Prostituzione nel Medioevo: male minore e carità della Chiesa

la mala vita mazziMedioevo e prostituzione. Recensione del libro “La mala vita” della storica Maria Serena Mazzi, docente presso l’Università di Firenze e Ferrara. Venne tollerata come forma di difesa delle donne dalle aggressioni sessuali dei giovani, un male accettato per mitigare uno più grande. L’aiuto della Chiesa a liberare le prostitute e offrire loro una vita nuova.

 

Prostituzione nel Medioevo. Un tema poco studiato e pieno di sorprese. Ne ha parlato Maria Serena Mazzi, docente di Storia medievale presso le Università di Firenze e Ferrara, con piglio femminista e un po’ anticlericale, non troppo tenero nei confronti di un periodo storico da molti definito “oscuro”, spesso colpito da leggende nere e resoconti da film horror. Il suo nuovo libro si intitola La mala vita. Donne pubbliche nel Medioevo (Il Mulino 2018).

Quello delle meretrici, così il nome delle donne che mettevano in vendita il loro corpo, è stato anche nel Medioevo «un fenomeno complesso e ampio, ma soprattutto un problema, difficile da contrastare, più ancora da risolvere». (p. 8). Che cosa portò le principali città europee a dotarsi di bordelli pubblici a partire dalla metà del XIV secolo? La storica dell’Università di Firenze individua la ragione nel “male minore”, ovvero la necessità di difendere le donne. Vi era, infatti, un fenomeno piuttosto diffuso di giovani più o meno benestanti che soli o in gruppo aggredivano sessualmente le vedove o le donne sole, perché il marito era in guerra.

 

Prostituzione nel Medioevo e male minore.

Così, «i legislatori di molti paesi d’Europa fra Tre e Quattrocento credettero di individuare un rimedio opportuno a questi mali nella “fornicazione municipalizzata” e nelle prostitute uno strumento per mitigare l’aggressività dei giovani maschi e soddisfare le loro necessità, salvaguardando al tempo stesso la virtù delle donne onorate» (p. 40). A poco sembravano infatti servire le leggi di continuo proclamate, adattate, migliorate per contenere la violenza carnale. Nei consigli cittadini si individuò così nella creazione dei postriboli cittadini l’unica soluzione per mitigare un male più grande, «questo sistema avrebbe evitato crimini ben più gravi, come le violenze alle vergini, alle donne sposate, alle vedove oneste e alle monache, che erano in crescita ovunque e impensierivano le municipalità» (p. 41). Si aspirava anche a correggere e sradicare «i comportamenti “contro natura” rappresentati dall’omosessualità e dai rapporti sessuali di tipo sodomitico», incoraggiando la ripresa di unioni feconde e i matrimoni.

Così, lentamente, la società medioevale arrivò a tollerare e giustificare la prostituzione secondo la teoria del “male minore”, come scrisse anche Sant’Agostino nel De ordine e nel De civitate Dei. «Come Mosè aveva concesso agli uomini del suo popolo il ripudio delle proprie mogli per evitare l’omicidio dopo aver constatato quanto la pratica fosse divenuta frequente e adottata quasi come una forma praticabile di separazione», ha spiegato la storica del Medioevo, «il concetto del “male minore”, utile a evitare mali ben più gravi e pericolosi, legittimò fino dai secoli più lontani la tolleranza della prostituzione. Anziché rischiare la corruzione di altre oneste, e soprattutto per cancellare l’”abominevole vizio della sodomia”» (p. 27).

 

Chiesa medievale e prostituzione.

E la Chiesa cattolica? Che ruolo ebbe in tutto ciò? Se ne parla nell’ultimo capitolo del libro. Almeno a partire dal XIII secolo, rivolse una mano tesa alle donne, alle prostitute, alle cosiddette “donne pubbliche”, orientando verso di loro «un’opera di conversione e soccorso, in alcuni casi anche di prevenzione attraverso il finanziamento di doti alle giovani povere». Furono diversi i tentativi messi in atto dalla Chiesa medioevale per aiutare le meretrici a cambiare vita, a migliorare la loro situazione, a dar loro speranza. Papa Innocenzo III, ad esempio, nel 1198 promise in una bolla «la remissione dei peccati a quanti avessero preso in moglie una prostituta pentita, per incoraggiare al rientro in una onesta vita matrimoniale le donne delle strade e dei bordelli». Nel 1227, un altro pontefice, Gregorio IX, «concedeva all’ordine di santa Maria Maddalena, da poco fondato, il diritto di creare case e rifugi per le penitenti».

Quest’opera di recupero, spiega la storica Maria Serena Mazzi, «nasceva all’interno di un più vasto movimento penitenziale, con l’intento di salvare dal peccato le prostitute e dalle tentazioni continue i loro clienti. Reinserendole nella comunità attraverso il matrimonio o relegandole in una comunità a parte come gli istituti delle Convertite o di Santa Maddalena, si otteneva lo scopo di limitare il numero delle meretrici e di condurre un’attività risanatrice. La dotazione come atto caritativo nei confronti di fanciulle in età da marito ma così povere da non disporre del minimo necessario per contrarre un matrimonio secondo le convenzioni e le norme sociali dell’epoca avrebbe permesso di salvarne alcune da un destino a volte inevitabile» (p. 29). Una discreta dote, infatti, avrebbe attirato qualche giovane con poche risorse, offrendo così «l’opportunità di una vita “normale” a ragazze che rischiavano il declassamento sociale e la pericolosa attrazione di un mondo contiguo e separato, governato da regole diverse, dove la vita seguiva un altro ritmo e il tempo scandiva le giornate in altro modo, fino a smarrirsi dentro di esso» (p. 30).

