Lo storico canadese: «Nessun nativo ucciso nelle scuole residenziali»

La nostra intervista a Jacques Rouillard, docente di Storia all’Università di Montreal ed esperto delle scuole residenziali canadesi. Smentisce il genocidio culturale e quello fisico verso gli indigeni canadesi: non esistono scavi, né fosse comuni né, tanto meno, resti ritrovati. Dietro a tutto c’è un tentativo di risarcimento milionario.

 
 
 

Questa settimana i rappresentanti delle popolazioni indigene canadesi sono stati ricevuti in Vaticano (oggi si attendono le scuse da parte del Papa).

Papa Francesco ha ascoltato i leader dei popoli originari Métis e Inuit percependo la sofferenza subita di queste persone vissute all’interno del sistema scolastico residenziale.

Occorre però prestare attenzione alla narrativa: un conto è parlare di inculturazione, di cambio di lingua, di insegnamento della religione cattolica al posto della spiritualità indigena.

Un altro è sostenere che in queste scuole governative, ma gestite da missionari cristiani (anche cattolici), sia avvenuto un genocidio fisico con l’uccisioni di bambini, sotterrati poi in fosse comuni.

Si tratta di piani diversi che non vanno confusi: il primo è vero, il secondo no.

La stessa Commissione d’indagine canadese che ha avvallato il “genocidio culturale”, ha tuttavia smentito quello fisico e biologico.

 

A Kamloops niente fosse comuni, né resti ritrovati.

Il mese scorso avevamo già parlato della fake news internazionale sul ritrovamento di una presunta fossa comune alla Kamloops Indian Residential School. E’ un falso, ovviamente.

La dimostrazione più facile? Non esistono fotografie né degli scavi, né della fossa e né tanto meno dei resti umani riesumati.

Tutto nasce il 27 maggio 2021 da un comunicato stampa della giovane antropologa Sarah Beaulieu che, dopo aver analizzato con un georadar il terreno vicino alla scuola avrebbe rilevato depressioni e anomalie. Da qui l’ipotesi di una fossa comune, senza aver fatto nemmeno uno scavo.

Alcune comunità indigene hanno aggiunto il riferimento a tombe non contrassegnate e sui media si è trasformata nella notizia del ritrovamento di una fossa comune e di 215 resti umani. Il premier Justin Trudeau ha subito avallato l’idea del “capitolo oscuro e vergognoso” della storia canadese, scatenando il putiferio.

 

Scuole residenziali, gli ex studenti: «Anche ricordi belli»

Gli stessi ex studenti delle scuole residenziali, come le sorelle Pearl Lerat e Linda Whiteman, hanno dichiarato ai media canadesi che l’idea di tombe appartenenti ai bambini che frequentavano queste scuole «vive di vita propria, è bastato che i media raccogliessero queste storie».

Si tratta di semplici cimiteri, in cui venivano sepolti i membri della comunità ed anche i bambini che morivano di malattie. Gli stessi nonni e genitori delle due sorelle canadesi sono sepolti lì.

«I più vecchi tra noi sanno che non ci sono solo bambini», affermano. «Furono sepolti i contadini e anche membri della comunità Métis seppellivano persone nel nostro cimitero». Così, ammettono, «è stato molto sconvolgente, per non dire altro», veder strumentalizzata la notizia. «Si è diffusa a livello nazionale quasi subito, dall’oggi al domani. Spero che ne venga fuori qualcosa di buono e che le persone imparino la verità al riguardo».

Sostengono che avrebbe dovuto essere stata consultata la generazione più anziana prima che gli attuali leader indigeni tenessero le conferenze stampa. «Chiedi il loro consiglio, chiedi loro la storia per come la ricordano. Eravamo lì. L’abbiamo vissuta. Dovremmo saperlo», ha detto l’ex studentessa. «Non pretendo di avere 110 anni, di sapere tutto, ma penso di aver sperimentato abbastanza quanto accadde nella scuola residenziale per ricordare non solo i momenti brutti ma anche quelli belli».

 

La nostra intervista allo storico canadese.

Uno dei primi ad aver sottolineato il grande equivoco dietro a tutta questa storia è stato il prof. Jacques Rouillard, docente emerito di Storia all’Università di Montreal e tra i massimi esperti di storia del Quebec.

Nel febbraio scorso ha pubblicato un lungo approfondimento sulla rivista canadese L’Action nationale, intitolato per l’appunto: Dove sono i resti dei bambini sepolti alla Kamloops Indian Residential School?.

 

UCCR lo ha intervistato, ecco cosa ci ha detto (le risposte sono integrate con quanto ha scritto nella sua ricerca indipendente).

DOMANDA – Prof. Rouillard, è storicamente corretto parlare di abusi avvenuti nelle scuole residenziali in Canada, considerando la Chiesa cattolica artefice di una “colonizzazione” e di un “genocidio culturale”?

RISPOSTA – Naturalmente i francesi e gli inglesi colonizzarono il Canada come molti altri paesi europei fecero altrove e la Chiesa cattolica volle convertire i popoli incontrati per assicurarne la salvezza.

La parola genocidio culturale mi sembra però decisamente forte.

Vi fu invece il desiderio di assimilare le lingue indigene, di favorire un’integrazione nella società industriale e di trasformare certi valori che erano loro specifici. Questo è inevitabile per tutte le società preindustriali e continua ad essere fatto anche oggi nelle scuole gestite da autoctoni.

I bambini imparano a parlare, leggere e scrivere in inglese, apprendono la matematica e la geografia, così come viene loro insegnato ad inserirsi nella società e proseguire con l’università. Inoltre, ci sono corsi di storia e lingue aborigene. E va bene, è giusto.

I nativi non avevano le risorse per adattarsi. A differenza di quanto fecero gli Stati Uniti con i popoli autoctoni, le élite canadesi non vollero rifiutarli o emarginarli, ma renderli canadesi come gli altri.

Lo storico Henri Goulet, nel suo lavoro sulla storia delle scuole residenziali in Quebec, spiega che il desiderio dei Missionari oblati di Maria Immacolata del Quebec (come padre Jean-Marie Raphaël Le Jeune) era conoscere le lingue aborigene e riferisce che le loro pubblicazioni in lingua indigena «testimoniano il loro desiderio di mantenere il linguaggio nativo»1H. Goulet, Histoire des pensionnats indiens catholiques au Québec. Le rôle déterminant des pères oblats, Les Presses de l’Université de Montréal 2016, p. 182-183. La loro azione era ispirata dallo sforzo di evidenziare gli aspetti positivi della cultura aborigena e di favorire una “transizione più armoniosa”.

Gli sforzi degli Oblati per mitigare lo shock culturale non sono stati riconosciuti nel rapporto della Commission de vérité et réconciliation (CVR). Questo contribuisce ad alimentare il punto di vista iper-critico verso le scuole residenziali, sostenendo che le comunità religiose avrebbero avuto poco riguardo per la cultura indigena.

