L’orribile verità dietro la Rivoluzione francese, chi ne parla viene bandito

illuminismo terroreE’ curioso come pochi sappiano che l’evento madre da cui è nata l’ideologia laicista nella società europea, cioè la Rivoluzione francese, nei dieci anni della sua durata ha registrato una media di quasi 200 morti al giorno.

Lo ha fatto presente Vito Mancuso qualche tempo fa ironizzando -perfino lui che è editorialista del quotidiano che più incarna l’ideologia illuminista-, sul fantomatico motto liberté, égalité fraternité. Per gran parte della società europea la Rivoluzione francese è sinonimo di liberazione, di faro di civiltà, di progresso. Ma si tratta di un’opera di disinformazione nata paradossalmente proprio dai libri di storia, sopratutto in Francia è impossibile raccontare qualcosa di diverso.

Ci ha provato lo storico Reynald Secher, membro dell’Académie de recherche, specializzato nella guerra di Vandea. Il suo libro, Le génocide franco-français: la Vendée-Vengé (Presses universitaires de France 1986), divenuto bestseller, ha scatenato un polverone mediatico e un enorme successo popolare. Con prefazione degli storici Jean Meyer e Pierre Chaunu, ha ampliato la sua ricerca per la tesi di dottorato alla Sorbona di Parigi, dimostrando che la repressione attuata in Vandea da parte dei rivoluzionari corrisponde ad un vero e proprio genocidio di un popolo cattolico, che non volle piegarsi alla dittatura anticlericale.

Intervistato recentemente, Secher ha raccontato: «ho subito una reazione apertamente ostile perché il principio della Rivoluzione non deve essere macchiato. Dire che le conseguenze sono state per me molto difficili è un eufemismo: ho dovuto rinunciare alla mia cattedra e non ho più potuto insegnare in università. Gli attacchi sono stati estremamente violenti, addirittura mio nonno è stata accusato di essere stato una collaboratore durante la Seconda guerra mondiale, quando tutti tutti sanno che era un noto membro della Resistenza». Ancora oggi lo storico francese è bandito dai convegni.

«Contrariamente a quanto si è sempre voluto credere», ha proseguito Secher, «quello che è successo in Vandea non è stata una gaffe causata da iniziative locali, ma il risultato di ordini emessi dal più alto livello statale. Nel 2011 ho dimostrato che dietro a tutto c’era il Comitato centrale della sanità pubblica». Età del Terrore la si chiama, dove la ghigliottina era l’unica alternativa alla sudditanza. Il genocidio vandeano è solamente uno degli eventi più noti e tragici: «l’obiettivo è stato sterminare tutti gli abitanti e radere al suolo le loro proprietà, a partire dalle donne e dai bambini, “futuri briganti”».

Ma il negazionismo sul genocidio vandeano ha vita breve anche grazie all’opera di un altro storico, Alberto Bárcena, professore di Storia all’Università CEU San Pablo. Egli ha confermato che a fondamento dell’odio dei rivoluzionari per i vandeani era la religione da loro praticata, il cattolicesimo. Dal febbraio 1790, infatti, vennero soppressi tutti gli ordini religiosi e oltre 4000 parrocchie, chiusi i conventi che non avevano fine caritativo e avvenne l’esproprio forzato dei beni della Chiesa. Tutti i membri del clero divennero funzionari pubblici, senza legame con il Papa, i sacerdoti che si rifiutarono di giurare fedeltà alla Rivoluzione dovevano essere perseguitati e sacrificati.

Pochi giorni fa un altro libro ha chiesto il riconoscimento ufficiale del genocidio, l’autore è il diplomatico e avvocato francese Jacques Villemain, che ha a sua volta raccontato la distruzione sistematica da parte delle autorità della Rivoluzione francese verso gli abitanti cattolici della Vandea. Nel 2009 a Le Mans è stata rinvenuta una fossa comune (vedi foto in alto) con corpi dei vandeani mutilati e massacrati.

«Il secolo dei lumi, l’età d’oro dell’illuminismo, terminò con un massacro», ha scritto lo storico tedesco Michael Hesemann. «Nel nome della gloriosa rivoluzione francese, che portava sui suoi stendardi il motto: “libertà, uguaglianza e fraternità”, nel giro di un anno furono uccise più persone di quante erano morte nella crociata contro i catari, nei “secoli bui” del Medioevo, e di quante erano state le vittime dell’Inquisizione nei suoi cinquecento anni di storia in Europa. Questi morti furono uomini e donne che facevano parte della Chiesa: vescovi e preti, monaci e suore. Il loro unico “crimine” fu la fedeltà alla loro fede» (M. Hesemann, Contro la Chiesa, San Paolo 2009, p. 276-279).