Molte prostitute ricevettero così un aiuto concreto da parte della Chiesa, che le strappò da un mondo squallido, dominato dalla prepotenza dei clienti, dei protettori, dei ruffiani. «Si pagavano i debiti accesi da queste donne affinché potessero “scoderse et francharse del logo”. In definitiva per liberarle, restituirle a una condizione di libera scelta: allontanarsi da quel luogo per ricominciare altrove, da quei luoghi per cambiare la propria esistenza» (p. 149).

 

Ancora oggi, in Italia, la Comunità Papa Giovanni XXIII è impegnata da 25 anni a fianco delle vittime della prostituzione, tra gli unici ad occuparsi seriamente del destino di queste donne. Ne hanno “liberate” 7.000, accolte nelle loro strutture dopo averle incontrate nelle strade e aver offerto loro una vita d’uscita. Un fenomeno antico, ieri considerato un “male minore” ed oggi erroneamente ritenuto un “lavoro come un altro”. Ma è sempre stata e sempre sarà una forma di schiavitù.

La redazione

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Il Sessantotto ha distrutto la società: se a dirlo è l’Espresso

fallimento sessantottoSessantotto e società. Il settimanale l’Espresso e una riflessione dello storico Giovani Orsina sul fallimento sociale della rivoluzione sessantottina, ridottasi ad azione violenta e narcisismo individualista.

 

Se lo dice perfino l’Espresso, settimanale della sinistra radical & anticlerical, allora chi può smentirlo? Il Sessantotto ha distrutto la società, generando la crisi dei valori che viviamo oggi. A scriverlo sulle pagine della rivista “rossa” è lo storico Giovanni Orsina, ordinario di storia contemporanea alla LUISS Guido Carli di Roma.

Il ’68 compie mezzo secolo quest’anno e le riflessioni su quel periodo si moltiplicano. Orsina traccia un bilancio politico ma anche morale. «Vogliamo tutto!», era il motto dei giovani ribelli sessantottini, imbevuti della menzogna che la libertà equivalesse ad emancipazione, allo sradicamento dei legami e delle autorità e al far ciò che pare e piace. Le aspettative erano enormi, le bocche piene di cambiamento e azione non-violenta, poi -commenta implacabile lo storico- il tutto «si disperde in mille rivoli ideologici l’un contro l’altro armati; o si riduce a perseguire l’azione per l’azione, magari violenta; oppure finisce riassorbita nei partiti della sinistra tradizionale».

Il fallimento trasforma così gli obiettivi della contestazione: «non più la soddisfazione del desiderio individuale come strumento di rivoluzione politica, ma la soddisfazione del desiderio individuale punto e basta». Il benemerito desiderio di una “liberazione” scartò, deridendola, la proposta cristiana (forse a volte formulata effettivamente in modo troppo moralistico e poco entusiasmante) e, tuttavia, non trovò alcuna risposta soddisfacente né nella politica, né nella stessa rivoluzione.

I Sessantottini cancellarono il passato e fallirono pure anche solo nel proporre una valida alternativa per il futuro. Scrive lo storico dell’Espresso: «Al di là e al di qua dell’Atlantico studiosi e intellettuali denunciano l’involuzione dell’“individuo desiderante” in un “narcisista” incapace di distinguere fra se stesso e la realtà; disconnesso da un passato e incapace d’immaginare un futuro; sovreccitato, autoreferenziale, e in definitiva profondamente infelice».

Così, la depressa infelicità dei padri si è riversata sui figli. Come ha dichiarato il celebre filosofo francese Remì Brague, professore emerito presso l’Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne: «i figli del baby boom diventati sessantottini», i giovanotti della sua stessa generazione, «si sono mostrati di un egoismo scoraggiante nei confronti della generazione seguente, che hanno voluto d’altra parte poco numerosa», considerando il tracollo demografico europeo. «Le hanno lasciato un ambiente inquinato, un debito pubblico sempre crescente e, nell’ambito morale, degli esempi di comportamento devianti e mortiferi. Mi auguro che la presente generazione ci getti il prima possibile nell’immondezzaio della storia».

Un esempio paradigmatico di tutto ciò è quanto ha raccontato il figlio di una delle icone principali del Sessantotto: John Lennon. «Un cattivo padre. Ed io non riesco a diventarlo per colpa sua», ha detto Julian, il figlio maggiore del leader dei Beatles. «Mio padre cantava d’amore, parlava d’amore, ma non ne ha mai dato, almeno a me che ero suo figlio».

La redazione

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In Cile sono arrabbiati con i vescovi, non con Dio: solo il 12% è non credente

credenti cilePedofilia, credibilità e Chiesa cattolica. Crollo di fiducia da parte del popolo cileno nell’istituzione ecclesiale, ma la comprensibile rabbia non ha allontanato da Dio. Vescovi e sacerdoti, se sapranno fare pulizia, possono ancora mostrare il vero volto della Chiesa, recuperando credibilità tra gli uomini.

 

Il Cile è un paese che più degli altri è stato colpito dal crimine della pedofilia in ambito cattolico, tanto che nel maggio scorso tutti i vescovi cileni si sono dimessi rimettendo il loro incarico nelle mani del Papa, affinché decida liberamente il futuro di ognuno. La chiesa cilena ha cercato di reagire alla catastrofe dell’omertà da lei commessa e, sotto indicazione del Vaticano, tutte le diocesi hanno ora l’ordine di collaborare con i Pubblici ministeri che indagano su casi di abusi su minori.