I ricercatori della Commissione non hanno consultato gli archivi della comunità oblata, limitandosi quasi esclusivamente a quelli governativi. Per giustificarsi sostengono che si tratti di istituzioni private ma è una scusa logora in quanto hanno impiegato sei anni per scrivere un rapporto che è costato 71 milioni di dollari.

Eppure nei loro diari, gli Oblati registravano fedelmente gli avvenimenti significativi della giornata, dopo aver consultato le cronache di 8 collegi di Alberta conservati negli archivi della provincia, abbiamo trovato ricche informazioni, in francese o inglese, tra cui la morte di studenti con i loro nomi. Nessun segreto.

 

«I nativi canadesi? Nessun genocidio»

DOMANDA – Eppure i media (anche quelli cattolici) continuano a riprendere la notizia di fosse comuni in Canada vicino alle scuole cattoliche. E’ vero o si tratta di una finzione, com’è stato dimostrato per quella della Kamloops Indian Residential School?

RISPOSTA – E’ falso, non c’è nessuna fossa comune dietro a questi collegi come invece alcuni vorrebbero far credere.

A volte si incontrano semplici cimiteri, come vicino alla missione di Marieville. In essi venivano sepolti gli studenti delle scuole, ma anche i membri della comunità locale e gli stessi missionari una volta che morivano. L’invenzione del genocidio fisico nasce con lo scopo di ottenere un risarcimento monetario dalla Chiesa cattolica.

D’altra parte, è mai pensabile che monaci e monache, che conoscono i bambini e vogliono la loro conversione, li possano aver assassinati e seppelliti nelle tombe senza che i loro genitori ed i Conseil de bande [i rappresentanti dei comitati indiani] reagissero? È finzione. Questi monaci e monache, oltretutto, provenivano principalmente dal Quebec di lingua francese.

Nello stesso rapporto della CVR si legge che «per quasi tutti i collegi un funerale cristiano era la norma» e che il cimitero della chiesa attigua «può fungere da luogo di sepoltura per gli studenti che muoiono nel collegio così come per i membri della comunità locale e gli stessi missionari». Questo è quello che è effettivamente successo anche a Kamloops.

Non è credibile che 200 bambini siano stati sepolti clandestinamente in una fossa comune, nella riserva stessa, senza alcuna reazione da parte del Conseil de bande. Oltretutto queste congregazioni religiose hanno lavorato in Quebec per anni in varie opere sociali, inclusi gli orfanotrofi e, per quanto ne so, non sono mai state mosse loro accuse del genere.

Nelle interviste ai “sopravvissuti” leggiamo che la semplice presenza di una fornace nel seminterrato delle scuole suggerirebbe che i corpi dei bambini sarebbero stati bruciati lì. Si tratta sempre di ipotesi e speculazioni, i cosiddetti “sopravvissuti” non hanno mai assistito in prima persona a nulla di quanto affermano. Queste dicerie si sono perpetuate nel corso degli anni tra gli indigeni di Kamloops,

Nessuno sottolinea che siamo ancora nella fase delle ipotesi e che non sono stati ancora trovati resti, eppure il governo ed i media consentono l’accreditamento della tesi della scomparsa di migliaia di bambini dai collegi. Da un’accusa di “genocidio culturale” avallata dalla Commission de vérité et réconciliation (CVR), si è passati al “genocidio fisico”, una conclusione che la Commissione stessa rifiuta esplicitamente nel suo rapporto.

Tutto si basa sulla semplice scoperta di anomalie del suolo, disturbi che potrebbero essere stati causati dai movimenti delle radici, come ha ricordato la stessa antropologa durante la conferenza stampa del 15 luglio. Occorrono prove concrete prima che le accuse mosse contro gli Oblati e le Suore di Sant’Anna siano iscritte nella storia. Le esumazioni non sono ancora iniziate e non sono stati trovati resti. Un crimine commesso richiede prove verificabili.

 

«Gli indigeni del Canada morivano per tubercolosi»

DOMANDA – Recentemente James C. McCrae, ex procuratore generale di Manitoba e Tom Flanagan, professore emerito di Scienze politiche all’University of Calgary, hanno messo in dubbio anche l’affidabilità del National Student Memorial Register, il registro che elenca i bambini mai rientrati a casa dalle scuole residenziali. Viene definita una «lista fraudolenta» in quanto sono state inserite persone che non frequentavano queste scuole e gli stessi responsabili del NCTR ammettono di non verificare la storia dei bambini, inseriti su richiesta delle famiglie per «ricordare i loro figli perduti tra i nomi dei loro compagni di scuola». Cosa ne pensa?

RISPOSTA – Ho poca esperienza di questa specifica cosa ma so per certo che non bisogna assolutamente fidarsi dell’NCTR che è soggetto alla guida di alcuni membri della comunità indigena e ha dimostrato più volte di aderire a teorie cospiratorie verso lo Stato canadese e la Chiesa cattolica.

Secondo gli stessi dati forniti dalla Commission de vérité et réconciliation (CVR) il tasso di mortalità nei giovani che frequentavano le scuole residenziali era in media di circa 4 decessi all’anno ogni 1.000 giovani e la causa principale era dovuta a tubercolosi ed influenza.

Nonostante fonti d’informazione parziali, la commissione si concede però affermazioni sorprendenti sostenendo che «non era pratica comune per la maggior parte delle scuole residenziali restituire i resti alle comunità di origine» e che «i loro genitori spesso non sono stati informati della malattia o del decesso». La fonte sono archivi lacunosi ed è grave se provengono da una commissione d’inchiesta ufficiale. Comprendo chi invoca la necessità di ulteriori indagini.

La realtà è lontana da queste affermazioni, laddove le informazioni sono disponibili apprendiamo invece che i genitori sono stati informati e che i bambini sono sepolti nel cimitero della loro riserva. Dal 1935 il Department of Indian Affairs ha imposto una procedura specifica in caso di morte di uno studente.

 

«Più che le scuse del Papa, risarcimenti milionari»

DOMANDA – Ad inizio marzo, altri due studiosi delle scuole residenziali canadesi hanno scritto a loro volta: «Non c’è traccia di un solo studente ucciso nei 113 anni di storia delle scuole residenziali». Questa affermazione corrisponde alla verità storica?

RISPOSTA – Sono d’accordo con quanto scrivono. In Canada non abbiamo mai perseguito una comunità religiosa per aver ucciso un solo bambino. D’altra parte non vengono offerti nomi di bambini presumibilmente sepolti in una fossa comune, né i nomi dei loro genitori che si sono lamentati della scomparsa.

Con la visita al Papa, i media canadesi si stanno facendo portavoce delle comunità indigene ma nessuna critica, anche minima, viene accettata anche se a volte vengono addotte delle assurdità. Si ripete solo che le comunità religiose sono colpevoli ed il Papa dovrebbe chiedere scusa.