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«La Sindone esisteva già prima del 1300», un altro storico lo riconosce

livio zerbini emanuela marinelliNel giorno del Venerdì santo i cristiani fanno memoria della passione di Cristo, in attesa della resurrezione pasquale. La possibilità di avere una testimonianza storico-archeologica di questi due eventi è qualcosa di incredibile e questo spiega la potenziale importanza della Santa Sindone.

Nessun obbligo a credervi ma, a nostro avviso, le prove a favore della sua autenticità ci sembrano attualmente più determinanti di quelle contrarie. In ambito scientifico, in Italia, gli studi più interessanti sono stati svolti dai fisici dell’Enea che, proprio sul nostro sito web, hanno voluto pubblicare un’anteprima della conclusione a cui sono giunti: non si è in grado di replicare l’immagine sindonica con le più moderne tecnologie (né con i mezzi disponibili nel passato, come dimostra il fallimento del tentativo del dott. Luigi Garlaschelli e del Cicap), soltanto attraverso l’irraggiamento di un tessuto di lino tramite impulsi laser eccimero è stato possibile ottenere un risultato similsindonico.

E’ dal punto di vista storico, invece, che le obiezioni all’autenticità sono più efficaci. Certamente un enorme peso è quello del  responso medioevale emerso dalla datazione al radiocarbonio, realizzata nel 1988 su un campione purtroppo altamente contaminato. Ma che sia un risultato controverso è ormai ammesso da chiunque, basti pensare che durante il Simposio internazionale di Roma, nel giugno 1993, lo statistico Philippe Bourcier de Carbon dell’Institut national d’études démographiques, elencò ben quindici punti di gravi anomalie avvenute durante le operazioni, tra cui l’assenza di verbali e archivio video; contraddizioni nei rapporti ufficiali sul taglio e peso dei campioni; mancato rispetto dei protocolli previsti per l’operazione di datazione; rifiuto della procedura usuale del test a doppio cieco; l’esclusione degli scienziati che meglio conoscevano la Sindone (quelli dello STURP, ad esempio); la comunicazione ai laboratori, prima del test, delle date dei campioni di controllo; l’intercomunicazione dei risultati tra i tre laboratori nel corso dei lavori; la divulgazione ai media dei primi risultati prima della consegna delle conclusioni ecc. Bourcier de Carbon ha concluso: «Una tale constatazione di carenze rimane completamente inusitata nel quadro di un dibattito autenticamente scientifico e non si può che deplorare questa deroga alla deontologia usuale».

In ambito storico, inoltre, esistono chiare tracce della Sindone ben prima del 1300 d.C. e in passato ne abbiamo parlato in modo più approfondito. A chiarire le cose oggi è uscito un libro interessante firmato da Emanuela Marinelli, autorità indiscussa sull’argomento, e dallo storico Livio Zerbini, docente di Storia romana e storia antica all’Università degli studi di Ferrara, dove è anche direttore del Laboratorio di antichità e comunicazione (LAC), e docente presso la scuola di dottorato dell’Università di Bologna. Il titolo è La Sindone. Storia e misteri  (Odoya 2017). L’autorevole contributo del prof. Zerbini si è proprio concentrato sul contesto storico del processo e della crocifissione di Gesù e della ricostruzione del percorso storico compiuto dalla Sindone.libro sindone

La Sindone «di puro lino» viene effettivamente citata dagli antichi liturgisti orientali e latini, come appare nei testi di San Giovanni IV Nesteutes, patriarca di Costantinopoli e San Germano, vescovo di Parigi (VI secolo), San Rabano Mauro, arcivescovo di Magonza (IX secolo), Remigio d’Auxerre (IX-X secolo), Onorio di Autun (XII secolo) e così via. Arculfo, vescovo della Gallia del VII secolo, riferì anche di aver visto il sudarium che era stato sul capo di Gesù durante il suo viaggio in Palestina, assieme ad un linteamen più grande, sul quale compariva l’immagine dello stesso Signore. La presenza a Gerusalemme di un sudarium di Cristo nella Basilica del Santo Sepolcro è testimoniata anche dal “Commemoratorium de casis Dei vel monasteriis” (808 d.C.) redatto per l’imperatore Carlo Magno.

