L’evoluzione non è casuale, lo studio sulle mutazioni cambia tutto

Due studi (su Nature e Genome Research) smentiscono la casualità delle mutazioni genetiche e sfidando il neodarwinismo. Si conferma l’idea di forze intrinseche e direzionali che guidano un’evoluzione teleologica.

 
 
 

E se l’evoluzione non fosse affatto casuale?

Nel novembre scorso sulla rivista Nature è apparso uno studio che ha la potenzialità di rivoluzionare il modo di concepire l’evoluzione biologica.

Firmata dall’Università della California e dal Max Planck Institute for Developmental Biology, la ricerca smentisce sostanzialmente la casualità delle mutazioni genetiche.

E’ un attacco frontale e letale alla filosofia neodarwinista formalizzata da Jacques Monod nel suo Il caso e la necessità, per il quale «soltanto il caso è all’origine di ogni novità, di ogni creazione della biosfera. Il caso puro, il solo caso, libertà assoluta ma cieca. Non è un’ipotesi tra le molte ma l’unica concepibile»1Jacques Monod, Il caso e la necessità, Mondadori 1997, p. 113.

Il caso come essere divino alla base di un’anti-teologia naturale.

 

Le mutazioni non sono casuali, guidate da forze interne.

Ed invece, ha commentato Grey Monroe, autore principale dello studio, «si scopre che la mutazione è decisamente non-casuale. È un modo totalmente nuovo di pensare alla mutazione».

Sequenziando il Dna di centinaia di piante di Arabidopsis thaliana (più di 1 milione di mutazioni), «un organismo modello per la genetica», è stato infatti rivelato un comportamento per nulla casuale nelle mutazioni: le parti del genoma con poche mutazioni contenevano un altissimo numero di geni essenziali alla sopravvivenza.

Questo significa che le aree più biologicamente importanti sono quelle più protette dalle mutazioni: in pratica la pianta si è evoluta per proteggersi dalle mutazioni e per garantire la sua sopravvivenza.

E’ quindi possibile prevedere in anticipo quali geni hanno maggiori probabilità di mutare rispetto ad altri e tale scoperta, affermano gli studiosi, «fornisce un resoconto più completo delle forze che guidano i modelli di variazione naturale».

Emerge così una coordinazione, un ordine interno alla base delle forze intrinseche dell’evoluzione.

Non a caso il bioeticista Carlo Bellieni ha voluto ricordare il pensiero di Jean Baptiste Lamarck, il primo ad individuare nei singoli viventi una sorta di impulso interiore che li spinge lungo la scala naturale (un “sentire interno”), una tendenza innata al progresso, insita nel loro modo di essere.

 

Un secondo studio sulle mutazioni non casuali nell’uomo.

Nel gennaio scorso, su Genome Research, è stato pubblicato un secondo studio che conferma la natura non casuale delle mutazioni.

Nel comunicato dell’Università di Hafa si legge, senza troppi giri di parole: «Uno studio rivoluzionario scopre le prime prove della direzionalità a lungo termine nell’origine della mutazione umana, sfidando fondamentalmente il neodarwinismo».

Utilizzando un nuovo metodo, i ricercatori guidati dal biologo evoluzionista Adi Livnat hanno infatti dimostrato che anche alcuni gruppi di umani (non solo le piante) avrebbero sviluppato la capacità di produrre mutazioni necessarie per ottenere determinati adattamenti benefici più frequentemente degli esseri umani che vivevano in ambienti in cui tali adattamenti non risultavano necessari.

Ciò confermerebbe che tali mutazioni non accadono per caso, indipendentemente dai bisogni degli organismi, come invece ha sempre sostenuto il neodarwinismo. I risultati, scrivono gli studiosi, «non possono essere spiegata dalle teorie tradizionali dell’evoluzione».

 

Implicazioni profonde, l’evoluzione è teleologica?

Sono anni che innumerevoli evoluzionisti hanno abbandonato il classico paradigma del darwinismo per abbracciare l’idea di un’evoluzione stocastica, direzionale, potremmo dire teleologica.

Le implicazioni sono importanti e profonde e vanno a confermare quanto scrive Denis Noble, professore emerito di Fisiologia all’Università di Oxford.

«Le cellule», scrive il fisiologo, «possono rilevare gravi pericoli e modificare efficacemente la disposizione o la composizione del loro DNA. Questi processi sono in qualche modo guidati perché senza tale guida non potrebbero produrre il risultato desiderato. Ci vuole una parola per questo. È teleologia».

Ecco come ha proseguito Denis Noble:

«Questi argomenti servono a indebolire l’assunto neodarwiniano comune che l’evoluzione è completamente cieca e suggeriscono, se non implicano, che la vita non è semplicemente un evento improbabile in un universo senza scopo. La mia opinione è che gli organismi hanno uno scopo. L’idea che l’universo sia governato solo dal cieco caso, va contro tutto ciò che sperimentiamo come esseri senzienti, creativi e intenzionali. Per crederci, dobbiamo ingoiare l’idea che l’evoluzione, nel creare il sistema nervoso umano, lo abbia dotato di un’illusione straordinariamente potente che ci costringe ad agire come se avessimo uno scopo, mentre in realtà riflettiamo solo la cieca determinazione dei nostri geni e altre molecole. Allora dovremmo anche convivere con una visione incoerente di noi stessi».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Travaglio: «Diritto di difesa militare: il buon senso del Catechismo»

L’uso delle armi è giustificato dalla Chiesa? Il pacifismo dev’essere radicale e assoluto? Se ne parla molto in questo periodo. Una breve e corretta risposta del direttore de Il Fatto Quotidiano, che giustamente cita la semplice e ponderata posizione del Catechismo cattolico.

 
 

di Marco Travaglio*
*giornalista, direttore de Il Fatto Quotidiano

da Il Fatto Quotidiano, 16/03/22

 

Il teologo Severino Dianich non ha fatto altro che ricordare lo storico Catechismo della Chiesa cattolica che, con notevole buon senso, raccomanda di «considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare».

«Tale decisione», prosegue il Catechismo, «per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale».

E, fra queste, «che ci siano fondate condizioni di successo» e «che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di queste condizioni ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione».

Aggiungo, a scanso di equivoci, che il Catechismo non l’ha scritto Putin, ma il Concilio Vaticano II, revisionato nel 1992 da papa Giovanni Paolo II.

 
 
 
Aggiornamento 20/03/22

Su questo consigliamo anche le recenti parole del segretario di Stato Vaticano, card. Pietro Parolin. Dopo aver tristemente approvato la consegna di armi all’Ucraina, ha invocato «il diritto a difendere la propria vita, il proprio popolo e il Paese». Ciò non impedisce però che «la priorità» sia la ricerca di «una soluzione negoziata, che metta a tacere le armi ed eviti un’escalation nucleare».

Già l’11 marzo del 2015, intervenendo all’Università Gregoriana, il card. Parolin ricordava che «nel disarmare l’aggressore per proteggere persone e comunità non si tratta di escludere l’extrema ratio della legittima difesa, ma di considerarla tale e soprattutto attuarla solo se è chiaro il risultato che si vuole raggiungere e si hanno effettive probabilità di riuscita».

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Vescovi anglicani e pentecostali entrano nella Chiesa cattolica

Studiando la storia della Chiesa ha capito dove trovare l’unità che stava cercando. Così Sajith Joseph, leader di una comunità pentecostale da 2 milioni di seguaci, è diventato cattolico. Percorso simile di ben 4 vescovi anglicani entrati nella Chiesa cattolica nel 2021.

 
 
 

Nel marzo 2014 annunciammo la conversione al cattolicesimo di uno dei più importanti pastori pentecostali europei.

Si tratta di Ulf Ekman, diventato cattolico assieme alla moglie Brigitte.