Sembra che si siano autorizzati gli scavi a Kamloops, è una buona notizia. Sarebbe però stato meglio si fossero svolti lo scorso autunno, così da conoscere la verità ed impedire a papa Francesco di venire a Kamloops per scusarsi sulla base di ipotesi non provate. Molti dubitano però che gli scavi avranno mai luogo, data l’importanza della posta in gioco bisognerebbe che fossero condotti sotto la supervisione di una commissione indipendente.

Segnalo questo articolo che illustra bene l’obiettivo della leadership aborigena.

 

DOMANDA – Sostanzialmente sembra che l’obbiettivo sia un risarcimento milionario a fronte però di evidenze tutt’altro che accertate

RISPOSTA – Il governo canadese ha pagato ai “sopravvissuti” delle scuole residenziali somme enormi, si comprende di più perché i leader indigeni vogliano ottenere lo stesso dalla Chiesa cattolica.

Al netto di ciò, tuttavia, gli aborigeni hanno certamente molte lamentele da rivolgere al governo ed al popolo canadese.

 
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Leggi le nostre altre interviste del venerdì.

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Cari atei, solo i credenti possono fidarsi della ragione

Se il naturalismo è vero, siamo solo un incidente casuale di un’evoluzione cieca ed i nostri pensieri equivalgono a mere reazioni chimiche. Perché dovremmo fidarci dei prodotti della mente? Per i cristiani, invece, la ragione è un dono di Dio e ha un’origine evolutiva non casuale.

 
 
 

Le nostre capacità cognitive sono affidabili?

Se il naturalismo fosse vero, l’essere umano sarebbe solo un incidente casuale dell’evoluzione e la risposta sarebbe negativa.

Lo stesso celebre naturalista Charles Darwin lo intuì quando scrisse: «Mi sorge sempre l’orrido dubbio se le convinzioni della mente umana, che si è sviluppata dalla mente degli animali inferiori, siano di qualche valore o in qualche modo attendibili. Chi riporrebbe la sua fiducia nelle convinzioni della mente di una scimmia – se pure esistono delle convinzioni in una tale mente?» (1881).

Dal momento che la selezione naturale si limita a premiare i comportamenti che aumentano l’adattamento, non ha alcuna importanza se le convinzioni che stanno alla base di quei comportamenti siano vere o false.

Se si accetta il riduzionismo materialista, implicito nel naturalismo, ogni comportamento umano è causato esclusivamente da processi cerebrali deterministici, i quali sono l’unica fonte delle nostre convinzioni.

 

Perché il cristiano può fidarsi della ragione.

Nel febbraio scorso ne ha parlato anche Michael Egnore, rinomato neurochirurgo della State University di New York.

Egnore è partito dalla constatazione che gli atei comunemente affermano che esisterebbe una profonda dicotomia tra fede e ragione, ma egli obietta che la validità della ragione non può essere convalidata dalla ragione stessa.

Il cristiano è legittimato a fidarsi della sua ragione in quanto la ritiene un dono di un Dio creatore per aiutarlo ad accedere alla conoscenza del mondo. «Questa è una giustificazione coerente per fidarci della nostra capacità di ragione», scrive  il neurochirurgo.

La massima apertura della ragione si verifica infatti quando quest’ultima percepisce il presentimento di un significato profondo nell’esistenza, quando diventa cosciente di un’incompiutezza ultima per cui solo un Infinito può darvi risposta e culmina nel sospiro di una rivelazione.

«Il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano», scriveva Pascal.

 

I filosofi: «I naturalisti non possono credere alla ragione»

Ma se davvero fossimo il prodotto casuale di un’evoluzione cieca? Con quale garanzia potersi fidare della nostra capacità intellettiva? In base a cosa si può essere convinti che vi sia qualcosa di assolutamente vero o falso?

Ne abbiamo già parlato in passato, riprendendo il famoso argomento del filosofo statunitense Alvin Plantinga.

«Gli atei hanno la stessa fede dei cristiani: credono di avere accesso anche loro alla verità», osserva oggi Michael Egnore.

«Ma l’ateismo non fornisce alcuna garanzia coerente per fidarsi della capacità di ragione. In questo senso, la fede atea è molto più radicale e molto meno coerente della fede dei cristiani».

E ancora: «La fede atea nella validità della ragione è infondata e ingiustificabile, ed è quindi una fede molto più radicale e molto meno credibile».

Se i nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre speranze sono semplicemente il risultato di reazioni chimiche, come indica il naturalismo, perché dovremmo fidarci di essi? Quanto è probabile che le nostre capacità cognitive siano affidabili, data la loro origine puramente casuale? Molto poco.

Ecco la riflessione dell’eminente matematico di Oxoford, John Lennox: «Il riduzionismo ontologico si riduce al tentativo di sollevarsi tirandosi su per i lacci delle scarpe. In fin dei conti, è l’uso dell’intelletto umano ad aver indotto alcune persone ad adottare il riduzionismo ontologico, il quale comporta il corollario che non vi è motivo di fidarci del nostro intelletto quando ci dice qualcosa; tanto meno, in particolare, quando ci dice che tale riduzionismo sia vero»1J. Lennox, Fede e Scienza, Armenia 2009, p. 69.

Lo ha spiegato molto bene anche J.P. Moreland, docente di Filosofia presso la Biola University (California):

«Se la mente fosse emersa casualmente dalla materia senza l’input di un’Intelligenza superiore, sorgono immediatamente due problemi. Primo, perché dovremmo fidarci e ritenere veri o razionali i prodotti della mente? In secondo luogo, se il pensiero implica il formulare entità astratte (proposizioni, leggi della logica ecc.) stanziate nella propria mente, allora sembra incredibilmente improbabile che una proprietà emersa dalla materia in una lotta per la sopravvivenza possa produrre pensieri. Che questa proprietà emergente possa contenere e produrre entità astratte sarebbe un’incognita irrisolvibile».

 

L’affidabilità “cieca” alla propria ragione, dunque sembra giustificarsi ed adattarsi meglio solo all’interno di un contesto teistico in cui si presuppone l’origine non casuale della nostra mente e della coscienza.

La redazione

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Myanmar, tredici nuovi sacerdoti nonostante la persecuzione

Dopo il colpo di stato militare del 2021, il popolo birmano è sotto assedio e la Chiesa è perseguitata in quanto difende la democrazia. Eppure fioccano le vocazioni, in meno di un anno 19 nuovi sacerdoti si uniranno alle coraggiose suore che si inginocchiano davanti ai militari chiedendo la pace.

 
 
 

Sono la speranza del popolo Birmano.

Dopo il golpe militare del 2021, che ha rovesciato il governo di Aung San Suu Kyi e ha preso il controllo del Paese, anche le chiese cattoliche sono state attaccate e i fedeli perseguitati.

Eppure, nonostante questo, pochi giorni fa sono stati ordinati tredici nuovi sacerdoti cattoliciun grande segno di speranza per la minoranza cristiana nel Paese asiatico.