La prima presenza certa della Sindone risale comunque al 1356-1370, riprodotta in un Medaglione votivo ritrovato nel 1855 su cui appare uno stemma legato a Geoffroy I de Charny. Quest’ultimo, cavaliere crociato, ebbe certamente possesso della Sindone. Come arrivò nelle sue mani? Esistono varie ipotesi, le più certificate sono concordi nel seguire per l’appunto la pista dei Crociati o dei Templari, nati per difendere i luoghi santi e i pellegrini che li visitavano. D’altra parte su un coperchio di cassa ritrovato nel 1944 a Templecombe, nel sito che fu una precettoria templare dal 1185 sino all’inizio del XIV secolo, è venuta alla luce l’immagine di un uomo barbuto simile al Volto della Sindone: con la tecnica della sovrapposizione in luce polarizzata sono emersi ben centoventicinque punti di congruenza tra le due immagini.

A questo proposito, è davvero interessante l’approfondimento di Marinelli e Zerbini sulla somiglianza «tra il volto sindonico e la maggior parte delle raffigurazioni di Cristo conosciute nell’arte, sia orientale sia occidentale». «E’ evidente», scrivono «e non può essere attribuita a un puro caso; deve essere il risultato di una dipendenza, mediata o immediata, di un’immagine dall’altra e di tutte da una fonte comune». A chi ipotizza che è stato il presunto autore della Sindone a copiare l’immagine classica nella raffigurazione di Gesù nell’arte, rispondono che «è una tesi non sostenibile, perché le ricerche e le analisi eseguite sulla reliquia hanno escluso, con certezza assoluta, ogni ipotesi di una fabbricazione con mezzi artistici» dell’immagine sindonica. Sia le immagini classiche di Cristo, sia l’Uomo della Sindone, presentano «parecchi elementi non regolari, difficilmente attribuibili alla fantasia degli artisti, che permettono di dedurre come le antiche raffigurazioni del volto di Gesù possano dipendere dalla venerata reliquia» (p. 155).

L’ispirazione sindonica «è evidente, ad esempio, nei segni esistenti tra le sopracciglia, sulla fronte e sulla guancia destra del volto di Cristo delle catacombe di Ponziano a Roma (VIII secolo). Il volto di Cristo di Hosios Loukas nella Focide, databile attorno all’anno Mille, e quello della chiesa di Santa Sofia a Kiev, della prima metà dell’XI secolo, mostrano realmente la stessa persona» (p. 156). Occorre anche considerare che la Sacra Scrittura non tramanda alcuna descrizione della persona fisica del Salvatore e nei primi tempi del Cristianesimo furono usati soltanto simboli (come l’agnello, il pane, il pesce ecc.). Altre prove di una matrice comune sono nel volto di Cristo nella cappella di San Lorenzo in Palatio a Roma (V-VI secolo), il mosaico della Cappella di San Venanzio presso il Battistero di San Giovanni in Laterano (VII secolo), il Cristo della Cattedrale di Tarquinia (XII secolo), il Salvatore della Cattedrale di Sutri (XIII secolo) e il mosaico (XIII secolo) dell’abside della Basilica di San Giovanni in Laterano. Ancora più evidente è la coincidenza tra il volto sindonico e quello che appare sul vaso d’argento del VI secolo trovato a Homs (in Siria). Qui sotto alcuni esempi.

livio zerbini emanuela marinelli

 

