Jackson, nuova giudice: radicale pro-aborto e non sa definire “donna”

La candidata alla Corte Suprema, Ketanji Brown Jackson, crea indignazione ed imbarazzo per le sue risposte nelle udienze di nomina. Oltre alla clemenza verso la pedo-pornografia, la giurista afroamericana è un’attivista per l’aborto radicale e si è rifiutata di definire la parola “donna”.

 
 
 

Lei non è una biologa perciò non sa definire la parola “donna”.

E’ quanto accaduto mercoledì scorso durante le udienze prima della nomina a giudice della Corte Suprema di Ketanji Brown Jackson, scelta dal presidente americano Joe Biden e prima donna afroamericana ad essere candidata.

Si tratta notoriamente di una radicale pro-aborto che, tuttavia, non andrebbe a modificare l’attuale equilibrio di orientamento etico della Corte.

I giudici pro-life restano la maggioranza, a giugno gli USA attendono un verdetto storico che potrebbe affondare l’attuale legge sull’interruzione di gravidanza.

 

Jackson: «Non so definire “donna”, non sono una biologa»

I conservatori americani, e non solo, sono rimasti indignati dalla risposta di Jackson alla senatrice Marsha Blackburn.

«Può fornire una definizione per la parola ‘donna’»? Ha chiesto Blackburn.

Dopo attimi di esitazione ed imbarazzo, Jackson ha risposto: «No, non posso». «Come non può?», le ha chiesto Blackburn. «Non sono una biologa», ha detto Jackson.

 

Il video della riluttanza di Jackson è diventato virale e l’editorialista del New York Post ha definito “ridicola” questa risposta. «Anche io non sono un neurochirurgo, ma so cos’è un cervello. Questo è il pensiero “progressista” che porta al terrore di affermare fatti di base indiscutibili per timore di offendere la brigata woke».

In molti invece hanno giustificato la risposta di Jackson, rimarcando il fatto che il concetto di donna non è definito nella costituzione americana (ma nemmeno il concetto di cervello!) e che non si trattava di un’interrogazione di biologia.

I conservatori americani non si sono accorti però che nella non-risposta di Jackson, avvalorata dai suoi supporter, c’è già una sorta di risposta.

L’insistenza sul fatto che la “donna” sia un concetto relativo alla biologia smentisce di fatto la teoria gender secondo la quale, invece, si tratterebbe di un mero costrutto sociale.

Jackson si starà mangiando le mani, probabilmente se tornasse indietro risponderebbe: «Non so definire “donna”, non sono una psicologa».

Il giorno seguente, in una nuova audizione, Ketanji Brown Jackson ha cercato di rimediare alla brutta figura del giorno prima, affermando: «Senatori. So di essere una donna, so che la senatrice Blackburn è una donna e la donna che ammiro di più al mondo è oggi qui presente in questa stanza, mia madre».

«Wow, si è laureata velocemente in biologia!», ha twittato ironico un commentatore.

 

La candidata alla Corte Suprema non sa rispondere a nulla.

Non si tratta dell’unico caso controverso della candidata alla Corte Suprema.

Il senatore della Carolina del Sud e presidente della Commissione Giustizia del Senato, Lindsey Graham, ha chiesto a Jackson se era a conoscenza del fatto che il nascituro dopo 20 settimane di gestazione potesse sentire dolore.

«Senatore, non lo so», ha risposto Jackson.

Eppure si tratta di un tema prettamente giuridico in quanto in diversi stati americani l’evidenza del dolore fetale è usato per restringere la permissività della legge sull’interruzione di gravidanza.

Quando invece il senatore John Cornyn l’ha interrogata sul concetto di vitalità del bambino non ancora nato, ancora una volta Ketanji Brown Jackson ha fornito la stessa risposta.

«Senatore, non sono un biologo, non l’ho studiato. Non lo so». «Non sa dirmi se un bambino non ancora nato potrebbe vivere fuori dal grembo materno a 20 settimane di gestazione?», ha replicato allibito Cornyn.

Anche alla domanda se ritiene che esista un diritto all’aborto fino al momento del parto, Jackson si è esibita nella stessa scena, sempre più imbarazzata.

«Senatore, io non non lo so, in realtà. Voglio dire, non sono a conoscenza che un tribunale si sia pronunciato sul fatto che il regolamento possa estendersi o meno fino alla nascita».

 

Chi è Ketanji Brown Jackson ed il passato oscuro.

Il senatore Josh Hawley, membro della Commissione giudiziaria del Senato, ha ricostruito la filosofia giudiziaria del giudice Jackson riguardo ai predatori sessuali di bambini, dimostrando come più volte sia intervenuta in atti di estrema clemenza verso i pedofili.

Inoltre, in sette casi in cui è stata chiamata a condannare diffusori di pedopornografica, il giudice ha ridotto sempre le pene rispetto a quanto richiesto dai pubblici ministeri e dagli agenti di custodia.

Incalzata qualche giorno fa su questo dal senatore, Jackson non è riuscita ad esprimere vere parole di condanna o a confermare l’importanza della dissuasione tramite pene severe.

E’ anche emersa l’evidenza che Jackson ha un vero e proprio “modello di comportamento” verso gli abusatori di minori, ritenendoli non dei criminali ma semplicemente degli incompresi dalla società, obiettando alla loro “stigmatizzazione” e all'”ostracismo”, esattamente com’era di moda alcuni anni fa.

Anche in Italia diversi esponenti del Partito Radicale hanno mostrato la medesima clemenza verso i pedofili.

 

«Per ricapitolare», ha twittato un membro del partito repubblicano, «il giudice Jackson non sa cosa sia una donna, siede con orgoglio nel consiglio di una scuola che promuove la teoria della razza critica sui bambini e ha una terribile storia di clemenza nei confronti di autori di reati sessuali su minori».

Iniziamo bene.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

La Fraternità San Carlo, vivere il sacerdozio in amicizia ed unità

Una bella realtà italiana ed un esempio affascinante di fraternità sacerdotale realmente vissuta, quella dei membri della Fraternità San Carlo (FSCB) di Roma. Ecco la nostra intervista al padre spirituale del seminario, don Andrea Barbero.

 
 
 

Qualche settimana fa parlavamo della fraternità sacerdotale, prendendo spunto da un recente discorso di Papa Francesco.

La proponevamo come soluzione alla crisi identitaria del sacerdozio: vivere il celibato in una vita in comune con altri sacerdoti, fianco a fianco, da fratelli, nello stile del monachesimo benedettino.

Indicavamo anche una realtà italiana che già vive l’esperienza della fraternità sacerdotale, ovvero i missionari della Fraternità San Carlo (FSCB) di Roma. Nei luoghi in cui si recano abitano assieme, nella stessa casa, mangiano assieme, pregano assieme. Ed assieme guidano le parrocchie del mondo.

Ma è una buona idea estendere la loro esperienza a tutti i sacerdoti diocesani? Lo abbiamo chiesto a don Andrea Barbero, padre spirituale del Seminario e superiore di una delle case della Fraternità San Carlo.

 

DOMANDA – Don Andrea, a partire dai vostri seminaristi la fraternità sacerdotale la vivete come identità, come carisma. Ci aiuta a capire di cosa si tratta?

RISPOSTA – Il nostro fondatore, don Massimo Camisasca, vescovo emerito di Reggio Emilia, ha voluto la parola “fraternità” all’inizio del nostro nome perché noi viviamo il ministero sacerdotale in comunione e la fraternità è sostanziale per noi, è il nostro metodo missionario.

La fraternità non è una strategia per rendere più efficiente il ruolo del prete, come a dire che unire le forze è meglio, ma siamo convinti che la missione è innanzitutto testimonianza di una comunione di vita, di un’unità e non un’iniziativa del singolo. A maggior ragione oggi, dove l’individualismo è molto diffuso.

La comunione tra gli uomini non è strumento, ma il fine della vita e, nel nostro caso, è lo scopo della nostra missione.

 

La soluzione è la fraternità, non l’abolizione del celibato.

 

DOMANDA – Nel suo discorso, il Papa indica la fraternità sacerdotale anche come aiuto a vivere il celibato. Cosa ne pensa?

RISPOSTA – Assolutamente si. Non amiamo molto la parola celibato perché sottolinea la mancanza di un partner, mentre la nostra vita è celibe solo dal punto di vista civile quando in realtà è comunionale.