Ovviamente e comprensibilmente è crollata la fiducia dei cittadini nell’istituzione ecclesiale, non poteva che essere altrimenti. Tanti ne parlano, molti con soddisfazione altri con rabbia. Tuttavia andrebbe sottolineato un dato poco noto, emerso soltanto pochi giorni fa grazie ad un autorevole studio realizzato dal Centro de Estudios Públicos, (CEP). La fondazione cilena ha raccolto il cambiamento religioso nel Paese negli ultimi 20 anni, constatando una enorme perita di credibilità della Chiesa cattolica ma rilevando, tuttavia, il permanere di un’altissima religiosità.

Se nel 1998 8 cileni su 10 affermavano che “Dio esiste, non ho alcun dubbio”, oggi lo affermano 7 su 10. Una riduzione del 10% in vent’anni, un cambiamento minimo rispetto all’ondata di secolarizzazione che ha colpito altri paesi.

Il 68% degli appartenenti ad una religione cristiana è devoto a Maria e il 64% ai Santi, l’80% afferma di aver sempre creduto in Dio. I non credenti sono risultati essere il 4% della popolazione, erano il 2% nel 1998, a cui va aggiunto l’8% di coloro che non credono in un Dio personale. Il 30% dei cileni, ha dichiarato di pregare ogni giorno (vent’anni fa era il 40%) e solo il 23% dichiara di non pregare mai (era il 15% due decenni fa).

Il vero crollo, come spiegavamo, si è verificato tra coloro che si sono dichiarati cattolici, passati dal 73% del 1998 al 55% di oggi, e solo il 17% afferma di avere “piena o grande fiducia” nella Chiesa cattolica. Rispetto al 1998 sono aumentati gli evangelici (16% vs 14%) e le persone senza denominazione religiosa (24% vs 7%).

Occorre anche dire che il popolo cileno ha ancor meno fiducia in altre istituzioni: solo il 7%, infatti, ha dichiarato di avere “molta fiducia” nel sistema giudiziario e il 5% è fiducioso nel ​​Parlamento che essi stessi hanno votato.

E’ possibile concludere, dunque, che la rabbia a causa del tradimento dei preti autori di abusi sessuali e dell’insabbiamento dei vescovi non ha allontanato i cileni da Dio, non li ha portati all’ateismo, ma piuttosto verso un disincanto, una vaga ed individuale spiritualità. La frattura tra fede e Chiesa c’è, innegabile, però se i vescovi riusciranno a guadagnare nuovamente credibilità sarà possibile in alcuni anni rimediare al grande male che i preti criminali hanno causato: non certo verso le povere vittime e le loro famiglie, ma per lo meno rispetto alla credibilità di una Chiesa che afferma di essere la continuazione fisica della presenza di Cristo nella storia e la cui missione è spesso macchiata ed indebolita dal peccato degli uomini che in molti casi la rappresentano.

La redazione

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La preghiera torna a scuola, la bella rivincita degli studenti del Texas

Scuola e laicità. La scuola del Texas inverte la sua politica e colma un vuoto normativo permettendo agli alunni di raccogliersi in preghiera, lo stesso hanno deciso di fare i giocatori di una scuola della Georgia. Due casi che rivelano la permanenza di un profondo tessuto sociale nella società occidentale.

 

Sotto Natale, si sa, si intensificano le battaglie degli atei militanti. Contro il presepe, contro il crocifisso e contro qualunque aspetto religioso nella società pubblica, sopratutto nelle scuole. Negli Stati Uniti c’è a tema l’interpretazione corretta del Primo emendamento della Costituzione. Ecco due esempi contemporanei.

In Texas, grazie all’offensiva laicista, una scuola ha preso ufficialmente posizione permettendo agli studenti di potersi raccogliere in preghiera, colmando così un vuoto normativo prima esistente. E’ accaduto alla Honey Grove Middle School, dove un gruppo di alunni si era spontaneamente riunito durante il pranzo nella mensa scolastica e, prendendosi per mano, aveva pregato per un compagno di classe coinvolto in un grave incidente. Il preside, Lee Frost, aveva però immediatamente interrotto gli studenti dicendo loro: «Non lo farete mai più!», stabilendo che gli alunni potevano pregare soltanto al di fuori dell’edificio scolastico. La notizia è prevedibilmente diventata un caso nazionale, con pronunciamenti a favore e contro l’iniziativa del preside.

Il First Liberty Institute, un’organizzazione legale senza scopo di lucro, è intervenuta legalmente a sostegno dei giovani studenti affermando che l’azione del preside aveva violato i loro diritti. «Gli studenti non dovrebbero nascondersi o essere esiliati per pregare l’uno per l’altro», ha detto Keisha Russell, consigliere associato dell’organizzazione. «I funzionari scolastici devono ricordare che gli studenti non perdono i loro diritti contenuti nel Primo Emendamento al cancello della scuola, speriamo perciò che questo problema possa essere risolto rapidamente e facilmente». Così è stato. I funzionari della scuola hanno rapidamente invertito la loro politica dopo aver ricevuto la diffida del First Liberty Institute e ora gli studenti sanno che possono pregare liberamente anche di fronte agli altri compagni, purché non interferiscano con le normali attività scolastiche.

Non è andata così bene in Georgia, dove all’allenatore Russel Davis è stato proibito di unirsi in preghiera assieme ai suoi giocatori di football del liceo scolastico, prima della partita. L’orazione (il video qui sotto) aveva sempre concluso il classico momento di incitamento sportivo e morale prima dell’incontro sportivo, un importante momento formativo per i giovani studenti a cui vengono insegnati loro i valori della vita tramite lo sport, il sacrificio, il rispetto degli avversari e l’affidamento a Dio. Si tratta della scuola pubblica della contea di Dawson e il divieto è arrivato dopo la denuncia della Freedom From Religion Foundation, un’associazione di avvocati atei. Secondo loro, la preghiera è incostituzionale ed è una «grave e flagrante violazione del Primo emendamento».