La seconda parte del libro affronta l’argomento dal punto di vista scientifico, ripercorrendo tutti gli studi e le evidenze emerse, così come una descrizione di quanto avvenuto durante il prelievo per la datazione tramite radiocarbonio. In quell’occasione vennero rifiutati i ventisei esami proposti dallo STURP -il gruppo internazionale di ricerca nato per studiare scientificamente la Sindone-, «per ragioni che il cardinale e io non riuscimmo mai a capire», ha dichiarato il prof. Luigi Gonella, docente di Strumentazione fisica al Politecnico di Torino e consulente scientifico del card. Ballestrero, «si delineò uno schieramento inteso a escludere ogni ricerca che non fosse la radiodatazione» (p. 133). Lo STURP suggerì di prelevare almeno in tre diverse zone del lenzuolo, mentre il prelievo avvenne in un punto solo, l’angolo a sinistra. I responsabili dei tre laboratori, ha proseguito il prof. Gonella, ripetevano: «”se non lascerete fare a noi, soltanto a noi, i risultati non saranno accettabili”. Così, alla fine, Ballestrero ha dovuto cedere, pur soffrendone moltissimo. Ed io, sottomettermi. Anche perché quei signori facevano di tutto per avvalorare la tesi che la Chiesa stava mettendo i bastoni fra le ruote alla scienza. Ci hanno messo con le spalle al muro proprio con un ricatto. O accettavamo il test del 14C alle condizioni imposte dai laboratori o si sarebbe scatenata una campagna con accuse alla Chiesa di temere la verità, di essere nemica della scienza» (p. 145).

Lo storico Zerbini e la dott.ssa Marinelli, dopo il lungo excursus storico, concludono affermando che viaggiando «a ritroso nel tempo, a cominciare dalle origini della Cristianità», siamo condotti «nei luoghi in cui è stata attestata la presenza» della Sindone, conoscendo «i protagonisti della sua protezione e conservazione, nonché tutti coloro che l’hanno visto o ne hanno parlato» (p. 211).

 

Ne approfittiamo per augurare una Santa Pasqua a tutti i lettori e alle loro famiglie, l’aggiornamento del sito web riprenderà il 24 aprile 2017.

La redazione

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«Le stelle? Rimandano al destino dell’uomo», parola dell’astrofisico Bersanelli

destino uomo bersanelli«Da sempre le stelle rimandano al destino dell’uomo. Anche per Van Gogh rimasero fino alla fine il segno di un’ultima speranza possibile. Confidò che “la speranza è nelle stelle”, le sue tante raffigurazioni notturne nascono da “un bisogno tremendo di – userò la parola – religiosità, per questo alla sera vado fuori e dipingo le stelle”». L’eminente astrofisico italiano, Marco Bersanelli, si conferma capace di unire magistralmente scienza, arte e filosofia, rendendolo -almeno ai nostri occhi- uno dei più interessanti scienziati italiani.

Ordinario di Astrofisica all’Università di Milano, dov’è anche direttore della Scuola di Dottorato in Fisica, Astrofisica e Fisica Applicata, il prof. Bersanelli è membro del Planck Science Team ed è tra i responsabili scientifici della missione spaziale Planck dell’ESA, nonché autore di circa 300 pubblicazioni scientifiche. Da poco ha pubblicato Il grande spettacolo del cielo (Sperling & Kupfer 2016), volume nel quale ha raccolto riflessioni personali, citazioni di suoi colleghi e di poeti ed artisti che si sono lasciati sedurre dalla bellezza del cosmo.

«È paradossale», ha spiegato in un’intervista recente, «oggi la tecnologia ci permette di scrutare le profondità dell’universo a un livello inconcepibile anche solo pochi decenni fa, eppure questa è la prima generazione che ha perso l’abitudine di esporsi alla meraviglia del cielo stellato. Non ci stupiamo più di quel che ci circonda». Senza dubbio la cultura scettico-materialista di cui siamo purtroppo figli ha contribuito enormemente alla disillusione con cui affrontiamo la vita e al disinteresse per le questioni ultime, per il gusto del bello e del vero. Il cielo stellato, ad esempio, che pochissimi vedono abitando nelle luminose e benestanti città occidentali, suscita raramente qualche domanda sul senso dell’esistenza.

Eppure sono incancellabili le pagine di Leopardi che «a soli quindici anni scrisse un trattato di storia dell’astronomia, la “più sublime, la più nobile tra le scienze fisiche”», ha spiegato Bersanelli. «Nel cosmo secondo lui si rispecchiava la domanda ultima dell’uomo, sul significato della sua vita e del mondo, come nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. E d’altra parte Leopardi aveva colto come nell’essere umano c’è qualcosa di più grande dell’intero universo, che non può essere ridotto a nessuna misura. La ragione riconosce che ci sono eventi che i numeri non possono spiegare: come la nascita di un bambino, davanti a cui anche un miliardo di anni luce rimarrà sempre e soltanto un numero». Infatti, ha proseguito l’astrofisico, «il motore che sta sotto la passione con cui gli scienziati si muovono in questo campo è poter svelare qualcosa di un ordine dato, che non abbiamo fatto ed esiste prima di noi. Non è un caso che la Chiesa abbia attivamente sostenuto l’astronomia, tanto che la Specola Vaticana è uno dei più antichi osservatori al mondo. Nella tradizione cristiana la bellezza della natura e del cielo in particolare è il segno per eccellenza della grandezza del Creatore».

