole, tanto che su queste convinzioni basiamo l’intera nostra esistenza. Sbagliamo a fidarci di nostra madre, dell’onestà dell’amico, dell’amore del coniuge? No, sarebbe irragionevole non farlo e andrebbe ricoverato in neuropsichiatria colui che portasse l’amico in un laboratorio scientifico chiedendo di esaminare le sue buone intenzioni.

E’ l’atto di fede, dunque, che se supportato da una esperienza diretta, da determinate ragioni, porta al sapere, alla certezza di sapere. Si può sbagliare? Certamente, così come sbagliano gli scienziati. Se ci fidassimo del nostro migliore amico che ieri sera ha cercato di rubarci il portafoglio, stiamo utilizzando male il metodo di conoscenza della fede. Se ci sono valide ragioni, invece, è ragionevole fidarsi ed essere moralmente certi, così la fede diventa sapere. Allo stesso modo, l’esperienza personale con Dio genera una fede in Lui che diventa certezza morale. E’ un’illusione perché Dio non lo si può dimostrare scientificamente? Ritorniamo allora da capo: possiamo dimostrare l’amore del marito, l’onestà dell’amico e la bontà della madre? No, eppure se ci sono ragioni adeguate è ragionevole affermare tutto questo, dunque sapere che Dio esiste, che l’amico è onesto e che la madre è buona.

Ma c’è una differenza tra il credente e il non credente: si può raggiungere una certezza morale soltanto di ciò di cui si fa esperienza diretta, su una conoscenza in prima persona. Solo chi ha sperimentato l’amore può dire “sono certo che l’amore esiste”, chi non lo ha sperimentato non può dire: “lo so, sono certo che l’amore non esiste”. Allo stesso modo, chi non ha sperimentato l’esperienza di Dio non può avere alcuna certezza sulla sua non-esistenza. Se la certezza morale emerge in chi fa esperienza personale dell’esistenza di Dio, dell’esistenza dell’amore, dell’esistenza dell’onestà ecc., allo stesso tempo non sono possibili certezze morali sulla non esistenza. Certo, ci possono essere motivazioni per non credere, ma queste non diventeranno mai un “sapere”.

Il dubbio nella vita cristiana esiste, come tanti santi testimoniano, ma accade quando ci si sottrae dal rapporto con Dio e, molto più spesso, si dubita non tanto della Sua esistenza, ma piuttosto della bontà del disegno nei nostri confronti (è il grido di Cristo sulla croce: “Padre, perché mi hai abbandonato?”). “Sa” della presenza di Dio solo chi ne fa esperienza, per lui è certezza, non matematica, ma morale. E’ una posizione ragionevole se in questo sentire è coinvolta la ragione, che si interroga, valuta i segni, rimane aperta e scevra dal pregiudizio, come ci ha sempre magistralmente insegnato Benedetto XVI.

Tornando a Comte-Sponville, ha ragione: l’unica posizione razionale dell’ateo è autodefinirsi un “credente”, ma in senso fideista, cioè incline a seguire la fede senza poter tenere conto dell’apporto dell’esperienza personale che porta ad un valido giudizio di ragione. Al contrario, una fede che parte dall’esperienza personale è un valido metodo di conoscenza che porta ad una certezza morale, ad un “sapere”.

La redazione

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A Medjugorje? Persone normali, lontane dal miracolismo (compresi docenti universitari)

medjugorje croceAlcuni giorni fa abbiamo pubblicato un articolo dedicato a Medjugorje, concentrandoci in particolare su una presunta pulsazione del sole che ha catturato l’attenzione di tanti pellegrini, ma anche di una nota psicoterapeuta, Fausta Marsicano, e di una giornalista del programma di Rai3 La Storia siamo noi.

Qualcuno ha scambiato l’articolo per un’approvazione pubblica da parte nostra di quanto accade da oltre trent’anni nel piccolo paesino della Bosnia ed Erzegovina. Nient’affatto, sarebbe imprudente ogni giudizio preventivo a quello che dovrà dare la Chiesa cattolica, abbiamo soltanto inteso replicare ai razionalisti scettici che pensano di poter liquidare questi fatti con una sbrigativa risata, limitandosi a parlare con sicumera di allucinazione collettiva o frode. Due spiegazioni che, per diversi motivi, non sussistono nel caso del presunto fenomeno solare di cui abbiamo parlato.