Il giorno della professione, confidò: «Ci siamo resi conto che i nostri pregiudizi protestanti anticattolici in molti casi non hanno alcun fondamento. Abbiamo scoperto quanto viva sia la fede dei cattolici, abbiamo bisogno di ciò che Gesù è nella Chiesa cattolica, dei sacramenti, del Magistero, del Papa, ho bisogno della tradizione apostolica. Ho bisogno della Chiesa per la mia salvezza».

Ma ultimamente queste conversioni e questi “passaggi” di importanti esponenti religiosi nel cattolicesimo sono diventati molto frequenti.

 

Guidava 2 milioni di pentecostali, ora è cattolico

Un paio d’anni fa è accaduto qualcosa di simile.

Sajith Joseph, importante predicatore protestante, conosciuto in tutta l’India grazie ai suoi sermoni in televisione, è entrato nella Chiesa cattolica assieme ad almeno altri 50 membri della comunità di cui è leader e fondatore.

Nel dicembre 2019 hanno confessato la loro fede nella cattedrale di Santa Maria a Punalur (nello stato indiano meridionale del Kerala), alla presenza di centinaia di fedeli e del vescovo della diocesi, Selvister Ponnumuthan.

Joseph è il carismatico leader di “Grace Community Global”, un movimento non confessionale fondato nel 2011, che oggi vanta circa 2 milioni di seguaci in 30 paesi e raggiunge moltissime persone attraverso i suoi programmi di televangelismo.

La maggior parte dei membri è protestante, ma il gruppo è seguito anche da cristiani ortodossi orientali, nonché da indù e musulmani. La community è passata sotto la direzione dei vescovi cattolici del Kerala, continuando comunque la sua attività.

 

“Cercavo l’unità dei cristiani, ora l’ho trovata”.

Come nel caso dell’ex pastore svedese Ekman, è interessante ascoltare le motivazioni che hanno portato Sajith Joseph a mettere in discussione tutta la sua storia, la sua autorità, le sue convinzioni, e anche la sua credibilità personale come leader di un movimento protestante, per abbracciare la fede cattolica.

«Stavo facendo del mio meglio per portare unità nei gruppi pentecostali», ha detto, salvo poi realizzare quanto fosse difficile «a causa della differenza delle dottrine».

Così, ha concluso che il “divario” creatosi nella storia del protestantesimo può essere colmato solo facendo parte della vera Chiesa apostolica, l’unica che ha mantenuto intatta la successione apostolica e la fedeltà alla Tradizione: la Chiesa di Roma.

«Studiare la storia della Chiesa mi ha fatto ripensare alle credenze che avevo», ha spiegato l’ex pastore. «L’unità teologica e dottrinale mi ha fatto riflettere in secondo luogo sul cattolicesimo e sulla teologia cattolica. Quindi, le mie convinzioni teologiche mi hanno fatto tornare al cattolicesimo e alla Chiesa cattolica».

Joseph ha aggiunto che hanno sicuramente contribuito i numeri incontri avuti con i vescovi del Kerala e con alcuni teologi del Vaticano, proseguiti per quattro anni.

 

Nel 2021 quattro vescovi anglicani battezzati cattolici.

In poco più di un anno, quattro vescovi della Chiesa d’Inghilterra sono entrati in piena comunione con la Chiesa cattolica.

Sei mesi fa, Jonathan Goodall si è dimesso dal suo ministero di vescovo anglicano di Ebbsfleet, in Inghilterra, per entrare nella Chiesa di Roma e pochi giorni fa il card. Vincent Nichols lo ha ordinato sacerdote cattolico.

Sarà un semplice parroco di St William of York a Londra, che fa parte dell’arcidiocesi di Westminster. La Messa di ordinazione si è svolta sabato 12 marzo.

Oltre al vescovo Goodall, altri tre vescovi anglicani sono entrati in piena comunione con la Chiesa cattolica nel 2021: Michael Nazir-Ali, ex vescovo di Rochester; Peter Foster, ex vescovo di Chester e John Goddard, ex vescovo di Burnley.

 

Anglicani stimano fedeltà e coerenza della Chiesa cattolica.

La decisione di queste conversioni può essere nata a causa della secolarizzazione della Chiesa anglicana, è lo stesso ex vescovo Nazir-Ali ad aver dichiarato che l’anglicanesimo sembra «essere sulla strada diventare un’altra denominazione protestante liberale».

Gavin Ashenden, ex sacerdote della Chiesa d’Inghilterra divenuto cattolico nel 2019, ha spiegato che «il punto di svolta è stato il femminismo della terza ondata», che «ha reso assoluta la soggettività» nel mondo anglicano.

I sinodi generali all’interno dell’anglicanesimo, ha detto, invece di esplorare e definire teologicamente la natura del sacerdozio, hanno finito per approvare il sacerdozio femminile come processo politico, spinti dalle pressioni secolari. Così conclude Ashenden: «Penso che la Chiesa cattolica dovrebbe sviluppare un sentimento di fiducia in Inghilterra e dire: “Se vuoi che il cristianesimo continui, siamo noi e, inoltre, siamo tutto ciò che hai”. Quindi vieni e vieni presto».

Il vescovo Keith Newton, anch’egli ex vescovo anglicano, entrò nella Chiesa cattolica nel 2010, grazie alla creazione dell’Ordinariato voluto da Benedetto XVI.

Da giovane sacerdote anglicano, durante un pellegrinaggio a Roma si convinse dell’urgenza di pregare per l’unità della Chiesa. «Sono stato così sopraffatto da questa esperienza e ho davvero pensato che la Chiesa d’Inghilterra avesse bisogno di tornare in comunione con la Chiesa da cui proveniva», ha detto.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Il padre non è sostituibile o superfluo, cosa dicono gli studi

Il rapporto tra padre e figli è un legame insostituibile anche secondo la letteratura scientifica. Addirittura, in alcune aree, la figura paterna è ancora più decisiva di quella della madre per la buona crescita dei figli.

 
 
 

Quale altro momento per parlarne se non nel giorno della festa del papà.

In una società che onora il padre con una festa ma poi lo ritiene sostanzialmente inutile per il resto dell’anno, o sostituibile senza alcun problema con una mamma single o due mamme, un certo filone di studi può risultare fastidioso o addirittura eretico.

Nonostante molti bambini crescano solo con bravissime mamme, le quali magari hanno subito il divorzio oppure lo hanno richiesto costrette da un marito violento, è accertato che la presenza positiva di entrambe le figure genitoriali, maschile e femminile, consente una crescita più armoniosa dei figli.

Ecco una piccola panoramica degli studi che lo dimostrano.

 

Le aree in cui i papà sono più determinanti della mamma.

Quelle cronologicamente più recenti sono le ricerche di Linda Nielsen, docente di Psicologia presso la Wake Forest University.

La psicologa americana si è particolarmente concentrata sul ruolo tra padre e figlia e, dopo aver revisionato decine di studi in merito, ha concluso: «Le indagini più recenti dimostrano che i padri influenzano la vita delle loro giovani figlie in modi intriganti e occasionalmente sorprendenti».

Una delle aree in cui il padre risulta determinante (o più determinante della madre) per le figlie è il suo rendimento accademico e, di conseguenza, il suo successo professionale ed il futuro benessere finanziario.

La letteratura scientifica raccolta da Linda Nielsen mostra infatti che le figlie, i cui padri sono stati attivamente impegnati durante l’infanzia nel promuovere i loro studi ed incoraggiare la fiducia in loro stesse, hanno maggiori probabilità di laurearsi al college ed accedere a lavori più remunerativi.

I padri sono anche determinanti in una seconda area, cioè nella qualità della relazione romantica delle figlie con i loro partner.