Tuttavia, il Dawson County News ha riferito che gli studenti-giocatori non hanno permesso a questa decisione di impedire loro di raccogliersi prima del match sportivo. I liceali, infatti, hanno deciso di unirsi comunque in preghiera, in totale autonomia. La Dawson County High School ha sconfitto i rivali della Lumpkin County High School per 36-3, ma ha anche dato una testimonianza umana e di fede. Così come fecero, qualche mese fa, i genitori dei giocatori di una scuola dell’Alabama a cui venne impedito recitare la tradizionale preghiera prima dell’inizio delle partite di football.

 

Qui sotto il momento di preghiera negli spogliatoi della Dawson County High School

 

La redazione

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«Cristo era un migrante», a dirlo Benedetto XVI e Giovanni Paolo II

gesù era un migranteGesù un migrante? Per Antonio Socci è una “fissa bergogliana” globalista, in realtà lo disse Papa Ratzinger e, prima di lui, Pio XII, Paolo VI e Giovanni Paolo II. Da sempre la Chiesa vede nella famiglia di Gesù un’icona dei rifugiati, dei migranti, di coloro che scappano, dello straniero che bussa e chiede accoglienza.

 

Il giornalista Antonio Socci picchia duro contro Papa Francesco. Nel suo nuovo editoriale dice: «Il “Cristo migrante” teorizzato dalla Chiesa bergogliana non c’entra niente con il vero Gesù». Secondo lui, dal 2013, «anno di arrivo di Bergoglio, si rilancia l’idea della Sacra Famiglia come una famiglia di migranti. Ma il Vangelo racconta una storia del tutto diversa». Segue tutta l’interpretazione socciana del Nuovo Testamento, ma ci risparmia il suo tipico motto luterano: “I cattolici scelgano: o con Gesù Cristo o con Bergoglio”.

Davvero si tratta di un’altra eretica idea bergogliana? Era il 18 ottobre 2006 quando Benedetto XVI celebrava la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, intitolando il suo intervento così: “La famiglia migrante”. A chi scandalosamente si riferiva Papa Ratzinger? «Guardando alla Santa Famiglia di Nazaret, icona di tutte le famiglie, vorrei invitarvi a riflettere sulla condizione della famiglia migrante», disse nell’introduzione. A seguire il papagno ratzingeriano, da dedicare ai giornalisti di Libero, come Mario Giordano che si è affannato proprio l’altro giorno a ricordare che «Gesù Bambino non era un migrante!!».

Ed ecco le parole di Benedetto XVI:

«Nel dramma della Famiglia di Nazaret, obbligata a rifugiarsi in Egitto, intravediamo la dolorosa condizione di tutti i migranti, specialmente dei rifugiati, degli esuli, degli sfollati, dei profughi, dei perseguitati. Intravediamo le difficoltà di ogni famiglia migrante, i disagi, le umiliazioni, le strettezze e la fragilità di milioni e milioni di migranti, profughi e rifugiati. La Famiglia di Nazaret riflette l’immagine di Dio custodita nel cuore di ogni umana famiglia, anche se sfigurata e debilitata dall’emigrazione». Il Papa emerito terminò il suo intervento spiegando che «la Chiesa è a favore non solo dell’individuo migrante, ma anche della sua famiglia», invocando il ricongiungimento familiare e valorizzando il lavoro dei «Centri di ascolto dei migranti, Case per accoglierli». Ai rifugiati, ancora, va «assicurato un alloggio consono alle loro esigenze» ed occorre sensibilizzare la società «sulle potenzialità positive delle famiglie migranti».

A ricordare questo testo di Benedetto XVI sono stati gli amici che gestiscono la pagina Facebook intitolata Bastabugie contro il papa, che hanno tirato le orecchie ai sedicenti ratzingeriani che combattono Francesco in nome di Benedetto XVI, senza però conoscerne il pensiero. «L’ormai ben noto Socci», si legge, «lascia intendere che il paragone della famiglia di Nazareth ai migranti sia un’invenzione dell’attuale Santo Padre e si avventura sciaguratamente (come al solito) nel campo della teologia per sostenere il contrario, Vangelo (da lui maldestramente interpretato) alla mano». Giustamente si fa notare che nel suo discorso, Benedetto XVI ha richiamato a sua volta il suo predecessore Pio XII, il quale nel 1952 scrisse: «La famiglia di Nazaret in esilio, Gesù, Maria e Giuseppe emigranti in Egitto e ivi rifugiati per sottrarsi alle ire di un empio re, sono il modello, l’esempio e il sostegno di tutti gli emigranti e pellegrini di ogni età e di ogni Paese, di tutti i profughi di qualsiasi condizione che, incalzati dalla persecuzione o dal bisogno, si vedono costretti ad abbandonare la patria, i cari parenti, i vicini, i dolci amici, e a recarsi in terra straniera» (Exsul familia, AAS 44, 1952, 649).

Anche il quotidiano Avvenire, tramite Guido Mocellin, ha accennato a questo passaggio di Pio XII rispondendo ad «alcuni blogger», come «Antonio Socci che è arrivato ad addebitare a Papa Francesco l’invenzione della “Sacra Famiglia come famiglia di migranti”». Per chi non ne ha abbastanza si potrebbe anche citare Paolo VI, quando affermò: «È urgente che nei loro confronti si sappia superare un atteggiamento strettamente nazionalistico per creare uno statuto che riconosca un diritto alla emigrazione, favorisca la loro integrazione. È dovere di tutti – e specialmente dei cristiani – lavorare con energia per instaurare la fraternità universale, base indispensabile di una giustizia autentica e condizione di una pace duratura» (Octogesima adveniens, 17). Se lo avesse detto Francesco, Maurizio Belpietro avrebbe già fatto il titolo: “Bergoglio: il primo Papa contro la Lega”.