Oggi torniamo sull’argomento poiché un recente studio, ben presentato da Andrea Tornielli su La Stampa, ha rilevato che i pellegrini che si recano a Medjugorje non sono affatto gli sprovveduti creduloni che qualcuno può immaginare. 4 persone su 10, infatti, svolgono lavori di elevato profilo: imprenditori, dirigenti, liberi professionisti e docenti universitari. A questi si aggiungono poi, in proporzione quasi identica, i rappresentanti tipici del ceto medio: insegnanti, piccoli professionisti, impiegati e artigiani. Non sono per nulla attirati da tentazioni millenariste, né dal sincretismo religioso, né dal miracolismo magico. Certo, ci sono diverse eccezioni, come in tutti i luoghi e  gli ambiti, anche non religiosi. Ma tali rimangono.

Lo ha accertato il sociologo dell’Università Cattolica di Milano, Luca Pesenti, attraverso la ricerca pubblicata nel volume “La mia vita è cambiata a Medjugorje” (Edizioni Ares 2016). Su oltre 1000 pellegrini che si recano a Medjugorje ogni anno, secondo il campione utilizzato, il 68,8% è di sesso femminile e la maggior parte ha un’età compresa tra i 50 e i 65 anni. Interessante il dato sull’esperienza che viene da loro fatta nel luogo delle apparizioni: il giudizio positivo su di esse sale all’85% al termine del viaggio, con una certezza “assoluta” raggiunta dal 59% (rispetto al 41% dichiarato alla partenza). Solo il 5% degli intervistati è tornato a casa con un giudizio deludente.

Se dai frutti si riconosce l’albero, è allora significativo che la grande maggioranza di chi fa ritorno da Medjugorje segnala un cambiamento di vita, nel 15% addirittura un “cambiamento radicale”. L’effetto Medjugorje, infatti, secondo la ricerca porta ad un aumento (anche a lungo termine) di frequenza nelle pratica religiosa, ai sacramenti e alla preghiera. E forse questo è il dato che colpisce maggiormente, giustamente Vittorio Messori che, a Medjugorje, è stato tra i primi a recarsi, ha commentato: «in attesa di eventi nuovi e chiarificatori, suggerisce la Chiesa, i cattolici continuino a raccogliere gli abbondanti frutti spirituali da un albero che – va pur detto – si è rivelato davvero fecondo».

Proprio per questo non ha senso da parte dei credenti un’opposizione feroce al fenomeno, nemmeno se si è legittimamente scettici. Dio sa scrivere anche sulle righe storte, sempre ammesso, tuttavia, che tali righe siano davvero storte e lo siano state fin dall’inizio. Affermazione che, in realtà, non è facile da sostenere. Approcci medico-scientifici sui presunti veggenti sono stati realizzati da diverse equipe di specialisti e, seppur attraverso una metodologia un po’ rudimentale e con parecchie lacune, il responso è comune: non c’è frode o inganno da parte loro e nemmeno autosuggestione inconsapevole, poiché l’immagine che dicono di osservare non è da loro evocata, tant’è che, ad esempio, i parametri fisiologici durante l’estasi sono diversi e per nulla sovrapponibili a quelli rilevati sotto ipnosi, in seguito alla richiesta di evocare lo stato dell’estasi. Va considerato anche che i primi test vennero realizzati quando erano ancora bambini ed adolescenti, soggetti molto facili da “smascherare”, cosa che non è riuscita mai a nessuno.

Riportiamo in particolare il giudizio del prof. Giorgio Sanguineti, psichiatra e docente di criminologia presso l’Università di Milano, che ha visitato a lungo i “veggenti”: «ho valutato le loro personalità, escludendo manifestazioni psicopatologiche, semplicemente sulla base della osservazione ed utilizzando la mia lunga esperienza clinica, sia con soggetti psicotici che nevrotici. Penso inoltre che le “visioni” costituiscano un’esperienza trascendente proprio in quanto si manifestano in giovani che ritengo normali. Mi è parso cioè che, in ognuno di loro, la “visione” non costituisce un fenomeno psichico soggettivo, ovvero, che nasce da pulsioni consce od inconsce dei “veggenti”, ma invece un’esperienza trasmessa da una forza esterna che naturalmente provoca in loro un’intensa reazione sia emotiva che conoscitiva. In altre parole, durante la “visione” essi mi sono apparsi strumenti di un messaggio che non nasceva da loro ma veniva loro imposto. Non mi è parso che detta “imposizione” sia stata loro suggerita né da una richiesta esplicita, né da suggestione originata da un singolo o dalla collettività. Certamente i ragazzi dovrebbero essere sottoposti a diversi test psicodiagnostici proiettivi per uno studio più approfondito della loro personalità».