«Ciò che sorprende non è che i padri abbiano un tale impatto sulle relazioni delle loro figlie con gli uomini», ha spiegato Nielsen, «ma che generalmente abbiano un impatto maggiore rispetto alle madri».

Anche qui i risultati della ricerca sono chiari: «Una ragazza che ha una relazione positiva, solidale e comunicativa con suo padre ha meno probabilità di rimanere incinta in età adolescenziale e maggiori probabilità di avere relazioni con uomini emotivamente appaganti».

Durante il periodo scolastico queste figlie hanno anche maggiori probabilità, rispetto alle coetanee cresciute senza papà o con un padre emotivamente assente, «di assumere decisioni sagge e prudenti in merito al sesso ed agli appuntamenti, con la conseguenza che presentano generalmente matrimoni più soddisfacenti e più duraturi».

La condizione perché ciò avvenga, dunque, è la presenza fisica ed emotivamente positiva di un papà in famiglia.

Un altro gruppo di ricerche suggerisce un altro modo in cui i papà risultano indispensabili.

Si tratta della capacità di modellare la salute mentale e le relazioni sociali delle loro figlie in età adulta: «Gli studiosi hanno trovato un legame intrigante tra il modo in cui le figlie affrontano lo stress da adulte ed il tipo di relazioni che hanno avuto con i loro padri durante l’infanzia», ha spiegato la psicologa statunitense.

Le donne universitarie cresciute senza papà o che non avevano buoni rapporti con lui, ad esempio, presentavano livelli di cortisolo inferiori al normale, dunque eccessivamente sensibili allo stress.

Non a caso queste persone, rispetto a quelle che avevano avuto relazioni migliori con i loro padri, «tendevano a descrivere le loro relazioni con gli uomini in termini stressanti di rifiuto, imprevedibilità o coercizione».

 

Importanza del papà, altri studi.

Dalla letteratura scientifica emergono però tanti studi rivolti anche alle relazioni padri-figli in generale.

«Il coinvolgimento di una figura paterna ha impatti unici, ma comunque provati, su entrambi i sessi», si legge sul Children’s Bureau. «Avere una figura sia materna che paterna aiuta il bambino ad ottenere uno sviluppo più equilibrato e completo, maschio o femmina che sia».

Lo stesso Dipartimento della salute e dei servizi umani degli Stati Uniti ricorda che gli studi mostrano costantemente che madri e padri hanno stili di gioco e comunicazione diversi, che entrambi svolgono ruoli unici ma vitali nello sviluppo del bambino.

Ci sono innumerevoli prove scientifiche dei molti modi in cui i bambini che non hanno una figura paterna regolarmente presente nella loro vita hanno peggiori conseguenze di coloro che beneficiano del papà dall’infanzia all’età adulta.

Secondo le ricerche, qui raccolte, le vittime di quella che negli USA è definita la Fatherlessness Generation (la generazione senza padri) riscontrano, in generale:

– peggiori risultati educativi;
– maggiori probabilità di essere coinvolti nella delinquenza;
– peggiori abitudini sessuali e gravidanze adolescenziali;
– maggiore povertà;
– maggior abuso di sostanze stupefacenti e alcool;
– una peggior salute fisica ed emotiva.

 

Mamma e papà sono ruoli unici, complementari.

Almeno oggi, non limitiamoci a ricordare solo l’importanza della figura paterna (oltre quella materna), ma soprattutto il suo essere indispensabile ed insostituibile.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

La libertà accademica nelle università medievali, parla lo storico

La libertà accademica nel Medioevo raccontata da James Hankins, ordinario di Storia all’Università di Harvard. Rispetto alla crescente intolleranza attuale, le università medievali erano tolleranti e rispettose del pensiero eterodosso.

 
 
 

Le università anglosassoni hanno da tempo cessato di essere dei luoghi di libertà intellettuale e scientifica.

Soprattutto negli ultimi anni sono diventate centri di repressione e censura che soffocano insegnanti e studenti rei di mettere in discussione l’ideologia dominante.

 

Le dimissioni di Jordan Peterson: limitazioni di pensiero.

Qualche settimana fa il più importante intellettuale canadese, lo psicologo Jordan Peterson, da tempo in guerra contro il politicamente corretto, si è dimesso platealmente dall’Università di Toronto dov’era professore ordinario (rimanendo professore emerito senza avere neanche 60 anni).

Nel farlo, Peterson ha denunciato il giogo repressivo della “diversità, inclusività ed equità” (DIE) che discrimina gli studenti e impedisce «ai miei studenti migliori di fare carriera solo perché sono maschi bianchi eterosessuali, nonostante i loro curriculum scientifici siano stellari».

Per non parlare dell’odio e delle continue limitazioni di pensiero imposte allo stesso Peterson (uno dei pensatori più influenti al mondo!), che ha parlato di una «spaventosa ideologia che oggi sta demolendo le università e, a valle, la cultura generale».

Ed ancora: «Tutti i miei colleghi devono fare dichiarazioni DIE per ottenere una borsa di studio, e tutti mentono ed insegnano ai loro studenti a fare lo stesso. E lo fanno costantemente, dandosi giustificazioni, corrompendo ulteriormente quella che è già un’impresa straordinariamente corrotta».

 

«Università medievali tolleranti verso tesi non cristiane»

La notizia delle dimissioni dello psicologo canadese ha fatto il giro del mondo e probabilmente ha smosso parecchie coscienze.

Una di queste è quella di James Hankins, professore ordinario di Storia all’Università di Harvard, specializzato nel Rinascimento italiano.

Anche Hankins ha riferito della costernazione comune in ambito accademico «dalla crescente intolleranza al pensiero eterodosso nelle università contemporanee». Nel farlo ha voluto paragonare quanto invece avveniva nelle università medievali.

Nonostante gli atenei nel Medioevo siano nati per volontà dei pontefici per formare rigidamente teologi dotti che potessero contrastare le eresie medievali, «nel corso dei successivi cento anni hanno promosso il periodo più creativo di speculazione filosofica in Occidente».

La tolleranza verso il pensiero altrui fu il motivo di questa fioritura intellettuale nel Medioevo, James Hankins ha infatti scritto:

«Le università medievali hanno prodotto grandi filosofi come Sant’Alberto Magno, San Tommaso d’Aquino, San Bonaventura, Giovanni Duns Scoto e Guglielmo di Ockham. Al centro del dibattito, ancor più sorprendentemente, era il pensiero di un filosofo greco pagano, Aristotele, i cui scritti non erano affatto facili da armonizzare con la verità rivelata. Mentre il re Luigi IX bruciava migliaia di copie del Talmud ed espelleva gli ebrei dalla Francia, teologi come Tommaso d’Aquino leggevano Maimonide. Le prime università erano tolleranti nei confronti del pensiero non cristiano. La corporazione dei maestri, incaricata di preparare gli studenti agli incarichi nella Chiesa e nel governo laicale, sapeva bene come incoraggiare la vita della mente, mostrando il dovuto rispetto per l’autorità. Avrebbero potuto vietare lo studio di Aristotele (come molti li esortavano a fare) ed invece hanno permesso che “il Filosofo” diventasse la spina dorsale del curriculum artistico. Possedevano la prudenza e la collegialità per creare confini effettivi senza presumere di dettare ciò che dovevano pensare i loro compagni maestri e studenti».

 

La prima università nacque a Bologna, in territorio pontificio, nel XI secolo.

E poi quella di Parigi, dove insegna Tommaso d’Aquino; Oxford, l’università dei francescani e Padova. Tutte nate con privilegi direttamente concessi dai Papi. L’Università La Sapienza di Roma fu fondata invece nel 1303 per opera di Bonifacio VIII.

Come ha spiegato James Hankins, si trattò di spazi di vera libertà di espressione e di discussione, nei quali veniva coltivato lo spirito critico.