L’astrofisico ha anche approfittato per ridimensionare l’eccitazione di qualche tempo fa della scoperta di sette piccoli pianeti “simili” alla Terra, notizia che puntualmente esce ogni anno sui quotidiani. «C’è stato un eccessivo clamore mediatico. Alcuni pianeti erano già noti e non è vero che sono paragonabili alla Terra, hanno solo alcune grossolane caratteristiche simili. La presenza di acqua non è sufficiente per dire che sono “abitabili”. E di pianeti extrasolari di questo tipo ne sono stati censiti già a migliaia. Se non altro però questa notizia ha spinto molti ad interrogarsi sul grande mistero dell’universo, è fondamentale anche dal punto di vista educativo imparare a lasciarsi interrogare e stupire dalla realtà, anche solo da una falce di Luna».

Il grande chimico e fisico Robert Boyle, arrivò a scrivere: «Quando con i telescopi io esamino le vecchie stelle e i pianeti di recente scoperta, quando con microscopi eccellenti discerno la sottigliezza inimitabile di singolare fattura della natura, e quando, in una parola, con l’aiuto di coltelli anatomici e la luce di forni chimici, io studio il libro della natura, mi ritrovo spesso ad esclamare con il Salmista: “Quanto son numerose le tue opere, o Signore! Tu le hai fatte tutte con sapienza”».

 

Qui sotto una bella intervista all’astrofisico Marco Bersanelli

La redazione

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«Per noi sacerdoti il celibato è un dono, non un sacrificio»

Perché la Chiesa continua a richiedere ai sacerdoti di praticare il celibato sacerdotale? Una risposta semplice è arrivata da padre Gary Selin, professore al St. John Vianney Theological Seminary di Denver.

Nel suo libro, “Priestly Celibacy: Theological Foundations” (CUA Press 2016), ne ha presentato i fondamenti biblici, spiegando che la scelta nasce direttamente da Gesù Cristo, il quale era «povero, casto e obbediente alla volontà del Padre. Allo stesso modo, il sacerdote cerca di imitare Gesù in questi modi, attraverso il suo ministero sacerdotale e con la sua stessa vita». La cosa più importante da far capire, tuttavia, è che «per permettere al sacerdote di compiere la sua missione, lo Spirito Santo dà a lui doni particolari, o carismi, tra i quali c’è appunto il celibato sacerdotale. Visto in questa luce, il celibato è un dono per la Chiesa che deve essere protetto e amato». Non un onere, come alcuni credono.

Lo stesso San Paolo parla di questo: «Io vorrei vedervi senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie. Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Questo poi lo dico per il vostro bene, non per gettarvi un laccio, ma per indirizzarvi a ciò che è degno e vi tiene uniti al Signore senza distrazioni» (1 Cor 7, 32-33).

Oltre all’imitazione e all’obbedienza verso la scelta di vita di Gesù, dunque, il celibato sacerdotale «permette al sacerdote di essere unito, con cuore indiviso, a Gesù Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote. Questo dono dell’intimità divina è il primo frutto del celibato. Di conseguenza, il sacerdote è maggiormente in grado di donare se stesso in una vita di servizio alla Chiesa attraverso la carità pastorale». A dirlo è anche l’esperienza concreta, lo testimonia don Andrea Giordano della diocesi di Biella: rimasto vedovo della moglie, con tre figli, ha chiesto e ottenuto il permesso di entrare in seminario diventando sacerdote dopo 12 anni. E’ contrario all’apertura della Chiesa ai preti sposati: «Non si può, la vita di un sacerdote deve essere libera da impegni che possano diventare un ostacolo al servizio quotidiano come seguire una parrocchia. Io stesso non posso farlo».