L’ordinazione si è svolta nella cattedrale di St. Mary di Yangon, presieduta dal card. Maung Bo.

«La Chiesa in Myanmar è ferita e sfollata. I sacerdoti sono la speranza del popolo», ha detto il cardinale. «Essi sono il rifugio dei fratelli e delle sorelle che soffrono, speranza in mezzo a lacrime e sangue». 

 

Le suore birmane inginocchiate davanti ai militari.

La comunità cattolica in Myanmar conta più di 1.000 sacerdoti, circa 2.000 religiose e centinaia di catechisti che prestano servizio nelle 16 diocesi del Paese.

La notizia della tragica situazione birmana è arrivata in tutto il mondo grazie all’immagine potente di suor Ann Nu Thawng, la religiosa cattolica saveriana inginocchiatasi di fronte agli agenti per salvare i giovani durante le manifestazioni pacifiche pro democrazia.

Molto meno diffusa una seconda foto, nella quale un’altra religiosa, suor Rose, ha scelto di umiliarsi di fronte ad altri militari, l’8 marzo 2021.

Alcuni dei soldati, pronti ad attaccare la popolazione che manifestava per la democrazia, sono stati probabilmente commossi da questo gesto e si sono inginocchiati a loro volta.

 

Myanmar, la persecuzione dei cristiani pro-democrazia.

Dopo il colpo di Stato molti sacerdoti sono stati arrestati e migliaia di cristiani sono stati costretti a fuggire dalle loro case.

Papa Francesco ha più volte pregato per la Birmania, chiedendo ai cristiani di essere testimoni del Vangelo anche a rischio della vita.

Il card. Bo ha affermato per questo che «il Myanmar sta percorrendo la sua Via crucis. I sacerdoti stanno davanti all’altare ed offrono generosamente la loro vita per la Chiesa e per la Nazione».

L’ultimo ad essere attaccato dalle autorità è stato il convento di suore nella cittadina di Doungankha. L’attacco è avvenuto appena tre giorni dopo che l’esercito ha bombardato la chiesa di Nostra Signora di Fatima, situata nel villaggio di Saun Du La.

I 13 sacerdoti ordinati nei giorni scorsi vanno ad aggiungersi, così, ai 6 nuovi sacerdoti che hanno ricevuto l’ordinazione nell’estate scorsa.

La storia conferma, puntualmente, che il sangue dei martiri è il seme di nuovi cristiani.

La redazione

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L’educazione religiosa positiva per la crescita: studio di Harvard

L’educazione religiosa nei giovani studiata dall’Harvard School of Medicine. L’indagine mostra la positività per gli adolescenti in quanto aiuto a superare le sfide della vita. L’epidemiologo VanderWeele: «I genitori che educano alla fede stanno dando ai loro figli importanti benefici di cui gioveranno anche da adulti».

 
 
 

Il biologo Richard Dawkins è famoso per aver sostenuto che l’educazione religiosa sarebbe niente di meno che paragonabile allo stupro.

«L’abuso sessuale», ha scritto, «per quanto indubbiamente orribile, produce forse un danno inferiore al danno psicologico permanente recato al bambino da un’educazione cattolica»1Richard Dawkins, L’illusione di Dio, Mondadori 2007, p. 194.

Un recente studio ci permette di evitare qualunque commento a simili affermazioni, anche considerando che l’anziano zoologo da diversi anni ha cambiato idea dichiarandosi perfino «culturalmente cristiano».

Ad aver approfondito i meriti o demeriti dell’educazione religiosa nei giovani ci hanno pensato i ricercatori dell’Università di Harvard, Ying Chen e Tyler VanderWeele, pubblicando i risultati sull’American Journal of Epidemiology.

L’indagine ha analizzato in particolare il periodo dell’adolescenza, momento in cui si incontrano molte sfide sociali, comportamentali e di sviluppo.

 

La studio: educazione religiosa aiuta i giovani nella vita.

I risultati dei ricercatori hanno indicato che l’educazione religiosa aiuta notevolmente i giovani a superare le sfide sociali della vita e porta anche molti risultati positivi sulla salute e sul benessere nella giovane età adulta.

Tali conclusioni, riferiscono, confermano un considerevole corpus di ricerche (raccolto da noi in uno specifico dossier) che mette in relazione la religione ad una migliore salute psico-fisica negli adulti.

Analizzando 5.000 adolescenti per oltre otto anni, l’indagine ha rilevato che coloro che frequentano regolarmente la parrocchia, almeno una volta alla settimana, avevano il 12% in meno di probabilità di soffrire di depressione, il 33% in meno di consumare droghe, il 18% in più di probabilità di riferire alti livelli di felicità e l’87% in più di probabilità di avere alti livelli di capacità di perdono rispetto a coloro che non frequentano mai le funzioni religiose.

I giovani che pregavano frequentemente, inoltre (almeno una volta al giorno), sperimentavano il 30% in meno di probabilità di praticare sesso in giovane età, il 40% in meno di probabilità di contrarre una malattia a trasmissione sessuale, il 38% in più di impegnarsi in attività di volontariato ed il 47% in più di probabilità di percepire un forte senso di scopo nella vita.

 

«L’educazione religiosa? Un beneficio per i figli»

I ricercatori hanno quindi concluso sottolineando l’esistenza di una forte evidenza che l’educazione religiosa contribuisce positivamente alla salute e al benessere dei giovani.

Tyler VanderWeele, ordinario di Epidemiologia ad Harvard School of Medicine, ha così risposto direttamente alle affermazioni citate sopra di Dawkins:

«Il nostro studio mostra che l’affermazione di Dawkins è falsa. L’educazione religiosa è un beneficio positivo per molti comportamenti salutari e per il benessere psicologico. Prima di fare le sue affermazioni, sarebbe stato bello se Dawkins, lo scienziato, avesse effettivamente esaminato la scienza. Per lo meno, i genitori che allevano i loro figli religiosamente possono essere rassicurati sul fatto che, almeno in media, stanno creando importanti benefici per la salute psicologica e comportamentale che i loro figli porteranno con sé nell’età adulta. La religione e la spiritualità sono risorse importanti per genitori e adolescenti».

La redazione

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Il Papa si dissocia dal Sinodo tedesco, lo dicono i vescovi polacchi

Nel comunicato della Conferenza Episcopale polacca al termine dell’udienza di ieri con Francesco, si legge che il Papa ha preso le distanze dalle riforme progressiste del Sinodo dell’episcopato tedesco, tematica che preoccupa notevolmente i vescovi polacchi e la Chiesa in generale a causa del rischio di scisma.

 
 
 

Papa Francesco sempre più vicino alla Polonia.

Probabilmente grazie al grande impegno umanitario mostrato in queste settimane dai cattolici polacchi, il Papa sta manifestando grande sintonia con l’episcopato polacco.