 

I medievali rispettavano pensiero pagano e lo diffusero.

Come spiega Hankins, al centro del curriculum universitario non furono poste solo opere cristiane, ma gli studi di Aristotele e Porfirio erano una delle tre discipline fondamentali del Trivio che gli studenti medievali dovevano padroneggiare prima di passare a studi più avanzati.

Si tradussero, si lessero e si diffusero innumerevoli opere pagane inconciliabili ed in contrasto con la dottrina cattolica, come quelle di Prisciano, Donato, Marziano Capella, Cicerone, Lucano, Plinio, Stazio, Pompeo Trogo, Virgilio, Ovidio, Orazio e Terenzio.

Inoltre, l’accesso era facilitato anche per la popolazione meno abbiente.

Lo storico medievalista Leo Moulin ha raccontato che Papa Urbano V «manteneva 1400 borsisti, ma le borse di studio non furono le sole forme di aiuto agli studenti poveri. Tutta la società medievale si ingegnò a moltiplicare le vie di accesso all’università offerte ai figli delle classi proletarie»1L. Moulin, La vita degli studenti nel medioevo, Jaca Book 1992, p. 5-6.

Come ha scritto Tim O’Neill, ricercatore (ateo) impegnato ad “insegnare” la storia agli atei, «gli studiosi cristiani accettarono l’apprendimento dei greci e romani pagani come un dono di Dio molto prima della caduta dell’Impero ed assorbirono felicemente quell’apprendimento. Non si imbatterono in qualche modo nelle traduzioni arabe di queste opere, le cercarono attivamente. Gherardo da Cremona non ha “scoperto” casualmente l’Almagesto di Tolomeo: lo conosceva già e ha attraversato due volte un continente per trovarlo in traduzione araba»

Le università moderne, dominate dalla «spaventosa ideologia» della censura progressista (detta anche cancel culture) potrebbe imparare una o due cose dalla libertà accademica del Medioevo.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Baby gang, il parroco: «Non denuncio, la porta è sempre aperta»

Una parrocchia di Asti vittima di giovani vandali. Ma don Paolo Lungo è un buon pastore, preoccupato del bene di questi ragazzi. Ha allertato la polizia, il Comune, le famiglie ma non porta rancore, tiene le porte aperte e li aspetta.

 
 
 

Ci hanno colpito le parole di don Paolo Lungo, parroco alla Torretta, quartiere nella periferia di Asti.

Da mesi è vittima di baby vandali, una trentina di ragazzi e ragazze delle medie che disturbano la celebrazione della Messa.

«Li conosco, prima del lockdown non si comportavano così», riferisce il parroco.

 

«Non voglio che se ne vadano».

Chiunque si farebbe subito giustizia, reagendo con rabbia e denunciando magari i genitori.

Ma don Paolo è un vero pastore, che non si scandalizza e guarda nel cuore di quei giovani volti che lo sfidano e lo insultano.

«Non li denuncio. Non voglio che se ne vadano: le porte della Chiesa e dell’ortatorio saranno sempre aperte per loro, qualora decidessero di usarle», ha spiegato.

«Non hanno ancora varcato quella soglia che li porterebbe a gettare via la loro vita e non dobbiamo spingerli a farlo» dice don paolo. «Quei ragazzi ci stanno chiedendo aiuto con un linguaggio che ancora non capiamo. Dobbiamo rimboccarci le maniche e provare a capirli».

 

Nessun buonismo, ma interesse al destino di quei giovani.

Non è buonismo ingenuo o irresponsabilità, come qualcuno potrebbe pensare.

Don Paolo ha subito allertato le forze dell’ordine per garantire la sicurezza della comunità, le quali vengono chiamate anche «per finire di celebrare la messa».

Il Comune, la scuola e la famiglia sono state a loro volta contattate «per lavorare tutti assieme».

Ma l’attenzione ultima è alla vita di quei giovanissimi, oltre la loro ferocia. Quella rabbia è indice di un disagio profondo, di una noia esistenziale, di ricerca di senso ultimo che non trovano nella società in vivono.

Solo in uno sguardo attento e non scandalizzato di adulti come don Paolo questi ragazzi potranno trovare quella roccia su cui deporre le armi e rinascere.

 

L’unico rammarico è che una testimonianza così potente venga relegata a pagina 15 de La Stampa.

C’è forse qualcosa di più utile dell’imparare uno sguardo così per le famiglie, per gli educatori, per i genitori? Non avrebbe meritato un po’ più di visibilità, magari per qualche secondo al posto del Grande Fratello Vip?

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Il sesso è binario, psicologo evoluzionista smonta i gender studies

Binarismo sessuale: esistono differenze biologiche tra maschi e femmine oppure è tutto attribuibile agli stereotipi sociali, come vuole la teoria gender? La nostra intervista ad uno specialista, che ci ha aiutato a chiarire la situazione scientifica su questi argomenti.

 
 
 

Sesso, genere, binarismo e determinismo biologico.

C’è molta confusione da quando la femminista Judith Butler ha scritto Gender Trouble (1990), inventando di fatto il concetto di “genere”.

Pochi giorni fa su La Stampa l’immunologa Antonella Viola ha guadagnato una paginata intera presentando il suo prossimo libro, sostenendo che non vi sarebbe alcuna differenza tra maschi e femmine e che la visione binaria dei due sessi (maschie e femmine) «non corrisponde a realtà».

 

Per fare chiarezza abbiamo chiesto aiuto a Marco Del Giudice, psicologo evoluzionista e docente presso l’Università del New Mexico (USA).

 

Prof. Del Giudice, qual è al momento lo stato dell’arte della ricerca circa le differenze strutturali/biologiche tra maschi e femmine?

La ricerca biologica sulle differenze di genere è un campo enorme, impossibile anche solo tentare una sintesi nello spazio di questa mini-intervista.

Ci sono ricerche sulle differenze tra maschi e femmine nei tratti di personalità, nelle abilità cognitive, negli stili sociali (ad esempio competizione, cooperazione, ricerca dello status), nella comunicazione e nell’espressione delle emozioni, nelle preferenze in campo romantico e sessuale, nel rischio di sviluppare diversi tipi di disturbi mentali (come depressione e autismo), e così via.

Per una panoramica recente e approfondita, consiglio sempre lo splendido libro Male, Female di David Geary, purtroppo non ancora tradotto dall’inglese. Ci sono anche un articolo e una video intervista in italiano che ho fatto pochi mesi fa proprio su questi temi, e che possono servire come introduzioni “morbide” a questo ambito di ricerca.

 

Ma è giustificato sostenere che le differenze di comportamento e di ruolo siano totalmente attribuibili agli stereotipi sociali?

Forse il punto più importante da sottolineare è che distinguere (parzialmente) i contributi della nostra biologia da quelli della cultura è difficile ma tutt’altro che impossibile, e si può fare mettendo in relazione tra loro i modelli della biologia evoluzionistica, gli studi comparativi tra diverse specie animali, le ricerche cross-culturali, e i dati della neurobiologia e della psicologia dello sviluppo.

Queste fonti di informazione si incastrano come pezzi di un grande puzzle, e ci permettono di mettere alla prova diverse ipotesi alternative, comprese quelle che attribuiscono l’esistenza delle differenze di genere agli effetti della socializzazione, degli stereotipi, dei media, e così via.

L’idea che il cervello di maschi e femmine sia sostanzialmente una “tabula rasa” su cui la cultura incide preferenze e aspettative, e che le differenze di genere nel funzionamento psicologico siano causate in gran parte (se non completamente) dall’apprendimento sociale, è ancora molto viva e presente.