Per questo ci sentiamo molto meglio descritti dalla parola verginità, che invece implica una comunione con Dio e non un autoisolamento dal mondo. Non siamo dei solitari, anche se guardiamo con profonda ammirazione l’esperienza monastica autentica.

Ciò che dice il Papa è molto vero, la fraternità aiuta a vivere l’esperienza del celibato perché permette agli elementi affettivi di non essere mortificati in una forma innaturale, perché l’uomo non è fatto per essere solo ma per vivere la comunione.

La Chiesa ha bisogno di una reciprocità tra le due forme vocazionali, la verginità consacrata ed il matrimonio. In questo senso, la soluzione non è certo l’abolizione del celibato o il renderlo volontario perché la vita affettiva è possibile viverla anche nel sacerdozio, proprio attraverso la fraternità.

 

DOMANDA – Le diocesi ci stanno provando tramite le unità pastorali.

RISPOSTA – E’ vero, persiste però il problema di considerare la fraternità come uno strumento, mentre la solitudine non si vince con delle strategie ma con un’esperienza in cui la comunione è realmente vissuta.

Io non sono insieme a te semplicemente perché questo mi rende meno solo e più efficace, ma perché noi siamo già uniti da un Altro, siamo già insieme. L’unità è un aspetto ontologico, non sociale.

Questa concezione di sé può essere vissuta anche non vivendo assieme ma rimarrebbe un’esperienza interiore che fatica a svilupparsi, al contrario se l’ideale della fraternità è vissuto in una modalità concreta allora si incarna nella realtà.

 

Valorizzare l’amicizia tra i preti e l’unità al vescovo.

 

DOMANDA – In definitiva, lei proporrebbe a tutti i sacerdoti (anche non missionari) l’esperienza di una vita comune, di una fraternità?

RISPOSTA – Più che una soluzione alla crisi del sacerdozio è una riscoperta: il prete diocesano dovrebbe già concepirsi in comunione con il vescovo e con gli altri preti.

Questo già accade in alcune diocesi, grazie all’iniziativa di vescovi lungimiranti. Ma è anche vero che la fraternità non si improvvisa, noi la educhiamo nei nostri seminari dal primo giorno.

Valorizziamo l’amicizia tra noi, le preferenze. Il nostro ideale di sacerdote non è il curato di campagna, un’immagine bella ma non è la forma ordinaria di vivere la vocazione sacerdotale.

Il Papa suggerisce così di riscoprire il valore dell’amicizia tra i preti, in unità con il proprio vescovo. Già questa è una forma di fraternità.

Se però non è imparato in seminario e non è oggetto di educazione permanente, lasciato alla buona volontà di alcuni, non crea storia. La fraternità non è uno slogan ma una strada che va educata, sostenuta e riconfermata. Va quindi proposta a tutti, anche concretamente, ma come riscoperta di una strada che i preti possono già vivere.

Esistono le vicarie nelle diocesi, degli incontri tra sacerdoti di una certa zona che dovrebbero favorire un certo tipo di fraternità. Spesso però ci si riduce ad aspetti amministrativi, a lamentarsi del vescovo o a suggerimenti su come fare il catechismo, ma questo è team building!

Ciò di cui c’è bisogno è favorire una concezione di sé per la quale io e te siamo già insieme in quanto battezzati. L’unità viene relegata sempre dopo l’aspetto pastorale, l’efficacia delle proposte.

Se il sacerdote prende coscienza della sua vocazione e la vive fino in fondo sarà già efficace secondo la grazia di Dio. Si parla tanto di riforma dei seminari ma le vere riforme sono sempre delle riscoperte, altrimenti seguono le mode del momento.

 

Perché pregare se Dio è onnisciente?

 

DOMANDA – Lei è stato per tanti anni missionario a Praga, vicino ai bombardamenti in corso. Oggi è una giornata storica, la Chiesa si unisce nel consacrare l’Ucraina e la Russia.

RISPOSTA – La giornata è storica, la consacrazione non è solo un atto di devozione ma un giudizio sulla storia, il Papa invita tutti a guardare al cielo perché la pace non è solo questione di uomini.

E’ un aiuto all’umanità a capire che per promuovere la pace si inizia rimuovendo il peccato, è la cosa più concreta che noi cristiani possiamo fare: invitare l’umanità a guardare al cielo perché i cuori si sciolgano. Non basta la diplomazia, serve Dio, serve Maria come madre di tutti. Molti laici guardano a questo atto con speranza.

Tra l’altro l’arcivescovo di Mosca, mons. Paolo Pezzi è un nostro confratello, appartiene alla Fraternità San Carlo.

 

DOMANDA – Ci è arrivata una domanda in redazione: perché abbiamo bisogno di invocare l’aiuto di Dio, tramite l’intercessione di Maria? E’ come se dovessimo suggerire noi cosa è meglio per gli uomini.

RISPOSTA – E’ una domanda antica e comprensibile: se Dio è onnisciente non ha certamente bisogno che gli diciamo noi cosa fare.

I padri della Chiesa, a partire da San Bernardo, rispondono che quando preghiamo non comunichiamo a Dio delle cose che non conosce ma, facendole presente a Lui, ne prendiamo piena coscienza noi.

Pregando (o consacrando), non suggeriamo a Dio cosa è meglio fare ma chiediamo a Lui di darci la forza di fare ciò che gli stiamo chiedendo. L’uomo, infatti, si trova spesso senza una volontà adeguata di compiere il bene.

 

Fraternità San Carlo, come entrare in contatto.

 

DOMANDA – La vostra forma di vivere il sacerdozio e la missione è davvero affascinante, se qualche giovane o meno giovane volesse incontrarvi come fa?

RISPOSTA – Sul nostro sito web ci sono i contatti della segreteria, incontriamo chiunque voglia ed organizziamo anche degli eventi pubblici in collaborazione con diversi parroci in Italia.

 
——————————————-

Leggi le nostre altre interviste del venerdì.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Oggi il Papa unirà Russia ed Ucraina sotto lo sguardo di Maria

Una giornata storica, il vicario di Cristo consacrerà l’umanità, in particolare la Russia e l’Ucraina, al Cuore Immacolato di Maria. In contemporanea lo faranno tutte le diocesi del mondo, espressione di una vera cattolicità (cioè universalità) della Chiesa.

 
 
 

Sarà una giornata storica per la Chiesa cattolica.

Oggi Papa Francesco consacrerà l’umanità intera, in special modo la Russia e l’Ucraina, al Cuore Immacolato di Maria. Il medesimo atto verrà ripetuto, in contemporanea, in quasi tutte le parrocchie del mondo.

La protezione celeste è stata espressamente richiesta dalla Chiesa cattolica ucraina a Roma fin dall’inizio dell’invasione russa nel Donbass e ha numerosi precedenti storici a partire dal VIII secolo.

 

La consacrazione a Maria svolta in tutto il mondo

Tutte le diocesi del mondo si sono unite all’appello del Papa, a partire dai vescovi ucraini.

Sotto le bombe, da Kiev ad Odessa, avverrà infatti la consacrazione in contemporanea con Roma, il nunzio apostolico mons. Visvaldas Kulbokas ha spiegato infatti che «per quanto possibile tutti i vescovi e tutti i sacerdoti lo vivranno intensamente».

La preghiera corale alla Vergine per la pace e la fratellanza tra gli uomini verrà innalzata anche a Mosca, dove l’arcivescovo Paolo Pezzi presiederà una messa alle 18 in cattedrale, a cui seguirà alle 19 il collegamento con Roma per seguire in diretta la celebrazione di Papa Francesco. Lo stesso faranno tutte le diocesi russe.

Le adesioni pervenute danno un senso della “cattolicità” della Chiesa, cioè la sua letterale universalità. La stessa celebrazione avverrà infatti in contemporanea anche in tutti i continenti del mondo, alle 18 ora italiana.

Citazione a parte per il Medio Oriente cattolico, anch’esso si unirà al pontefice (il card. Louis Raphael Sako sarà a Baghdad).

 

I laici auspicano l’ingerenza della Chiesa.

Quasi tutti gli osservatori indicano che la consacrazione di oggi sarà anche un atto politico molto chiaro da parte del vicario di Cristo.

A tal ragione vorremmo riflettere anche sul comportamento di opinionisti ed intellettuali circa il ruolo della Chiesa in questo periodo di crisi internazionale.