Ed infine uno dei tanti discorsi di Giovanni Paolo II. Ecco ad esempio le sue parole globaliste e a favore dell’immigrazione massiccia, illegale ed incontrollata (almeno così direbbe Socci): «La vostra presenza, carissimi migranti, ricorda che lo stesso Figlio di Dio, venendo ad abitare in mezzo a noi (cfr Gv 1, 14) si è fatto migrante: si è fatto pellegrino nel mondo e nella storia».

Si scopre così che quella che viene spacciata per una “fissa bergogliana” altro non è che la posizione della Chiesa, di Pio XII, di Paolo V, di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI. Accoglienza cristiana ai migranti, ha ribadito poco tempo fa Bergoglio, verso cui abbiamo una «responsabilità morale», ma salvaguardando anche «il bene comune». Ovvero, nei limiti del possibile di ogni Stato e –ha aggiunto– quando non si può integrare, «meglio non accogliere» e trovare altre soluzioni.

La Chiesa, anche con Papa Francesco, è dalla parte giusta della storia, quella del Vangelo, “ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35). Per noi è motivo di orgoglio, per altri è rabbia e stridore di denti. Poco importa, fondamentale è che non si caschi nel tranello di isolare Francesco dai suoi predecessori. Sia che lo si voglia lodare, sia per condannarlo.

La redazione

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Il vescovo pilota che porta aiuti con il suo ultraleggero

carità chiesa isola salomoneIl vescovo pilota delle Isole Salomone. Mons. Capelli porta cibo e farmaci ai bisognosi attraverso il piccolo aereo regalatogli dai suoi amici, un esempio della carità silenziosa che la Chiesa fa ogni giorno, in silenzio.

 

«La Chiesa cresce in silenzio, in preghiera, di nascosto, con le buone opere». Così ha parlato Papa Francesco, recentemente, in una meditazione. È bene tenerlo in mente, perché le buone opere«non fanno notizia», ma «la crescita propria della Chiesa, quella che dà frutto, è in silenzio, di nascosto con le buone opere».

Già in passato avevamo parlato della carità silenziosa della Chiesa Cattolica in Italia e nel mondo. Oggi la nostra attenzione va ad un esempio particolare di tale carità, quello di mons. Luciano Capelli, vescovo di Gizo, capitale delle Isole Salomone, il quale porta cibo e farmaci alle popolazioni locali bisognose, volando con l’aereo ricevuto in dono dai suoi amici. Una piccola storia ma esemplare.

«Da piccolo volevo pilotare gli aerei», racconta, «poi ho fatto il prete e adesso sono un vescovo pilota. Cosa potrei chiedere di più dalla vita?». Sicuramente, Dio ha posto questa forma di originalità al servizio di molte persone. «Alla guida del mio ultraleggero anfibio», prosegue Mons. Capelli, «raggiungo gli ospedali, le scuole, le comunità a cui consegno viveri, farmaci, generi di prima necessità. Gli spostamenti sono più rapidi volando». Il tutto nonostante tsunami, terremoti sopra i sette gradi Mercalli e piogge monsoniche.

Salesiano ed oriundo valtellinese, dopo 35 anni di missione nelle Filippine, mons. Capelli è andato ancora più lontano dalla sua terra d’origine e nel 2007 è stato nominato Vescovo di Gizo da Papa Benedetto XVI. Non sempre, però, è stato un “vescovo volante”, come è soprannominato: per poter aiutare il mezzo milione di persone che vivono nelle Isole Salomone, «si è sottoposto con successo a un corso intensivo durato un mese per diventare operativo il prima possibile», come riporta il pilota ed istruttore dell’Aero Club di Caiolo, Enrico Magni. Infatti, ha spiegato mons. Capelli: «i costi della miscela per le barche sono molto elevati. L’ultraleggero e il brevetto erano un’urgenza della missione, per permettermi di essere presente a incoraggiare, animare, sollevare i cuori».

Dietro a questa lodevole forma di carità, tuttavia, non c’è solo Don Capelli, ma un’intera comunità, che in Valtellina ha organizzato una raccolta fondi per sostenere la missione nelle Isole Salomone. Come ha spiegato Piera Pellizzatti, responsabile della onlus Progetto Salute Isole Solomons, «la raccolta fondi, che è sempre aperta, è servita non solo per contribuire all’acquisto dell’aereo, con l’aiuto della CEI, ma anche per sostenere una serie di progetti importanti». Tra questi si contano la costruzione di un ospedale, otto centri materni, quattro scuole (tra cui un istituto agricolo) ed un punto nascite dove ogni anno avvengono circa mille parti. Inoltre, è stato realizzato uno spazio per accogliere le donne malate terminali, altrimenti abbandonate perché ritenute infette dalle popolazioni locali.

Questa è un’illustrazione della differenza che, nel silenzio, la Chiesa fa ogni giorno nel mondo, dove qualcuno addirittura vola per aiutare il prossimo. Tutto ciò, ovviamente, non finisce sulle prime pagine delle testate giornalistiche, a differenza degli scandali. Come ricorda ancora Papa Francesco, «sui giornali vengono le notizie di quello che fanno tanti sacerdoti, tanti preti in tante parrocchie di città e di campagna? La tanta carità che fanno? Il tanto lavoro che fanno per portare avanti il loro popolo? No, questa non è notizia! Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce». Per ora, guardiamo alla foresta che cresce. Grazie, Monsignor Capelli!

Marco Visalli

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Nasce Open, il quotidiano di Mentana: subito spot a gender ed eutanasia

quotidiano online mentanaEnrico Mentana accompagna il lancio del suo quotidiano online “Open” con una marchetta verso il “terzo genere2 e l’eutanasia di Dj Fabo. Un giornale nato vecchio, per nulla controcorrente: la solita informazione unidirezionale senza contraddittorio, un altro megafono del pensiero unico.