Dalla mia prospettiva di psicologo evoluzionista, si tratta di una visione del mondo anacronistica, scientificamente debolissima, e sostanzialmente ferma sulle posizioni del femminismo anni ’70. Questo non vuol dire che la scienza abbia già tutte le risposte, o che si possa spiegare tutto con quattro concetti biologici di base.

Le complessità sono importanti, sono tante, e vanno riconosciute e spiegate. “Natura” e “cultura” si intrecciano sempre in modo affascinante. Se si guarda al comportamento umano da una prospettiva biologica sofisticata, da un lato è vero che si possono semplificare certe questioni che altrimenti rimangono opache o intrattabili; ma dall’altro lato sorgono mille nuove domande, e quello che sembrava semplice può rivelare sfaccettature inaspettate.

 

Secondo Antonella Viola, “la visione binaria che separa il mondo sulla base dei due sessi […] non corrisponde alla realtà”. Il binarismo sessuale è un “dogma” e “una gabbia”. L’impressione è che argomenti questa posizione con il classico errore di riferirsi a delle patologie (come le alterazioni del corredo cromosomico, l’intersessualità e l’ermafroditismo), quindi delle eccezioni alla norma. E’ corretto?

Su questo tema c’è una confusione enorme; purtroppo, almeno a giudicare dal suo articolo non mi pare che la prof. Viola stia facendo molto per portare chiarezza.

Per esempio scrive: “Le persone intersessuali presentano variazioni dello sviluppo sessuale. Nulla di raro: si stima che fino all’1,7% dei nati manifesti caratteri sessuali che non corrispondono completamente alle nozioni binarie del corpo maschile o femminile”. In questo passaggio, confonde l’intersessualità (che, definita in modo preciso, riguarda meno dello 0,02% delle nascite, cioè circa 100 volte meno di quanto lascia intendere) con il criterio del tutto arbitrario di “caratteri che non corrispondono completamente alle nozioni binarie”.

Questo scivolone semantico è stato commesso per la prima volta da Anne Fausto-Sterling nel 2000; già nel 2002 e 2003 diversi autori avevano evidenziato gli errori di calcolo e definizione che l’avevano portata a esagerare la stima di 100 volte (la storia di questa controversia è stata raccontata ad esempio qui e qui).

Purtroppo quel “magico 1,7%” continua ad essere tramandato e ripetuto in modo acritico da più di vent’anni; devo dire che vederlo citato nell’articolo della prof. Viola non promette molto bene. Spero di essere smentito dal contenuto del nuovo libro!

Al di là delle cifre, la questione cruciale sta nella confusione fra livelli di analisi che invece devono essere distinti in modo preciso.

 

Quali sono questi livelli?

Il primo livello è quello della definizione biologica del sesso, che si basa sulla presenza di due (e solo due) tipi di gameti —uno più grande prodotto dalle femmine e uno più piccolo prodotto dai maschi. A questo livello concettuale, il sesso è un costrutto decisamente binario; non per una strana coincidenza, ma per ragioni biologiche profonde che abbiamo iniziato a capire grazie all’uso di modelli matematici.

Il secondo livello di analisi è quello della differenziazione sessuale nei singoli individui, che si basa su una catena molto lunga e complessa di meccanismi genetici e ormonali. Questo è il livello a cui la prof. Viola fa riferimento quando scrive che “la definizione di sesso biologico si fonda sul patrimonio genetico, sugli organi genitali e sul quadro ormonale generale” (una frase fuorviante, perché la determinazione del sesso non è la stessa cosa della sua definizione biologica). A questo livello, la natura binaria del sesso è parzialmente “incrinata” dalle condizioni atipiche che vengono categorizzate come intersessuali; ma bisogna notare che i processi di sviluppo portano ad una chiara differenziazione tra maschi e femmine in più del 99.98% dei casi, e che le eccezioni sono appunto eccezioni e non “terzi sessi” in aggiunta agli altri due.

Il terzo livello è quello dello sviluppo dei tratti associati al sesso, sia a livello fisico (statura, muscolatura, peluria, voce…) che a livello psicologico e comportamentale. Arrivati a questo punto entrano in gioco in modo potente le differenze individuali: i maschi e le femmine non sono tutti identici agli altri membri del loro sesso, ma manifestano una grande variabilità nei loro tratti e percorsi di sviluppo. Questa variabilità ha origini sia genetiche che ambientali, e in molti casi viene amplificata proprio dai processi di selezione naturale e sessuale. La conseguenza è che, con poche eccezioni, i caratteri associati al sesso non si organizzano in due distribuzioni completamente separate e “binarie”, ma mostrano un certo grado di sovrapposizione tra maschi e femmine (per esempio, gli uomini sono mediamente più alti delle donne, ma alcune donne sono più alte della media degli uomini).

Uno dei compiti della ricerca è capire quanto ampia sia questa sovrapposizione rispetto a diversi tratti, se e quanto se dipenda da fattori contestuali e culturali, e così via. Per esempio, nei singoli tratti di personalità come la stabilita-instabilità emotiva la sovrapposizione tra uomini e donne è molto alta, intorno all’80-90%. Ma in alcuni miei lavori ho mostrato che, quando si considerano più tratti allo stesso tempo (formando dei “profili” di personalità tipici dei due sessi) e si corregge l’errore di misura di cui soffrono i questionari, la sovrapposizione si riduce al 20-30%.

Questi risultati rivelano che i profili di personalità di uomini e donne sono molto più nettamente distinti tra loro di quanto non si credesse, ma allo stesso tempo lontani da una distribuzione completamente e rigidamente “binaria”.

 

Riassumendo, in poche parole è confermato il binarismo sessuale.

Si, ma bisogna chiarire di quale livello stiamo parlando. Il binarismo sessuale nasce in forma “pura” nella distinzione tra gameti su cui è basata la definizione biologica dei sessi; si concretizza nei processi biochimici che guidano la differenziazione sessuale, e che (molto, molto raramente) possono portare a condizioni atipiche di sviluppo sessuale; e si esprime in una vasta gamma di tratti fisici e psicologici, “sfumandosi” e mescolandosi alle differenze individuali, che ci rendono non solo maschi o femmine ma persone uniche quali siamo.

Questo modello a tre livelli è facile da spiegare e visualizzare, e permette di evitare tutta una serie di confusioni e fraintendimenti rispetto alla natura più o meno binaria del sesso. Per chi volesse dei riferimenti più precisi alla letteratura scientifica, consiglio un mio capitolo recente, in cui ho anche provato a tratteggiare una storia delle interazioni tra femminismo e psicologia rispetto alle tematiche di genere.

 

Parliamo dei “gender studies”, è innegabile che siano alla base delle di dichiarazioni della prof.ssa Viola. Hanno realmente una valenza scientifica? Molti studiosi contestano sia la validità degli studi (difetti di campionamento, mancanza di gruppi di controllo ecc.) sia l’artificialità dei concetti, i quali però sono penetrati massicciamente nel linguaggio sociale comune.

I gender studies nascono esplicitamente come un progetto politico/ideologico.

Il loro obiettivo ultimo non è la ricerca della verità o della conoscenza in quanto tale, ma un certo tipo di cambiamento sociale in senso progressista. Questo atteggiamento di fondo è l’antitesi dello spirito scientifico, che (idealmente) rifiuta le conclusioni precostituite e segue la logica e l’evidenza dovunque ci portino.

Il problema della ricerca scientifica nei gender studies è che viene usata in modo strumentale e selettivo: va benissimo quando dice (o sembra dire) qualcosa di utile alla causa, ma se i risultati sono scomodi vengono semplicemente ignorati oppure svalutati a priori, in quanto politicamente sospetti o anche solo in base all’identità degli autori. In più, certi assunti di base (per esempio l’idea che le differenze di genere siano fondamentalmente una costruzione socio-culturale) non possono essere seriamente messi in discussione, pena l’auto-distruzione della disciplina stessa.