Se troppo spesso certi ambienti gridano all’ingerenza della Santa Sede nella politica degli stati (si veda il putiferio per la nota vaticana sul ddl Zan), dall’altra sono loro a chiedere al Papa di intervenire in ambiti politici, per lo meno in determinati momenti.

Il presidente ucraino Zelensky nel suo discorso al parlamento italiano ha mostrato infatti di sperare più nell’intervento del Papa che del governo italiano.

Qualche settimana fa, invece, allo storico Sergio Romano, alfiere della laicità, è stato chiesto chi poteva obbligare Biden e Putin a firmare la pace, e lui ha risposto: «Il Papa. Solo il Papa potrebbe chiedere un atto di sincera e buona volontà».

Su Repubblica, il laicissimo Michele Serra osserva che se manca lucidità nei commentatori di fronte agli avvenimenti in Ucraina «la colpa è della nostra paura di essere giudicati ingenui, o matti, come capitò a Francesco quando si denudò di fronte al padre e a tutta Assisi, e di rimbalzo come capita a questo Papa rimasto solo al mondo a gridare “pace!”».

Ed ancora, il 3 marzo scorso: «Però da laico ho un cruccio che adesso vi dico: perché solo dal Papa — uomo magnifico, in questa “legislatura” vaticana — ci si aspettano le parole altissime, il magistero super partes? Che cosa impedisce al mondo secolarizzato il coraggio, la tenacia, la fantasia che servono per sovvertire lo stato delle cose (a vantaggio del quale, va sottolineato, non gioca la presente situazione di guerra)?».

Addirittura su Il Manifesto, si commenta che «solo questo Papa lo dice con chiarezza, e con nettezza rifiuta» la guerra. Lo stesso presidente Sergio Mattarella si è “aggrappato” a Francesco, pochi giorni fa.

E’ noto l’appello al Papa di Domenico Quirico, reporter de La Stampa, che ha chiesto a Francesco di recarsi a Kiev perché «lei non è un politico, è una autorità morale, forse l’ultima in questo mondo dove ogni atto, ogni parola determina rappresaglie».

Perfino Antonio Socci, dopo la recente conversione, parla del Papa come «la voce della ragione e dell’umanità, sempre più Francesco somiglia a Benedetto XVI, si sono snobbate le sue parole sulla voglia di guerra che c’è nel mondo. Si irride pure la sua giornata di preghiera e digiuno per la pace. Ma l’unico realismo è quello del Vicario di Cristo. Se non si invoca subito la via nuova indicata dal Papa, sentendoci “fratelli tutti”, ci aspetta una tragedia planetaria».

Anche un “nemico interno”, il vaticanista Lorenzo Bertocchi (sponsor dell’ex nunzio Viganò, accusatore del Papa) scrive: «In questo momento quindi è la Chiesa cattolica che sembra l’unica a predicare la pace di fronte alle minacce nucleari e alle dichiarazioni bellicose, mentre anche la UE per la prima volta nella storia manda armi a Kiev buttando benzina sul fuoco. Al momento l’unica voce che cerca la mediazione sembra venire da Roma».

Che dire allora di Tomaso Montanari, il controverso rettore dell’Università per stranieri di Siena, il quale riconosce che «le uniche voci che davvero possono dire qualcosa in queste ore sono quelle di chi digiuna e cammina, come il papa: sempre più un gigante tra i nani».

I media che oggi riferiscono la «diplomazia parallela» condotta da Papa Francesco, in particolare dopo la visita all’ambasciata russa e la telefonata al presidente ucraino, sono gli stessi che 8 mesi fa denunciavano «ingerenza» per la nota vaticana contro il ddl Zan inviata all’ambasciata italiana presso la Santa Sede.

 

E’ sempre accaduto: i papi come mediatori di pace.

Si è sempre verificato nei momenti di crisi, soprattutto bellici, che «gli uomini di Chiesa si siano trovati spesso a scongiurare conflitti inutili e terribili, cercando di promuovere una visione pacifica del rapporto tra i popoli»F. Agnoli, Indagine sul cristianesimo, Piemme 2010, p. 187.

In assenza di Cesare, tocca agli uomini di Dio.

Nel XIX secolo, Leone XIII risolse egregiamente il contrasto fra Prussia e Spagna per la sovranità sulle Isole Caroline, mentre Benedetto XV non riuscì a scongiurare la Prima guerra mondiale, nonostante i suoi numerosi tentativi.

Papa Pio XI invece si oppose fortemente all’invasione italiana dell’Etiopia e, come ha scritto Andrea Riccardi, ordinario di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Roma Tre, si «batté contro gli “idoli” di nazionalismo e antisemitismo». Durante il ventennio, «la Chiesa era (relativamente) lo spazio più libero nell’Italia fascista» ed «il papa era il grande riferimento, fuori dall’orizzonte di una nazione fascistizzata».

L’enciclopedia Treccani riporta che anche Pio XII, alcuni anni dopo, «sfruttò ogni strumento a sua disposizione per impedire prima, e per circoscrivere poi, la guerra stessa, moltiplicando gli appelli pubblici, le esortazioni per la pace e il lavorio diplomatico, constatando ben presto la sua assoluta impotenza».

Tutti conoscono il ruolo determinante avuto da Giovanni Paolo II nella caduta del muro di Berlino e, in generale, nella sconfitta del comunismo in Europa. Pochi però sanno che Papa Wojtyla all’inizio degli anni ’80 si trovò a dover intervenire politicamente per scongiurare un conflitto imminente tra Cile ed Argentina che si contendevano il possesso del canale di Beagle.

Giovanni Paolo II inviò infatti un emissario, il diplomatico card. Antonio Samoré, che portò ad uno storico accordo di pace tra i due paesi siglato il 29 novembre 1984.

Nel 2013, ancora una volta, la Chiesa si trovò chiamata in causa dall’Argentina perché risolvesse una lunga controversia con la Gran Bretagna sull’isola Malvinas (le Falkland), contesa tra i due paesi da molto tempo.

Tre anni più tardi, fu il partito di opposizione al governo di Nicolas Maduro, in Venezuela, ad invocare l’intervento del Vaticano ed i leader si recarono a Roma per chiedere al papa un ruolo di mediatore. Lo stesso accadde nel 2019, il presidente autoproclamato Juan Guaidò si appellò alla Chiesa e si recò presso la Segreteria di Stato del Vaticano.

Lo stesso pontefice argentino è intervenuto direttamente verso il presidente della Siria, Bashar al-Assad, chiedendogli di «rispettare il diritto internazionale umanitario». Ha anche incontrato il suo oppositore, Nasr Al Hariri, in un tentativo di mediazione tra posizioni difficilmente conciliabili.

 

Tornando all’attualità, è dal 2015 che Francesco invita costantemente Vladimir Putin a promuovere la pace in Ucraina, Medio Oriente, Siria e Iraq.

Oggi il vicario di Cristo unirà Russia e Ucraina sotto il mantello della Madonna.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Sex and the City, l’autrice si pente: «Non ho figli, mi sento sola»

L’autrice della fortunata serie “Sex in the City”, Candace Bushnell, si confessa: “Siamo tutte donne single, senza figli. Prima non ci pensavo, ora mi sento sola”. Un’altra femminista pentita.

 
 
 

C’è una vera donna dietro al fortunato programma televisivo Sex in the City, che dalla fine degli anni ’90 ebbe un’enorme influenza sulle giovani donne.

La serie femminista racconta in modo glamour le avventure sessuali di un gruppo di donne trentacinquenni con uomini facoltosi. Rapporti fugaci, senza impegno e responsabilità, puro edonismo.

Sex in the City si basò sul romanzo omonimo del 1997 di Candace Bushnell. Oggi 60 anni, è divorziata dal 2012 e ha parlato al Sunday Times della sua vita, rimpiangendo di non aver mai pensato alla famiglia e ammettendo di sentirsi «veramente sola».

 

«Solo ora capisco l’impatto del non aver avuto figli».

«Quando avevo 30 e 40 anni, non ci pensavo», ha ricordato. «Poi, quando ho divorziato avevo 50 anni, ho iniziato a riconoscere l’impatto del non avere figli e dell’essere veramente sola. Vedo che le persone con figli hanno un’àncora speciale che invece manca a chi non ne ha».

La donna salì per la prima volta alla ribalta raccontando la sua vita libertina sul New York Observer, quei testi vennero poi antologizzati nel suo romanzo Sex and the City. Il personaggio principale della serie, Carrie Bradshaw (interpretata da Sarah Jessica Parker), è la versione romanzata della stessa Candace Bushnell.