 

«Un modello per ribaltare le logiche tradizionali» del giornalismo. Con queste parole Enrico Mentana ha lanciato ieri il quotidiano online di cui è editore, Open. Fatto da giovani per i giovani (da leggersi con la “c” al posto della “g”).

Ci si aspettava chissà quali novità, invece è la solita zuppa. La solita marchetta al mondo Lgbt e alle istanze dei Radicali, un ennesimo megafono per diffondere il pensiero unico.

Nella home-page di ieri, giornata di lancio ufficiale del quotidiano online, capeggiava l’immagine della Gioconda con i colori arcobaleno a corredo di un post che sponsorizzava «le storie e le emozioni dei giovani italiani che non si identificano nei generi maschile e femminile». Dicono di appartenere al gender fluid, un un “terzo genere”.

Mentana è già rimasto indietro, fossilizzato ai tre generi. Sveglia Enrico! I generi sono almeno 23, lo ha stabilito l’Australian human rights commission. Ecco quali: uomini, donne, omosessuali, bisessuali, transgender, trans, transessuali, intersex, androgini, agender, crossdresser, drag king, drag queen, genderfluid, genderqueer, intergender, neutrois, pansessuali, pan gender, third gender, third sex, sistergirl e brotherboy.

Come non rilevare, poi, una terribile gaffe. L’appartenenza al “gender fluid”, si legge sul nuovo quotidiano di Mentana, sarebbe un «cambiamento culturale» a cui dovremmo aprirci. Cioè, non una vera e propria modifica identitaria ma una moda di tendenza che arriva dal Nord Europa, dunque nulla a che vedere con l’identità sessuale, la quale rimane legata alla corporeità biologica. Come non essere più d’accordo! Il corpo di questi ragazzi -così confusi e la cui stranezza è usata dal consumato giornalista Mentana per lanciare il suo giornale-, continuerà sempre a comportarsi secondo lo schema binario: “maschio” o “femmina”, infischiandosene dei “cambiamenti culturali” e del “mi sento in un corpo sbagliato”. Al tema gender fluid sono dedicati altri 5 post, tutti in un’unica direzione: appartenere al terzo sesso è normale, sinonimo di libertà, bisogna abbattere l’ignoranza e la chiusura mentale degli italiani.

Come se non bastasse, Open ha deciso anche di puntare su uno spottone per l’eutanasia. L’altra fotografia scelta da Mentana, infatti, è quella di Dj Fabo, il quale è «andato a morire in Svizzera per porre fine a un’ingiustizia». Dove per ingiustizia si intende, probabilmente, la vita. Così, il ricordo di Piergiorgio Welby è obbligatorio, ed il quotidiano online promette di «richiamare senatori e deputati a non tirarsi indietro» di fronte ad una legge a favore del suicidio di Stato.

Il quotidiano di Mentana si autopromuove dicendo che farà «nuova informazione», che sarà «aperto al nuovo, alle contaminazioni, ai contributi e alle critiche. OPEN, appunto». Tutto già visto, invece. La solita informazione unidirezionale, i soliti servizi privi di contraddittorio, il solito pensiero unico. Un quotidiano nato vecchio.

La redazione

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Cherofobia, temere la felicità perché poi torna il non senso della vita

paura della felicitàCherofobia significa paura della felicità, è il titolo del brano cantato da Martina Attili a X Factor. Si teme che la felicità duri troppo poco, c’è il desiderio di compimento ma la realtà tradisce le aspettative. Ne parlano anche Sartre, Claude Levi-Strauss e Bertrand Russell. Ma non è un disturbo, è la più autentica posizione umana senza il cristianesimo.

 

E’ da pochi anni che in ambito medico si parla di “cherofobia”, “paura ad essere felici”: i primi studi risalgono quasi tutti al 2013. In Italia se ne sta parlando più che all’estero grazie ad una giovane artista, Martina Attili (15 anni), autrice di un brano cantato sul palco di X Factor (video più sotto).

La cherofobia non si tratta di una vera e propria patologia ma un disagio che colpisce in particolar modo i Millennials, cioè la generazione nata tra i primi anni ottanta e la fine degli anni novanta. Non bisogna farsi ingannare dalla parola, non si tratta della paura ad essere felici ma di non esserlo. O meglio, si teme che la felicità duri troppo poco.

«Non riesco a vivere senza qualcosa che mi opprime, che mi indichi la fine», canta Martina Attili in Cherofobia. «Ed il mio cuore è come un fiore, crede ancora nel bene. Non sa che i petali cadranno tutti insieme». Lo definiscono un disturbo ma in realtà è la lucida consapevolezza che dovrebbero avere tutti. Non è Martina ad essere “strana”, sono tutti gli altri ad essere distratti.

I grandi pensatori sono tali perché richiamano l’uomo dalla sua distrazione, lo distolgono dalla routine. Ne citiamo tre, come esempio. «Siamo una parentesi tra due nulla», scriveva Jean Paul Sartre. Le creazioni dello spirito umano, continuava Claude Levi-Strauss, non hanno senso perché «si confonderanno nel disordine quando l’essere sarà scomparso». L’uomo, «la sua origine, la sua crescita, le sue speranze e paure, i suoi amori e ciò in cui crede», affermava il matematico Bertrand Russell, «non sono altro che il risultato di una collocazione accidentale di atomi. Tutte le opere della storia, tutta l’inspirazione, tutta la luminosità del genio umano sono destinate all’estinzione nella vasta morte del sistema solare. L’intero tempio delle conquiste dell’uomo deve inevitabilmente essere sepolto tra i detriti di un universo ridotto in macerie. Solo sull’impalcatura di queste verità, solo sulle salde fondamenta di un’inesorabile disperazione, l’abitazione dell’anima potrà essere costruita in sicurezza» (B. Russell, A Free Man’s Worship, Mosher 1923).