Tutto questo crea una “bolla” epistemologica intorno ai gender studies, che si auto-descrivono come interdisciplinari ma di fatto rimangono estremamente autoreferenziali.

Il risultato è che i dibattiti interni non vengono vinti da chi sviluppa le teorie più realistiche o raccoglie i dati più attendibili, ma da chi riesce a far valere la propria purezza ideologica e la propria superiorità morale rispetto agli avversari. Naturalmente, lo stesso discorso vale per gli altri “studies” identitari (ethnic studies, queer studies, disability studies, ecc.) ma anche per fette sempre più grandi della sociologia, dell’antropologia e di altre discipline “classiche”, in cui l’attivismo sta diventando la motivazione primaria di professori e studenti.

 
Questi “studi” si basano sulla scissione tra sesso e genere, con la conseguente nascita del concetto di “identità di genere”…

Una breve parentesi sul significato di concetti come “genere”, “identità di genere”, e così via: in linea di principio, tutti questi termini potrebbero essere utili, ad esempio per identificare gli aspetti psicologici legati al sesso o la percezione che le persone hanno di sé stesse in relazione al loro essere maschi o femmine.

Il problema è che in pratica vengono definiti in modo fumoso e tendenzioso, dando per scontate ipotesi che invece dovrebbero essere aperte alla falsificazione.

Ad esempio, l’American Psychological Association definisce esplicitamente il gender come un costrutto sociale frutto di norme e aspettative culturali, facendo così passare una conclusione molto discutibile come una realtà accettata a priori.

Per questo risulta difficile usare termini come “genere” in modo neutro, o anche solo in modo coerente (ho discusso brevemente questo tema nel capitolo citato prima).

In effetti, anche diverse studiose femministe hanno iniziato a manifestare perplessità sempre maggiori rispetto alla distinzione tra “sesso” e “genere”, e a proporre termini ibridi come ad esempio “sesso/genere” (in inglese sex/gender o gender/sex).

Ovviamente il loro obiettivo principale è quello di “de-naturalizzare” il sesso biologico e non certo quello di “ri-naturalizzare” il genere; ma è sempre bello trovarsi d’accordo su qualcosa!

 
——————————————-

Leggi le nostre altre interviste del venerdì.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Abramo visse 175 anni? Noè 950 anni? Sono cifre simboliche

A quanti anni morì Abramo? Davvero visse 175 anni? E Noé? Sull’età dei patriarchi della Bibbia è stato scritto di tutto, ecco alcune risposte alla diatriba sulla loro vera età.

 
 

La grande differenza tra l’Antico ed il Nuovo Testamento.

Il Nuovo Testamento è configurabile come una vera e propria biografia greco-romana, con la pretesa esplicita di rivendicare fatti storicamente accaduti (e sui quali c’è sempre più consenso da parte degli studiosi).

La prima intenzione dei testi dell’Antico Testamento, invece, non è informare su cosa è davvero accadde ma formare la coscienza religiosa del popolo d’Israele.

 

La storicità dell’Antico Testamento.

Nell’Antico Testamento vi sono dei dati reali, ma questi dati intendono comunicare un messaggio essenzialmente soprannaturale, utile alla vita spirituale.

I profeti, autori dei testi biblici su inspirazione divina, scrissero concentrandosi sul significato morale e religioso di quelle vicende, educando gli ebrei alla fede verso un solo Dio creatore, preoccupato per la sorte ed il destino degli uomini.

Questo, tuttavia, non autorizza a concludere che si tratta certamente di testi leggendari o inventati, seppur molti brani lo siano.

L’archeologia, in particolare, ha confermato nel corso degli ultimi due secoli moltissime informazioni contenute soltanto nei libri dell’Antico Testamento e che prima si ritenevano dei miti.

Bisogna quindi essere prudenti nel dare un giudizio di piena storicità o di piena falsità dei testi anticotestamentari.

 

L’età dei patriarchi della Bibbia: Abramo e Noé.

Sull’età dei patriarchi si è detto di tutto, forum e blog ne parlano senza cognizione di causa, giungendo a conclusioni affrettate.

Secondo il libro della Genesi, ad esempio, Abramo sarebbe vissuto 175 anni (Gn 25,7). Un’età considerata anche oggi fin troppo longeva, a maggior ragione è totalmente impossibile quella di Noé: 950 anni (Gn 9, 28-29).

A tutti i patriarchi precedenti al diluvio universale sono stati attribuiti centinaia di anni al momento della morte.

Questo non significa che siano personaggi inventati. Va considerato infatti che la loro età è decisamente inferiore a quella attribuita ai re Sumeri (precedenti e successivi al diluvio), stimata mediamente di 30.000 anni. Nessuno per questo mette in dubbio la loro reale esistenza storica.

La Chiesa non si è mai occupata dell’età dei patriarchi biblici, ripetendo semplicemente che l’Antico Testamento non chiede di essere interpretato letteralmente.

Nonostante alcune ipotesi, non dimostrabili, secondo le quali le condizioni materiali di vita totalmente diverse prima del diluvio universale avrebbero garantito una lunghissima esistenza, la teoria più accreditata è che si tratti di cifre simboliche.

 

L’età dei patriarchi biblici, cosa dicono gli studiosi.

Ne ha parlato recentemente il teologo padre Angelo Bellon, ricordando che la stessa Bibbia di Gerusalemme commenta che in queste cifre «non bisogna cercarvi né una storia né una cronologia».

Anche nel commento alla Bibbia di Emmaus, pubblicata dalle edizioni San Paolo, si legge: «I numeri degli anni, pur non essendo colossali come in certe liste genealogiche mesopotamiche che giungono fino a decine di migliaia, sono un modo orientale per esprimere la convinzione che i primordi fossero una specie di età dell’oro segnata da longevità. Non bisogna d’altra parte dimenticare che questi personaggi sono spesso capostipiti tribali che inglobano in sé l’intera vicenda della loro tribù».

Il domenicano padre Bellon ha anche riportato le conclusioni del biblista italiano Armando Rolla, il quale scrive: «E’ soprattutto nell’indicare l’età dell’uomo che gli antichi orientali non si preoccupavano dell’esattezza delle cifre. Questo lo possiamo provare per l’antico Egitto, dove l’espressione 110 anni era usata come una frase fatta, per indicare il limite dell’età, e una vecchiaia molto avanzata normalmente veniva detta di 110 anni».

Mons. Rolla concluse, quindi: «Attribuendo loro un’età elevatissima, l’autore biblico avrebbe suggerito la stessa idea intesa da un pittore che li avesse raffigurati come uomini di statura vigorosa e alta, con la barba fluente e i capelli bianchi. In questo caso si tratterebbe soltanto di mezzi espressivi diversi»1A. Rolla, Il messaggio della salvezza. Antico testamento, dalle origini all’esilio, Elledici 1965, pp. 151-153.

Dello stesso avviso anche don Francesco Carensi, docente presso la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.

«La storicità dei patriarchi non è prima di tutto per gli storici, ma per i credenti», ha scritto il teologo. «E’ la storia degli uomini narrata dal punto di vista di Dio. Per quanto riguarda l’età avanzata dei patriarchi possiamo interpretarla non dal punto di vista quantitativo, ma qualitativo. Si tratta di un’esistenza vissuta in pienezza, dove se l’umanità rivela gli aspetti più fragili che a volte sfociano in comportamenti per noi moralmente inaccettabili, la benedizione di Dio continua ed è il filo rosso di queste storie».

Qualcosa di simile ha riferito anche dal biblista Scott Hahn, docente alla Franciscan University di Steubenville (Stati Uniti).