«Siamo tutte donne single, senza figli», ha detto ancora. «E tu pensi, cosa farai quando invecchierai? Chi si prenderà cura di me?». Forse gli amici, spera.

Un’intervista molto triste che ricorda quanto sia importante non riporre troppa fiducia nella fiction televisiva.

 

I dati Istat: altro record negativo per la denatalità.

Gli ultimi dati Istat, presentati il 14 marzo scorso, mostrano un altro record negativo della natalità.

Da dieci anni la diminuzione delle nascite è costante ma ancora il numero non era sceso sotto le 400mila ed anche il numero dei figli degli immigrati subiscono lo stesso declino.

Il presidente Giancarlo Blangiardo invita a curare questa malattia, ad esempio regalando più tempo alle mamme per aiutarle a conciliare maggiormente il lavoro con la famiglia. «Basta con le chiacchiere, dobbiamo affrontare i problemi uno alla volta».

 

Femministe pentite, da Emma Bonino a Rossana Rossanda.

Certamente la “malattia” della denatalità, come la definisce il presidente dell’Istat, ha una delle cause nel femminismo radicale.

Ancora oggi, ad esempio, Lea Melandri, denuncia la «sopravvalutazione della relazione materna» ed il «mito della maternità».

Eppure, testimonianze come quella di Bushnell si aggiungono semplicemente alle tante femministe pentite che un tempo la pensavano esattamente così, leonesse contro l’innaturalità della maternità (cit. Chiara Lalli) e nemiche della fantomatica “famiglia del Mulino Bianco”. Oggi spesso sole, tristi e pentite.

Ne parlò nel 2017 Samantha Johnson: «Quando sono diventata madre, il femminismo mi ha deluso. Predichiamo alle ragazze che possono – e dovrebbero – fare qualsiasi cosa un ragazzo può fare, così però stiamo fallendo nel prepararle ad una delle più grandi sfide con cui dovranno confrontarsi: la maternità».

La scrittrice ha proseguito: «Stiamo insegnando alle giovani che non c’è alcun valore nella maternità e che essere casalinga è un concetto obsoleto, misogino. Promuoviamo la carriera professionale indicandola come simbolo di successo, svalutando completamente il contributo dei genitori a casa. Dobbiamo dire alle donne quanto è importante è essere madri».

In Italia l’esempio più lampante è quello di Emma Bonito, oggi senatrice. «Non sono mai stata moglie, mai madre. Sola lo sono sempre. Sola intimamente, politicamente», si confessò nel 2006. «Piango moltissimo, da sola. Su questo divano. Mi appallottolo qui e piango».

E’ duro anche il lamento della fondatrice de Il Manifesto, Rossana Rossanda, scomparsa nel 2020: «Aver avuto figli? Adesso mi sentirei meno sola e soprattutto avrei la percezione di avere tramandato qualcosa di me».

Leggendo queste testimonianze risuonano nella mente le parole di Alda Merini, quando osservò: «Il vero diritto di una donna è quello alla maternità: il figlio è il più grande atto d’amore e il suo mistero resta intatto. L’occasione che la madre dà al suo bambino è ogni volta un miracolo, ed è una bestemmia negare tutto questo in nome di un femminismo che è l’opposto dell’essere femmina, nel senso più alto del termine».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Migliaia di adulti pronti a battezzarsi cattolici a Pasqua

Anche quest’anno durante la veglia pasquale saranno battezzati migliaia di adulti in tutto il mondo decisi ad appartenere alla Chiesa cattolica. Un momento importante per la loro vita a seguito della conversione e della gioia dell’incontro cristiano.

 
 
 

Sono trascorsi secoli da quando Voltaire affermava che il cristianesimo sarebbe presto tramontato.

Non solo aveva torto, ma il popolo cristiano pare godere di buona salute, anche se magari nella forma di una Chiesa più piccola ma più consapevole.

Questa maggiore consapevolezza è dimostrata da migliaia di adulti che anche quest’anno (come negli anni scorsi) hanno chiesto di essere accolti nella Chiesa cattolica.

Le parrocchie statunitensi sono le più “tecnologiche” e presenti sul web, per questo gran parte dei dati che abbiamo rintracciato arriva da lì.

 

I nuovi catecumeni nel mondo, a partire dall’Occidente.

Nel Kentucky, ad esempio, l’arcivescovo Joseph E. Kurz, presiedendo l’annuale Rito dell’Elezione, ha predicato a più di 300 persone, tra catecumeni alla fine del percorso che li porterà al battesimo e vari candidati (persone validamente battezzate fuori dalla Chiesa Cattolica).

Similmente, a Boston più di 200 catecumeni hanno preso parte al Rito dell’Elezione, esprimendo il proprio desiderio di essere battezzati. A Rochester (nello stato di New York) si stanno preparando al battesimo oltre 100 candidati e catecumeni adulti mentre sono ben 574 i futuri cattolici adulti nella sola città di Detroit (Michigan).

A New York, in una sola arcidiocesi (quella di St. Patrick) diventeranno cattolici 220 catecumeni (di cui 13 giovanissimi, dai 7 ai 13 anni), ai quali si è rivolto recentemente il card. Timothy Dolan ringraziandoli «per l’ispirazione che mi donate» e dando loro il benvenuto.

Sempre negli Stati Uniti, in Texas, durante la veglia pasquale del prossimo 16 aprile saranno 1.652 gli adulti delle parrocchie dell’arcidiocesi di Galveston-Houston che diventeranno cattolici. Circa 245 di loro sono sono candidati o catecumeni giovanissimi.

Nel Tennessee si stanno preparando al battesimo oltre 100 adulti provenienti dalle 25 chiese diocesane mentre nella sola città di South Bend (Indiana), 174 adulti si battezzeranno durante la Messa pasquale.

Nella sola città di Miami (Florida), l’arcivescovo Thomas Wenski ha da poco terminato il percorso di avvicinamento al battesimo per oltre 350 adulti e, sempre in Florida, la diocesi di Venice è pronta ad accogliere oltre 400 adulti. Ad Arlington (Virginia) saranno 149 i catecumeni che si battezzeranno a Pasqua.

Piccolo record per Portland (capoluogo dell’Oregon), dove saranno 80 gli adulti catecumeni che esprimeranno pubblicamente al vescovo il loro desiderio di battesimo, il numero più alto dal 2008.

Se ci spostiamo in Francia, saranno 65 gli adulti (35 adolescenti e 30 adulti) che riceveranno il battesimo cattolico nella cattedrale di St-Pierre della città di Rennes. Nel comune di Auray (Morbihan), invece, verranno invece accolti 42 catecumeni adulti.

Nella capitale francese, Parigi, l’amministratore apostolico Georges Pontier amministrerà il battesimo a 351 adulti di età compresa tra i 18 e gli 81 anni.

Oltre 200 candidati al battesimo vengono segnalati invece in Austria, in netto aumento rispetto all’anno scorso.

Pur trattandosi di una cifra inferiore, è comunque incoraggiante che anche a Malta si preveda il battesimo di altri 12 adulti per la prossima veglia pasquale.

Sono solo alcuni ma significativi esempi che possono però dare l’idea di quante migliaia di persone in tutto il mondo hanno preso sul serio l’avvenimento di Cristo e chiedono di ufficializzare l’abbraccio alla Chiesa.

 

 

La giovane età dei battezzati: dai 18 ai 40 anni.

Un dato interessante è anche l’età dei catecumeni e dei candidati: la maggior parte di loro, per lo meno negli Stati Uniti, ha tra i 18 e 40 anni, dato sorprendente alla luce del numero di giovani che si allontanano dalla Chiesa.

Le ragioni di queste adesioni “in controtendenza” sono ben riassunte dal card. O’ Malley: «Tramite l’iscrizione dei vostri nomi nel Libro degli Eletti state dicendo che aspirate a vivere una vita di amicizia con il Signore. “Santo” significa semplicemente amico del Signore. Che bella descrizione del significato di santità. Il battesimo ci rende amici di Dio».

A tale amicizia sono chiamati tutti gli uomini (cfr Mt 28,19 e 1 Tm 2,4), sebbene dare il proprio sì incondizionato a Cristo possa essere arduo.

Lo sa bene una di questi catecumeni, Beth Vetter, che dal Kentucky esorta chiunque desideri essere accolto nella Chiesa a seguire tale chiamata, per quanto difficile possa apparire: «Non fatevi spaventare dal percorso di iniziazione. Si tratta di un processo, ma pur sempre un percorso di conversione personale».