Il celibato non è comunque un dogma e Papa Francesco ha dichiarato: «la Chiesa cattolica ha preti sposati, nei riti orientali. Il celibato non è un dogma di fede, è una regola di vita, che io apprezzo tanto e credo che sia un dono per la Chiesa». Prima di diventare Papa, si espresse più direttamente: «io sono a favore del mantenimento del celibato, con tutti i pro e i contro che comporta, perché sono dieci secoli di esperienze positive più che di errori».

I pro del celibato sacerdotale sono confermati da Richard Cipolla, vicario della parrocchia di St Mary in Norwalk (Connetticut), un ex prete anglicano convertitosi al cattolicesimo e, per concessione di Giovanni Paolo II, rimasto sacerdote nonostante moglie e due figli. «Non riesco ad essere un padre normale», ha dichiarato. «Nonostante la mia situazione, che è simile ad altri preti sposati entrati nella Chiesa cattolica a partire dagli anni ’80, io sono un forte sostenitore del celibato sacerdotale. Il cuore del sacerdozio cattolico è il sacrificio ed il celibato, imitando Cristo, rende libero il prete di offrirsi completamente alla Chiesa e al suo gregge». Il grande rischio, infatti, è quello di essere pessimi mariti, pessimi padri e pessimi preti.

Ciò che a volte manda in crisi non è affatto il celibato, piuttosto la solitudine e la mancanza di una profonda amicizia spirituale con altri sacerdoti. Una buona idea per risolvere questa situazione riteniamo sia applicare alla realtà parrocchiale delle città il modello della fiorente Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo che, tra le sue regole, applica la vita comune. Vivendo assieme tra sacerdoti, confrontandosi quotidianamente nell’amicizia, ha spiegato il fondatore, il vescovo Massimo Camisasca, «possiamo parlare di prove, cioè di momenti difficili in cui Dio ci chiede di riscoprire le ragioni per cui siamo sulla strada in cui Lui ci ha messo, di riandare al tempo dell’innamoramento, di ricordare le cose grandi che Lui ha fatto con noi e per noi, di fidarci di Lui seguendolo e accettando anche i momenti in cui le nubi sembrano oscurare completamente il cielo, ma non sarà sempre così perché il sole ritorna a dirci che il diluvio è terminato». Perché non estendere questa regola a tutti i sacerdoti?

La redazione

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Psicologia e cristianesimo, un ottimo libro ne ricostruisce i rapporti

recensione libro
 
 
di Stefano Parenti*
*psicologo e psicoterapeuta

 

Un cristiano che voglia leggersi un buon libro di psicologia è costretto ad attuare una preventiva opera di discernimento. Deve valutare non solo i contenuti che l’autore propone, come è bene per qualsiasi tipo di lettura, ma anche le premesse, sovente implicite, che lo scritto porta con sé. Ovvero l’idea di uomo e di mondo che lo scrittore veicola attraverso le sue riflessioni.

A differenza di altri campi del sapere, in psicologia la concezione dell’uomo e della realtà costituisce un fondamento decisivo per lo sviluppo di qualsiasi discorso psicologico, ovvero sull’uomo e sulla realtà. Se, ad esempio, ritengo che le persone non siano altro che esseri poco più evoluti degli animali, descriverò i loro comportamenti come esito di dinamiche animalesche. L’amore sarà quindi il termine di un istinto, la famiglia la conseguenza di un impulso sessuale, l’amicizia una necessità utilitaristica di autoconservazione, ecc. È difficile trovare un buon libro di psicologia. Anche gli autori che si dichiarano cattolici corrono il rischio di veicolare idee aliene alla concezione cristiana dell’uomo poiché, consapevolmente o incoscientemente, approfonditamente o superficialmente, assumono le prospettive delle psicologie contemporanee.

È uscito un testo che analizza tali rischi e pone le basi per risolvere il problema. S’intitola Da Aristotele a Freud (D’Ettoris Editori 2016) ed è scritto dal professor Martin F. Echavarria, direttore del dipartimento di Psicologia e docente presso l’Università Abat Oliba di Barcellona. È un volume fondamentale.