Mentre venerdì prossimo incontrerà in Vaticano il presidente polacco, Andrzej Duda, l’altro ieri il Pontefice ha accolto in Vaticano il presidente della Conferenza episcopale polacca, mons. Stanislaw Gadecki.

Dopo aver ringraziato il Santo Padre per la consacrazione del mondo intero, in particolare Russia e Ucraina, al Cuore Immacolato di Maria e ha illustrato al Pontefice una panoramica delle attività missionarie delle parrocchie dopo lo scoppio della guerra.

 

Il Papa prende le distanze dal Cammino sinodale tedesco.

Secondo la Conferenza episcopale polacca, l’arcivescovo Gadecki ha espresso anche al Papa le sue preoccupazioni fraterne per il “Cammino sinodale” tedesco, ovvero il processo di riforma progressista chiesto ed intrapreso dai vescovi tedeschi sulla morale cattolica.

«Il Santo Padre», si legge nel comunicato, «è stato anche informato sulle difficoltà causate alla Chiesa universale dalle questioni sollevate – nelle parole del Papa – dalla cosiddetta “via sinodale” tedesca. Francesco ha preso le distanze da questa iniziativa».

La Santa Sede da parte sua non ha rilasciato comunicati sull’incontro e raramente lo fa a seguito di udienze papali private.

Risulta anche molto difficile che la Conferenza episcopale polacca possa pubblicare un documento ufficiale riportando frasi o circostanze inesatte o false.

 

In Germania, scisma per compiacere l’opinione pubblica?

L’obiettivo non troppo velato dei vescovi tedeschi, capitanati dal card. Reinhard Marx, è di «aggiornare» la dottrina su morale su imitazione delle denominazioni protestanti.

I partecipanti al Cammino sinodale, infatti, hanno votato a favore di documenti che richiedono preti sposati nella Chiesa latina, l’ordinazione delle donne, le benedizioni delle coppie formate da persone dello stesso sesso e le modifiche all’insegnamento cattolico sull’omosessualità.

Il Cammino sinodale ha subito critiche anche tra i cattolici tedeschi, alcuni si sono riuniti nell’associazione “Nuovo inizio” (neueranfang), esprimendo il fondato timore che gli sforzi per allineare l’insegnamento della Chiesa ai miti dell’opinione pubblica possano provocare uno scisma con Roma.

Minaccia ripetutamente respinta da Georg Batzing, presidente dei vescovi tedeschi.

Il presule polacco, mons. Gadecki, era già intervenuto fraternamente verso i vescovi tedeschi a fine febbraio, invitandoli a «restare fedeli all’insegnamento della Chiesa, non dobbiamo cedere alle pressioni del mondo o ai modelli della cultura dominante, poiché ciò può portare alla corruzione morale e spirituale», ha scritto.

L’intervento di mons. Gadecki è stato significativo poiché Polonia e Germania sono vicine e condividono un confine di quasi 300 miglia.

Ma ci sono differenze notevoli tra le due Chiese: oltre il 90% dei quasi 38 milioni di abitanti polacchi si definiscono membri della Chiesa, con il 36,9% dei cattolici che frequenta regolarmente la messa. Circa il 27% degli 83 milioni di abitanti della Germania, invece, si identificano come cattolici e solo il 5,9% ha partecipato alla messa nel 2020. Più di 220.000 persone hanno formalmente lasciato la Chiesa cattolica quell’anno.

 

Anche i vescovi del Nord correggono i tedeschi.

All’inizio di marzo, anche i vescovi cattolici della Scandinavia hanno espresso pubblicamente e fraternamente preoccupazione per la traiettoria del Cammino sinodale tedesco.

«Nella legittima ricerca di risposte alle domande del nostro tempo», si legge nella lettera indirizzata ai vescovi tedeschi da parte della Conferenza episcopale dei Paesi nordici (che riunisce i vescovi cattolici di Svezia, Danimarca, Norvegia, Finlandia e Islanda), «dobbiamo tuttavia rispettare i confini posti da temi che rappresentano aspetti immutabili dell’insegnamento della Chiesa».

 

Aggiornamento 30/03, ore 19
Il direttore della Sala Stampa vaticana, Matteo Bruni, ha risposto ad una domanda in merito all’incontro tra mons. Gadecki e Francesco spiegando che si tratta di un colloquio confidenziale e che la posizione ufficiale del Papa sul Cammino sinodale della Chiesa tedesca è espresso nella sua lettera ai cattolici in Germania del 2019.

Il contenuto di questa lettera è piuttosto chiaro, soprattutto quando precisa che «lo scenario presente non ha il diritto di farci perdere di vista il fatto che la nostra missione non poggia su previsioni, calcoli o indagini ambientali incoraggianti o scoraggianti, né a livello ecclesiale né a livello politico o economico o sociale. E neanche sui risultati positivi dei nostri piani pastorali».

La redazione

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«Più studio l’intelligenza artificiale, più ammiro il mistero dell’uomo»

L’intervento del prof. Daniel Magazzeni, docente di Artificial Intelligence a Londra: la sua ammirazione e stupore per l’irriducibilità dell’essere umano emerge proprio al procedere dell’indagine scientifica. I robot? Una pallida emulazione del mistero umano.

 
 
 

«Più procede la mia ricerca sull’intelligenza artificiale, più cresce in me lo stupore per l’intelligenza umana, per tutto ciò di cui l’uomo è».

E’ la conclusione (video più sotto) a cui è giunto Daniele Magazzeni, docente di Artificial Intelligence al King’s College London, dove dirige il Human-AI Teaming lab.

Uno scienziato di livello che, tuttavia, non teme di evidenziare «un punto irriducibile» nel mistero dell’uomo, tanto che «tutto quello che la persona umana è capace di fare, l’Intelligenza Artificiale (A.I.) cerca di essere una pallida analogia, affascinante ed efficace in tanti ambiti, ma pur sempre un’analogia».

 

«Studio intelligenza artificiale ma stupito solo dell’uomo».

Ospite ad un convegno scientifico del Meeting di Rimini, il ricercatore ha raccontato dell’entusiasmo internazionale quando un computer è riuscito a vincere contro il campione mondiale di Go.

Go è un gioco simile agli scacchi ma molto più complesso. «Tutti nella comunità scientifica avevano previsto che sarebbero state necessarie diverse decadi prima che un computer fosse in grado di giocare bene a questo gioco», ha spiegato Magazzeni.

Contrariamente alle aspettative, nel 2016 il computer AlphaGo ha battuto il campione coreano Lee Sedol.

«Però, ha commentato il giovane ricercatore italiano, «ogni volta che sono chiamato a parlare in convegni di questo tipo, mostro cosa c’è dietro l’algoritmo e dietro Lee Sedol: dietro all’algoritmo ci sono migliaia di processori, centinaia di scienziati che hanno lavorato a questi algoritmi e anni di allenamento di questo codice, mentre dietro a Lee Sedol c’è un cervello e una tazza di caffè».