 

Da tutte queste esperienze c’è sicuramente molto da imparare, anche per chi è già battezzato.

Come spiega ancora il card. O’Malley, la conversione «non termina col nostro battesimo. Come cattolici, crediamo che la conversione sia il lavoro della nostra vita. Il nostro pellegrinaggio terreno deve sempre essere vissuto come un continuo orientarsi verso Dio e perciò come un continuo allontanamento dal peccato».

Si tratta quindi di una chiamata radicale, che interpella l’uomo oggi come ieri e di cui anche quest’anno molti catecumeni ci ricordano con il loro sì.

Marco Visalli

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

I vangeli sono quattro fonti indipendenti?

Gli evangelisti si sono copiati l’un l’altro? I vangeli sono fonti indipendenti oppure abbiamo soltanto un’unica fonte (il vangelo di Marco) sulla vita di Gesù? La risposta non può non considerare le fonti pre-evangeliche, dalle quali ogni evangelista attinse in maniera indipendente. Ecco cosa dicono gli studiosi.

 
 
 

In passato abbiamo tradotto in italiano un articolo del biblista americano Michael R. Licona nel quale vengono spiegati i criteri usati dagli storici per valutare l’attendibilità dei brani evangelici (e di qualunque altro testo dell’antichità).

Uno di questi criteri è la “molteplice attestazione”.

Se un brano viene riportato da più fonti indipendenti tra loro, infatti, vi sono maggiori probabilità (all’unisono con altri criteri di valutazione) di ritenerlo storicamente accurato.

E allora, che dire del Nuovo Testamento? Un’obiezione comune è che non si tratta di fonti indipendenti, gli evangelisti Luca, Matteo e Giovanni avrebbero copiato da Marco. Come poter sostenere la molteplice attestazione di fonti indipendenti?

Al massimo, viene detto, vi sarebbe una fonte sola, cronologicamente la prima: quella di Marco.

William Lane Craig, docente di Filosofia presso la Talbot School of Theology (Biola University) e la Houston Baptist University, ha fornito una valida risposta e prenderemo spunto da essa.

 

Vangeli indipendenti? Le fonti pre-evangeliche.

Certamente vi è una sovrapposizione tra i quattro vangeli, non solo raccontano spesso lo stesso episodio ma utilizzano uguali parole.

Il punto non è che si siano copiati ma che ognuno degli evangelisti si è servito di una fonte precedente, a volte condivisa con un altro evangelista ed altre volte utilizzata in esclusiva.

Matteo e Luca hanno attinto da una fonte comune che gli storici hanno chiamato “Q”, contenente quasi esclusivamente detti di Gesù. Matteo, ha utilizzato in esclusiva anche la fonte “M”, mentre Luca ha attinto da una terza fonte, chiamata “L” (almeno per una cinquantina di pericopi).

Numerosi storici hanno fatto notare che nella fonte “L” non è presente la distruzione del Tempio di Gerusalemme per cui si ipotizza che la sua datazione sia antecedente al 70 d.C.

Anche Giovanni presenta brani inediti rispetto agli altri, ed è accertato che anche lui abbia utilizzato una fonte propria. Potrebbe essere il cosiddetto “vangelo dei segni“, ma il dibattito è più che mai aperto.

Infine, non è affatto certo comunque che ogni evangelista conoscesse l’opera dei precedenti: «E’ una tesi che crea più problemi di quanti ne risolva», ha commentato l’eminente biblista americano J.P. Meier1J.P. Meier, Un ebreo marginale, vol. 2, Queriniana 2003, p. 276.

 

Un esempio con i brani su sepoltura e la tomba vuota.

A breve pubblicheremo un dossier sulle prove storiche della resurrezione, per il momento vediamo come le fonti pre-evangeliche emergono nei brani sulla sepoltura di Gesù e sul ritrovamento della tomba vuota.

Il vangelo di Marco descrive gli ultimi giorni di Gesù attraverso una chiara successione cronologica: arresto, processo, condanna a morte, crocifissione, sepolcro vuoto e resurrezione, concludendo con il ritrovamento del sepolcro vuoto da parte di alcune donne che partecipavano alla cerchia dei discepoli.

Gli storici sanno che, al contrario, il resto del suo vangelo raramente segue un ordine cronologico e l’autore presenta dei brani non collegati tra loro, uniti come perline su una corda. Eppure, quando si tratta dell’ultima settimana di Gesù l’approccio di Marco cambia, improvvisamente.

Per questo si ritiene che Marco abbia attinto ad una storia della Passione a lui precedente, presente in una fonte estremamente antica in quanto il suo vangelo è datato, al più tardi, al 70 d.C. (soltanto 40 anni dopo i fatti raccontati).

Su questo consigliamo l’autorevole e citatissimo studio di Joel Marcus, docente di Nuovo Testamento e Cristianesimo delle origini alla Duke Divinity School.

Se invece consideriamo il vangelo di Matteo,, nel brano relativo al sepolcro vuoto viene inclusa la storia della guardia appostata sulla tomba di Gesù, episodio non raccontato da Marco.

Si tratta di una creazione di Matteo? No, affatto. Gli studiosi osservano che il brano è intriso di un vocabolario estraneo al solito modo di raccontare dell’autore, il che indica che l’autore sta attingendo ad una tradizione a lui precedente. Probabilmente proprio la cosiddetta Fonte “M”.

Se passiamo al brano di Luca, relativo alla tomba vuota, si legge della visita di Pietro e di un altro discepolo al sepolcro per verificare quanto riportato loro dalle donne. Un episodio assente sia in Marco che in Matteo, menzionato invece da Giovanni.

Per quanto riguarda il vangelo di Giovanni, anch’esso è considerato indipendente dai tre sinottici e vi è consenso sul fatto che abbia utilizzato una narrazione della Passione di Gesù risalente ad una tradizione più antica di tutti.

Tra i primi a sostenerlo vi fu P. Gardner Smith nel 1938, posizione poi elaborata nel dettaglio da C.H. Dodd ed accettata da Raymond Brown, Rudolf Schnackenburg ed Ernst Haenchen. «Oggi è probabilmente l’opinione dominante», ha commentato J.P. Meier2J.P. Meier, Un ebreo marginale, vol. 1, Queriniana 2008, p. 50.

B.D. Ehrman, autorevole studioso di Nuovo Testamento presso l’Università del North Carolina, ha aggiunto:

«Alcune delle fonti precedenti al vangelo di Giovanni provengono dai primi anni del movimento cristiano, come si deduce dal fatto che tradiscono le loro radici negli ambienti palestinesi di lingua aramaica. Questo le colloca nei primi giorni del movimenti, alcuni decenni prima della stesura del vangelo di Marco»3B.D. Ehrman, Did Jesus Exist?, HarperCollins Publishers 2012, p. 265.

 

Oltre a confermare che i vangeli sono quattro fonti indipendenti, le differenze tra loro (a volte vere contraddizioni!), seppur su dettagli secondari e non sulla trama generale, smentiscono anche che si tratti di una storia inventata.

«Un inganno calcolato», ha scritto infatti il celebre E.P. Sanders, celebre docente di Nuovo Testamento alla Duke University, «avrebbe dovuto produrre una grande unanimità»4E.P. Sanders, The Historical Figure of Jesus, Penguin Books, 1993, p. 279-280.

 

Le lettere di Paolo anticipano il contenuto dei vangeli.

Infine, vanno considerate le lettere paoline.

In 1 Corinzi 15, 3-5, San Paolo cita un’antica formula cristiana che riassume punto per punto i principali eventi dell’ultima parte della vita di Gesù.

Tale formula pre-paolina, come abbiamo mostrato in maniera approfondita nel 2018, è stata datata da numerosi ed autorevoli studiosi a massimo tre anni dopo la crocifissione di Gesù.

In questa formula ci si riferisce chiaramente alla sepoltura e alla resurrezione dai morti di Gesù, eventi che nessun ebreo del I° secolo avrebbe potuto capire se il corpo di Gesù non giaceva più nella tomba.

Quindi Paolo conferma ed anticipa, in maniera indipendente il contenuto dei Vangeli.

 

Eccoci dunque alla conclusione di questo rapido excursus.