Levi-Strauss vedrà nel “noi”, nello stringersi gli uni agli altri, l’unica possibilità di consolazione per non soccombere tra «questa apparenza ed il nulla». Russell, invece, lo leggiamo: è sulla disperazione che si può fare forza, in una stoica resistenza. Sono soluzioni fragili ed illusorie, ma vanno rispettate. Ce ne fossero ancora di pensatori di questo calibro! La vera posizione umana: quella di un’attesa, di un bisogno di compimento che non trova soluzione nella realtà. Lo scriveva qualche mese fa l’anarchico Massimo Fini: «Quel che ci manca non ha limiti, non si può essere “felici mai”». Quell’originale desiderio di essere felici, che le cose abbiano un senso è quel che emerge dalle riflessioni di Sartre, Levi-Strauss e Rusell. Perché, dopo quei rari momenti di serenità ecco che torna il grande incubo del non senso: tutto ha una data di scadenza. E, con le debite proporzioni, è anche quello che la giovane Martina dice nel suo brano: «non riesco a vivere senza qualcosa che mi opprime, che mi indichi la fine».

Questa sarebbe l’unica autentica posizione dell’uomo senza il cristianesimo, cioè senza che quel giorno quell’Uomo di Nazareth non avesse preteso di essere via, verità e vita, vincendo sulla morte e dando un orizzonte di senso eterno. Una vita nuova, colma di speranza. Per nulla illusoria poiché originata da un incontro fisico, quello con la comunità cristiana, che introduce la presenza del Mistero nell’esistenza. «Noi cristiani», ha ricordato qualche giorno fa Papa Francesco, «siamo chiamati a custodire e diffondere la gioia dell’attesa: attendiamo Dio che ci ama infinitamente e al tempo stesso siamo attesi da Lui. Vista così, la vita diventa un grande fidanzamento. Non siamo lasciati a noi stessi, non siamo soli. Siamo visitati, già ora».

 

Qui sotto il brano Cherofobia cantato da Martina Attili

La redazione

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I trans nei bagni che vogliono: scoppia il caos negli Stati Uniti (e non solo)

I bagni in base al “genere”, non al sesso. Un’impostazione ideologica che sta creando cause legali, problemi scolastici, discriminazioni alle donne. Un resoconto dell’ultimo mese.

 

E’ stato un cavallo di battaglia di Barack Obama quello di creare politiche “inclusive” per i transgender nelle scuole, consentendo loro di accedere liberamente in qualunque bagno. Ma la decisione è stata revocata nel 2016 dall’amministrazione Trump.

Tuttavia, gli Stati americani mantengono un’autonomia di scelta su tale tema ed in Flordia, ad esempio, un distretto scolastico ha concesso agli studenti trans di spogliarsi e farsi la doccia senza troppo a badare al sesso segnato sulla carta d’identità. Il professore di ginnastica però si è rifiutato di sorvegliare la transessuale minorenne mentre utilizzava lo spogliatoio maschile, sentendosi a disagio. E’ stato così minacciato di licenziamento, generando rabbia e proteste nella comunità e tra i genitori degli studenti.

In North Carolina era diventato un caso internazionale la legge che specificò che i bagni pubblici vanno divisi in maschili e femminili e chi è nato geneticamente maschio non può accedere al bagno femminile (e viceversa). Un’ovvietà che generò scandalo, tanto da mobilitare decine di star di Hollywood. Il bathroom bill venne parzialmente abrogato ma la vicenda legale e politica è ancora in corso.

In Pennsylvania, invece, un gruppo di studenti ha chiesto alla Corte Suprema degli Stati Uniti di proteggere la loro “privacy corporale” a scuola, rovesciando la politica del “bagno transessuale inclusivo” adottata dal loro distretto scolastico. Tale “decisione obamiana”, infatti, ha creato notevole disagio ed imbarazzo nei giovani di ambo i sessi, costretti a togliersi gli abiti e lavarsi assieme a studenti del sesso opposto che però si “sentono” in un corpo sbagliato. «Costringere un adolescente a dividere uno spogliatoio o un bagno con un membro del sesso opposto può causare imbarazzo e angoscia, in particolare per gli studenti che sono stati vittime di violenza sessuale», si legge nell’appello.

La vicenda sta creando il caos anche al di fuori degli Stati Uniti. E’ la femminista Monica Ricci Sargentini a riportare che un tribunale in Norvegia ha assolto una donna (Brigitte) che aveva chiesto ad un transessuale (Sandra) di uscire dal bagno della palestra, il quale l’aveva denunciata per “molestie”. La stampa si era schierata a favore del trans: «Dove deve andare a farsi la doccia Sandra? Dovunque voglia farsi la doccia. Costringerla a frequentare lo spogliatoio maschile solo perché ha un organo genitale maschile sarebbe un abuso nei suoi confronti», ha scritto Karoline Skarstein sul quotidiano Stavanger Aftenblad. Il tribunale però ha assolto Brigitte ma la polemica è rimasta e molte femministe hanno iniziato a criticare la tesi Lgbt secondo cui il genere sarebbe un costrutto sociale e non biologico. A Liverpool le ReSisters risultato tuttora indagate in quanto hanno manifestato scandendo queste parole: «Le donne non hanno il pene. Questo non è un discorso di odio, non è transfobia, è un semplice dato di fatto biologico».