Inoltre, ha proseguito Magazzeni, «AlphaGo, l’algoritmo, sa solo giocare a Go, non sa fare altro; tra l’altro, se anche aggiungiamo solo una riga alla scacchiera, AlphaGo non sa nemmeno come cominciare, mentre Lee Sedol sarà un uomo che sa giocare a Go, sa guidare una macchina, sa cucinare, sa voler bene ai figli, sa parlare più lingue. Insomma, dei due cervelli quello che a me affascina di più rimane quello umano».

 

Il neurologo Ceroni: «L’uomo rimane un mistero».

In un altro convegno della kermesse riminese, Mauro Ceroni, docente di Neurologia all’Università degli Studi di Pavia, ha fatto un’osservazione molto simile a quella di Magazzeni.

«Il fondo di me», ha detto il neurologo, «il mio io, la soggettività è qualcosa che sta al fondo, molto dentro, è un grande mistero. Più noi cercheremo di comprendere la meraviglia di come funziona il cervello, più in qualche modo saremo aiutati ad accorgerci ancora di più della profondità, della misteriosità della persona umana».

 

Irriducibilità umana: non è solo questione di tempo.

E non sarà solo “questione di tempo”, come dice (da, ormai, molti decenni) qualche riduzionista.

C’è un gap irriducibile e non colmabile tra l’A.I. e l’uomo.

E’ quanto ha mostrato uno studio di ricercatori della Cornell University, ripreso su The New Scientist qualche tempo fa.

In base ad una teoria algoritmica, per loro natura i computer non sono – né saranno in futuro – capaci di elaborare quei processi che ci permettono di mettere insieme informazioni e dar loro un significato.

«Non possiamo decomporre la loro coscienza in elementi indipendenti», ha riconosciuto Phil Maguire, docente di Informatica alla National University of Ireland.

«Molti dei ricercatori che lavorano sugli aspetti morali dei robot», ha osservato anche Karl Stephan, docente di Ingegneria elettrica alla Texas State University, «manifestano frustrazione per il fatto che la moralità umana non è, e non potrà mai essere, riducibile al tipo di algoritmi che i computer possono leggere ed eseguire».

 

«Non c’è creatività nei robot, l’intuizione è solo umana».

Non sembra però affatto frustrato il prof. Magazzeni, nemmeno quando racconta della “creatività” dell’intelligenza artificiale nel creare volti umani (tutti i volti che vede quando accedete a questo sito web non esistono, sono creazioni dell’A.I.).

Dunque, i robot possono allora creare e pensare?

Non proprio, spiega Magazzeni. «L’A.I. può lavorare o perché è programmata per fare una cosa o perché impara da tanti esempi».

Eppure l’intuizione umana (una semplice idea, ad esempio), spiega il ricercatore, «dipende da tutto quello che hai visto, che hai vissuto, e non è neanche solo quello. L’intuizione è più il riconoscimento di un nesso tra quello che hai tra le mani e una cosa che ti viene in mente».

«Ecco», ha concluso Magazzeni, «questo l’A.I. non ce l’ha, ed è importante mantenere questo rispetto e umiltà verso il cervello umano o la persona umana, rispetto invece quello che A.I. fa».

 

Qui sotto l’intervento di Daniel Magazzeni

La redazione

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La Florida espelle il gender dalle scuole: firmata ieri la legge

Il ddl soprannominato “Don’t Say Gay” è stato trasformato in legge dal governatore DeSantis. Garantirà ai genitori maggiori diritti nell’istruzione dei figli, proibendo controverse tematiche nelle scuole materne ed elementari. In Italia è arrivato il plauso su La Stampa dalla femminista arcobaleno Caterina Soffici.

 
 
 

Anche la Florida festeggia per aver espulso dalle scuole gli stessi contenuti del ddl Zan italiano.

Il governatore della Florida, Ron DeSantis, ha firmato ieri pomeriggio un disegno di legge che vieta le discussioni sulla controversa “identità di genere” nelle scuole materne e fino alla terza elementare.

Dopo aver superato il voto di Camera e Senato, da oggi infatti la legge proibisce la propaganda gender dalle scuole della Florida.

La nuova legislazione prevede anche che i genitori abbiano il diritto di rivedere eventuali questionari proposti dalle scuole prima che vengano somministrati ai loro figli.

«Questo disegno di legge dice ai genitori che il diritto di crescere i propri figli non si esaurisce quando entrano in classe», ha dichiarato il senatore Danny Burgess. «Ci deve essere un limite di età per alcune discussioni. Non è un concetto nuovo, né radicale».

 

Florida, la legge falsamente chiamata: “Don’t Say Gay”

La comunità LGBT da mesi sta combattendo contro questa legge sostenendo falsamente che il ddl vieterebbe di “dire gay” (Don’t Say Gay).

Pura disinformazione,  ovviamente.

«Il cosiddetto disegno di legge soprannominato “Don’t Say Gay” non fa nulla del genere», scrive il padre di un alunno della Florida.

«Non impedisce a nessuno di dire “gay”, la maggior parte del disegno di legge riguarda i diritti dei genitori di sapere cosa sta succedendo al proprio figlio», ha proseguito.

«Si tratta di una legge ragionevole», sostiene il genitore, «proibisce di insegnare ai bambini dai 5 ai 9 anni questioni riguardanti “l’orientamento sessuale o l’identità di genere”. Questo divieto tra l’altro vale solo per i più piccoli, i miei figli vanno in terza elementare e non voglio che la scuola si occupi di insegnare loro tematiche sessuali controverse».

Quando un giornalista gli ha chiesto del cosiddetto disegno di legge “Don’t say gay”, lo stesso DeSantis lo ha sfidato ad indicargli dove all’interno del disegno di legge si sarebbe vietato qualcosa del genere.

Dopo la scena muta del reporter, il governatore della Florida lo ha accusato di «aver spacciato false narrazioni», spiegando che questo tipo di disinformazione è esattamente il motivo per cui le persone non si fidano più dei media.

Ovviamente contro DeSantis si è schierato tutto l’establishment progressista, a partire dal presidente Joe Biden seguito a ruota dalle noiose e prevedibili star di Hollywood.

Il ddl è nato dopo le vigorose proteste di centinaia di genitori, i cui figli -dai 10 ai 13 anni- venivano indottrinati all’uso dei bagni no-gender, incoraggiando gli studenti a nascondere ai genitori questa particolare didattica.

 

In Italia plauso de La Stampa: “Legge di buon senso”

Anche in Italia è arrivata l’onda della disinformazione contro il disegno di legge, ripresa all’unisono dalle principali fonti d’informazione.

Sorprendentemente però, su La Stampa la femminista arcobaleno Caterina Soffici si è dimostrata più che favorevole.