Lasciamo la parola al filosofo William Lane Craig:

«Gli storici solitamente sono appagati quando possono contare su due fonti indipendenti per lo stesso evento. Se fosse ciò che avessimo per gli eventi della Passione di Gesù, ciò sarebbe sufficiente per convincere la maggior parte degli studiosi della loro autenticità. Ma, in realtà, possiamo contare su almeno sei fonti indipendenti».

Ed esse sono, riassumendo: la fonte pre-paolina, la fonte pre-giovannea, la fonte L, la fonte M e l’antica fonte pre-marciana (oltre agli Atti degli Apostoli).

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

La condanna ai russi ed il relativismo etico del “vietato giudicare”

In campo morale da anni vale la regola del “non giudicare”, del pensiero debole. Come conciliarla con le condanne odierne ai russi, alla Nato, agli Usa a Zelensky? La morale non è più il costume del proprio paese? Forse esiste un Bene ed un Male assoluti?

 
 
 

Quante verità assolute, quanti giudizi e condanne morali sentiamo e leggiamo in questi giorni.

Chi incolpa Putin ed i russi, chi accusa gli ucraini, chi condanna la Nato e chi punta il dito verso gli USA.

Eppure, fino a ieri in campo morale vigeva il pensiero debole, il “vietato giudicare”, il relativismo etico.

 

Condanne e giudizi morali contro Russia e Nato

Dal 24 febbraio scorso su ogni quotidiano e canale televisivo c’è un colpevole ed una verità morale: il popolo russo sta sbagliando, tutti devono dirlo e Putin è un criminale che va arrestato o ucciso.

Per altri la colpa sarebbe del presidente ucraino Zelensky e degli americani che hanno addestrato e armato gli ucraini. Altri ancora se la prendono con la Nato, rea di essersi allargata troppo fino ai confini russi.

C’è chi condanna i neutrali, i filo-russi, i filo-ucraini, i pacifisti, i non pacifisti ecc.

Ognuno, dal suo profilo Twitter sostiene e difende la verità assoluta, attaccando quella altrui. Senz’ombra di dubbio.

 

Relativismo etico: un mantra per i sessantottini.

Forse Emanuele Severino si sarebbe stupito, lui che affermava che «non esistendo la verità, il rifiuto della violenza rimane una fede che, appunto, non può avere più verità della fede (più o meno buona) che invece crede di dover perseguire la violenza e la devastazione dell’uomo»1C.M. Martini, In cosa crede chi non crede?, Liberal 1996, p.26.

E che dire di Gianni Vattimo, il più noto italiano a sostenere il pensiero debole, quel relativismo morale emerso preponderante dal Sessantotto?

Ma il problema è sempre questo: come fondare i giudizi morali sul comportamento russo (a favore o contro) se non esiste un concetto assoluto di bene e di male? Si può dire che è ingiusto causare una guerra, ma ingiusto rispetto a cosa? A quale principio morale?

Chi si arroga il diritto di affermare che la vita umana ha un valore (laicamente) sacro e non negoziabile o disponibile? Nietzsche era profondamente contrario a questo assunto.

In un paradigma relativistico, governato da una morale liquida che rifiuta qualunque legge morale assoluta preesistente l’uomo, chi ha deciso che il non uccidere è un errore? In base a cosa sarebbe sbagliato?

Sono provocazioni, ovviamente, ma mettono a nudo il primo grande difetto dei sostenitori del relativismo morale: non ci credono neppure loro.

 

La morale è solo il costume del proprio paese?

Per chi è convinto che l’essere umano sia “nient’altro che” un incidente evolutivo, un insignificante puntino nell’indifferente cosmo, i suoi sistemi di valori non possono pretendere di avere alcun valore assoluto ma riflettono semplicemente le preferenze soggettive. Ogni società stabilisce, mantiene e modifica i suoi valori in base alle proprie esigenze.

Lo scrittore Samuel Butler spiegò infatti che «la moralità è il costume del proprio paese e l’attuale sensazione dei propri coetanei», così il cannibalismo, ad esempio, sarebbe morale in un “paese cannibalista”.

Essendo “vietato vietare”, come ci insegnano i filosofi sessantottini in campo etico, la morale è semplicemente il pensiero maggioritario di una determinata società (formalizzato all’interno di documenti, costituzioni, codici civili ecc.).

Ebbene, la maggior parte dei russi sembra favorevole a Vladimir Putin, così come la maggioranza degli africani sembra essere d’accordo con le leggi anti-gay (contrastate invece dai cattolici).

Se un’altra società, con altri costumi morali rispetto a quelli occidentali, ha deciso per la guerra, perché si vuole imporre loro quel che sarebbe “giusto” per noi? E’ una domanda retorica, ovviamente, ma esige una risposta da parte dei “non giudicatori”.

 

Senza Dio manca il fondamento ultimo dell’etica.

Joel Marks, laicissimo filosofo emerito dell’University di New Haven, ha scritto: «Anche se parole come “peccato” e “male” vengono usate abitualmente nel descrivere, per esempio, le molestie su bambini, esse però non dicono nulla in realtà. Non ci sono “peccati” letterali nel mondo perché non c’è Dio letteralmente e, quindi, tutta la sovrastruttura religiosa che dovrebbe includere categorie come peccato e il male. Niente è letteralmente giusto o sbagliato perché non c’è nessuna moralità».

E’ lo stesso filosofo americano che riconosce nell’amoralità l’alternativa più coerente a Dio, ma lo fece anche Jean-Paul Sartre quando ammise: «Senza Dio svanisce ogni possibilità di ritrovare dei valori in un cielo intelligibile, non sta scritto da nessuna parte che il bene esiste, che bisogna essere onesti, che non si deve mentire»2J.P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, 1945.

Senza Dio tutto è permesso, direbbe Dostoevskij.

Il filosofo francese Philippe Nemo spiega, giustamente:

«Le grandi catastrofi come la Shoah dovrebbero aver fatto ragionare l’uomo moderno: se infatti non esiste un Bene assoluto, che senso ha parlare di un Male assoluto? E se non c’è un Male assoluto che senso ha, alla fin fine, condannare la Shoah?». Così, le attività umane legate al non-senso, «private di un ancoraggio trascendente, si disperdono in un assurdo moto browniano, che condanna l’uomo a tentare di creare un senso su misura, sulla scia di una preoccupazione parziale che egli ben percepisce, comprendendo, a ragione, che tutte le piccole cose di cui si occupa finiranno nell’abisso, non essendo assicurate a qualcosa di più grande»3P. Nemo, La bella morte dell’ateismo moderno, Rubbettino 2016, p. 129, 130.

 

Senza un fine trascendente, la vita è ridotta alla liquidità del soggettivismo morale ed è perciò impossibile fondare i giudizi morali sugli errori della Russia o della Nato.

Ed invece continuiamo a farlo e c’è un motivo per questo, lo ha spiegato bene Nemo: «L’intima coscienza di ogni uomo sa che questa mancanza di senso è un errore».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Il milionario ebreo che finanzia le missioni cristiane in Africa

Mark Gerson, ha versato finora 10 milioni di dollari alle missioni mediche cristiane in Kenya riconoscendo il valore dell’opera dei missionari. E’ un imprenditore ebreo ed uno dei principali sostenitori privati delle opere mediche cristiane in Africa.

 
 
 

Ognuno dona i suoi soldi come vuole.

C’è chi, come l’imprenditore statunitense malthusiano Warren Buffet che in vent’anni ha versato ben 5 miliardi di dollari (il 5% del suo patrimonio) alle cliniche che praticano interruzioni di gravidanza e chi, come Mark Gerson ha scelto di finanziare le missioni cristiane in Africa.

Il particolare più interessante è che Mark Gerson è di religione ebraica e tuttavia è probabilmente uno dei maggiori sostenitori privati ​​delle cliniche mediche cristiane africane, avendo donato finora 10 milioni di dollari.

 

Il milionario ebreo e l’importanza delle missioni cristiane.

Gerson è un imprenditore e filantropo, co-fondatore del Gerson Lehrman Group, ha iniziato a finanziare le missioni cristiane dalla fine degli anni ’90 quando il suo amico dott. Jon Fielder, decise di recarsi in Kenya per aiutare i malati di AIDS.

Gerson, suo fratello ed alcuni dei loro amici hanno sostenuto il lavoro di Fielder avendo visto quanto fosse disperato il bisogno di professionisti medici, comprendendo il valore dei missionari medici cristiani e degli ospedali missionari.