I messaggi che dicono di ricevere sono ripetitivi e banali? Effettivamente è uno dei tanti aspetti poco chiari (come la vicenda, assai controversa, della pergamena della veggente Mirjana, per chi ne é a conoscenza) ed è comprensibile che generino perplessità, anche se i presunti veggenti, per primi, ne sono consapevoli e abbiamo comunque risposto.  C’è chi li accusa di essersi arricchiti con pensioni ed alberghi per accogliere i pellegrini: notizia vera per tutti gli abitanti di Medjugorje che, da poveri contadini si sono trasformati in tassisti, albergatori ed organizzatori di viaggi, come é logico che sia. Per i veggenti è anche l’unico modo pensabile di guadagnarsi da vivere, tuttavia il loro status sociale è rimasto sobrio e modesto, mai sopra le righe, nessuna forma eccentrica, amabilità e pazienza, forte ritrosia verso il convincimento altrui, le televisioni e la fama popolare. Esprimono una fede autentica e coerente con il magistero cattolico e, sopratutto, portano lo sguardo dei pellegrini verso Dio, Gesù e Maria e mai verso la loro persona.  Enormi frutti spirituali si verificano, sperimentati da persone lontane dal facile miracolismo, come la recente ricerca ha dimostrato. Chi ha dubbi sul fatto che all’inizio apparisse davvero la Madonna, le migliaia di autentiche conversioni che sono nate a Medjugorje lo portano a dire che, oggi, certamente non può non esserci anche e, forse sopratutto, lì.

La redazione

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San Paolo non fondò il cristianesimo, una tesi falsa e fin troppo riciclata

 Immaginavamo che Eugenio Scalfari avrebbe taciuto la grave richiesta di condanna a sei anni di carcere del suo amico Carlo De Benedetti, patron di Repubblica, L’Espresso, ritenuto dai pm responsabile delle morti per amianto alla Olivetti.

Non credevamo, però, che il fondatore di Repubblica riproponesse il suo vecchio pallino su San Paolo come vero fondatore del cristianesimo, ne ha parlato in un suo recente editoriale: caduto da cavallo, Saulo «svenne e durante lo svenimento, mentre lentamente si riaveva, vide un’immagine affascinante da tutti i punti di vista che la sua mente ancora non totalmente riavutasi interpretò come l’immagine di Gesù. Di fatto fu il tredicesimo apostolo e sostanzialmente fu il vero fondatore della religione cristiana». Il quale inventò anche, sempre secondo Scalfari, lo Spirito Santo, parlandone per primo nella Lettera agli Efesini.

Lasciando perdere la insostenibile ricostruzione della caduta da cavallo, Scalfari ripete quel che aveva già scritto un anno fa, a cui avevamo replicato nel maggio 2015argomentato dettagliatamente i motivi per cui non è possibile identificare San Paolo come fondatore del cristianesimo, avvalendoci della spiegazione di diversi studiosi e biblisti. Ad essi aggiungiamo oggi anche la risposta offerta dal prof. José Miguel Garcia, direttore della Cattedra di Teologia nell’Università Complutense di Madrid e docente di Sacra Scrittura presso la Facoltà di Teologia San Damaso: «L’evento insolito della resurrezione fu “l’impulso creatore” che permise agli apostoli e ai predicatori -di origine e formazione giudaica- di comprendere i Libri Sacri e cercare in essi tutto ciò che i profeti avevano annunciato su Gesù […]. Le basi cristologiche che dominano il Nuovo Testamento si formarono nel breve lasso di tempo intercorso tra la morte di Gesù e la conversione di San Paolo» (J.M. Garcia, Il protagonista della storia. Natura e nascita del cristianesimo, Rizzoli 2008, p. 391).

Martin Hengel, professore emerito di Cristianesimo delle origini all’Università di Tubinga, nonché uno dei maggiori esegeti del Novecento, ha a sua volta criticato l’insostenibile tesi di cui si fa portavoce oggi il fondatore di Repubblica. «Le radici della comunità giudeocristiana/ellenistica, o più esattamente della comunità giudeocristiana di lingua greca, in cui il messaggio di Gesù fu formulato per la prima volta in greco, risalgono chiaramente alla comunità di Gerusalemme più antica, e quindi il primo sviluppo linguistico del suo Kerygma e della sua cristologia deve essere nato già lì» (M. Hengel, L’ellenizzazione della Giudea nel I° secolo d.C., Brescia 1993). Tutto era già noto ben prima della conversione di San Paolo, compresa la concezione dello Spirito Santo che il tredicesimo mette per iscritto prima dei Vangeli, avendo ricevuto lui stesso questa tradizione dagli altri apostoli, come afferma lui stesso in 1 Cor 15,3.

Ed infatti gli studi esegetici, che certamente Eugenio Scalfari non conosce, hanno messo in evidenza il carattere aramaico e tradizionale delle formule e confessioni di fede che ritroviamo nelle lettere di Paolo. «Tutti questi dati indicano Gesù di Nazareth come il vero fondatore del cristianesimo», conclude il prof. Garcia alla fine della sua dettagliata spiegazione, «e Gerusalemme come il luogo in cui la cristologia è stata formulata per la prima volta» (p. 392).

Il fondatore di Repubblica, dovrebbe almeno conoscere il prof. Romano Penna, biblista e già ordinario di Origini Cristiane presso la Pontificia Università Lateranense, il quale ha spiegato: «Il tema di Paolo come “secondo fondatore del cristianesimo” è piuttosto trito, anche se ha avuto una certa presa nel Novecento in ambito luterano. Si tratta di una concezione che però bypassa un elemento importante, cioè che tra Gesù e Paolo non c’è una continuità “gomito a gomito”. Paolo è “gomito a gomito” con la Chiesa di Gerusalemme e con le Chiese, al plurale, della Giudea. Lui stesso dice: “Io vi ho trasmesso quel che anche io ho ricevuto”. Quello che voglio dire è che c’è una fede delle origini che è assolutamente pre-paolina, la sua originalità ermeneutica elabora il dato della fede, che è anteriore a lui. Per questo quella contrapposizione non ha, alla fine, nessun senso. Si tratta di un giudizio affrettato, semplificatorio, superficiale».

La redazione

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Cannabis libera? La mafia non viene sconfitta, aumenta solo il consumo

CannabisIl 27 giugno prossimo la discussione sulla cannabis legale sarà avviata nell’Aula di Montecitorio, promossa dal senatore e sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, ex presidente dei Radicali italiani. In discussione il ddl che porta il nome del candidato sindaco per Roma, Roberto Giachetti.

L’iniziativa parlamentare è sorta dopo il rapporto annuale della Direzione Nazionale Antimafia, in cui si è parlato di «totale fallimento dell’azione repressiva» e della «letterale impossibilità di aumentare gli sforzi per reprimere meglio e di più la diffusione dei cannabinoidi», chiedendo di valutare la possibilità della depenalizzazione come male minore. Una posizione certamente autorevole e da tenere in considerazione, per quanto ci riguarda non ci interessa sostenere a prescindere il proibizionismopoiché non è la sola repressione che permette di risolvere realmente il problema. Certamente non riteniamo possa farlo l’antiproibizionismo. L’obiettivo comune è ridurre realmente e far scomparire il consumo di droga, ciò a cui dovrebbe tendere una società civile, sana e matura.

Al rapporto della D.N.A. hanno tuttavia replicato numerose voci, ugualmente attendibili. Ad esempio il Procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri: «Uno stato democratico non può permettersi il lusso di depenalizzare qualcosa che fa male», ha affermato. Liberalizzare significherebbe trovare in farmacia un prodotto ad un costo doppio rispetto al mercato nero poiché, considerando nuove aziende agricole, acqua, concime, personale assunto e assicurato, un grammo di marijuana in farmacia costerebbe 12 euro, mentre già oggi si può spacciare a 3 o 4 euro. La criminalità organizzata, quindi, sfrutterebbe la vendita di contrabbando, mentre se il costo in farmacia dovesse essere più basso, aumenterebbe inevitabilmente, e anche di molto, l’area del consumo.

Ancora più drastico il magistrato Raffaele Cantone, presiedente dell’Autorità nazionale anticorruzione, che ha affermato: «La legalizzazione non è utile ad essiccare le vene del narcotraffico, la mia è una convinzione basata sulla razionalità. Si sposterebbe solo il problema degli appetiti dal mercato illegale a quello legale. Faccio un esempio a me caro: non mi pare proprio che legalizzare le scommesse abbia tagliato le gambe alle mafie sulle scommesse clandestine, semmai ha allargato i loro interessi anche a quelle legali. Con il risultato che le mafie si sono arricchite e cittadini sono diventati dipendenti. Se le droghe fanno male, e fanno male, lo Stato non può proprio porsi la domanda, perché allora per paradosso domani potremmo anche proporre di legalizzare le associazioni mafiose così utilizziamo i loro metodi e ci arricchiamo. Va bene la provocazione, ma che provocazione resti, tra l’altro nessun Paese ha mai legalizzato ogni tipo di stupefacenti. Un motivo ci sarà?».

Fausto Cardella, procuratore capo della direzione distrettuale antimafia dell’Aquila, ha a sua volta contraddetto Della Vedova, ex presidente dei Radicali italiani: «Dobbiamo chiarirci le idee: il consumo è già tollerato dalla legge, quando parliamo di legalizzazione, parliamo di legalizzazione del commercio e della produzione: ma davvero è questo che vogliamo? Non solo, si tratta di intendersi sullo scopo che si vuole ottenere, se lo scopo è il contrasto alla diffusione e al consumo è evidente che la legalizzazione non li disincentiva, anzi. Quanto all’affamare la criminalità organizzata, per ottenere lo scopo bisognerebbe che tutto il mondo legalizzasse in contemporanea tutte le sostanze, un’ipotesi talmente irrealistica e pericolosa da non rientrare in nessuna agenda: ogni legalizzazione parziale otterrebbe soltanto l’esito di dirottare gli affari della mafia dove il traffico resta proibito e di dirottare i consumatori verso i Paesi più tolleranti».

Potremmo continuare a lungo, ma il ragionamento è molto semplice da capire: la criminalità non sparisce affatto con la liberalizzazione, semplicemente sposta il suo operato laddove la legge pone delle limitazioni, ad esempio avendo più droga da vendere ai minorenni, oppure giocando di concorrenza sul prezzo, come accade con i tabacchi. Oppure, ancora, vendendo cannabis più potente dato che, come ha giustamente ricordato Giovanni Serpelloni, direttore del Servizio per le tossicodipendenze (Sert) di Verona, «lo Stato non può certo vendere cannabis con un Thc alto. La criminalità, che già oggi spaccia resine con un principio attivo al 60%, non si farebbe scrupoli a mettere in commercio sostanze con un potenziale più alto».

L’onorevole Della Vedova ha contro-replicato dicendo: «non vogliamo discutere se fa bene o male, ma controllare il fenomeno», citando l’esempio positivo del Colorado, dove la «legalizzazione sta funzionando». Purtroppo non è affatto così, come ha spiegato Marcello Esposito, docente di International Financial Markets presso l’Università Cattaneo di Castellanza: «in Colorado si pensava di avere grandi introiti, ma i risultati sono stati deludenti. Ed il motivo è economico, legato al prezzo più elevato della cannabis legale causato dalla tassazione». Oltre al fallimento sugli introiti, il Colorado ha registrato, secondo un’indagine nazionale, che i consumatori di droga sono aumentati di oltre il 20% come media mensile in seguito alla liberalizzazione. E, guarda caso, sono anche aumentati gli incidenti automobilistici mortali causati da persone sotto effetto di marijuana e il raddoppio di ricoveri ospedalieri per intossicazione o abuso da cannabis, cosa che non è avvenuta nei 34 stati americani dove non è liberalizzata. Una dimostrazione che i timori sulla liberalizzazione sono più che fondati. Esposito ha confermato l’utopia del disegno di legge di Della Vedova: «Massimizzare gli introiti fiscali e proteggere i consumatori significa sconfiggere la competizione del mercato illegale: questo non si può ottenere se non intensificando le azioni repressive delle forze di Polizia. Infatti, nella relazione introduttiva alla proposta di legge “Della Vedova” si fa riferimento ad un livello di tassazione per la cannabis pari a quello del tabacco, che incide per il 75% sul prezzo di vendita al pubblico. È evidente che il prezzo “legale” non sarebbe assolutamente competitivo rispetto a quello del mercato nero. Si fa un grosso errore se si decide di liberalizzare la cannabis ingolosendo l’elettorato con la promessa di chissà quali introiti fiscali».

Diversi medici, esperti della materia, sono intervenuti a loro volta per segnalare che non si sta affatto parlando di caramelle alla liquirizia, ma di una droga altamente dannosa (solo tre mesi fa l’ultimo studio in merito, che ha rilevato perdita della memoria nei consumatori di cannabis, qualche mese prima rilevato anche l’aumento della probabilità di ictus). Antonio D’Angiò, psichiatra e docente presso la Seconda Università degli Studi di Napoli, ha dichiarato : «Oggi la marijuana non è più riconoscibile e ha ormai poco di “leggero”. Il punto debole della legalizzazione delle droghe cosiddette leggere è che ormai non sono più tali, i derivati del tetraidrocannabinolo sono sostanze alterate chimicamente, che rapidamente creano gravi danni, spesso permanenti, al cervello, al cuore e al fegato». In Danimarca, ad esempio, un recente studio ha dimostrato che la concentrazione di Thc nella cannabis è triplicata nel giro di 20 anni. Dividere tra droghe leggere e pesanti, ha aggiunto lo psicologo Alberto Vito, già giudice onorario presso il Tribunale dei minori di Napoli: «E’ una semplificazione che non tiene conto di una differenza sostanziale, bisognerebbe piuttosto parlare di droghe tout-court, in quanto sostanze che possono provare dipendenza e causare gravi danni alla salute».

Conferma di tutto ciò arriva anche da Giorgio Di Lauro, direttore del dipartimento dipendenze patologie della Asl Napoli 2: «La scarsa conoscenza delle conseguenze sulla salute derivanti dall’’uso di sostanze, soprattutto quelle impropriamente definite “leggere” e di tutte le sostanze o abitudini che generano dipendenza, è molto comune tra i giovani». Il neurologo Rosario Sorrentino, direttore dell’IRCAP di Roma, ha scritto: «siamo passati dallo slogan della fine degli anni Sessanta di Woodstock: “un po’ di erba non ha mai fatto male a nessuno”, al superspinello del terzo millennio che di danni ne fa eccome, soprattutto per quanto riguarda, per esempio, alcuni disturbi neurologici e psichiatrici: attacchi di panico e psicosi. Ma la lista sarebbe lunghissima. Ora se si vuole così frettolosamente sdoganare la cannabis a furor di popolo. Usciamo poi, una volta per tutte, dall’ambiguità e dall’ipocrisia che si fa tra l’utilizzo di cannabis per fini terapeutici e l’assunzione di questa droga per uso ricreativo e socializzante; le due cose sono evidentemente diverse». Interessante l’approfondimento scientifico della psichiatra Cristina Selvi.

Possiamo concludere sostenendo che la cannabis non è (più) una droga leggera, ma ha effetti gravissimi sulla salute. Anche per questo è sbagliata paragonarla all’alcool poiché, ha spiegato l’esperto Serpelloni, «l’uso equilibrato di alcol, soprattutto se a bassa gradazione e in assenza di controindicazioni correlate alle condizioni di salute di chi lo assume, non fa male». Anzi, addirittura viene consigliato un bicchiere di vino rosso durante i pasti. «Per il consumo di droga la distinzione non regge: il semplice uso di stupefacenti produce alterazioni dell’equilibrio fisico e psichico». Legalizzare e liberalizzare ciò che provoca danno è moralmente sbagliato in quanto lo Stato induce i cittadini a farsi del male con il suo consenso. Inoltre, abbiamo visto che non serve nemmeno per ottenere introiti economici, il caso del Colorado è davanti a tutti. Infine, è anche un’utopia pensare che serva per togliere il mercato alla criminalità. «Scordiamoci che legalizzando la marijuana si possa fermare il narcotraffico», ha commentato Ernesto Savona, direttore di Transcrime, il Centro interuniversitario di ricerca sulla criminalità transnazionale dell’Università Cattolica e dell’Università di Trento. «I narcotrafficanti immetterebbero sul mercato altro genere di sostanze vietate. Gli unici a “rimetterci” sarebbero i piccoli spacciatori, l’ultimo anello della catena».

La realtà è positiva, questo è anche il messaggio cristiano. Una società drogata, invece, è segno di una palese conflittualità verso un reale con cui non si vuole fare i conti, dove l’effimero (e dannoso) sballo diventa momentaneo rifugio e, spesso dipendenza, piuttosto che assunzione di una posizione adulta e matura di fronte alla vita. Il no alla droga libera è un grande si ad una società civile, sana e non infantile.

La redazione

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Teoria del gender: ridicolizzarla in 3 minuti, prendendola sul serio

gender videoIl deputato tedesco Steffen Königer ha preso sul serio i contenuti dei gender studies e si è rivolto al parlamento citando tutti i presunti generi sessuali inventati dalla comunità Lgbt, così da non rischiare di discriminare nessuno. A volte l’ironia ha più forza per smascherare la follia.

 
 
 

Forse non c’è modo migliore di usare l’ironia per smascherare il contenuto degli studi gender.

Ognuno può essere “quel che si sente”, indipendentemente dal suo sesso biologico, afferma infatti la teoria di genere.

Non solo uomo e donna, quindi, ma spazio aperto alla fantasia.

 

Quanti generi sessuali? 23 secondo la comunità Lgbt

Secondo la Australian human rights commission esisterebbero ben 23 generi sessuali: omosessuali, bisessuali, transgender, trans, transessuali, intersex, androgini, agender, crossdresser, drag king, drag queen, genderfluid, genderqueer, intergender, neutrois, pansessuali, pan gender, third gender, third sex, sistergirl e brotherboy.

Anche se in realtà c’è chi non si riconosce nemmeno in essi ed è una forma di discriminazione non considerare chi si “sente” qualcos’altro oltre alla stretta catalogazione della commissione australiana.

Chi volesse davvero non discriminare nessuno, inoltre, dovrebbe citare tutte le migliaia di generi inclusivi possibili quando si rivolge ad un platea, non limitandosi a “signori e signore”.

 

L’ironia del deputato: salutare tutti i generi sessuali

Una società davvero inclusiva deve aprirsi al diverso e alla diversità!

Steffen Königer, deputato del parlamento regionale di Brandeburgo (Germania) ha voluto prendere sul serio la comunità Lgbt e il 9 giugno scorso è intervenuto a nome del suo partito, l’Alternative für Deutschland (AFD), in risposta ad una proposta dei Verdi per “l’accettazione della diversità, dei generi sessuali e dell’autodeterminazione contro l’omofobia a Brandeburgo”, utilizzando un linguaggio “inclusivo” e “non discriminatorio”.

Dopo aver cortesemente salutato il presidente del parlamento, ha voluto introdurre il suo discorso salutando tutti i più noti (e presunti) generi sessuali: «gentili signore e signori, gentili omosessuali, gentili lesbiche, gentili androgini, gentili bi-genders, gentili transessuali…». I saluti sono durati circa tre minuti, al termine dei quali ha espresso, in due secondi, la posizione contraria del suo partito alla proposta.

Il video, qui sotto, è diventato ben presto virale, aprendo gli occhi di molti sull’omo-follia dell’esistenza di un genere separato dal sesso biologico.

 

La teoria gender respinta perfino da Michela Marzano.

Una tesi respinta perfino da una delle più attive militanti arcobaleno d’Italia, la filosofa Michela Marzano.

In un suo recente articolo, l’attivista ha affermato: «il corpo non è solo qualcosa che si “ha”, ma anche e soprattutto qualcosa che si “è”, prima della certezza che è la vita che impone il corpo a ognuno di noi e che non possiamo sbarazzarcene senza sbarazzarci al tempo stesso della nostra esistenza. Il nuovo mito, oggi, è proprio questo: cancellare ogni dipendenza. Non solo le dipendenze affettive, ma anche quelle biologiche. Il corpo fa resistenza. La realtà non si piega, altrimenti si rischia di pervertire la volontà di potenza e, credendosi onnipotenti, ci si dimentica che l’immutabile che è nell’anima lo si raggiunge solo contemplando l’immutabile che è nel corpo». Nessuno nasce nel “corpo sbagliato”, perché il corpo è ciò che si è.

 

Qui sotto il divertente intervento di Steffen Königer

 
La redazione

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