Dopo aver anche lei creduto che la legge avrebbe impedito di “dire gay” (poi ci si chiede perché nessuno compra più i quotidiani), la Soffici ha riflettuto un attimo, scrivendo:

«La deprecabile legge “Don’t say gay” pone anche questioni che sono, a parer mio, condivisibili, per lo meno nella parte in cui vieta il dibattito sull’identità di genere e sull’orientamento sessuale nelle scuole elementari e permette di far causa ai presidi che violano le norme. Questa non pare né censura, né discriminazione ma piuttosto buon senso. Che si parli ai bambini di identità sessuale pare perlomeno prematuro».

Cara Caterina Soffici, era così difficile per una giornalista che la legge prevede esattamente e, soprattutto, esclusivamente questo?

 

L’altra buona notizia è che pochi giorni fa il Senato dello stato della Georgia ha presentato un disegno di legge sul modello della Florida, garantendo più diritti dei genitori nell’istruzione dei loro figli e proteggendo questi ultimi dalla propaganda arcobaleno.

La redazione

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«San Paolo aveva uno schiavo», la fake news di Corrado Augias

San Paolo e lo schiavo Onesimo. Corrado Augias sostiene che Paolo di Tarso avesse posto in schiavitù un uomo, mentre è noto che Onesimo fu liberato proprio da San Paolo attraverso la famosa Lettera a Filemone.

 
 
 

Non c’è giorno che il buon Corrado Augias non tiri in ballo la storia del cristianesimo per attribuirli nefandezze e obbrobriosità, travisando puntualmente la verità.

Ci sarebbe da scrivere un libro su questa (morbosa) attenzione da parte del noto conduttore televisivo.

Perfino se un lettore gli chiede un’opinione sull’abbattimento delle statue da parte dei membri del Black Lives Matter, com’è accaduto qualche tempo fa, Augias riesce a tirare in ballo, non si sa come, il fatto che «Paolo di Tarso, santo per la Chiesa, aveva uno schiavo perché per la cultura del suo tempo la schiavitù rientrava nella norma».

 

San Paolo e lo schiavo: «Liberalo, pago io il riscatto».

Corrado Augias si riferisce a Onesimo, ricordato dalla storia come “lo schiavo liberato”.

Sì, perché Onesimo era uno schiavo fuggitivo che trovò rifugio a Roma, il suo padrone era il greco Filemone, residente a Colossi in Frigia.

Non si conosce il motivo per cui si fosse allontanato ma era certamente in pericolo in quanto a rischio di denuncia o ricatto se qualcuno avesse scoperto il suo passato e la sua condizione.

San Paolo incontra Onesimo se ne prende cura e nel 61-63 d.C. scrive la famosa, autentica e brevissima Lettera a Filemone -in seguito inclusa nel Nuovo Testamento- con lo scopo di riscattarne la libertà.

Se lo schiavo si fosse semplicemente riconsegnato a Filemone, infatti, avrebbe rischiato la vita.

L’incontro con Paolo provoca in Onesimo la conversione cristiana, viene da lui battezzato, ne diviene amico e collaboratore ed è oggi venerato come santo Apostolo Onesimo.

Avendo in passato battezzato anche Filemone, Paolo gli chiede di accogliere Onesimo «non come schiavo, ma come fratello». Non vuole ordinarglielo o far pesare la sua autorità spirituale «perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario».

Quello dunque che per Augias è uno “schiavo di San Paolo”, in realtà si tratta di uno schiavo di Filemone, che riavrà la libertà proprio grazie all’intervento di San Paolo.

Ma l’apostolo delle genti andò ben oltre la richiesta e si offrì di indennizzare Filemone del presunto danno subito: «Se in qualche cosa ti ha offeso o ti è debitore», scrive Paolo nella Lettera, «metti tutto sul mio conto. Io, Paolo, lo scrivo di mio pugno: pagherò io». Per poi concludere: «Se dunque tu lo consideri amico, accoglilo come me stesso».

 

La pedagogia antischiavista del primo cristianesimo.

Come correttamente ha osservato il prof. Romano Penna, eminente biblista italiano, anche Seneca e gli Stoici greci ebbero parole contrarie alla schiavitù.

Tuttavia, «lo stoicismo resta una filosofia e come tale teorica, infatti in seguito non ha avuto un impatto decisivo sulla società».

Al contrario, fu il cristianesimo medievale -come abbiamo mostrato in un apposito dossier– a portare la società all’abolizione della pratica schiavista.

San Paolo è autore inoltre del celebre e rivoluzionario annuncio «non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero, non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 26-28), ed il suo intento, come quello dei primi cristiani, fu rivolgersi per la prima volta nella storia direttamente agli schiavi in quanto uomini come gli altri, pur non istigando rivoluzioni sociali contro la schiavitù.

Paolo ricorda loro che, incontrando Cristo, saranno liberi anche se in catene, più liberi dei loro stessi padroni, chiedendo di vivere con dignità e senza odio la loro situazione. Allo stesso tempo chiederà ai padroni di trattare gli schiavi con umanità e fratellanza, «sapendo che anche voi avete un padrone in cielo» (Col 4,1).

Si trattò di una lenta pedagogia perché il cambiamento avvenisse in maniera pacifica all’interno delle società umane, senza violente rivoluzioni marxiste: solo così tutta la società saprà mutare profondamente, capendo che tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio.

 

Oggi tale processo storico è un’evidenza per tutti, Corrado Augias è la solita eccezione che conferma la regola.

La redazione

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Una scoperta conferma l’età antica della Bibbia: si legge il nome di Dio

Un amuleto datato al X secolo potrebbe riscrivere la storia dell’Antico Testamento. Oltre ad essere il primo uso del nome di Dio in Israele (“YHWH”), anticipa di diversi secoli l’alfabetizzazione degli israeliti e quindi conferma l’età antica della Bibbia.

 
 
 

Una delle scoperte archeologiche più importanti degli ultimi anni.

Se venisse confermata, si tratterebbe del più antico testo ebraico (contenente il nome di Dio, “YHWH“) e anticiperebbe di molti secoli la datazione dell’Antico Testamento.

«Questo è un testo che si trova una volta ogni 1.000 anni», ha spiegato Gershon Galil, studioso dell’Università di Haifa.

L’annuncio è stato fatto giovedì scorso a Houston (Texas) da parte dell’archeologo Scott Stripling ed il ritrovamento è avvenuto sul monte Ebal, noto dal testo biblico del Deuteronomio (Dt 11,29).

Si tratta di un amuleto a forma di tavoletta di piombo (2x2cm) che è stata datato al 1400 a.C.

 

Il più antico uso del nome di Dio: “YHWH”

Il sito archeologico era stato aperto 30 anni fa quando venne alla luce un altare circolare che l’archeologo Adam Zertal ritiene costruito dal condottiero biblico Giosuè una volta entrato nella terra d’Israele.

