di Gianfranco Morra*
*da Italia Oggi, 18/01/18
L’inquietante crescita della criminalità giovanile, da Napoli a Torino, è un fenomeno complesso, dovuto a molte cause e condizioni. Essa tuttavia può essere capita meglio se riferita ad un evento, del quale quest’anno ricorre il cinquantenari: la contestazione giovanile del 1968.
In quell’anno, l’Italia viveva in un clima di ricostruzione e di benessere, raggiunti non senza duri sacrifici dall’intera popolazione. La sua morale era ancora quella tradizionale, liberale per le classi colte e cattolica per le masse popolari. Nel corso della sua storia, l’Italia non aveva mai avuto una rivoluzione culturale o sociale. Nel ’68 accolse il grido di rivolta di Parigi e Berkeley. Per la prima volta, esplose una rivoluzione, di tipo antropologico, che mirava a rifiutare il «perbenismo» della società cristiana e borghese per realizzare una convivenza fondata sul «niente proibito e tutto subito».
I partiti e i sindacati cercarono di gestirla e di servirsene, in realtà ne furono travolti. La parola d’ordine del movimento non era «creare una società più attiva ed efficiente», era di mandare «la fantasia al potere». Non fu una rivoluzione politica, ma antropologica. Freud ha battuto Marx, Prometeo è stato sconfitto da Orfeo e Narciso. E la rivoluzione fece fuori i tre vecchi e fastidiosi «padri».
Il padre fisico venne eliminato, visto che era un «padrone» o almeno un «padrino», che spadroneggiava in una famiglia repressiva e maschilista. Occorreva una «società senza padre», oramai era avvenuta la «morte della famiglia» (titoli di best-sellers dell’epoca). La politica e la legislazione si adattarono subito a questo antifamilismo, con leggi che hanno finito per distruggere, in nome del dialogo, ogni autorità familiare. Oggi nella maggioranza delle famiglie il colloquio è spento, anche perché gli strumenti social lo rendono difficile. Quella educazione che un tempo la famiglia dava, anche dove oggi non manca, si è fatta tenue e difficile. Non più comunità, la casa è diventata piuttosto un rifugio notturno.
Anche il padre culturale venne ghigliottinato: il maestro. Declassato a «compagnon» al quale si dà del tu, in una scuola ludica e fantasiosa, dove si poteva fare tutto, anche studiare. Purché non vi fossero né merito né selezione («voto di gruppo»). Era nata la scuola del pensiero «unico e vuoto»: che non trasmetteva più princìpi, valori e imperativi, ma indicava perentoriamente le cose alle quali occorreva opporsi (fascismo, razzismo, xenofobia, maschilismo, discriminazione, omofobia). Una scuola che insegnava ai giovani non ciò che dovevano, ma ciò che non dovevano essere: tu sei qualcuno fin che ti opponi possibilmente a tutto.
Il terzo padre si è estinto: «Dio è morto». La religione, la parrocchia, il catechismo facevano parte della educazione dei giovani. Dal ’68 essi scoprono come il Dio Padre fosse autoritario, maschilista e sessuofobo, aiutati in ciò da un clero in crisi di numero e di prestigio, che cerca di stare a galla assumendo e battezzando tutto l’armamentario della secolarizzazione anticristiana. Qualcuno lo attende ancora, ma Godot è scomparso senza lasciare traccia. Anche Gesù non è più Cristo, ma un Superstar che aiuta a superare le nevrosi o un Che Guevara della Palestina che lotta contro i poteri forti.
Nelle chiese non mancano i vecchi, anche se non sono più tanti, ma pochissimi sono i giovani. Il loro triangolo educativo (famiglia, scuola, religione) si è dunque dissolto nella nebulosa del tutto è possibile e niente è vietato. Senza che essi abbiano assunto i miti logorroici del politicamente corretto, che ignorano e anche deridono: l’antifascismo e la resistenza, la tolleranza e la società multietnica. Il ’68 ha veramente rivoluzionato la morale individuale e sociale. Si dirà che è accaduto dovunque. Ma altri paesi lo hanno frenato e anche cancellato. Mentre da noi è giunto, sino al culmine del 1977, alla P38. Tuttavia il terrorismo, per fortuna quasi scomparso, fu in fondo l’esito meno preoccupante della contestazione. Ben più negative le conseguenze antropologiche, ancora vive e diffusissime oggi, mezzo secolo dopo.
Di cui la delinquenza giovanile (accompagnata dalla tossicodipendenza) è una delle più gravi. La contestazione non è più «movimento», ma «istituzione», meno rabbia e più disperazione. Un riflusso, filantropico e pacifista, spompato e nichilista, non un superamento. I suoi «valori» sono immutati: individualismo, spoliticizzazione, rifiuto della famiglia e dei figli, disinteresse per il lavoro e la carriera, vita alla giornata.
Quelle che, con un termine eufemistico e giocoso, vengono chiamate «baby gang» non sono fatti casuali. Non le spiegano certo le superficiali e ciarlatanesche prediche di Saviano («tutta colpa della società»), né potranno essere combattute dalle utopie buoniste dei magistrati («non è colpa loro, non vanno puniti ma rieducati»). Magari fosse così. Nella realtà la baby gang diventa per molti l’unica socializzazione possibile dopo la distruzione della agenzie di formazione compiuta dalla contestazione. E spesso è solo un apprendistato per arrivare al diploma della grossa criminalità.
Questi giovani che feriscono e uccidono per uno smart o per un giaccone, come gli altri che, per noia, tirano i sassi sulle autostrade o bruciano i barboni, sono i figli dei figli del ’68. Minniti manderà cento uomini per controllarli. Ce ne vorrebbero centomila. Li abbiamo creati noi, dovremo tenerceli a lungo.