Nel 2010 hanno lanciato African Mission Healthcare, un’organizzazione no-profit dedicata al rafforzamento degli ospedali missionari, punto di riferimento di molti missionari.

«Siamo stati fortunati a conoscere Jon Fielder ed è così che è iniziato tutto questo», ha raccontato Mark Gerson, «ora siamo in grado di supportare queste persone straordinarie nel loro lavoro genuino e e sacro.

«Il comandamento che la Torah offre più di ogni altra cosa è “amare lo straniero“», spiega il filantropo americano. «Come ebrei, prendiamo molto sul serio la Torah. Non puoi amare qualcuno o qualcosa e non agire di conseguenza. L’amore nella Bibbia o nella Torah non è solo un vago sentimento. È sempre qualcosa che comanda l’azione. Che tu sia ebreo o cristiano… “ama lo straniero”».

 

Lo studio: i missionari migliorano salute delle nazioni.

Alcuni anni fa sull’American Political Science Review è stato riconosciuto ufficialmente l’incredibile apporto positivo dei missionari cristiani, suggerendo un solido nesso causale tra la loro presenza e la salute delle nazioni oggi.

Più missionari sono partiti e più tempo sono rimasti nei luoghi di missione e migliori erano i risultati in termine di salute, persino dopo un secolo: aspettativa di vita più lunga, mortalità infantile più bassa, alfabetizzazione più elevata e arruolamento educativo, più democrazia politica, minore corruzione, maggiore partecipazione civica.

In molti luoghi hanno introdotto la stampa e i giornali e hanno spesso sviluppato forme di movimento sociale, mobilitando l’opinione pubblica contro lo sfruttamento coloniale e le -spesso terribili e disumane- abitudini locali.

«I missionari hanno profondamente plasmato il mondo, in tutti i tipi di risultati», ha affermato il sociologo Robert Woodberry.

«Come ateo, cerco di fare delle scelte basate su prove e ragioni», ha invece scritto l’antropologo americano Brian Palmer. «Quindi, finché non saremo pronti a investire pesantemente nella medicina laica in l’Africa, suggerisco di lasciare che Dio faccia il suo lavoro».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Dal sì all’aborto all’infanticidio, un altro bioeticista approva

Prosegue la spinta a favore dell’aborto post-parto con le stesse argomentazioni a favore dell’aborto pre-parto. Il filosofo Walter Veit non vede alcuna differenza tra feto e neonato, così se è moralmente accettata l’interruzione di gravidanza non c’è motivo per opporsi all’infanticidio. Come lui tanti altri, anche in Italia.

 
 
 

Un altro bioeticista australiano, il filosofo Walter Veit, si è schierato in difesa dei sostenitori dell’infanticidio che affermano la non differenza morale tra i bambini non ancora nati ed i neonati.

“La nascita conta?”, è il titolo della sua riflessione apparsa sul Journal of Medical Ethics ad inizio marzo.

Secondo Veit, se l’etica del trattamento di un topo o di un pesce zebra è diversa da quella di uno scimpanzé a causa delle loro diverse capacità, allora il trattamento degli esseri umani dovrebbe essere giudicato allo stesso modo.

 

«Se l’aborto è legale no divieto per aborto post-parto».

Il bioeticista australiano spiega che non esiste una chiara distinzione biologica tra un feto ed un bambino nato.

Così, prendendo atto che l’aborto è l’uccisione di un essere umano non ancora nato ed è moralmente legittimato dalla società occidentale, in nome di questa mancanza di differenza biologica tra il feto ed il neonato non c’è nessun argomento contrario all’aborto post-nascita di un neonato indesiderato.

«Se le scienze biologiche rivelano che non c’è alcuna differenza moralmente saliente tra un neonato e un feto», scrive infatti il bioeticista, «cioè che entrambi si trovano quasi allo stesso stadio di sviluppo, si deve abolire l’idea intuitivamente convincente che la nascita conti qualcosa, moralmente. Non è così».

Queste argomentazioni hanno un loro senso, ciò che scrive Walter Veit è vero. Egli inconsapevolmente mostra l’incoerenza delle leggi che liberalizzano l’interruzione di gravidanza in quanto non spiegano perché da un certo momento in avanti sarebbe vietato abortire, mentre prima sì.

In Italia, ad esempio, l’interruzione di gravidanza è legittima solo entro i 90 giorni. Ma perché? Forse un non ancora nato all’89° giorno e 23 ore non ha diritto alla vita? La nascita non conta nulla, anche su questo ha ragione il bioeticista: non c’è una sostanziale differenza nel feto tra quando è nell’utero materno a quando viene partorito.

Lo sviluppo della vita è continuo e graduale, così come è impossibile determinare l’inizio del giorno dopo la notte.

Al posto di osteggiare l’aborto, tuttavia, il bioeticista conclude in maniera opposta: liberalizzando l’infanticidio. Questo però apre a scenari ulteriormente radicali, in quanto se possiamo uccidere esseri umani prima che diventino persone (come lui ritiene essere i neonati, feti ed embrioni), perché non interrompere la vita anche delle persone che perdono capacità vitale a causa di malattie, lesioni o conseguenze dovute all’età?

 

In Italia la Consulta di Bioetica vuole l’infanticidio.

Tempo fa furono i ricercatori italiani della Consulta di Bioetica onlus di Maurizio Mori -punta di diamante della bioetica laica (soci onorari Beppino Englaro e Carlo Flamigni) e sempre al fianco dell’Associazione Luca Coscioni di Marco Cappato-, ad aver teorizzato l’infanticidio con le stesse argomentazioni usate oggi da Walter Veit.

Alberto Giubilini e Francesca Minerva sostennero infatti che «uccidere un neonato dovrebbe essere permesso in tutti i casi in cui lo è l’aborto, inclusi quei casi in cui il neonato non è disabile». E ancora: «Se una persona potenziale, come un feto e un neonato, non diventa una persona reale, come voi e noi, allora non c’è qualcuno che può essere danneggiato, il che significa che non vi è nulla di male».

Per questo, conclusero i responsabili della Consulta di Bioetica, «non vi sono ragioni per vietare l’aborto dopo il parto. Le non-persone non hanno diritto alla vita», ovvero coloro che non sono «in grado di effettuare degli scopi e apprezzare propria vita».

E’ lecito uccidere i neonati, spiegarono, perché «affinché si verifichi un danno, è necessario che qualcuno sia nella condizione di sperimentare tale danno».

Lo stesso Maurizio Mori, filosofo e leader della campagna pro-eutanasia che ha partorito i referendum recentemente bocciati dalla Corte Costituzionale, difese e supportò i suoi ricercatori, scrivendo: «La tesi non è così assurda e balzana da essere scartata a priori solo perché scuote sentimenti profondi o tocca corde molto sensibili».

Da oltre trent’anni il bioeticista Peter Singer proclama queste tesi.

Nella sua Etica pratica (1979), scrive:

«Oggi appare naturale che ogni essere umano abbia diritti inviolabili, che non possa essere sacrificato, ma non è affatto così. E’ da quando Gesù di Nazareth è passato su questa terra che tutto è cambiato. Il cambiamento degli atteggiamenti occidentali verso l’infanticidio nasce con la dottrina della santità della vita umana prodotta dal cristianesimo. Tra gli stessi Greci e Romani, i neonati non avevano un automatico accesso alla vita, essi venivano uccisi esponendoli alle intemperie sulla cima di una collina»1Peter Singer, Practical Ethics, Cambridge University Press 2011, p. 153, 154.

 

Negli USA spinte per l’aborto fino alla nascita.

Grazie a questi argomenti, stanno avanzando le spinte radicali pro-aborto fino al momento della nascita.

Negli Stati uniti è stata recentemente sventata la Women’s Health Protection Act, che avrebbe sancito per la prima volta con una legge federale il diritto assoluto all’aborto, per qualsiasi motivo o anche senza motivo, fino al momento della nascita.

Una volta che la vita umana è denigrata come moralmente irrilevante, che differenza fa la nascita?

 

Aggiornamento 22/03, ore 13:00

Dal Maryland (USA) la notizia di un disegno di legge (Bill SB669, Pregnant Persons Freedom Act 2022) che, se venisse approvato, consentirebbe di lasciar morire un neonato indesiderato fino al raggiungimento del 28° giorno dal parto senza che nessuno venga punito penalmente.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Nick Cave, la morte del figlio e la nostalgia di Cristo

La morte del figlio ha trasformato l’artista e cantautore americano Nick Cave, la pervasività del cristianesimo nella sua vita è diventata più forte, accompagnata da una ricerca di senso e di risposta al dolore. Un non cristiano nostalgico di Cristo.