Nel suo commento su Genesi, conclude che «l’ipotesi migliore, che aiuterebbe a spiegare sia i dati biblici che quelli del Vicino Oriente, è che attribuire alle figure primitive vite estremamente lunghe è stato un modo per concettualizzare la grande antichità dell’umanità. In altre parole, può essere semplicemente una tecnica letteraria utilizzata per affermare la notevole età della razza umana»2S. Hahn, Politicizing the Bible: The Roots of Historical Criticism and the Secularization of Scripture 1300-1700, The Crossroad Publishing Company 2013.

Lo stesso padre Bellon ha concluso: «Senza pretendere una certezza storica perché non è questo l’intendimento primario della Sacra Scrittura, si può dire che si tratta di cifre simboliche».

 

Ma non sono questi dettagli la cosa più importante dell’Antico Testamento.

Nel suo bellissimo libro, da noi recensito, lo ha capito il filosofo ed ateo francese Philippe Nemo, direttore del Centro di ricerche in Filosofia economica presso l’ESCP Europe, quando ha scritto:

«Come mi ha fatto notare Emmanuel Lévinas, il fatto che tanti autori diversi, di epoche distanti, spesso animati da precisi interessi politici e sociali, convergano su uno stesso senso spirituale, è ben più miracoloso dell’idea tradizionale per cui la Bibbia sarebbe stata scritta da un ridottissimo numero di autori ispirati»3P. Nemo, La bella morte dell’ateismo moderno, Rubbettino 2016, p. 17

 

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Luciano Canfora: pietà per la falsa Ipazia, non per gli ucraini

La Storia non ha tempo per una donna ucraina che perde il figlio. E’ la tesi del noto intellettuale comunista Canfora, schieratosi dalla parte di Putin. Lo stesso filologo che diversi anni aderì alla ricostruzione leggendaria sulla morte di Ipazia d’Alessandria.

 
 
 

Il noto filologo italiano Luciano Canfora sta ricevendo durissimi attacchi da parte di numerosi intellettuali.

Non hanno tutti i torti. Noto accademico italiano e comunista, Canfora si è schierato a favore di Vladimir Putin e dell’invasione militare dell’Ucraina.

«Definire aberranti le dichiarazioni di Canfora è un eufemismo», ha commentato Alberto De Bernardi, professore di Storia all’Università di Bologna. «Canfora non ha ancora smaltito ideologicamente la fine del comunismo e il crollo dell’Unione Sovietica, confondendo Putin e la Russia di ora, una dittatura ultranazionalista, con la tradizione già tragica del comunismo, con cui non ha nulla a che vedere».

«La sua sovrapposizione dei fatti», ha concluso lo storico, «squalifica una persona come Canfora che ha tutti gli strumenti culturali per capire bene cosa sta accadendo».

 

Luciano Canfora non interessato alla sorte dell’Ucraina.

Il passaggio più disumano dell’intervista a Canfora è stato intercettato ottimamente da Renato Farina su Libero, ma anche Maurizio Crippa su Il Foglio e Antonio Polito sul Corriere.

Ci riferiamo alla lamentela del noto intellettuale per la copertura mediatica della guerra in Ucraina, indispettito del fatto che vengano intervistati «i passanti», cioè i profughi in fuga dai bombardamenti.

«Io vorrei notizie sull’andamento del conflitto, perché la storia di una Irina che perde il bambino è un caso particolare e basta»ha dichiarato.

La Storia non perde tempo dietro ad una inutile donna a cui muore il figlio, sono problemi suoi. E basta. E’ la disumanità totale di questo giudizio che lascia sbigottiti e che ha fatto vergognare perfino Luigi Manconi, su Repubblica.

«In queste quattordici parole», ha commentato Farina, «c’è la formula tragica del veleno che ha ammazzato milioni e milioni di poveri cristi in nome di un futuro migliore, per cui lecito sacrificare il singolo, il suo destino irripetibile».

E’ inevitabile lo scandalo di quest’affermazione di Canfora, radicalmente in antitesi con le basi morali della società cristiana.

 

Nel 2010 aderì al mito della morte di Ipazia.

E’ curioso pensare che il comunista Luciano Canfora si spese invece a favore di Ipazia d’Alessandria, filosofa e matematica vissuta nel V secolo d.C. nota per il suo certamente terribile omicidio, con uno zelo talmente alto da dare credibilità a ricostruzioni storicamente false.

Il tutto è stato dettagliatamente spiegato nel nostro dossier storico su Ipazia, mostrando le conclusioni dei principali studiosi che si sono occupati della vicenda.

Per sintetizzare, la filosofa d’Alessandria venne tragicamente uccisa da alcuni fanatici (cristiani, probabilmente) a seguito di una diatriba politica tra il vescovo Cirillo ed il prefetto della città, il cristiano Oreste. La donna pagò con la vita la vicinanza a quest’ultimo.

L’unica fonte contemporanea ai fatti è quella del cristiano Socrate Scolatico, ammiratore di Ipazia, che parla di movente politico e non accenna ad alcuna responsabilità diretta da parte del vescovo Cirillo.

Tuttavia, dopo 13 secoli, a partire dal XVIII secolo, gli illuministi trasformarono Ipazia in un mito razionalista vittima del fanatismo cristiano. Un grande contributo lo diede il falsario Edward Gibbon nel suo celebre (quanto storicamente screditato) Declino e caduta dell’Impero romano (1776), dove inventò l’agiografia di Ipazia “martire della scienza”.

 

Le bugie sulla morte di Ipazia.

A questa leggenda anticattolica ha creduto perfino Luciano Canfora, che definì Ipazia una «scienziata alessandrina», morta in quanto «donna e notevole scienziata, colpevole di non voler essere cristiana ma assertrice della filosofia e della scienza greca»1L. Canfora, Cirillo e Ipazia nella storiografia cattolica, OpenEdition Journals 2010.

Per sostenere questo, Canfora fu costretto a scartare l’unica fonte contemporanea per appoggiarsi a Damascio, che scrisse un secolo dopo i fatti. Eppure è noto che tale autore falsificò il resoconto e scrisse un romanzo più che una ricostruzione storica, inventandosi perfino l’aspetto estetico di Ipazia, descrivendola come bellissima e giovane (peccato che al momento della morte avesse circa 60 anni).

Oltretutto, come dimostriamo nel dossier, Ipazia non fu affatto una “scienziata” (scrisse solo commenti su pensatori precedenti), si inspirava alla dottrina neoplatonica che influenzò notevolmente proprio lo sviluppo della filosofia cristiana (nessuna contraddizione dunque con il pensiero cristiano), tanto che tra i suoi discepoli vi furono alcuni futuri vescovi, come Sinesio di Cirene (e continuarono a stimarla anche da vescovi).

Infine, Ipazia non fu né la prima né l’ultima studiosa donna (tanto meno “la prima donna matematica”). Secoli prima di lei vissero Aspasia, Diotima, Arete, Ipparchia e Panfila di Epidauro. Più vicino a lei, si può citare Sosipatra. Dopo di lei Asclepigenia ed Edesia insegnarono ad Atene e Alessandria, non provocando alcun turbamento nel popolo cristiano.

Come ha spiegato Moreno Morani, direttore del Dipartimento di Scienze dell’Antichità e del Medioevo all’Università degli Sudi di Genova, Ipazia venne semplicemente identificata (a ragione o torto) come la causa principale dell’attrito tra due autorità cristiane (quella religiosa e quella politica) e pagò con la vita, in una città in cui era abituale risolvere per strada le questioni spinose, spesso con la violenza (il patriarca cristiano Proterio d’Alessandria morì anch’egli in un agguato avvenuto nel 457 d.C.).