Si tratta infatti di un evento descritto così nella Bibbia: «In quel tempo, Giosuè costruì un altare al Signore, Dio di Israele, sul monte Ebal, secondo quanto aveva ordinato Mosè, servo del Signore, agli Israeliti» (Giosuè 8, 30-35).

Il prof. Galil, già presidente del dipartimento di Storia ebraica all’Università di Haifa, ha affermato che «l’amuleto è stato lasciato intenzionalmente vicino a questo luogo di culto. La mia conclusione è che la storia biblica dell’altare di Giosuè è un fatto storico».

La tavoletta (o amuleto) sarebbe quindi il primo uso attestato del nome di Dio in Terra d’Israele e riporterebbe indietro di diversi secoli l’orologio dell’alfabetizzazione israelita, dimostrando che gli ebrei erano già alfabetizzati quando entrarono in Terra Santa.

 

La scoperta prova l’alfabetizzazione degli israeliti.

Questo proverebbe, di conseguenza, che i loro profeti avrebbero potuto scrivere la Bibbia.

«Alcuni hanno scritto in modo denigratorio che non sarebbe stato possibile scrivere la Bibbia in un’età così antica perché non c’era una scrittura alfabetica», ha detto Stripling. «Con la scoperta di questo amuleto non si può più sostenere che il testo biblico non sia stato scritto fino al periodo persiano o ellenistico».

«Questo ritrovamento cambia anche la cronologia per l’Esodo dall’Egitto ed il successivo ingresso in Israele», ha aggiunto l’archeologo. Gli studiosi, infatti, concordano che questi eventi avvennero durante il XIII secolo a.C. Ma ora si può sostenere che «siano avvenuti precedentemente».

 

«Il testo coincide con gli eventi biblici».

Secondo la Bibbia, sul monte Ebal vennero invocate alcune maledizioni verso coloro che violarono la legge di Dio, un patto siglato tra gli ebrei e Dio prima di entrare nella terra d’Israele.

Sulla tavoletta, ritrovata grazie a scansioni tomografiche, sono emerse proprio alcune di queste maledizioni.

«Non si tratta di un’iscrizione antecedente alla Bibbia», ha dichiarato l’archeologo Stripling. «Crediamo che coincida con gli eventi biblici, c’è verosimiglianza e coerenza tra ciò che si legge nel testo biblico e ciò che abbiamo scoperto. Se il testo dicesse il vero, questo è ciò che ci aspetteremmo di trovare e, in effetti, è ciò che abbiamo trovato».

 

Occorre avvertire però che i ricercatori non hanno ancora pubblicato la scoperta su una rivista accademica sottoposta a revisione paritaria.

Tuttavia, l’Associates for Biblical Research afferma che un articolo accademico verrà pubblicato entro la fine dell’anno e sarà firmato da Stripling, Galil, Ivana Kumpova, Jaroslav Valach, Pieter Gert van der Veen, Daniel Vavrik e Michal Vopalensky.

La redazione

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L’ictus la rese disabile, nel dolore ritrova la fede e la felicità

La storia di Katherine Wolf, giovane mamma sopravvissuta ad un ictus. La circostanza della disabilità le ha permesso di scoprire la fede e una felicità mai sperimentata prima. Assieme al marito sono autori di un libro che ha avuto grande successo e presto sarà un film.

 
 
 

«È possibile abbracciare la sofferenza come un privilegio, piuttosto che una punizione o una sfortuna?».

E’ questa la sfida avanzata da Jay e Katherine Wolf, una coppia di Atlanta, autrice di un libro di grande successo: Hope Heals (Zondervan 2016). La speranza guarisce.

Ne sanno qualcosa, loro, della sofferenza.

Nel 2008 Katherine, a soli 26 anni e madre del piccolo James, ha avuto un’emorragia cerebrale a causa di un ictus che l’ha quasi uccisa. Dopo 16 ore di intervento è sopravvissuta miracolosamente ma non è più stata in grado di camminare, parlare o deglutire normalmente.

L’ex modella soffre ancora oggi di una grave visione doppia, è sorda da un’orecchio destro, si sposta in carrozzina ed è paralizzata nella parte destra del viso.

 

Il senso del dolore: condizione per un bene più grande

«Ho dovuto imparare a trovare Dio nel mezzo di tutto questo», ha raccontato la donna.

Non appena ha iniziato a vivere la sua disabilità non come sfortuna, come la fine della storia, ma come una condizione misteriosa (una croce?) attraverso cui passare, la fede cristiana è improvvisamente rifiorita.

«Ho capito ed imparato che la bontà di Dio non dipende dalle mie circostanze terrene e non si basa su nulla di ciò che accade nel mondo fisico. La croce ha messo tutto questo in una prospettiva».

Ma chi l’ha detto, domanda la coppia americana, che «la gioia può essere trovata solo in una vita senza dolore.

«E’ un mito che vogliamo dissipare». Questo lo scopo del loro libro, diventato subito un successo editoriale.

Nel febbraio 2020 ne è uscito un secondo, intitolato Suffer Strong: How to Survive Anything by Redefining Everything (Zondervan 2020). Un racconto in cui si aiuta il lettore a «trovare la speranza non solo tra le grandi delusioni della vita, ma anche nelle piccole morti interiori e nelle piccole perdite che accadono vivendo».

Nel 2015, i Wolf hanno anche dato miracolosamente il benvenuto al loro secondo figlio, John Nestor Wolf, dal nome del neurochirurgo che ha operato Katherine. Di recente la Sony Pictures ha chiesto i diritti per trasformare il loro libro Hope Heals in un film.

 

Come un cristiano vive l’esperienza della sofferenza.

Le parole di Katherine ricordano quelle di don Francesco Cosentino, della Pontificia Università Gregoriana.

Occorre uscire «dall’interpretazione superstiziosa e magica della religione», ha chiesto il teologo, ed imparare «che Dio non è il tappabuchi delle nostre delusioni, ma la ragione del nostro sperare».

«Nella difficoltà e nelle oscurità», ha proseguito, «facciamo l’esperienza della nostra fragilità, cosicché abbandoniamo le maschere fabbricate ad arte per nasconderla e/o i surrogati della nostra società del consumo per esorcizzarla. Siamo fragili e impariamo a benedire ciò che siamo, svestendo i panni dell’onnipotenza».

«È in quella notte» dell’anima, ha proseguito il teologo, «che noi possiamo vedere Dio proprio quando pensavamo di averlo perduto; entrando nella notte, infatti, Gesù ci rivela chi è Dio: non uno che fa teorie sul dolore o ne stabilisce le colpe, ma il Dio che entra nella notte, la soffre con te, accompagna la tua paura, si lascia toccare e ferire. E si lascia inchiodare sulla Croce perché quella notte si apra alla luce di una nuova vita».

Solo allora, ha concluso, «questa luce arriva inattesa, come l’alba del mattino di Pasqua. Può significare la fine di quella sofferenza o semplicemente l’aver ricevuto la grazia di guardare alla vita in modo nuovo».

La redazione

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