 
 
 

Era il 2015 quanto Arthur Cave, adolescente, muore.

Cadde da una scogliera vicino a Brigthon, città sulla costa dell’East Sussex, a sud di Londra. Inutile il trasporto in elicottero al Royal Sussex County Hospital, dove perse la vita a causa delle ferite riportate.

A morire interiormente, quel giorno, fu anche il padre, Nick Cave, celebre musicista australiano diventato famoso con la band Nick Cave and the Bad Seeds, gruppo attivo dal 1983.

Nick Cave muore e rinasce lentamente, nel dolore. Arista già unico, la sua impronta verrà indelebilmente segnata da questa tragedia.

Nei suoi brani compaiono temi nuovi (o se non propriamente nuovi, vi si accenna con una frequenza maggiore), come la presenza indelebile della morte, la perdita ed il dolore. Ma da quell’album appare una nuova enfasi sulla religiosità, sulla preghiera, sul riconoscimento di quel Dio cristiano di cui il non cristiano Cave sente bisogno.

 

“Into my arms”: nei suoi testi un richiamo divino.

L’esperienza religiosa era già presente prima in Cave ma non in maniera così pervasiva, spesso le allusioni erano allegoriche.

Nonostante una vita di eccessi e di alcool, nel 1986 scrisse Jesus Met The Woman At The Well, musicando l’incontro evangelico di Gesù con la samaritana e nel 1990 arrangiò un tradizionale inno brasiliano Foi Na Cruz («Era sulla croce, era sulla croce. I miei peccati sono stati espiati da Gesù»).

Due anni dopo, nel 1988, comparve The Mercy Seat, la storia di un uomo che sta per sedersi sulla sedia elettrica che richiama ed unisce versi evangelici e anticotestamentari (in particolare il Libro del Levitico).

Dal 1998 con l’album The Boatman’s Call compaiono profonde canzoni d’amore, una musicalità più quieta ed anche il rapporto religioso di Cave cambia, diventa più intimo: «Io credo che la canzone d’amore debba essere una canzone triste», afferma.

E ancora: «E’ il rumore del dolore stesso, è il desiderio di essere trasportati dall’oscurità alla luce, di essere toccati dalla mano di Colui che non è di questo mondo. La canzone d’amore è la luce di Dio, giù nel profondo, che si fa largo tra le nostre ferite. Alla fine la canzone d’amore esiste per riempire, con il linguaggio, il silenzio tra noi stessi e Dio, per abbattere la distanza tra il temporale e il divino. Per parte mia, sono un acchiappa anime per conto di Dio».

Ed ecco apparire anche piccole poesie d’amore con un rimando divino.

Ad esempio Lime-Tree Arbour, dove dice: «Ovunque io vada c’è una mano che mi protegge, ed io la amo davvero tanto». Oppure Brompton Oratory: «Vorrei anche io esser fatto di pietra, così non dovrei vedere una bellezza impossibile da definire, una bellezza impossibile da credere».

Ed infine la bellissima Into My Arms, in cui canta: «Non credo in un Dio interventista, ma so, cara, che tu ci credi. Ma se ci credessi, mi inginocchierei e Gli chiederei di non intervenire quando si tratta di te, di non toccarti neanche un capello. Di lasciarti così come sei e se proprio Lui volesse condurti, allora che ti conduca fra le mie braccia. Fra le mie braccia, O Signore!».

 

Nel 2001 esce No More Shall We Part: «Signore, stammi vicino. Non sarò mai libero se non sono libero adesso».

Poi, come dicevamo, Cave venne investito dalla tragedia della morte di Arthur.

 

Cave e la morte del figlio, i brani si trasformano.

Skeleton Tree è il primo album segnato dal dramma vissuto, dalla vita effimera e dalla ricerca di un senso.

I need you (2016) è struggente: «Niente importa davvero, niente importa più davvero quando chi ami se ne è andato. Sei ancora in me, piccolo, ho bisogno di te. Nel mio cuore, ho bisogno di te. Mi mancherai quando te ne sarai andato, mi mancherai quando sarai andato via per sempre. Perché niente importa davvero. Non mi è mai sembrato giusto, mai».

Un tema ribadito anche in Anthrocene (2016): «Tutte le cose che amiamo, amiamo, amiamo, le perdiamo».

Ancor più drammatico, forse, l’ultimo album, Ghosteen (2019). Già nel titolo c’è il neologismo “fantasmadolescente” ed è tutto un dialogo tra lui e il figlio scomparso, tra la Vita e la Morte. Il dramma ha reso Nick Cave più empatico, nell’ultima tournée annuale ha invogliato i fan ad invadere il palco a fine concerto.

In seguito ha aperto un forum online, The Red Hand Files, in cui chiede che gli vengano poste domande e promette di rispondere.

Una recente ricerca, realizzata da Sarah K. Balstrup, docente di Studi religiosi all’Università di Sidney, ha analizzato proprio le risposte date da Cave ai suoi fan ed il suo rapporto con la metafisica.

«Sia il processo creativo di Cave che l’esperienza della performance diventano esperienze religiose che affermano il viaggio soggettivo in cui l’artista cerca la verità attraverso un incontro diretto con l’ignoto», scrive Balstrup.

«In “The Red Hand Files”, Cave mostra un alto grado di riflessività e consapevolezza di sé in termini di natura costruita della sua posizione religiosa», prosegue la studiosa. «La morte del figlio di Cave sembra sacralizzare questo spazio online, dando il tono per una comunicazione rispettosa e risposte sincere e sincere».

In queste voci, continua Balstrup, «c’è un peso etico concesso all’altro che raramente si trova nella corrispondenza di estranei. Cave parla del proprio dolore e pubblica lunghe domande dei fan che raccontano sofferenza e perdita personale. La fede religiosa è fortemente presente e Cave fornisce risposte specifiche riguardo ai suoi pensieri su Dio, Bibbia, l’aldilà, l’esistenza del male e la preghiera».

 

Nick Cave, un non cristiano nostalgico di Cristo.

Quella dell’artista australiano viene così definita “spiritualità alternativa”, ovvero una fede soggettiva ed individuale.

Mentre prende le distanze dalle affermazioni della verità metafisica o da specifiche convinzioni religiose, Nick Cave dice che a Natale «si “inginocchierà comunque davanti alle vestigia sbiadite di un’idea superata chiamata trascendenza spirituale e al nostro bellissimo e commovente tentativo di umanizzare l’estatico dramma cosmico, e pregherò”», ha scritto Balstrup.

Nelle sue dichiarazioni pubbliche, l’artista si è sempre definito affascinato e avido lettore della Bibbia, ma la sua posizione personale è altalenante.

«Credere in Dio è illogico, è assurdo. Non c’è dibattito», disse nel 2010. «Lo sento intuitivamente, viene dal cuore, un luogo magico. Ma continuo a fluttuare di giorno in giorno. A volte mi sento molto vicino alla nozione di Dio, altre volte no. Lo vedevo come un fallimento. Ora lo vedo come una forza»1citato in M. Snow, Nick Cave: Sinner Saint: The True Confessions, Plexus Pub 2010.

L’ideale cristiano, tuttavia, è da sempre un tema persistente nella sua vita e nelle sue canzoni. Certamente maggiore dopo la morte del figlio.

«Questi atti di devozione e di partecipazione dell’inconoscibile», confessa ad un certo punto Cave, «definiscono la mia vita».

E sempre Sarah K. Balstrup sottolinea in Cave il carico di nostalgia per Cristo, pur rinunciando a definirsi cristiano. Ma dal cristianesimo è attratto, scrive l’artista, «personalmente, nostalgicamente e sentimentalmente».

Alcuni mesi fa, nel giugno 2021, Cave ha risposto ad un fan che lo hai interrogato sul senso dello scorrere del tempo.

L’artista ha concluso la sua ironica ma profonda risposta spiegando che l’invecchiamento dell’uomo è anche l’occasione per riscoprire «la fede nella compassione universale, nel perdono e nella misericordia, nelle sfumature e nelle ombre, nella neutralità e nell’umanità -ah, bella umanità- e anche in Dio, che ringrazia per averlo lasciato, in questi tempi dementi, essere vecchio».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace