Se “l’amore è un diritto”, perché negare le nozze alle gemelle Decinque?

decinqueAnna e Lucia Decinque, 31 anni, sono due gemelle che condividono tutto nella vita, compreso il loro fidanzato di 32 anni, Ben Byrne. Una storia che è diventata pubblica e sta facendo crollare il castello delle già deboli argomentazioni a sostegno del matrimonio tra persone dello stesso sesso.

Il trio, infatti, ha vissuto finora a Perth, in Australia, in casa della madre delle ragazze. Le due sorelle vivono costantemente assieme, hanno perfino speso 240.000$ in cosmetici e chirurgia plastica per assomigliarsi ancora di più. Poche settimana fa hanno annunciato la volontà di sposarsi e di avere una gravidanza in contemporanea attraverso la fecondazione in vitro.

I rapporti con fidanzati separati, hanno detto, avevano sempre fallito, «perché stiamo assieme 24 ore su 24, ogni singolo giorno, ogni minuto della nostra vita». Così il fidanzato Ben le tratta allo stesso modo e formano un trio felice. La domanda è: se la legge australiana sul matrimonio venisse modificata per consentire agli omosessuali di sposarsi, perché si dovrebbe vietare di riconoscere anche il matrimonio ad Anna, Lucy e Ben? Anche il loro è un amore sincero, desiderano impegnarsi gli uni per gli altri, risulterebbe discriminante e scandalosamente ingiusto non accogliere il loro “diritto d’amore”, secondo le parole che utilizza costantemente la propaganda Lgbt.

Si ripropone quindi la domanda che mette in crisi l’Arcigay: se “love is love”, perché l’amore di tre persone sarebbe meno dignitoso di quello di due persone dello stesso sesso, tanto da non dover essere riconosciuto dallo Stato? Se il matrimonio non si basa sulla complementarietà sessuale di un uomo e una donna, che si uniscono per creare un ambiente stabile e sicuro in vista dei figli, ma, come ci insegnano i teorici arcobaleno, solamente sull’amore e sul consenso di due adulti consapevoli, perché vietare l’istituzione dell’incesto tra due parenti, adulti e uniti anche dall’amore? E perché mettere limitazioni sul numero di coniugi? Se è possibile dare in adozione bambini ad una coppia di omosessuali, perché quel che conta “è l’amore e l’affetto che ricevono”, perché allora non darli in adozione a tre, quattro o dodici genitori, etero o omo che siano? A livello di quantità, garantirebbero molto più amore e affetto ai bambini, rispetto ad una coppia.

Tornando al caso delle gemelle Decinque e continuando ad utilizzare la retorica Lgbt, risulta fortemente ingiusto mantenere il vuoto legislativo sui diritti delle coppie poligamiche in tema di successione in un contratto d’affitto, di risarcimento del danno conseguente alla morte dei conviventi, di nomina dell’amministratore di sostegno ecc. L’uguaglianza significa dare anche a questo singolare ménage à trois la possibilità di sposarsi. Non è forse giunto il momento di abbattere qualunque limite -bigotto e conservatore-, sul matrimonio ed accettare le diverse strutture familiari? L’esperienza vissuta di Anna, Lucy e Ben suggerisce che la società ha bisogno di andare oltre l’antiquata egemonia diadica che stanno promuovendo gli attivisti gay nella loro campagna per il matrimonio tra due persone dello stesso sesso. Chi combatte per i diritti gay, perché non combatte anche per i diritti dei poligamici?

Questa è chiaramente una riflessione grottesca e volutamente satirica. Ma è l’inesorabile logica della spinta per il matrimonio omosessuale. O si abbatte qualunque limite oppure si mantengono i limiti attuali e si torna a riconoscere il matrimonio nel suo significato e scopo originale. Vie di mezzo non ce ne sono.

La redazione
(articolo inserito nell’archivio dedicato alla tematica sulle unioni omosessuali)

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Svetlana Allilueva, l’incredibile conversione cattolica della figlia di Stalin

figlia di stalin«Ho smesso di illudermi di potermi mai liberare dell’etichetta “la figlia di Stalin”. Non si può rimpiangere il tuo destino, anche se mi dispiace che mia madre non abbia sposato un falegname». Queste le parole pronunciate, in una delle sue ultime interviste, da Svetlana Iosifovna Allilueva, figlia di Joseph Stalin e della sua seconda moglie, Nadezhda Allilueva.

Svetlana è nata nel 1926, quando il padre era già primo segretario generale del Partito comunista sovietico. La madre morì sei anni dopo, ufficialmente di peritonite ma quasi sicuramente suicidatasi nella notte dell’8 novembre 1932, frequentò saltuariamente i genitori (seppur era la preferita del padre Joseph) e crebbe con una bambinaia. Ha comunque raccontato di essere sempre stata coccolata dal padre, il quale talvolta si sedeva per aiutarla nei compiti e cenare con lei e i suoi amici, figli dei collaboratori. A scuola veniva trattata come una “zarina”, un suo compagno di classe ha ricordato che il suo banco brillava come uno specchio, l’unico ad essere lucido. Durante le purghe, ogni volta che i genitori dei suoi compagni venivano arrestati, essi cambiavano classe, in modo che lei non entrasse in contatto con i “nemici del popolo”.

Tuttavia i rapporti con il padre si incrinarono all’età di 16 anni, sia perché Stalin fece “sparire” due zii a cui lei era molto affezionata, sia perché trovò un documento riservato sul suicidio della madre, che le era stato nascosto. «Qualcosa in me si distrusse», ha ricordato. «Non fui più in grado di rispettare la parola e la volontà di mio padre». Poco dopo, infatti, si innamorò di un regista ebreo di 40 anni, Aleksei Kapler, che, con una scusa, venne condannato da Stalin a dieci anni di esilio in una città siberiana, poiché disapprovava il loro rapporto. A 17 anni si è sposata con Grigory Morozov, un compagno di studi, anche lui ebreo, ricevendo il permesso -seppur a malincuore- dal padre («È primavera. Se desideri sposarti, fallo, che l’inferno sia con te», è stata la sua reazione), che però non volle mai incontrare lo sposo. Nel 1945 ebbero un figlio, Joseph, ma divorziarono nel 1947. Due anni dopo, Stalin combinò il suo secondo matrimonio con con Yuri Zhdanov (figlio di un suo collaboratore), ma anche questo matrimonio -dal quale nacque la figlia Yekaterina- naufragò quasi subito.

Nel 1953, Svetlana assistette alla morte del padre, così la descrisse: «L’agonia era terribile, venne letteralmente soffocato dalla morte. In quello che sembrava essere l’ultimo istante di vita, ha improvvisamente aperto gli occhi, gettando uno sguardo sui presenti nella stanza, uno sguardo terribile, folle o forse di rabbia, pieno di paura. Poi, d’un tratto, ha alzato la mano sinistra. Il gesto era incomprensibile, sembrava di minaccia. E’ morto nell’istante successivo». Molti parlano di morte per avvelenamento e c’è chi sospetta proprio di Svetlana. Dopo la morte del padre, la donna ha assunto il cognome della madre, Allilueva, lavorando come docente e traduttrice a Mosca. Nel 1963 ha vissuto con un politico comunista indiano di nome Brajesh Singh fino al giorno della morte dell’uomo, in quell’occasione si recò in India, immergendosi nei costumi locali e fu l’occasione in cui abbandonò l’ateismo trasmessole dal padre e dalla società sovietica. Si battezzò nella Chiesa ortodossa russa e nel 1967, dopo aver incontrato l’ambasciatore americano a Nuova Delhi, decise di trasferirsi negli Stati Uniti, ottenendo asilo politico, vivendo sotto la protezione dei servizi segreti.

La conversione al cattolicesimo arrivò grazie alla frequentazione del monastero carmelitano di Friburgo, dove rimase nascosta per un mese, ed in seguito al rapporto con padre Garbolino, un sacerdote italiano della Pennsylvania, che la invitò a recarsi in pellegrinaggio a Fatima in occasione del 70° anniversario dell’apparizione. «Nel 1969 padre Garbolino è venuto a farmi visita a Princeton, al tempo ero divorziata e infelice, ma lui, da buon sacerdote, ha sempre trovato le parole giuste e ha promesso di pregare sempre per me», ha scritto la donna, nel frattempo appassionatasi dei libri di Raïssa Maritain, moglie russa di Jacques Maritain, anche lei convertitasi al cattolicesimo dopo essere stata allevata nell’ebraismo e nell’ateismo. Dopo aver scritto due autobiografiche -diventate best-seller-, nelle quali ha denunciato il padre come un “mostro” e ha attaccato l’intero sistema sovietico-, dal 1970 al 1973 è stata unita in (terzo) matrimonio con William Wesley Peters, dal quale si separò quattro anni dopo. Da loro nacque Olga. Assunse il nome di Lana Peters e nel 1982 si trasferì a Cambridge, in Inghilterra dove, in occasione della festa di Santa Lucia, chiese ed ottenne il battesimo cattolico. Ad un certo punto, ha raccontato la stessa Svetlana, ha addirittura nutrito la speranza di diventare suora.

Dopo una breve permanenza in Unione Sovietica (disincantata dall’Occidente) e negli Stati Uniti, ritornò nel Regno Unito fino al 2009. La corrispondenza con il sacerdote cattolico inglese che la accolse nella Chiesa cattolica il 13 dicembre 1982, emersa solo dopo la sua morte, ha rivelato la profondità della sua fede cristiana. «Grazie e ancora grazie», scrisse al sacerdote pochi giorni dopo il battesimo. «Grazie per aver aperto questa porta per me. Non posso descrivervi il buio degli ultimi anni e la grande pace interiore che mi possiede ora!». Il 7 novembre 1982, prima del battesimo, ha descritto «la mia costante e persistente ammirazione per la Chiesa di Roma e il desiderio “di essere lì”. Come una bussola gira sempre verso il Polo Nord, io continuo a girare per tutto il tempo verso la stessa direzione: Roma. Frequento la messa a Cambridge, guardo i martiri inglesi e la Madonna, osservo il ritorno dei fedeli ai loro posti, dopo aver ricevuto la Comunione: guardo i volti puliti della gente. Mi piace guardare quella trasformazione così visibile». La stessa fede traspare anche dieci anni più tardi, in una lettera del 7 dicembre 1992, in cui racconta di frequentare quotidianamente i sacramenti e la chiesa carmelitana Kensington Church Street, a ovest di Londra. «Mi sento forte e più forte dopo questi 10 anni, sono nel posto giusto». L’ultima lettera al sacerdote risale al 23 gennaio 1993.

La figlia Olga, nipote di Stalin, ha oggi 44 anni e vive con il nome di Chrese Evans a Portland, nell Oregon. Un giornalista del Daily Mail è riuscito a rintracciarla, amante delle armi e dei tatuaggi, ha ricordato di sua madre: «Aveva una incredibile fede, mi ha amato in un modo incondizionato, come non ho sentito da nessun altro». Nel libro “The Last Words”, dedicato al suo amico sacerdote, Svetlana ha parlato della nonna paterna, che aveva mandato il giovane Stalin nel seminario ortodosso di Tbilisi, in Georgia. «Penso che tutti i problemi e le crudeltà di mio padre, la disumanità del suo partito, siano causate dall’abolizione del cristianesimo», ha scritto. «I suoi problemi sono iniziati quando ha abbandonato il seminario all’età di 20 anni. E’ stato allora, proprio allora, che la sua giovane anima smise di combattere il male, e dal Male è stata afferrata e mai più lasciata sola».

«Ho pregato Dio per la prima volta a 36 anni, chiedendo di guarire mio fratello Vasilij», ha scritto. «Non conoscevo nessuna preghiera, nemmeno il Padre Nostro. Mi sono battezzata come ortodossa il 20 maggio 1962, ho avuto la gioia di conoscere Cristo, ma ignoravo quasi tutta la dottrina cristiana. Ho maturato la conversione cattolica per molto tempo e dal cattolicesimo ho imparato una cosa su tutte: la benedizione della vita quotidiana, anche della più piccola e nascosta azione. Non sono mai stata capace di perdonare e pentirmi, oggi, da cattolica, sono diversa da prima, sopratutto da quando frequento la messa ogni giorno. Sono stata accolta tra le braccia della Vergine Maria, che non ero mai stata abituata a chiamare per nome».

Svetlana Stalin è morta il 22 novembre 2011. Questa è l’incredibile storia di conversione della figlia del più sanguinario dittatore della storia, a capo del primo Paese ufficialmente e politicamente ateo.

La redazione
(articolo inserito nell’archivio tematico dedicato alle conversioni)

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Obiezione di coscienza, Papa Francesco risponde all’Europa: «è un obbligo morale!»

papa medici2E’ arrivata ieri la notizia della nuova crociata contro i medici obiettori di coscienza: il Consiglio d’Europa (anzi, un sotto-comitato di 14 membri) ha infatti accolto un ricorso della Cgil, sostenendo che i medici non obiettori in Italia verrebbero discriminati e che sarebbe ostacolato alle donne l’accesso all’aborto.

Solite sciocchezze che ciclicamente rispuntano fuori, un giudizio oltretutto in contraddizionecome ha fatto notare Luca Volonté- con il pronunciamento che lo stesso Consiglio d’Europa aveva pubblicato nel 2010, nel quale non solo si invitavano gli Stati membri a tutelare innanzitutto il diritto all’obiezione di coscienza per tutti, ma anche – in quella sede – si era valutata la posizione italiana e si era preso atto che essa non era solo corretta, ma contemperava, da un lato, i diritti della donna e, dall’altro, i diritti degli obiettori di coscienza. Oltretutto, le stesse percentuali di obiettori di coscienza in Italia (oltre l’80%) esistono –secondo uno studio del 2011- anche negli USA. Il motivo è molto semplice, lo abbiamo già scritto: gli obiettori continuano ad aumentare perché la coscienza dei medici non riesce più a non ribellarsi di fronte all’evidenza di chi è l’embrione, una persona umana degna di non essere soppressa. Come, d’altra parte, ammettono anche i ginecologi abortisti.

Quel che ancora nessuno ha notato, tuttavia, è che questa mattina, durante l’omelia quotidiana, Papa Francesco sembra aver risposto proprio all’intervento del Consiglio d’Europa. Precisiamo che è una nostra ipotesi, ma è sostenuta da ottimi motivi. Il Pontefice ha ricordato i «cristiani che festeggiavano la Pasqua nel Pakistan, martirizzati proprio perché festeggiavano il Cristo Risorto. Ma c’è un’altra persecuzione della quale non si parla tanto», una persecuzione «travestita di cultura, travestita di modernità, travestita di progresso. È una persecuzione – io direi un po’ ironicamente – ‘educata’. E’ quando viene perseguitato l’uomo non per confessare il nome di Cristo, ma per voler avere e manifestare i valori di Figlio di Dio».

Questa “persecuzione educata”, ha proseguiti il Papa, «è una persecuzione contro Dio Creatore nella persona dei suoi figli! E così vediamo tutti i giorni che le potenze fanno leggi che obbligano ad andare su questa strada e una nazione che non segue queste leggi moderne, colte, o almeno che non vuole averle nella sua legislazione, viene accusata, viene perseguitata educatamente. E’ la persecuzione che toglie all’uomo la libertà, anche della obiezione di coscienza! Questa è la persecuzione del mondo che toglie la libertà. Il capo della persecuzione ‘educata’, Gesù lo ha nominato: il principe di questo mondo. E quando le potenze vogliono imporre atteggiamenti, leggi contro la dignità del Figlio di Dio, perseguitano questi e vanno contro il Dio Creatore. E’ la grande apostasia. Così la vita dei cristiani va avanti con queste due persecuzioni». A noi sembra abbastanza evidente a cosa si riferisce il Pontefice: parla di poteri progressisti che vogliono imporre delle leggi contrarie ai valori del Figlio di Dio e perseguitano le nazioni che non si sottomettono, cita proprio la volontà di voler eliminare l’obiezione di coscienza.

Possiamo anche sbagliare, siamo sicuri comunque che questo è il pensiero di Francesco poiché parole simili le ha pronunciate proprio dentro al Parlamento europeo: «l’essere umano rischia di essere ridotto a semplice ingranaggio di un meccanismo che lo tratta alla stregua di un bene di consumo da utilizzare, così che – lo notiamo purtroppo spesso – quando la vita non è funzionale a tale meccanismo viene scartata senza troppe remore, come nel caso dei malati terminali, degli anziani abbandonati e senza cura, o dei bambini uccisi prima di nascere». Serve «un impegno importante e ammirevole, poiché persistono fin troppe situazioni in cui gli esseri umani sono trattati come oggetti, dei quali si può programmare la concezione, la configurazione e l’utilità, e che poi possono essere buttati via quando non servono più, perché diventati deboli, malati o vecchi».

Addirittura nell’esortazione post-sinodale Amoris Laetitia, Francesco, oltre a ricordare «il diritto alla vita del bambino innocente che cresce nel seno di sua madre», ha ricordato alla donna «che in nessun modo è possibile presentare come un diritto sul proprio corpo la possibilità di prendere decisioni nei confronti di tale vita, che è un fine in sé stessa e che non può mai essere oggetto di dominio da parte di un altro essere umano. Perciò a coloro che operano nelle strutture sanitarie si rammenta l’obbligo morale dell’obiezione di coscienza».

Dunque, non esiste un diritto all’aborto, l’embrione è una vita a sé sulla quale la madre non ha diritti e l’obiezione di coscienza è un obbligo morale per i medici. Prendano bene nota l’inutile sindacato rosso di Susanna Camusso e i burocrati europei.

La redazione
(articolo inserito nell’archivio dedicato alla tematiche su aborto e obiezione di coscienza)

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Eluana Englaro, arriva la conferma: uccisa per avere una legge sull’eutanasia

Eluana 

di Eugenia Roccella*
*ex sottosegretario al Ministero della Salute

da l’Occidentale, 08/04/16

 

E’ morta ormai da anni Eluana Englaro, ma la sua scomparsa è rimasta un’intollerabile, bruciante sconfitta per chi ha sostenuto e sostiene il “diritto a morire”, per chi voleva utilizzare quella morte come un caso giudiziario costruito a tavolino allo scopo di introdurre l’eutanasia in Italia. L’appassionata battaglia politica con cui si è tentato di salvarle la vita non è stata vana, anche se non è riuscita allo scopo, e il fatto che i tribunali continuino, a distanza di tanto tempo, a sfornare sentenze ne è, in un certo senso, la dimostrazione.

Che il caso Englaro fosse stato pensato e organizzato sul modello di altri casi eutanasici non è una mia tesi: l’ha scritto, con tranquilla sincerità, uno dei protagonisti in ombra della vicenda, Maurizio Mori, in un libro pubblicato qualche mese prima della morte di Eluana. Nel libro si racconta dell’incontro, nel 1995, tra gli Englaro e Carlo Alberto Defanti, primario neurologo all’ospedale di Bergamo e presidente della Consulta di bioetica, laicissima associazione culturale tra i cui obiettivi c’è anche, appunto, l’eutanasia.

Dopo il colloquio Defanti telefona a Maurizio Mori, suo amico e poi presidente della stessa Consulta, e racconta così l’incontro: “Sono persone capaci e di solide convinzioni, dotate anche di discreta cultura: forse sono in grado di portare avanti un ‘caso’ come quello di Nancy Cruzan o di Tony Bland”. Mori spiega la valenza politica dell’impegno per arrivare alla sentenza che deciderà la morte di Eluana, e ringrazia anche “il giudice Amedeo Santosuosso, che mise a disposizione la solida conoscenza delle esperienze internazionali maturata in anni di studio e di contatti diretti in vari paesi: senza le riflessioni di carattere giuridico di Santosuosso, forse il caso Eluana non avrebbe mai spiccato il volo.

Eluana non c’è più, come si sa è morta sola, senza nessuno che l’amava accanto, né il padre né altri, in una stanza blindata di una casa di riposo di Udine. In questi giorni una sentenza postuma, ormai davvero surreale, assegna un risarcimento di 142.000 euro alla famiglia, di cui 100.000 per “danno da lesione di rapporto parentale”. Il pronunciamento è del Tar lombardo, ed è rivolto contro la regione Lombardia, che all’epoca, rappresentata dal governatore Formigoni, si rifiutò di mettere a disposizione un ospedale pubblico per togliere a Eluana acqua e cibo e farla morire. Bisognerà leggere la sentenza con attenzione per capire di quale danno si tratti.

Eluana è stata accudita con straordinario amore dalle suore di una casa di cura a Lecco, senza spese per la famiglia, ed era impensabile che le stesse suore, che hanno insistentemente pregato il padre di lasciarla alle loro cure, la facessero morire per disidratazione, staccandole il sondino. Formigoni, secondo i magistrati, avrebbe dovuto però individuare un luogo dove questo potesse accadere, nella stessa regione.

All’epoca, nonostante le incaute offerte di alcuni governatori, come la piemontese Bresso, nessuno, sia tra gli amministratori che tra i responsabili sanitari, voleva applicare la sentenza nella propria regione o struttura. Ricordiamo per tutti il no di Enrico Rossi per la Toscana, e la stessa Bresso non poté mettere in atto concretamente la proposta. Il motivo era semplice: il sistema sanitario italiano non è costruito per far morire, ma per curare, guarire (se possibile) e far vivere le persone; applicare la sentenza della Corte d’appello, con i suoi macabri dettagli sull’umidificazione delle mucose durante la disidratazione, implicava una serie di violazioni, anche gravi, delle procedure e delle regole. Per far morire Eluana a Udine, infatti, fu costruito, sempre a tavolino, un luogo ad hoc, una sorta di isola autonoma fuori dal sistema sanitario nazionale, ai confini della legalità.

Alcuni giudici oggi sostengono il contrario. E ritengono che la Lombardia avrebbe dovuto mettere a disposizione una struttura nonostante tutto, e che non averlo fatto avrebbe danneggiato la famiglia. La Regione probabilmente impugnerà la sentenza, e la storia non è ancora conclusa, ma oggi la volontà di una parte della magistratura di insistere sulla morte come diritto si incrocia con un parlamento e un governo assai più disposti a recepire i “nuovi diritti”, abbandonando il principio della sacralità della vita umana. In Parlamento di discute di testamento biologico e di eutanasia, e se qualche giudice volesse segnare il gol e arrivare prima della politica, ormai deve fare presto.

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L’ospedale, un’altra invenzione del Medioevo cattolico

Suora ospedale 

di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista

da La grande storia della carità, Cantagalli 2013

 

Tutti i popoli hanno una medicina: c’è la medicina indiana, la medicina cinese, la medicina africana…Si tratta, per lo più, di mescolanze tra credenze superstizione e magiche, visioni cosmologiche di vario tipo e conoscenze empiriche, nate da una qualche osservazione della realtà. Scrive Michelangelo Peláez: «Le pratiche mediche più antiche erano una mescolanza di interventi empirici, di cui si ignorava la reale causa della efficacia o inefficacia, e di magia, che attribuiva il motivo del dolore e della malattia a forze esterne misteriose, dominabili con procedure enigmatiche riservate ad alcuni membri della tribù i quali, dovutamente iniziati, godevano di speciali poteri curativi».

La medicina come la conosce l’Occidente, nasce nel mondo greco, con Ippocrate e la sua scuola, in intima connessione con la filosofia greca: il «rifiuto ippocratico di un intervento divino nel processo della malattia, e di conseguenza il rifiuto di ogni terapeutica magica mirante a calmare la collera divina, coesiste con il dichiarato rispetto della divinità. Il medico ippocratico sostituisce ad una giustizia divina, più o meno oscura, un ordine dell’universo, divino e naturale, che rende conto di tutte le malattie, compreso il male detto “sacro” (l’epilessia), considerato dai contemporanei più divino degli altri. In Ippocrate si osserva un adeguamento del divino al naturale, nel senso che il divino si manifesta nella regolarità stessa delle leggi naturali» (Pelàez). Il cristianesimo erediterà e porterà a compimento questa visione del mondo, sia in nome del Dio Logos, che ha creato un corpo che obbedisce, come l’universo, a leggi ben precise, sia grazie alla sua valorizzazione del singolo individuo (indipendentemente dalla sua origine o ricchezza), dell’amore e del dolore (che sono cifre proprie della tradizione cristiana e non presenti nella cultura greca). Così a salvare e rilanciare in Italia ed Europa il patrimonio antico della medicina greca saranno il monaco Cassiodoro e la sua scuola: di qui una tradizione continua di studi che ha prodotto, per esempio, l’anatomia, a partire dal Medioevo (Mondino de Liuzzi), e poi via via una sempre maggior comprensione della “macchina” del corpo umano.

Una cosa è la medicina, però, un’altra è l’ospedale: se la proprietà della medicina moderna, figlia di quella greca e di quella cristiana, è l’essere fondata sulla ricerca razionale e sulla riduzione degli scopi (il medico deve cercare di curare il corpo, senza però dimenticare che oltre ad esso, ed insieme ad esso, c’è l’anima), la novità più grande dell’apporto cristiano sta nell’istituzione di un luogo in cui poveri, malati, emarginati, pellegrini, orfani ecc. trovino assistenza e aiuto. In nome di Cristo, che era stato, secondo un modo di dire comune nel medioevo, infirmus et patiens (infermo e sofferente).

C’erano strutture ospedaliere in cui praticare la medicina nel mondo antico, pre-cristiano? No. In buona parte del mondo animista, ancora oggi, la cura è affidata allo stregone, che spesso, dietro un pagamento, offre pratiche magiche di allontanamento del malocchio o simili… Il malato, però, è di norma un maledetto: accade non di rado che molte patologie, come la lebbra, portino non alla cura, ma all’emarginazione, e alla cacciata dalla comunità. Nel mondo induista, l’idea stessa di ospedale non può affermarsi per una serie di credenze ostative: gli uomini non sono tutti “uguali” (esistenza delle caste); il corpo e la materia non sono realtà positive; il malato altro non fa che scontare, giustamente, le colpe delle vite precedenti (concetto di reincarnazione)… Così né l’Africa, né l’America, né l’Asia… hanno prodotto l’ospedale.

Il discorso si fa più complesso, ma solo apparentemente, se ci spostiamo in Grecia o a Roma. Ci sono alcune strutture latamente ospedaliere in queste culture? Sì, ma in termini molto vaghi. Gli storici affermano che le strutture “ospedaliere” greche erano: poche, per lo più a pagamento (tipo delle cliniche private), limitate (per esempio Platone insegnava che erano degni di cura soltanto i cittadini liberi -non certo gli schiavi- e soprattutto coloro che potevano guarire sicuramente). Per questo lo storico dell’ospedale Ray Porter, come tanti altri, arriva a concludere: «Nella Grecia classica non vi erano ospedali…». Altri, come Scarano, Cosmacini, Sironi, Krug… ribadiscono che l’ospedale come lo intendiamo noi, come ospitalità a 360 gradi, nasce solo con il cristianesimo.

Quanto a Roma antica, comincia così uno studio di Alberto Arcioni sul tema: «Sia nella Roma repubblicana che in quella imperiale una vera ospedalità, almeno come la intendiamo noi oggi, non si ebbe mai», in quanto «l’attenzione alla salute, in tutte le sue forme, veniva considerato come un fatto utilitario e non come un impulso caritatevole a chi soffriva»; «queste deficienze nell’assistenza sanitaria nell’antica Roma, fanno invero contrasto con la grande cura che invece i romani mettevano, anche attraverso saggi ordinamenti, nel trattamento dell’igiene personale, nell’uso delle acque, nella vigilanza annonaria, nella diffusione dell’esercizio fisico». Vi erano anche, è vero, delle strutture che potremmo definire impropriamente ospedali, ma erano luoghi per la “riparazione” degli schiavi, luoghi a pagamento, luoghi sacri, in cui però mancava «lo spirito di aiuto per i sofferenti» che sarebbe stato portato, conclude l’Arcioni, «con l’avvento e il diffondersi del cristianesimo» (Alberto Arcioni, L’ospedalità nella Roma antica, in “Lazio ieri e oggi. La rivista di Roma e della sua regione”, aprile 2013).

Giorgio Cosmacini, docente di Storia della medicina presso l’Università Vita-Salute San Raffaele e l’Università degli Studi di Milano, scrive: «il valore dell’ospitalità era solo marginalmente noto nel mondo classico. Era il Medioevo cristiano a dare fondamento etico alla hospitalitas: questo stesso nome, conosciuto sì dagli antichi, ma solo come attitudine od opzione individuale e come obbligo giuridico nei confronti dell’ospite, si affermava nella bassa latinità come comandamento condiviso, come servizio reso al bisognoso e al sofferente nell’ambito di un cristianesimo che si proclamava religione dei poveri […]. Tali opere ricevevano una loro organizzazione da parte della Chiesa primitiva: i diaconi erano “ministri” delegati dai vescovi ad amministrare la distribuzione di viveri ed elemosine, l’assistenza a vedove ed orfani, l’alloggio a poveri e ammalati. Le prime “case ospitali” o domus episcopi, sorte accanto alle residenze vescovili, erano gli archetipi delle istituzioni ospitaliere […]. Sotto l’autorità di un vescovo nascevano case ospitali urbane, sotto l’autorità di un abate, stanze ospitali venivano allestite nei monasteri» (G. Cosmacini, L’arte lunga. La storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza 2009, pp. 118,120).

Fino a fare di Roma, capitale della Cristianità, il luogo dei primi ospedali dell’Occidente, con Agnese, Fabiola, Marcella; e poi la patria, dopo il Mille, di «meravigliosi ospedali che per grandiosità, qualità di assistenza medica, aspetto e funzionalità architettonica, primeggiarono in tutto il mondo» (Arcioni). Per secoli, gli ospedali sono opera di volontariato, luoghi in cui migliaia di persone immolano la loro vita, rinunciando ad una vita esterna, sovente anche ad una propria famiglia, per stare con i sofferenti, con i più miseri, visti come “altri Cristi”, notte e giorno. Luoghi in cui la carità stimola la ricerca, e la pratica permette lo sviluppo della medicina.  Lo Stato, in Europa, comincerà a gestire gli ospedali, pagando il personale, molto tardi: dopo che san Giovanni di Dio, san Camillo de Lellis, san Vincenzo de Paoli e tanti altri santi e sante avranno sparso i semi della loro carità per ogni luogo. Dopo che l’abate Charles-Michel de l’Épée, nel Settecento, sulla scia di religiosi a lui precedenti, avrà inventato la lingua dei segni e il metodo educativo per i sordomuti, dando vita a quegli istituti per sordomuti che saranno gestiti, sino al Novecento, dalla Chiesa cattolica.

Anche in epoca più recente, sarà la carità cristiana prima a spingere Florence Nightingale a creare la figura dell’infermiera moderna, dopo aver imparato alla scuola delle Figlie della Carità di san Vincenzo, poi a venire incontro a tutti quei nuovi bisogni che gli Stati non sono capaci, né motivati, ad incontrare: pensiamo al primo ricovero per malati di Aids, fondato a New York nel 1982 dalle suore di madre Teresa (perché non si trovava nessun altro, neppure a pagamento, disponibile a rischiare il contagio per accompagnare alla morte persone consumate dal male); alle comunità di recupero per tossicodipendenti, nate quasi sempre dall’opera volontaria e gratuita di sacerdoti o di laici con una forte spinta religiosa; oppure, per fare un altro esempio, ai Cottolenghi di San Giuseppe Cottolengo e di don Orione, aperti ad accogliere i malati più gravi, quelli cronici, quelli a cui gli ospedali di Stato non sanno assicurare le necessaria assistenza. L’ospedale, figlio, come l’università, della civiltà medievale, viene esportato anche fuori dalla Cristianità, attraverso i missionari: uomini che partono per portare la fede, e che come Cristo che sfama i suoi discepoli, e guarisce i malati, portano con sé anche medicina e strutture di carità. E’ san Daniele Comboni, per fare un solo esempio, colui che più di ogni altro ha insegnato all’Africa educazione, istruzione, sanità…

Quanto all’oggi, si contano nel mondo 121.564 strutture sanitarie cattoliche e di assistenza di vario genere: «la punta di diamante è rappresentata dai 5.305 ospedali della Chiesa (basti pensare che la sanità statunitense ne ha 5.700) dove dentro c’è un po’ di tutto: dalla struttura all’avanguardia – in Italia basta citare il polo pediatrico di Roma Bambino Gesù o la Casa del Sollievo della Sofferenza a San Giovanni Rotondo – al piccolo centro di frontiera in Africa che fornisce l’assistenza di base. I numeri della sanità vaticana (aggettivo usato dall’articolista impropriamente, ndr) si dividono abbastanza equamente tra i principali continenti: in America sono 1.694 gli ospedali, in Africa 1.150, in Asia 1126, in Europa 1.145 dove l’Italia fa la parte del leone con 129 strutture sanitarie. Ma la realtà delle cure cattoliche è anche molto più ricca: con 18.179 strutture cosiddette ambulatoriali (oltre 10mila divise tra Africa e Americhe) che danno assistenza ai più svantaggiati e ben 17.223 strutture residenziali e assistenziali destinate alla terza età o ai disabili. Di quest’ultime ben 8mila sono concentrate in Europa e quasi 1.600 solo nel nostro Paese. Completano l’elenco del welfare vaticano quasi 10mila orfanotrofi, oltre 11mila asili per i più piccoli, 15mila consultori familiari e quasi altre 60mila strutture che forniscono assistenza sociale e prestazioni di vario tipo» (Il Sole 24 ore, 15/2/2013).

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Gesù ha preteso di essere Dio, risposta a Bart Ehrman

gesùAffrontando la storicità di Gesù Cristo più volte, tra i tanti studiosi a cui facciamo riferimento, abbiamo scelto di citare il pensiero di Bart D. Ehrman, docente di Nuovo Testamento presso la North Carolina University.

Non tanto perché lo consideriamo particolarmente importante nell’ambito del cristianesimo primitivo, ma piuttosto perché Ehrman non è un credente, ma un agnostico. Eppure, afferma con certezza la storicità di Gesù di Nazaret e ritiene storici tutti i dati salienti della sua vita fino alla morte in croce e alla sepoltura, considerando i Vangeli delle «fonti storiche importanti» (B.D. Ehrman, Did Jesus Exist?, HarperCollins Publishers 2012, p. 75).

Non essendo credente, non crede alla divinità e alla resurrezione di Gesù e nei suoi libri avanza diverse argomentazioni a sostegno della sua convinzione, partendo dall’analisi dei testi evangelici. Argomentazioni, però, che hanno grossi limiti, come vedremo, tra cui il cadere spesso in contraddizione. Un esempio è quello di cui ci occupiamo oggi, ovvero se Gesù ha mai preteso di essere Dio.

Frequentemente B.D. Ehrman sostiene che «nessuno dei nostri primi tre vangeli -Matteo, Marco e Luca- dichiara che Gesù è Dio o lasci intendere che Gesù abbia mai sostenuto di esserlo. E’ vero che i vangeli lo ritraggono costantemente come il Figlio di Dio, ma ciò non equivale a identificarlo con Dio […]. I primi seguaci di Gesù, quando era ancora vivo, pensavano che forse sarebbe stato il futuro messia (la cui natura non era in nessun caso divina), ma quando fu arrestato dalle autorità, sottoposto a processo, torturato e crocifisso, quell’immagine fu radicalmente sconfessata. Era l’esatto contrario del destino a cui doveva andare incontro un messia. Per qualche ragione, però, i suoi seguaci finirono con il credere che fosse risuscitato. La risurrezione riconfermò la loro immagine di Gesù, cioè un uomo che godeva della predilezione di Dio. Ma li costrinse a riformulare l’identità». Infatti, prosegue, «l’attribuzione di una natura divina a Gesù è stata un’elaborazione successiva delle comunità cristiane» (B.D. Ehrman, Did Jesus Exist?, HarperCollins Publishers 2012, p. 235,236).

Tale ricostruzione degli eventi, tuttavia, contraddice quella che lui ha dato in un altro libro: «A questo punto voglio semplicemente identificare il punto più fondamentale: i seguaci di Gesù devono averlo considerato il Messia in un certo senso prima della sua morte, perché nulla della sua morte e risurrezione poteva essere ideato successivamente. Per loro il Messia non doveva morire o risorgere» (B.D. Ehrman, How Jesus Became God, HarperCollins Publishers 2014, p.118). Nel primo libro i seguaci di Gesù non lo consideravano un messia divino ma si convinsero inspiegabilmente che fosse risorto e passarono ad identificarlo come messia divino, nel secondo libro Ehrman scrive invece che era impossibile per i discepoli ideare quel tipo di morte e resurrezione, per cui dovevano considerare Gesù un messia divino anche prima della sua morte. Come conciliare le due versioni? Impossibile.

Prendiamo comunque per buona la dichiarazione scritta in Did Jesus Exist? , quella secondo cui i discepoli non lo ritennero un messia divino. Prima di considerare ciò che davvero scrivono i sinottici rispetto alla divinità di Gesù, facciamo presente che, come tutti sanno, prima dei Vangeli vennero scritte le lettere paoline. Ecco qualche esempio di come Paolo descrive Gesù: lo ritiene preesistente («conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi», 2Cor 8,9); di natura divina e uguale a Dio («Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce», Fil 2,6); creatore dell’Universo («un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui», 1Cor 8,6); figlio diretto di Dio («quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli», Gal 4,4-5); risuscitato dai morti grazie a Dio («se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo», Rm 10,13).

Lo stesso Ehrman ci spiega che «Paolo si recò a Gerusalemme a trovare Cefa e Giacomo tre anni dopo la sua conversione (avvenuta nel 32 o nel 33 d.C.), ricevendo le tradizioni che riportò nelle sue lettere, verso la metà degli anni Trenta, diciamo nel 35 o nel 36. Le tradizioni che ereditò erano, ovviamente, più vecchie e risalivano probabilmente a un paio di anni circa dopo la morte di Gesù» (B.D. Ehrman, Did Jesus Exist?, HarperCollins Publishers 2012, p.132). Quindi -seconda contraddizione-, Ehrman da una parte scrive che i primi seguaci di Gesù non lo consideravano di natura divina, dall’altra spiega invece che furono proprio i primi seguaci di Gesù, qualche anno dopo la sua morte, a riferire a Paolo quel che l’apostolo delle genti scrisse nelle sue lettere, le quali parlano esplicitamente della natura divina di Gesù. La contraddizione viene ancor di più esasperata dallo stesso Ehrman quando scrive: «Non ci sono motivi per supporre che Paolo, le cui opinioni su Gesù le ha acquisite dagli ebrei cristiani palestinesi che lo hanno preceduto, ha esposto una visione radicalmente diversa su Gesù rispetto ai suoi predecessori» (B.D. Ehrman, Did Jesus Exist? HarperCollins Publishers 2012, p.256). Ovvero, la cristologia di Paolo (logicamente) non avrebbe potuto essere diversa da quella di Pietro, Giacomo e Giovanni.

Quello appena esposto è solo un esempio delle numerose giravolte dello studioso nordamericano, sottolineate anche da Justin W. Bass, giovane ricercatore presso il Dallas Theological Seminary che, con Ehrman, ha avuto un confronto pubblico. «Bart Ehrman non è d’accordo con se stesso», ha scritto qualche mese fa.

Come promesso, torniamo all’affermazione iniziale secondo cui nessuno dei primi tre evangelisti, Matteo, Marco e Luca, avrebbe dichiarato o lasciato intendere che Gesù è Dio. Bisogna comprendere innanzitutto la pedagogia di Gesù, che ha voluto svelarsi progressivamente ai suoi discepoli, usando spesso parabole e metafore per descriversi, lasciando il giudizio ai suoi discepoli, forti dell’esperienza personale che avevano con lui. Emblematico il brano riportato nel Vangelo di Matteo e nella cosiddetta Fonte Q, cioè il materiale precedente ai Vangeli a cui attinsero Marco e Luca: «Allora domandò: “Ma voi chi dite che io sia?”. Pietro, prendendo la parola, rispose: “Il Cristo di Dio”. Egli allora ordinò loro severamente di non riferirlo a nessuno» (Lc 9,20-21 // Mc 8,29-30 // Mt 16,15-20). Perché Gesù ordina ai suoi discepoli di non rivelare al popolo quel che loro avevano già capito, cioè che era il Figlio di Dio, colui che tutti stavano aspettando? Per non creare un controproducente scandalo, poiché era inconcepibile per gli ebrei del primo secolo che il Messia atteso si presentasse in povertà e in banalità, in carne ed ossa, figlio di un falegname. Se si fosse presentato fin da subito come il Salvatore atteso, il Sinedrio non gli avrebbe nemmeno concesso i tre anni di vita pubblica.

Gesù si dichiara apertamente soltanto alla fine, quando capisce che è arrivata la sua ora, durante il processo: «Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: “Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?”. Gesù rispose: “Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo”. Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: “Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?”. Tutti sentenziarono che era reo di morte» (Mc 14,60-64 // Mt 26, 57-66). Oltre a questo, sono davvero tanti i passi nei sinottici e nel quarto vangelo in cui Gesù rivendica la sua natura divina, sempre più apertamente all’avvicinarsi degli ultimi giorni, così come sono numerose le affermazioni dei discepoli riportate dagli evangelisti, come ad esempio: «Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,15-20). Inoltre, vanno considerate tutte le volte in cui Gesù si rivolge a Dio chiamandolo sorprendentemente abbà, termine traducibile non con “padre”, ma piuttosto con “paparino”, ovvero un modo informale e affettuoso che gli ebrei usavano per rivolgersi al loro genitore. Un appellativo completamente assente nell’Antico Testamento e «sconosciuto nella tradizione giudaicopalestinese precristiana» (J.P. Meier, Un ebreo marginale, vol.2, Queriniana 2003, p. 356).

A proposito di innovazioni, va considerato anche il modo unico che Gesù ha di compiere gli esorcismi, dove si rivolge a Satana dicendo “io ti ordino…”, una modalità che «è unica in tutta la storia antica, non usa incantesimi, formule o oggetti e non invoca il nome di Dio, egli parla direttamente con lo spirito malvagio rimproverandolo e comandandolo ed espellendolo» (J.P. Meier, Un ebreo marginale, vol.2, Queriniana 2003, p. 504-508). O tutte le volte in cui Gesù afferma la sua relazione con il regno di Dio, «in quanto il Regno si fa presente, diviene una realtà ora, attraverso di lui» (J.P. Meier, Un ebreo marginale, vol.2, Queriniana 2003, p. 521).

Come può dunque un professionista come Ehrman scrivere che per gli evangelisti quella di Gesù non era una natura divina? Se la cava in modo molto furbo, argomentando soltanto l’uso di Gesù del controverso termine “Figlio dell’uomo”: «I primi cristiani credevano che Gesù fosse il Figlio dell’uomo, il giudice cosmico sceso sulla terra che sarebbe tornato circonfuso di gloria», perciò «le dichiarazioni in cui Gesù parla di sé definendosi Figlio dell’uomo non soddisfano il criterio della dissomiglianza». Si è capito il trucco che ha usato? Ve lo spieghiamo: innanzitutto andrebbe sottolineato che poco prima sosteneva il contrario, ovvero che i primi cristiani non credevano nella divinità di Gesù, ma questo fa parte dell’infinito intreccio di contraddizioni di Ehrman, che abbiamo già considerato. Il trucco che utilizza è questo: siccome i primi cristiani credevano nella divinità di Gesù allora tutti i passi evangelici in cui si rileva la divinità di Gesù devono essere interpolazioni successive. Cioè, in poche parole, Ehrman ritiene autentico soltanto uno scritto in cui viene affermato un concetto contrario a ciò in cui crede il suo autore. Perciò, si potrebbe paradossalmente usare lo stesso criterio con lui stesso: sapendo che è uno studioso agnostico, allora tutto quanto scrive nei suoi libri che porta a concludere la non divinità di Gesù va ritenuto non attendibile, poiché lui crede alla non divinità di Gesù.

E’ evidente che il criterio della dissomiglianza va usato non in modo selvaggio e irresponsabile, come fa Ehrman in questo caso, ma in sinergia con gli altri criteri storici e, sopratutto, gli studiosi del cristianesimo primitivo lo adoperano esclusivamente in senso contrario: se un brano o uno scritto su Gesù risulta discontinuo con l’ambiente giudaico del suo tempo e con la chiesa primitiva, allora ha una probabilità in più di essere autentico. Si cerca, appunto, la discontinuità/dissomiglianza, come dice il nome stesso del metodo storico, per trovare l’autenticità e non la somiglianza/continuità per provare la non autenticità.

Bart D. Ehrman è uno studioso valido, che usa sapientemente l’indagine storica per provare l’esistenza storica di Gesù e combattere quelli che lui chiama “miticisti”, ovvero coloro che ritengono Gesù un mito. Tuttavia, quando si spinge oltre e si avvicina ad argomenti “sensibili” la sua serietà viene meno, i suoi argomenti si fanno confusi e contraddittori, lasciando emergere un approccio ideologico (si veda l’esemplificato uso del criterio della dissomiglianza). L’esempio mostrato oggi sulla divinità di Gesù ci sembra chiarificatore da questo punto di vista. Per chi volesse approfondire, in attesa di un nostro dossier specifico sull’argomento, segnaliamo ancora una volta il bellissimo libro, proprio su tale argomento, intitolato Gesù figlio di Dio, scritto dal prof. Gérard Rossé, ordinario di Teologia biblica all’Istituto Universitario Sophia, nel quale si dimostra che «l’unanime testimonianza degli scritti neotestamentari svela l’orizzonte di un Gesù “innestato in Dio”, non uomo divinizzato né altro Dio accanto a YHWH, ma volto del Dio unico nella sua realtà di comunione».

La redazione
(articolo inserito nell’archivio dedicato alla storicità di Gesù e dei vangeli)

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“Amoris Laetitia”, l’esortazione di Papa Francesco piace anche ai tradizionalisti

francesco famigliaDopo il Sinodo sulla famiglia del 2014 e del 2015, è stata pubblicata in questi giorni l’esortazione post-sinodale intitolata Amoris Laetitia, firmata da Papa Francesco, il quale ha studiato le conclusioni a cui sono giunti i padri sinodali e ha sintetizzato ed elaborato un lungo e dettagliato testo, pregno di profonde riflessioni e spunti interessanti, in cui si esplicita la dottrina cattolica sul matrimonio, sulla famiglia e sulla sessualità.

Da due anni gli scatenati antibergogliani hanno viziato l’aria profetizzando che dopo il Sinodo sarebbe “venuto giù tutto”, annunciando la legittimazione delle unioni omosessuali, del divorzio e la distruzione della sacramentalità del matrimonio con l’introduzione della comunione ai divorziati risposati. Significativa la scelta del vaticanista Marco Tosatti, non certo un progressista, di titolare così il suo articolo: “Molto rumore per nulla, o quasi?”. Perché «sui temi scottanti che hanno appassionato giornali e monsignori negli ultimi due Sinodi, l’esortazione post-sinodale ha in buona sostanza lasciato le cose come stavano prima del clamore della battaglia». In particolare, è stata «abbandonata quella volontà di creare norme generali a favore dell’inclusione che hanno caratterizzato la prima parte del dibattito, in particolare da parte di alcune conferenze episcopali europee, e di alcuni teologi, come il card. Kasper».

E’ un’esortazione che infatti ha trovato il plauso anche dal mondo definito mediaticamente “tradizionalista”. L’arcivescovo di New York, Timothy Dolan, ha commentato ad esempio: «L’unica vera rivoluzione che si può scorgere tra le pagine dell’esortazione è la rivoluzione della tenerezza che rappresenta non solo una delle categorie di questo pontificato, ma anche uno dei simboli con cui guardare la famiglia attraverso questo documento». E, in un’altra occasione: «ancora una volta la Chiesa sotto l’ispirazione dello Spirito Santo sta sinceramente cercando di essere fedele agli insegnamenti senza tempo di Gesù, e tuttavia cerca di applicarli in un modo misericordioso, comprensibile e gentile». Grande apprezzamento è arrivato anche da mons. Vincenzo Paglia, nominato arcivescovo e voluto da Benedetto XVI come presidente del Pontificio Consiglio della Famiglia, e da Massimo Gandolfini, portavoce del Family Day, secondo il quale, grazie a questa esortazione del Papa, «la dottrina della Chiesa non cambia, anzi si rafforza». Anche sui quotidiani conservatori, come Il Giornale, si specifica la positività del documento pontificio.

Perfino il cardinale statunitense Raymond Leo Burke, sempre ben idolatrato e osannato dai tradizionalisti, ha spiegato che «Amoris laetitia non ha lo scopo di cambiare la pastorale della Chiesa per quanto riguarda quelli che vivono in una unione irregolare, ma di applicare fedelmente la pastorale costante della Chiesa, quale espressione fedele della pastorale di Cristo stesso, nel contesto della cultura odierna. L’unica chiave giusta per interpretare Amoris laetitia è la costante dottrina e disciplina della Chiesa per quanto riguarda il matrimonio». Padre Bernardo Cervellera, direttore di AsiaNews, giustamente stimato da Antonio Socci (nonché suo amico personale), ha scritto: «L’esortazione apostolica di papa Francesco […], è la visione dolce e potente dell’umanità cattolica che si fa strada, corregge, illumina e supera una concezione razionalista e banale dell’io, dell’amore, della società».

Gli unici contrari sono i soliti apocalittici Sandro Magister e il già citato Antonio Socci, ma l’impostazione è ideologica e non hanno molta voce in capitolo. Troppi “al lupo, al lupo” rendono inattendibili. Bisognerebbe comunque precisare che Sandro Magister, oltre al tentativo catastrofista di incolpare il Papa per aver dato il “via” libera ad ogni peccato («ogni peccato è scusato», ha scritto), ha tuttavia riconosciuto: «Letta nel suo insieme, la “Amoris lætitia” può dare spunto a giudizi complessivamente positivi, anche da parte di analisti che non hanno taciuto le loro critiche a talune impazienze dei due sinodi sulla famiglia», pubblicando la riflessione di don Juan José Pérez-Soba, docente di pastorale familiare nel Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia: «chi aspettava un cambiamento nella dottrina della Chiesa non sarà accontentato e rimarrà deluso, chi aspettava che l’esortazione apostolica del Santo Padre andasse più avanti dei sinodi, rimarrà deluso anche lui. La prima conseguenza che si ricava dall’esortazione è che la proposta del cardinale Kasper, già respinta nel sinodo, non è stata accettata». A proposito di impostazione ideologica, Antonio Socci ha ripreso il commento di Magister, tagliando però la parte finale, quella in cui il vaticanista dell’Espresso giudica positivamente l’esortazione del Papa. Da parte sua, invece, ha scritto due articoli in due giorni riproponendo le sue profezie catastrofiste e gli insulti al Papa (del tipo «Bergoglio è contro Gesù, pensa di essere migliore del nostro Salvatore»). Solita isolata minestra.

 

Qui sotto abbiamo estrapolato i giudizi del Papa su alcuni argomenti più scottanti, invitiamo tuttavia una lettura integrale dell’esortazione Amoris Laetitia, senza ridurla agli aspetti sui quali c’è stata più discussione mediatica.

EROS, SESSUALITA’, METODI NATURALI (E NON CONTRACCEZIONE)
«Spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione».

«Anche il calo demografico, dovuto ad una mentalità antinatalista e promosso dalle politiche mondiali di salute riproduttiva, non solo determina una situazione in cui l’avvicendarsi delle generazioni non è più assicurato, ma rischia di condurre nel tempo a un impoverimento economico e a una perdita di speranza nell’avvenire. Lo sviluppo delle biotecnologie ha avuto anch’esso un forte impatto sulla natalità. Possono aggiungersi altri fattori come l’industrializzazione, la rivoluzione sessuale, il timore della sovrappopolazione, i problemi economici, […]. La società dei consumi può anche dissuadere le persone dall’avere figli anche solo per mantenere la loro libertà e il proprio stile di vita. E’ vero che la retta coscienza degli sposi, quando sono stati molto generosi nella trasmissione della vita, può orientarli alla decisione di limitare il numero dei figli per motivi sufficientemente seri, ma sempre per amore di questa dignità della coscienza la Chiesa rigetta con tutte le sue forze gli interventi coercitivi dello Stato a favore di contraccezione, sterilizzazione o addirittura aborto. Tali misure sono inaccettabili anche in luoghi con alto tasso di natalità, ma è da rilevare che i politici le incoraggiano anche in alcuni paesi che soffrono il dramma di un tasso di natalità molto basso. Va riscoperto il messaggio dell’Enciclica Humanae vitae di Paolo VI, che sottolinea il bisogno di rispettare la dignità della persona nella valutazione morale dei metodi di regolazione della natalità».

«Il matrimonio, inoltre, è un’amicizia che comprende le note proprie della passione, ma sempre orientata verso un’unione via via più stabile e intensa. Perché non è stato istituito soltanto per la procreazione, ma affinché l’amore reciproco abbia le sue giuste manifestazioni, si sviluppi e arrivi a maturità. Questa peculiare amicizia tra un uomo e una donna acquista un carattere totalizzante che si dà unicamente nell’unione coniugale. Proprio perché è totalizzante questa unione è anche esclusiva, fedele e aperta alla generazione. Si condivide ogni cosa, compresa la sessualità, sempre nel reciproco rispetto. Benedetto XVI […] rispondeva che, seppure non sono mancati nel cristianesimo esagerazioni o ascetismi deviati, l’insegnamento ufficiale della Chiesa, fedele alle Scritture, non ha rifiutato “l’eros come tale, ma ha dichiarato guerra al suo stravolgimento distruttore, poiché la falsa divinizzazione dell’eros […] lo priva della sua dignità, lo disumanizza”.

«Dio stesso ha creato la sessualità, che è un regalo meraviglioso per le sue creature. Quando la si coltiva e si evita che manchi di controllo, è per impedire che si verifichi l’impoverimento di un valore autentico. San Giovanni Paolo II ha respinto l’idea che l’insegnamento della Chiesa porti a “una negazione del valore del sesso umano” o che semplicemente lo tolleri “per la necessità stessa della procreazione”. Il bisogno sessuale degli sposi non è oggetto di disprezzo e “non si tratta in alcun modo di mettere in questione quel bisogno”. La sessualità non è una risorsa per gratificare o intrattenere, dal momento che è un linguaggio interpersonale dove l’altro è preso sul serio, con il suo sacro e inviolabile valore. In questo contesto, l’erotismo appare come manifestazione specificamente umana della sessualità, in esso si può ritrovare il significato sponsale del corpo e l’autentica dignità del dono. Nelle sue catechesi sulla teologia del corpo umano, san Giovanni Paolo II ha insegnato che la corporeità sessuata “è non soltanto sorgente di fecondità e di procreazione”, ma possiede “la capacità di esprimere l’amore: quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono”. L’erotismo più sano, sebbene sia unito a una ricerca di piacere, presuppone lo stupore, e perciò può umanizzare gli impulsi».

«In nessun modo possiamo intendere la dimensione erotica dell’amore come un male permesso o come un peso da sopportare per il bene della famiglia, bensì come dono di Dio che abbellisce l’incontro tra gli sposi. Nel contesto di questa visione positiva della sessualità, è opportuno impostare il tema nella sua integrità e con un sano realismo. Infatti non possiamo ignorare che molte volte la sessualità si spersonalizza ed anche si colma di patologie, in modo tale che diventa sempre più occasione e strumento di affermazione del proprio io e di soddisfazione egoistica dei propri desideri e istinti. In questa epoca diventa alto il rischio che anche la sessualità sia dominata dallo spirito velenoso dell’“usa e getta”. Il corpo dell’altro è spesso manipolato come una cosa da tenere finché offre soddisfazione e da disprezzare quando perde attrattiva. Si possono forse ignorare o dissimulare le costanti forme di dominio, prepotenza, abuso, perversione e violenza sessuale, che sono frutto di una distorsione del significato della sessualità e che seppelliscono la dignità degli altri e l’appello all’amore sotto un’oscura ricerca di sé stessi? Gli atti propri dell’unione sessuale dei coniugi rispondono alla natura della sessualità voluta da Dio se sono compiuti in modo veramente umano. Tuttavia, il rifiuto delle distorsioni della sessualità e dell’erotismo non dovrebbe mai condurci a disprezzarli o a trascurarli. L’ideale del matrimonio non si può configurare solo come una donazione generosa e sacrificata, dove ciascuno rinuncia ad ogni necessità personale e si preoccupa soltanto di fare il bene dell’altro senza alcuna soddisfazione. Ricordiamo che un vero amore sa anche ricevere dall’altro, è capace di accettarsi come vulnerabile e bisognoso, non rinuncia ad accogliere con sincera e felice gratitudine le espressioni corporali dell’amore nella carezza, nell’abbraccio, nel bacio e nell’unione sessuale. Benedetto XVI era chiaro a tale proposito: “Se l’uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità”. Per questa ragione “l’uomo non può neanche vivere esclusivamente nell’amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono”. Questo richiede, in ogni modo, di ricordare che l’equilibrio umano è fragile, che rimane sempre qualcosa che resiste ad essere umanizzato e che in qualsiasi momento può scatenarsi nuovamente, recuperando le sue tendenze più primitive ed egoistiche».

«Con “cultura del provvisorio” mi riferisco, per esempio, alla rapidità con cui le persone passano da una relazione affettiva ad un’altra. Credono che l’amore, come nelle reti sociali, si possa connettere o disconnettere a piacimento del consumatore e anche bloccare velocemente. Penso anche al timore che suscita la prospettiva di un impegno permanente, all’ossessione per il tempo libero, alle relazioni che calcolano costi e benefici e si mantengono unicamente se sono un mezzo per rimediare alla solitudine, per avere protezione o per ricevere qualche servizio. Si trasferisce alle relazioni affettive quello che accade con gli oggetti e con l’ambiente: tutto è scartabile, ciascuno usa e getta, spreca e rompe, sfrutta e spreme finché serve. E poi addio. Il narcisismo rende le persone incapaci di guardare al di là di sé stesse, dei propri desideri e necessità. Ma chi utilizza gli altri prima o poi finisce per essere utilizzato, manipolato e abbandonato con la stessa logica. E’ degno di nota il fatto che le rotture dei legami avvengono molte volte tra persone adulte che cercano una sorta di “autonomia” e rifiutano l’ideale di invecchiare insieme prendendosi cura l’uno dell’altro e sostenendosi».

 

EUTANASIA E SUICIDIO ASSISITO.
«L’eutanasia e il suicidio assistito sono gravi minacce per le famiglie in tutto il mondo. La loro pratica è legale in molti Stati. La Chiesa, mentre contrasta fermamente queste prassi, sente il dovere di aiutare le famiglie che si prendono cura dei loro membri anziani e ammalati».

 

UNIONI E MATRIMONI OMOSESSUALI.
«Nessuno può pensare che indebolire la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio sia qualcosa che giova alla società. Accade il contrario: pregiudica la maturazione delle persone, la cura dei valori comunitari e lo sviluppo etico delle città e dei villaggi. Non si avverte più con chiarezza che solo l’unione esclusiva e indissolubile tra un uomo e una donna svolge una funzione sociale piena, essendo un impegno stabile e rendendo possibile la fecondità. Dobbiamo riconoscere la grande varietà di situazioni familiari che possono offrire una certa regola di vita, ma le unioni di fatto o tra persone dello stesso sesso, per esempio, non si possono equiparare semplicisticamente al matrimonio. Nessuna unione precaria o chiusa alla trasmissione della vita ci assicura il futuro della società. Ma chi si occupa oggi di sostenere i coniugi, di aiutarli a superare i rischi che li minacciano, di accompagnarli nel loro ruolo educativo, di stimolare la stabilità dell’unione coniugale?».

«Con i Padri sinodali ho preso in considerazione la situazione delle famiglie che vivono l’esperienza di avere al loro interno persone con tendenza omosessuale, esperienza non facile né per i genitori né per i figli. Perciò desideriamo anzitutto ribadire che ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza. Nei riguardi delle famiglie si tratta invece di assicurare un rispettoso accompagnamento, affinché coloro che manifestano la tendenza omosessuale possano avere gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita. Nel corso del dibattito sulla dignità e la missione della famiglia, i Padri sinodali hanno osservato che “circa i progetti di equiparazione al matrimonio delle unioni tra persone omosessuali, non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia”; ed è inaccettabile “che le Chiese locali subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all’introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso”»

 

UTERO IN AFFITTO.
«La vergognosa violenza che a volte si usa nei confronti delle donne, i maltrattamenti familiari e varie forme di schiavitù che non costituiscono una dimostrazione di forza mascolina bensì un codardo degrado. La violenza verbale, fisica e sessuale che si esercita contro le donne in alcune coppie di sposi contraddice la natura stessa dell’unione coniugale. Penso alla grave mutilazione genitale della donna in alcune culture, ma anche alla disuguaglianza dell’accesso a posti di lavoro dignitosi e ai luoghi in cui si prendono le decisioni. La storia ricalca le orme degli eccessi delle culture patriarcali, dove la donna era considerata di seconda classe, ma ricordiamo anche la pratica dell’“utero in affitto” o la strumentalizzazione e mercificazione del corpo femminile nell’attuale cultura mediatica.

 

IDEOLOGIA GENDER.
«Un’altra sfida emerge da varie forme di un’ideologia, genericamente chiamata gender, che nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna. Essa prospetta una società senza differenze di sesso, e svuota la base antropologica della famiglia. Questa ideologia induce progetti educativi e orientamenti legislativi che promuovono un’identità personale e un’intimità affettiva radicalmente svincolate dalla diversità biologica fra maschio e femmina. L’identità umana viene consegnata ad un’opzione individualistica, anche mutevole nel tempo. E’ inquietante che alcune ideologie di questo tipo, che pretendono di rispondere a certe aspirazioni a volte comprensibili, cerchino di imporsi come un pensiero unico che determini anche l’educazione dei bambini. Non si deve ignorare che sesso biologico (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender), si possono distinguere, ma non separare. Una cosa è comprendere la fragilità umana o la complessità della vita, altra cosa è accettare ideologie che pretendono di dividere in due gli aspetti inseparabili della realtà. Non cadiamo nel peccato di pretendere di sostituirci al Creatore. Siamo creature, non siamo onnipotenti. Il creato ci precede e dev’essere ricevuto come dono. Al tempo stesso, siamo chiamati a custodire la nostra umanità, e ciò significa anzitutto accettarla e rispettarla come è stata creata».

 

ABORTO E OBIEZIONE DI COSCIENZA.
«In questo contesto, non posso non affermare che, se la famiglia è il santuario della vita, il luogo dove la vita è generata e curata, costituisce una lacerante contraddizione il fatto che diventi il luogo dove la vita viene negata e distrutta. È così grande il valore di una vita umana, ed è così inalienabile il diritto alla vita del bambino innocente che cresce nel seno di sua madre, che in nessun modo è possibile presentare come un diritto sul proprio corpo la possibilità di prendere decisioni nei confronti di tale vita, che è un fine in sé stessa e che non può mai essere oggetto di dominio da parte di un altro essere umano. La famiglia protegge la vita in ogni sua fase e anche al suo tramonto. Perciò a coloro che operano nelle strutture sanitarie si rammenta l’obbligo morale dell’obiezione di coscienza. Allo stesso modo, la Chiesa non solo sente l’urgenza di affermare il diritto alla morte naturale, evitando l’accanimento terapeutico e l’eutanasia», ma «rigetta fermamente la pena di morte».

«Ogni bambino sta da sempre nel cuore di Dio, e nel momento in cui viene concepito si compie il sogno eterno del Creatore. Pensiamo quanto vale l’embrione dall’istante in cui è concepito! Bisogna guardarlo con lo stesso sguardo d’amore del Padre, che vede oltre ogni apparenza».

 

ADOZIONI OMOSESSUALI.
«Ogni bambino ha il diritto di ricevere l’amore di una madre e di un padre, entrambi necessari per la sua maturazione integra e armoniosa. Entrambi contribuiscono, ciascuno in una maniera diversa, alla crescita di un bambino. Rispettare la dignità di un bambino significa affermare la sua necessità e il suo diritto naturale ad avere una madre e un padre. Non si tratta solo dell’amore del padre e della madre presi separatamente, ma anche dell’amore tra di loro, percepito come fonte della propria esistenza, come nido che accoglie e come fondamento della famiglia. Diversamente, il figlio sembra ridursi ad un possesso capriccioso. Entrambi, uomo e donna, padre e madre, sono cooperatori dell’amore di Dio Creatore e quasi suoi interpreti. Mostrano ai loro figli il volto materno e il volto paterno del Signore. Inoltre essi insieme insegnano il valore della reciprocità, dell’incontro tra differenti, dove ciascuno apporta la sua propria identità e sa anche ricevere dall’altro. Se per qualche ragione inevitabile manca uno dei due, è importante cercare qualche maniera per compensarlo, per favorire l’adeguata maturazione del figlio. Un padre con una chiara e felice identità maschile, che a sua volta unisca nel suo tratto verso la moglie l’affetto e l’accoglienza, è tanto necessario quanto le cure materne. Vi sono ruoli e compiti flessibili, che si adattano alle circostanze concrete di ogni famiglia, ma la presenza chiara e ben definita delle due figure, femminile e maschile, crea l’ambiente più adatto alla maturazione del bambino».

 

MATERNITA’ E FEMMINISMO.
«Oggi riconosciamo come pienamente legittimo, e anche auspicabile, che le donne vogliano studiare, lavorare, sviluppare le proprie capacità e avere obiettivi personali. Ma nello stesso tempo non possiamo ignorare la necessità che hanno i bambini della presenza materna, specialmente nei primi mesi di vita. La realtà è che la donna sta davanti all’uomo come madre, soggetto della nuova vita umana che in essa è concepita e si sviluppa, e da essa nasce al mondo. Il diminuire della presenza materna con le sue qualità femminili costituisce un rischio grave per la nostra terra. Apprezzo il femminismo quando non pretende l’uniformità né la negazione della maternità. Perché la grandezza della donna implica tutti i diritti che derivano dalla sua inalienabile dignità umana, ma anche dal suo genio femminile, indispensabile per la società. Le sue capacità specificamente femminili – in particolare la maternità – le conferiscono anche dei doveri, perché il suo essere donna comporta anche una missione peculiare su questa terra, che la società deve proteggere e preservare per il bene di tutti».

 

MATRIMONI CIVILI E DIVORZIATI RISPOSATI.
«Lo sguardo di Cristo, la cui luce rischiara ogni uomo ispira la cura pastorale della Chiesa verso i fedeli che semplicemente convivono o che hanno contratto matrimonio soltanto civile o sono divorziati risposati. La Chiesa si volge con amore a coloro che partecipano alla sua vita in modo imperfetto: invoca con essi la grazia della conversione, li incoraggia a compiere il bene, a prendersi cura con amore l’uno dell’altro e a mettersi al servizio della comunità nella quale vivono e lavorano. Mentre va espressa con chiarezza la dottrina, sono da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione».

«I Padri hanno indicato che un particolare discernimento è indispensabile per accompagnare pastoralmente i separati, i divorziati, gli abbandonati. Va accolta e valorizzata soprattutto la sofferenza di coloro che hanno subito ingiustamente la separazione, il divorzio o l’abbandono, oppure sono stati costretti dai maltrattamenti del coniuge a rompere la convivenza. Il perdono per l’ingiustizia subita non è facile, ma è un cammino che la grazia rende possibile. Nello stesso tempo, le persone divorziate ma non risposate, che spesso sono testimoni della fedeltà matrimoniale, vanno incoraggiate a trovare nell’Eucaristia il cibo che le sostenga nel loro stato. La comunità locale e i Pastori devono accompagnare queste persone con sollecitudine, soprattutto quando vi sono figli o è grave la loro situazione di povertà. Ai divorziati che vivono una nuova unione, è importante far sentire che sono parte della Chiesa, che “non sono scomunicati” e non sono trattati come tali, perché formano sempre la comunione ecclesiale. Queste situazioni esigono un attento discernimento e un accompagnamento di grande rispetto, evitando ogni linguaggio e atteggiamento che li faccia sentire discriminati e promovendo la loro partecipazione alla vita della comunità. Prendersi cura di loro non è per la comunità cristiana un indebolimento della sua fede e della sua testimonianza circa l’indissolubilità matrimoniale, anzi essa esprime proprio in questa cura la sua carità».

«I divorziati che vivono una nuova unione, per esempio, possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale. Una cosa è una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe. La Chiesa riconosce situazioni in cui “l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione”. C’è anche il caso di quanti hanno fatto grandi sforzi per salvare il primo matrimonio e hanno subito un abbandono ingiusto, o quello di “coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido”. Altra cosa invece è una nuova unione che viene da un recente divorzio, con tutte le conseguenze di sofferenza e di confusione che colpiscono i figli e famiglie intere, o la situazione di qualcuno che ripetutamente ha mancato ai suoi impegni familiari. Dev’essere chiaro che questo non è l’ideale che il Vangelo propone per il matrimonio e la famiglia. I Padri sinodali hanno affermato che il discernimento dei Pastori deve sempre farsi “distinguendo adeguatamente”, con uno sguardo che discerna bene le situazioni».

«Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete, come quelle che abbiamo sopra menzionato, è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi. E’ possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari, che dovrebbe riconoscere che, poiché il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi, le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi. Nemmeno per quanto riguarda la disciplina sacramentale, dal momento che il discernimento può riconoscere che in una situazione particolare non c’è colpa grave. I presbiteri hanno il compito di accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento secondo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del Vescovo. In questo processo sarà utile fare un esame di coscienza, tramite momenti di riflessione e di pentimento. I divorziati risposati dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio. Una sincera riflessione può rafforzare la fiducia nella misericordia di Dio che non viene negata a nessuno. Questi atteggiamenti sono fondamentali per evitare il grave rischio di messaggi sbagliati, come l’idea che qualche sacerdote possa concedere rapidamente “eccezioni”, o che esistano persone che possano ottenere privilegi sacramentali in cambio di favori. È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano. Pertanto, un Pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone. A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa. In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti. Credendo che tutto sia bianco o nero, a volte chiudiamo la via della grazia e della crescita e scoraggiamo percorsi di santificazione che danno gloria a Dio».

«Accolgo le considerazioni di molti Padri sinodali, i quali hanno voluto affermare che i battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni occasione di scandalo. Essi non solo non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa, sentendola come una madre che li accoglie sempre, si prende cura di loro con affetto e li incoraggia nel cammino della vita e del Vangelo. Questa integrazione è necessaria pure per la cura e l’educazione cristiana dei loro figli, che debbono essere considerati i più importanti».

 

EDUCAZIONE SESSUALE.
Il Concilio Vaticano II prospettava la necessità di “una positiva e prudente educazione sessuale” che raggiungesse i bambini e gli adolescenti “man mano che cresce la loro età” e “tenuto conto del progresso della psicologia, della pedagogia e della didattica”. È difficile pensare l’educazione sessuale in un’epoca in cui si tende a banalizzare e impoverire la sessualità. Si potrebbe intenderla solo nel quadro di una educazione all’amore, alla reciproca donazione. In tal modo il linguaggio della sessualità non si vede tristemente impoverito, ma illuminato. L’educazione sessuale offre informazione, ma senza dimenticare che i bambini e i giovani non hanno raggiunto una maturità piena. L’informazione deve arrivare nel momento appropriato e in un modo adatto alla fase che vivono. Non serve riempirli di dati senza lo sviluppo di un senso critico davanti a una invasione di proposte, davanti alla pornografia senza controllo e al sovraccarico di stimoli che possono mutilare la sessualità. I giovani devono potersi rendere conto che sono bombardati da messaggi che non cercano il loro bene e la loro maturità. Quando si pretende di donare tutto in un colpo è possibile che non si doni nulla».

 

CONVIVENZA.
«La scelta del matrimonio civile o, in diversi casi, della semplice convivenza, molto spesso non è motivata da pregiudizi o resistenze nei confronti dell’unione sacramentale, ma da situazioni culturali o contingenti. In queste situazioni potranno essere valorizzati quei segni di amore che in qualche modo riflettono l’amore di Dio. Sappiamo che è in continua crescita il numero di coloro che, dopo aver vissuto insieme per lungo tempo, chiedono la celebrazione del matrimonio in chiesa. La semplice convivenza è spesso scelta a causa della mentalità generale contraria alle istituzioni e agli impegni definitivi, ma anche per l’attesa di una sicurezza esistenziale (lavoro e salario fisso). In altri Paesi, infine, le unioni di fatto sono molto numerose, non solo per il rigetto dei valori della famiglia e del matrimonio, ma soprattutto per il fatto che sposarsi è percepito come un lusso, per le condizioni sociali, così che la miseria materiale spinge a vivere unioni di fatto. Comunque, tutte queste situazioni vanno affrontate in maniera costruttiva, cercando di trasformarle in opportunità di cammino verso la pienezza del matrimonio e della famiglia alla luce del Vangelo. Si tratta di accoglierle e accompagnarle con pazienza e delicatezza».

 

La redazione

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Magia e superstizione demolite dal cattolicesimo

gatto neroCuriosa la notizia di qualche anno fa: “il popolo inglese è più incline a credere nei fantasmi che in Dio“. E’ sotto gli occhi di tutti, d’altra parte: più avanza la secolarizzazione e più la società tende a paganizzarsi, a riimmergersi nella superstizione, negli oroscopi, a rivolgersi a maghi e fattucchieri, a divinizzare la madre terra Gaia.

Altro che razionalismo, la vera eredità dell’Illuminismo è l’astrologia. I ricercatori Byron Johnson, Christopher Bader, Rodney Stark e Carson Mencken, sociologi della Baylor University, hanno concluso nel 2008 che la religione cristiana diminuisce di molto la credulità generale, dai lettori dei tarocchi alla superstizione. Inoltre, le persone irreligiose e i membri delle denominazioni protestanti più liberali, lungi dall’essere resistenti alla superstizione, tendono ad essere molto più propensi a credere nel paranormale e alla pseudoscienza. Una ricerca che ha avuto ampia condivisione, portando il Wall Street Journal a titolare: «Guarda chi è irrazionale ora!». Non è un caso che l’UAAR, l’Unione Atei Agnostici Razionalisti, si sia lamentata con la Chiesa perché l’oroscopo è stato bandito dalla prima serata di Rai2 e, ancora una volta, non è un caso che la Repubblica Ceca, definita il Paese “più ateo”, è anche quello più superstizioso d’Europa secondo una recente ricerca.

Come ha spiegato lo scrittore e studioso Francesco Agnoli, è stato proprio il cristianesimo a liberarci dalla superstizione pagana. Innanzitutto a partire dai sacrifici umani (pensiamo al pharmakos) e animali, dai sacrifici rituali atti ad espiare presunte colpe o a propiziare i vari spiriti. Pensiamo ad esempio a Sant’Agostino che scriveva: «E’ ridicolo regolare la propria vita in base agli almanacchi» (citato in A.G. Hamma, La vita quotidiana dei primi cristiani, Rizzoli 1993, p.167). Come ha spiegato David C. Lindberg, celebre storico della scienza americana, nonché a lungo presidente della Società di Storia della Scienza, «nella “Città di Dio”, Agostino lancia un attacco ro­busto contro la scienza astrologica, in particolar modo contro i suoi precetti fatalistici. Egli argomenta a lungo che, se due ge­melli, concepiti nello stesso momento e nati quasi al contempo, sono tuttavia diversi in modo impressionante per quanto concer­ne la personalità, il carattere e l’andamento della vita, non è dun­que possibile sostenere ragionevolmente che siano le stelle a determinare il destino di ciascuna persona». L’astrologia e la magia, in particolare, «per quanto potenzialmente perico­lose per la fede cristiana, furono tuttavia tenute a freno con successo nel Medioevo» (D.C. Lindberg & R.L. Numbers, Dio e natura, La Nuova Italia 1994, p.32, 43). Il filosofo Sarane Alexandrian ha infatti scritto che i concili di Laodicea, Agda, Orléans, Auxerre e di Narbona avevano tentato di vietare «l’uso di talismani, incantesimi, pratiche divinatorie», impegnandosi a dimostrare che «sacro non si identificava affatto con il magico» (S. Alexandrian, Storia della filosofia occulta, Mondadori 1984, pp. 17,18).

Ancora oggi, riportano le cronache estere, la Chiesa cattolica è impegnata in prima linea attraverso campagne di anti-superstizione in India, ad esempio, laddove la fede in cure magiche comporta la morte dei bambini per assenza di cure mediche. In Africa, invece, i medici cristiani sono spesso impegnati a curare bambini sfigurati da parenti o genitori poiché accusati di essere indemoniati a causa di difetti fisici. Proprio in questo continente il cristianesimo è stata la salvezza di centinaia di bambini affetti da albinismo, sacrificati nei riti animisti voodoo.

Don Gianni Cioli, docente di Teologia morale alla Facoltà teologica dell’Italia Centrale, ha recentemente spiegato che per la Chiesa cattolica, «le pratiche superstiziose, ovvero le vane osservanze, come la morale tradizionale chiamava i gesti a cui si attribuisce indebitamente un effetto positivo, sono da considerarsi in linea di principio un peccato, anche se non necessariamente grave. Esse infatti contrastano con la piena libertà dei figli di Dio e tendono a indebolire la fiducia in Lui e nella sua amorosa provvidenza. Sebbene queste pratiche non abbiano di per sé nulla a che fare con la magia, che è certamente un peccato grave, esse possono comunque essere il sintomo in una mentalità parzialmente magica, e quindi non cristiana, che si illude di poter orientare favorevolmente gli eventi attraverso l’esecuzione di determinati rituali o il possesso di determinati oggetti. Chi prende sul serio questi rituali, credendoci veramente, rischia di complicarsi la vita con inutili costrizioni e di appannare, più o meno significativamente, la fiduciosa consapevolezza che solo Dio salva».

Come dicevamo inizialmente, la secolarizzazione ci riporta negli anni bui della superstizione. Il sociologo laico Domenico De Masi ha affermato qualche giorno fa: «In Italia le persone che credono in modo coerente non superano il 30%. L’altro 70% ha paura, allora crede nell’oroscopo, nell’umanità, nel cosmo per aggrapparsi a qualcosa fuori da se stesso. Quelli che credono alle coincidenze sono più di quelli che credono al Dio cattolico, è tutto un guazzabuglio pagano, cristiano fondamentalista, panteista, in cui non c’è una vera religiosità, ma paura della morte, la paura dell’aldilà. Tranne un nocciolo duro tutti gli altri hanno una visione sconclusionata della fede». Come ha scritto la celebre antropologa italiana Cecilia Gatto Trocchi, «in un mondo secolarizzato il richiamo alla magia riaffiora continuamente e il fascino dell’occulto si rinnova con successo» (C. Gatto Trocchi, La magia, Newton 1994, p.70).

La redazione
(articolo inserito nell’archivio dedicato al cristianesimo come motore della civiltà)

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“I maschi usino il bagno dei maschi”: la legge che scandalizza la lobby Lgbt

bagni pubbliciCosa sta accadendo in North Carolina? Semplicemente la morte del buon senso. E’ stata infatti approvata una legge in cui si specifica che i bagni pubblici vanno divisi in maschili e femminili e chi è nato geneticamente maschio non può accedere al bagno femminile, e viceversa.

Ciò che stupisce non è tanto l’ovvietà di tale legge, ma il fatto che le associazioni Lgbt e diverse multinazionali -come Apple, Twitter e Paypal, Disney, Google, American Airlines ecc.-, si siano ferocemente opposte, affermando che non bisogna discriminare e va permesso ad ogni individuo di scegliere il servizio igenico che vuole e che “si sente” di utilizzare.

La decisione di istituire questa legge è nata dopo la diffusione di casi in cui transessuali geneticamente maschi, o maschi che fingevano di essere transessuali, hanno approfittato della società gay-friendly americana per introdursi tranquillamente nei bagni femminili, arrivando a molestare sessualmente donne e bambine. Tra i casi più famosi c’è quello di Christopher Hambrook, un maniaco sessuale che ha deciso di fingere di essere un transessuale donna per potersi avvicinare ai luoghi frequentati dal sesso femminile, violentando quattro donne. «Chiunque poteva accedere ai bagni del sesso opposto. Tutto quello che doveva fare era affermare che il suo vero genere non era quello biologico», si legge sul National Review. «Lo scopo della legge è di garantire che le persone, soprattutto donne e bambini, possano utilizzare bagni pubblici e spogliatoi, senza essere esposti a persone di sesso biologico diverso. Si chiama buon senso».

L’Università di Toronto ha dovuto sospendere, almeno temporaneamente, le sue “politiche inclusive e non discriminanti” sull’uso dei bagni gender per le persone transessuali, dopo che alcune studentesse sono state molestate e videoriprese in momenti intimi da parte di alcuni studenti. Si sta quindi pensando di creare servizi igenici destinati solamente agli uomini che si identificano come donne, ma così si discriminerebbero i transessuali donna che si sentono uomni, anche loro necessitano di un bagno esclusivo. Così facendo, tuttavia, si violerebbero i diritti di Nano, la giovane donna che si “sente nata in un corpo sbagliato” e ritiene di essere un gatto. Servirebbe dunque creare una lettiera pubblica per felini a misura di esseri umani, e così via per accontentare ogni tipo delle più svariate “auto-sensazioni”. Siamo alla follia.

Nota di folklore: il più attivo contestatore della legge del North Carolina si chiama Chad Sevearance-Turner, presidente della Charlotte’s LGBT Chamber of Commerce. Ha dovuto dimettersi dopo che si è scoperto essere lui stesso un molestatore sessuale, condannato nel 2000 per pedofilia.

Tutto questo dimostra che le conseguenze sociali, una volta approvate le istanze Lgbt, sono anche concrete, arrivando a recare danno e discriminazione verso gli altri cittadini. La domanda “a te personalmente cosa cambia” se vengono istituite le nozze gay o accettate le richieste dei transgender, è fallace, poiché viviamo in un’unica società e ogni legge, lo insegnavano già gli antichi Greci, crea costume e condiziona la vita di tutti. Senza considerare che alla persona che pone tale quesito, non cambierebbe personalmente nulla nemmeno se venissero legalizzati ed istituiti la poligamia, l’eugenetica, l’incesto, la clonazione umana o la creazione di ibridi uomo-animale. Eppure, molto probabilmente, sarebbe ad essi comunque contraria.

“Ciò che cambia” con l’introduzione del matrimonio omosessuale è la distruzione delle fondamenta del matrimonio e, quindi, della famiglia costituzionalmente intesa, con ricadute su tutti. “Ciò che cambia” nell’accettare le richieste sociali delle persone transessuali è innanzitutto farsi complici -come ha ben chiarito lo psichiatra P.R. McHugh, professore emerito di Psicologia presso la Johns Hopkins University School of Medicine- di persone affette dal disturbo dell’identità di genere, patologia inserita nel Manuale di Classificazione dei Disturbi Mentali dall’American Psychiatric Association (APA), quindi confuse nella loro capacitá di intendere e volere rispetto alla loro identitá. In secondo luogo, esistono anche conseguenze concrete e discriminanti per tutti gli altri cittadini, come insegna il caso del North Carolina.

La redazione

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Sessualità, chi frequenta la Chiesa è più soddisfatto della sua vita amorosa

FidanzatiSecondo una recente indagine scientifica, chi frequenta regolarmente la Chiesa è più soddisfatto della sua vita amorosa e sessuale, rispetto a chi non lo fa. Il beneficio dell’attivo coinvolgimento religioso con la positività della personale vita affettiva e sessuale, hanno scritto i ricercatori, «è in linea con precedenti studi che associano l’impegno religioso ad una migliore salute mentale, una maggiore soddisfazione di vita e migliori relazioni sessuali in generale». Abbiamo raccolto la maggior parte di queste ricerche in uno specifico dossier.

Il nuovo studio è stato pubblicato sulla rivista Applied Research in Quality of Life, ed è stata realizzata da due psicologi dell’Università di Porto, in Portogallo, Félix Neto e Maria da Conceição Pinto. Nell’ottobre 2013 avevamo informato di un’altra ricerca, questa volta americana, in cui si rilevava un tasso di sessualità più piacevole e più frequente tra le persone sposate che frequentano la chiesa almeno una volta a settimana, perché per avere un rapporto sessuale soddisfacente è necessario coinvolgere tutto noi stessi: fisicità, dimensione relazionale e spiritualità.

Riteniamo siano dati importanti, sopratutto perché riguardano una tematica di cui la modernità è ossessionata, cioè la sessualità. Queste indagini mostrano che non è affatto lo spirito libertino, come molti erroneamente credono, a portare una vera soddisfazione sessuale, anzi forse contribuisce ad esasperare gli istinti. Secondo uno studio pubblicato negli atti della “National Academy of Sciences”, di cui abbiamo parlato nel 2014, il benessere psico-fisico è infatti posto all’opposto dell’immediato piacere egoistico ed edonistico, il quale invece deriva dal «condividere attivamente i valori legati alla famiglia, alla cultura, e alla moralità». Chi beneficia davvero della sessualità è chi concepisce che il sesso non è soltanto sesso, ma è un dono, uno dei tanti strumenti dell’espressione amorosa della coppia.

I migliori amanti, ci dicono le ricerche, sono coloro che prendono sul serio la sessualità, che non giocano con il proprio corpo e con quello altrui, non usano i corpi e i genitali come meri oggetti di piacere. La Chiesa insegna che il sesso tra coniugi è un dono di Dio ed ha una finalità unitiva, non necessariamente legata a quella procreativa. Ovvero, è falsa la leggenda anticlericale che i cattolici facciano sesso solo per riprodursi. A tutti i fidanzati che frequentano i corsi prematrimoniali nelle parrocchie, viene infatti insegnato l’utilizzo dei metodi naturali per la regolamentazione della fertilità, che non vanno affatto definiti metodi contraccettivi (qui le differenze). Nel 1968, Paolo VI scriveva nell’enciclica Humanae Vitae: «La Chiesa è coerente con se stessa sia quando ritiene lecito il ricorso ai periodi infecondi, sia quando condanna come sempre illecito l’uso dei mezzi direttamente contrari alla fecondazione». Dietro la denigrazione mediatica di tali metodi, ci sono anche le multinazionali della contraccezione, come è stato suggerito. In realtà sono metodi, oltre che leciti per la morale cattolica, anche assolutamente efficaci come abbiamo già dimostrato, altri studi sono stati citati dalla dott.ssa Paola Pellicanò. Addirittura nel 2012 la Georgetown University ha inventato il Standard Days Method, dimostratosi efficace al 95%.

Nella relazione finale del Sinodo sulla Famiglia del 2015, si legge: «Per amore alla dignità della persona, la Chiesa rigetta con tutte le sue forze gli interventi coercitivi dello Stato a favore di contraccezione, sterilizzazione o addirittura aborto. Il ricorso ai metodi fondati sui ritmi naturali di fecondità andrà incoraggiato. Si metterà in luce che questi metodi rispettano il corpo degli sposi, incoraggiano la tenerezza fra di loro e favoriscono l’educazione di una libertà autentica».

La redazione
(articolo inserito nell’archivio delle tematiche relative a fede e psicologia)

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