 

Paradossale che Luciano Canfora abbia voluto aderire a ricostruzioni fantasiose sulla morte di Ipazia d’Alessandria mentre non ha dimostrato alcun cenno di pietà verso la morte, reale, del popolo ucraino.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Tre motivi per cui il Papa non condanna la Russia

Papa Francesco non cita la Russia come paese aggressore, mentre sta condannando la guerra ed indicando l’Ucraina come “paese martire”. Un comportamento che genera dubbi ed equivoci ma che ha una chiara spiegazione.

 
 
 

Dopo l’aggressione armata della Russia verso l’Ucraina, la prima istituzione a scendere in campo è stata la Chiesa cattolica.

Il 24 febbraio scorso, poche ore dopo le prime bombe, la Caritas era già attiva e stava già convogliando aiuti umanitari al confine. Da allora non ha più smesso.

Papa Francesco sta lanciando appelli continui alla pace, ha accusato «coloro che fanno la guerra», condannato la violazione del diritto internazionale e ha definito l’Ucraina un «paese martire».

Il 25 febbraio, con un gesto senza precedenti, si è recato all’ambasciata russa in Vaticano per parlare con l’ambasciatore di Mosca. Il 25 marzo prossimo consacrerà Russia ed Ucraina al Cuore Immacolato di Maria.

Inoltre, ha inviato il card. Konrad Krajeweski, elemosiniere pontificio, sotto le bombe in Ucraina a dare sostegno morale alla popolazione in fuga. Lo stesso cardinale sta pagando la benzina per gli aiuti umanitari.

Il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, è al lavoro per vie diplomatiche interne con il ministro russo Sergey Lavrov per ritagliarsi uno spazio in una complicata e possibile.

 

Le critiche a Francesco: non parla della Russia.

Eppure c’è chi accusa Francesco di non fare abbastanza.

Il vaticanista di Domani, Marco Grieco, scrive che il Papa avrebbe scelto «una via timida», Le Monde lo critica perché «non ha condannato formalmente l’invasione russa. Un cattolico che lo ascolta avrebbe difficoltà a sapere chi ha iniziato la guerra».

Lo stesso scrive il National Catholic Reporter.

Se Sandro Magister si rallegra perché almeno l’Osservatore Romano avrebbe «rotto il tabù» parlando di “aggressione dell’esercito russo in Ucraina”, Louis Badilla de Il Sismografo si chiede: «Perché il Papa continua a tacere?».

E’ vero, mentre il card. Parolin ha descritto la guerra come «scatenata dalla Russia», Francesco sta evitando di citare esplicitamente il paese aggressore. Forse è l’unico leader mondiale a farlo. Perché?

 

1) Prudenza e vera diplomazia.

Innanzitutto c’è sicuramente un aspetto di prudenza e di diplomazia.

Come ha scritto il decano dei vaticanisti USA, John L. Allen, è un bene non accodarsi al presidente americano Joe Biden, il quale da giorni sta rilasciando dichiarazioni di odio contro i russi, piuttosto superflue sul piano pratico e che gettano soltanto benzina in più su un terreno geopolitico delicatissimo.

Llo stesso Biden dovrebbe spiegare perché gli USA hanno continuato a spingere l’Alleanza Atlantica verso Est quando, nel 1997, lui stesso avvertì che questo avrebbe rischiato «una risposta ostile da parte della Russia» (ovviamente ciò non giustifica la reazione militare della Russia!).

Inoltre, un importante diplomatico cattolico, Victor Gaetan, ha spiegato che il comportamento di Francesco fa parte «della diplomazia vaticana nel corso dei secoli, si lascia sempre spazio per la prossima conversazione, per il prossimo dialogo».

Lo ha spiegato anche Lucio Brunelli, ex direttore di TV2000: «C’è una sapienza anche diplomatica nel non fare i nomi: lasciare sempre uno spiraglio al dialogo, alla resipiscenza. Non chiudere mai del tutto la porta. Ma ormai nessuno sa più fare Politica e Diplomazia con la maiuscola».

In un’intervista di oggi, anche Daniele Menozzi, docente di Storia del cristianesimo all’Università Normale di Pisa, ha spiegato: «Se il Papa ritiene che non possa operare per la pace se non mediando e aprendo un canale diplomatico, non può denunciare pubblicamente e subito una delle parti in gioco. L’uso del linguaggio diplomatico esige un linguaggio estremamente prudente e prevede che neanche con l’aggressore vengano tagliati i ponti».

 

2) Evita conflitti religiosi, tutela dialogo ecumenico.

In secondo luogo, qualsiasi critica diretta da parte del Papa alla Russia potrebbe essere letta a sostegno di un conflitto religioso tra cattolici ed ortodossi.

Sappiamo quanto il patriarca ortodosso Kirill si sia schierato a favore di Putin, addirittura giustificando l’invasione come opposizione alle “pratiche occidentali peccaminose”. Un intervento diretto del Papa distruggerebbe decenni di lavoro ecumenico per avvicinare cattolici ed ortodossi.

Lo ha ribadito anche Daniele Menozzi: «La denuncia è implicita anche se non c’è la distinzione netta ed esplicitata tra aggressore ed aggredito. Quando fa riferimento alla violenza gratuita e all’attacco dei civili, si capisce che c’è la condanna degli aggressori. La mia impressione è che la difficoltà è data soprattutto dalla complessità delle relazioni interconfessionali sul campo, una situazione molto complessa nel mondo orientale e in modo particolare nell’ortodossia».

Dei 300 milioni di cristiani ortodossi nel mondo, infatti circa 100 milioni vivono in Russia e più di 30 milioni in Ucraina, alcuni dei quali uniti alla Chiesa ortodossa russa. Ci sono anche circa 4,5 milioni di cattolici di rito bizantino in Ucraina che sono fedeli a Roma.

 

3) Continuità con i suoi predecessori.

Infine, nessun predecessore di Francesco ha mai citato il nome degli aggressori.

Sempre il vaticanista Lucio Brunelli, ha spiegato: «Mai, nessun papa in condizioni analoghe, ha citato nomi e cognomi dei leader e nemmeno degli Stati. Sicuramente non lo fece Giovanni Paolo II, sia nella prima che nella seconda guerra in Iraq. I Pontefici hanno sempre trovato il modo affinché il destinatario del messaggio fosse chiaro senza puntargli contro il dito. Così Bergoglio non cita la Russia ma è chiaro a chi si rivolge».

La ha ricordato anche il vaticanista de Il Foglio, Matteo Matzuzzi: «E’ vero, non ha menzionato né la Russia né Putin, ma neppure Giovanni Paolo II fece nomi e cognomi nel 2003 quando si trattò di attaccare l’Iraq di Saddam Hussein».

 

Il “silenzio” rischia di essere equivoco?

Ma così facendo, il Papa non è equivoco?

Il rischio c’è, certamente. Ma l’atteggiamento del Papa è sufficientemente chiaro da indicare come la pensa.

Giustamente lo storico Menozzi dice: «Francesco ha fatto una scommessa su questo, il bene della pace è così grande che la Chiesa può spendersi anche mettendo a repentaglio la sua autorità per evitare che lo scontro arrivi a termini drammatici»

Una bella risposta è arrivata da Antonio Socci:

«E’ impossibile equivocare i suoi interventi. Nessuno in queste settimane ha pronunciato parole così forti, di condanna al conflitto. Non c’è nessuno che in buona fede possa dire che il Papa non è chiaro. Forse chi lo critica ha confuso il Papa con il conduttore di un telegiornale. Va ricordato che il Papa non ha il compito di fare notiziari d’informazione, la sua missione è un’altra. Il Papa non inveisce mai contro singoli uomini o Stati; non pronuncia parole di odio che vanne a gettare benzina sulle fiamme dei conflitti. Il Papa non si fa arruolare da nessuno, sta con le vittime. Non solo perché il mondo non si divide tra Nato e Russia, ma soprattutto perché è cattolico, universale».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace