Ligabue e quella malinconia così ostinatamente cristiana

Le parole del noto cantautore italiano Luciano Ligabue per l’uscita dell’autobiografia intitolata “Una storia”. Il racconto di una malinconia presente nella sua vita e che forse non sa decifrare ma che lo accomuna a tutti gli uomini che sanno riflettere. Come Leopardi e don Giussani.

 
 
 

Luciano Ligabue si confessa al Corriere in occasione dell’uscita della sua biografia Una storia (Mondadori 2022).

Il noto cantautore di Correggio affronta tanti argomenti, tra gli altri anche il dramma di un figlio nato morto e sepolto nel Cimitero degli angeli.

Ligabue parla anche della fede, perché «non può non esistere una linea di giustizia che regola il mondo».

 

Ligabue salvato da una suora: «La malinconia nella vita».

Nell’intervista racconta anche quando rischiò anche di morire, aveva cinque anni e subì un’operazione sbagliata alle tonsille.

Si salvò solo grazie ad una suora«Mi scossero e vomitai tutto il sangue che stavo ingurgitando», ricorda. «Mancava il plasma del mio gruppo, me lo donò una suora. Forse il senso di colpa viene anche da lì, dal sangue della suora».

Il tema più interessante è effettivamente legato a questa malinconia che Ligabue dice di provare. «C’è nella mia vita. E nelle mie canzoni», spiega. «Mi porto dentro da sempre un senso di colpa, un pensiero di troppo. Sarà il retaggio catto-comunista».

Più avanti spiega che uno dei suoi maggiori successi, Certe notti, nasce «dall’inquietudine, dall’irrequietezza. Sono le notti in cui devi uscire perché non sei in pace con te stesso, cerchi di risolvere qualcosa».

E ancora: «Anche quella è una canzone fraintesa. Quasi tutte nascono da un disagio personale che mi consente di far arrivare agli altri quel che provo».

 

Quella malinconia vissuta e descritta da Leopardi.

Ligabue, senza accorgersene, è in celebre compagnia.

Non c’è nessun altro italiano al di fuori di Giacomo Leopardi che ha saputo esprimere al meglio questa nota onnipresente nella vita dell’uomo non superficiale, dell’uomo che riflette seriamente sul senso delle cose e della propria vita.

La malinconia di Leopardi, troppo spesso scambiata per depressione, è il riconoscimento ed il desiderio di un bene assente, una sproporzione tra il desiderio di infinito e l’apparente assenza di una risposta nella realtà.

«Natura umana, or come, se frale in tutto e vile, se polve ed ombra sei, tant’alto senti1G. Leopardi, Sopra il ritratto di una bella donna.

Nel Canto notturno esplode la malinconia di Leopardi: «E quando miro in cielo arder le stelle, dico fra me pensando: a che tante facelle? Che fa l’aria infinita e quel profondo Infinito seren? Che vuol dire queste solitudine immensa? Ed io, che sono?»2G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.

 

Don Giussani e la malinconia come richiamo di Dio.

Effettivamente “malinconia” (come anche “tristezza”) è uno dei termini più cari al cristianesimo.

E’ molto interessante la lettura del teologo italiano Luigi Giussani quando scrive che si tratta di «una nota inevitabile e significativa della vita, perché nella vita, in ogni suo momento tu hai la percezione di qualcosa che ancora ti manca; la tristezza è un’assenza sofferta»3L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli 2007, p. 338.

Ligabue riconosce che quel “tarlo” che si ritrova dentro deriva dalla sua educazione cattolica ed effettivamente nel cristianesimo viene valorizzata la tristezza come percezione naturale di “qualcosa che manca”. Qualunque successo si raggiunga…manca sempre qualcosa.

La malinconia, per questo, può essere vista come un’ancora di salvezza, un richiamo costante posto da Dio nell’uomo perché non si illuda mai di potersi accontentare, di essere autosufficiente, non rischi di allontanarsi troppo da Lui.

«Che la vita sia triste», continua don Giussani, «è l’argomento più affascinante per farci capire che il nostro destino è qualcosa di più grande. E quando questo mistero ci viene incontro diventando un uomo, allora questo fascino diventa cento volte più grande»4L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli 2007, p. 338.

 

Nei giorni precedenti alla Pasqua del 2020, Donatella Puliga, docente di Mitologia classica all’Università di Siena, ha espresso a suo modo tutto ciò in una bellissima riflessione:

«Verso cosa tendiamo, e quale “tu” attendiamo? Ora che tutto indietreggia nelle nostre vite e qualcosa di nuovo si fa strada verso di noi, gustare un diverso sapore del mondo acquista, nel tempo pasquale, una valenza in più e ci fa sperimentare l’inatteso e l’oltre, così radicalmente inscritti nell’orizzonte della nostra finitudine».

La redazione

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