Nell’ottobre scorso riprendevamo una notizia dal Regno Unito, dove ad un transessuale è stato concesso di scontare la pena nel carcere femminile di Kent e lui ne ha approfittato per aggredire sessualmente quattro donne. E’ di due giorni fa la notizia che nelle scuole inglesi -per contrastare lo stigma verso i trans-, verrà insegnato che anche i ragazzi possono avere il ciclo mestruale. «Le mestruazioni devono includere tutti i sessi», recita il nuovo direttivo scolastico e gli assorbenti saranno disponibili sia nei bagni delle studentesse che in quelli dei maschi.

La redazione

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Scienziato dona 9 milioni all’Università Cattolica di Seul: a favore di bioetica pro-life

università cattolica di seulL’Università cattolica della Corea del Sud ha ricevuto una ingente donazione dal dott. Sung Young-chul, uno dei più famosi scienziati coreani. Con l’indicazione di utilizzare i fondi per contribuire ad una bioetica a favore della vita. Un accenno alla storia dell’arrivo del cattolicesimo in Corea.

 

Sung Young-chul è uno dei più noti scienziati coreani, docente all’Università di Scienze e Tecnologia di Pohang (Postech), e ha appena donato 10 milioni di won coreani (circa 9 milioni di dollari) all’Università Cattolica della Corea del Sud, per «contribuire alla ricerca nel campo della bioetica».

«Come scienziato», ha spiegato, «mentre collaboravo con l’Università Cattolica di Corea (CUK), è stato impressionante e commovente osservare l’impegno per il rispetto della vita in ogni aspetto della ricerca, a differenza di altri istituti di medicina. Ecco perché ho deciso di donare questi fondi all’istituto di Medicina di questa Università». Sung Young-chul è conosciuto anche all’estero e ha vinto numerosi premi per i suoi sforzi nel proteggere la dignità della vita umana e sostenere la ricerca per sviluppare trattamenti per malattie incurabili.

L’assegno è stato ricevuto dal card. Andrew Yeom Soo-jung, arcivescovo di Seoul e presidente del consiglio di amministrazione della “Catholic Education Foundation”. «Il movimento a favore della vita umana», ha spiegato il cardinale, «non può andare avanti senza il supporto della scienza. Apprezziamo molto il lavoro di ricerca del prof. Sung. L’Istituto universitario cattolico metterà sempre lo spirito cristiano del rispetto per la vita, dal concepimento fino alla morte naturale, al centro di tutte le attività di ricerca». Con questo denaro verrà costruita un’infrastruttura di ricerca presso l’Istituto per l’industria biomedica.

Il baricentro del cattolicesimo si sta lentamente spostando dall’Europa verso l’Africa e l’Asia, soprattutto, e la Corea del Sud sarà uno dei grandi paesi cattolici del futuro, essendo in generale la confessione in più rapida crescita in tutto il sud-est asiatico. Nonostante il cristianesimo sia ancora estraneo alla cultura coreana, nel 2010 i cattolici avevano superato i 5 milioni (11% della popolazione), con conseguente aumento delle ordinazione sacerdotali. La tendenza si è confermata nel 2012, con un aumento di dell’1.6% di cattolici ogni anno. Il 16 agosto 2014, la piazza Gwanghwamun nel centro di Seoul ha ospitato probabilmente il maggior numero di persone nella sua storia: circa 800.000 coreani si sono riuniti lì per salutare Papa Francesco, in visita alla città.

L’arrivo del cattolicesimo in Corea del Sud è una storia davvero interessante. L’ha raccontata Andrei Lankov, rinomato specialista in studi coreani:

«La dottrina cattolica cominciò a diffondersi in Corea alla fine del XVIII secolo nella maniera più insolita: fu introdotta dai libri, non dai missionari. I membri più giovani erano sempre più delusi dal neo-confucianesimo, che a quel tempo era l’ideologia ufficiale dello stato. Non erano interessati a perdere tempo a discutere se il principio del Qi trascende il principio di Li nel determinare la formazione dell’universo. Non volevano trascorrere tutta la loro vita discutendo su questioni astratte, volevano imparare come costruire armi migliori, realizzare gru per costruire edifici più grandi e sapere come la Terra gira intorno al Sole. Così iniziarono a leggere i trattati occidentali sulla tecnologia, l’astronomia e la fisica e tali libri vennero importati in Corea dalla Cina fin dai primi anni del 1700. Ma furono tradotti in cinese classico -l’unica lingua utilizzata dagli intellettuali in Cina e Corea- grazie ai missionari cattolici occidentali che allora operavano in Cina. Questi libri tecnologici e scientifici conservarono una serie di riferimenti positivi al cristianesimo e così, moltissimi giovani intellettuali, iniziarono anche a leggere testi esplicitamente cristiani. Molti di loro sentirono di aver finalmente trovato la verità e si convertirono. Fu così che, verso la fine del 1790, vi furono alcune migliaia di credenti cattolici in Corea, la maggior parte non aveva mai visto un prete cattolico prima né tanto era stato battezzato».

Tra i primi coreani battezzati vi fu un giovane sacerdote, ordinato in Cina: Sant’Andrea Kim Taegon. Il quale rientrò in patria nel 1845 e dopo un anno fu torturato e decapitato. Divenne un martire e sul suo sangue nacque un popolo di cattolici. Dal 1960 in poi, ha concluso Lankov, i leader della Chiesa cattolica coreana lottarono a favore della democrazia e «quando finalmente il dominio militare terminò nel 1987 e la Corea divenne finalmente un paese democratico, la Chiesa cattolica venne ampiamente riconosciuta per il suo ruolo in questo cambiamento sismico. Inutile dire che tali percezioni rafforzarono notevolmente la sua popolarità». Questo spiega anche perché il 25% dei parlamentari si dichiara cattolico, compreso l’attuale presidente Moon Jae-in.

La redazione

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