Per coglierne la portata, poniamoci un interrogativo di tipo storico: prima delle impostazioni contemporanee, prima cioè di Wilhelm Wundt, ritenuto il precursore della psicologia contemporanea, e prima di Sigmund Freud, il “padre” della psicoterapia, che cosa c’era? Quando studiai io all’università, la risposta che ricevetti fu lapidaria: non c’era assolutamente nulla. Qualche esorcismo qua e là, e caccia alle streghe. Niente di serio. Anzi, nel testo base di ogni corso universitario di psicologia (P. Legrenzi, Storia della psicologia, Il Mulino 1980), leggiamo: «Per molti secoli il pensiero umano occidentale ha escluso che l’uomo potesse essere oggetto di indagine scientifica. […] Questa impossibilità affermata di studiare l’uomo è tipica del pensiero cristiano medievale. […] Il pensiero medievale è infatti del tutto alieno dallo studio dell’uomo, di cui nega addirittura la possibilità».

Quale può essere il pensiero sulla psicologia, allora, di un uomo formato alla cultura del terzo millennio? Echavarria lo riassume così: «Ai nostri giorni è comune pensare e insegnare che la psicologia moderna abbia dato inizio a qualcosa di realmente nuovo e rivoluzionario, che annovera pochi antecedenti o abbozzi prima della fine del XIX secolo» (p. 29). Dunque, si potrebbe concludere, l’unica possibilità per addentrarsi nello studio della psicologia è di confluire in una delle impostazioni contemporanee. Echavarria si pone in netto contrasto a tale ricostruzione: «Abbiamo intenzione di dimostrare la falsità di questa credenza» (p. 29). La dimostrazione si sviluppa lungo tre tappe. Dapprima il professore riprende le fonti cristiane: «I primi autori cristiani dimostrano una conoscenza tanto profonda del modo di funzionare della personalità umana che li rende dei veri classici per chi si occupa di queste tematiche» (p. 36). I Padri del deserto, Evagrio Pontico, Giovanni Cassiano, san Gregorio Magno e, ovviamente, Sant’Agostino sono gli esempi più noti. È però con la «grande sintesi medievale» che tutto lo studio sull’uomo «accumulatosi durante l’età patristica rispetto alla conoscenza pratica della persona umana raggiunge la pienezza, dal punto di vista sistematico» (p. 39).

Il vertice della conoscenza psicologica, teorica e pratica, viene sintetizzato da San Tommaso d’Aquino il quale, come sostiene Francisco Canals Vidal citato nel testo, arricchisce le conoscenze sulla «scienza del carattere» elaborata dagli antichi greci, Platone ed Aristotele specialmente, con le letture patristiche e l’esperienza di vita dell’ascetica cristiana. Per la verità, che San Tommaso rappresenti un apogeo di conoscenza umana se ne era accorto anche uno psicologo ben poco cristiano come Erich Fromm, che aveva detto: «In Tommaso d’Aquino si incontra un sistema psicologico da cui si può probabilmente apprendere di più che dalla gran parte degli attuali manuali di tale disciplina» (p. 41). Con la decadenza della filosofia scolastica il processo di disgregazione del sapere viene contrastato dai mistici del Rinascimento: «Questa tradizione mistica incontrerà il suo culmine nella modernità del Secolo d’Oro spagnolo, in santa Teresa di Gesù (1515-1582) e in san Giovanni della Croce (1542-1591)» (p. 42).

Echavarria cita e inquadra i riferimenti cristiani ma non si sofferma a descriverne gli apporti, poiché desidera far luce sul motivo per cui tale tradizione sia oggi dimenticata. Eccoci alla seconda tappa. La causa viene rintracciata negli autori dell’illuminismo, di cui Christian Wollf ed Immanuel Kant costituiscono gli esponenti più importanti nell’ambito del sapere filosofico e psicologico. Gli illuministi, eterogenei e discontinui al loro interno, attuano un progetto condiviso: la «rottura» con la tradizione. «Ciò che unisce questi pensatori è l’intento di liberazione nei confronti del cristianesimo, cioè, un motivo soprattutto politico-religioso» (p. 47 nota 4). Echavarria riassume così il loro obiettivo: «Si tratta di ricostruire, partendo da zero, l’insieme del sapere umano con indipendenza dalla tradizione scientifica anteriore (specialmente da quella aristotelica), dalla Rivelazione, e da ogni ipotesi “metafisica”, considerate come saperi svincolati e fantasiosi» (p. 47). In questo disegno di «rottura», che dall’illuminismo prosegue sino al XX secolo, un ruolo principale è svolto da Friedrich Nietzsche. Egli non solo si oppone frontalmente e radicalmente alla concezione cristiana, ma utilizza la psicologia come strumento principe per la ribellione: «Il tema della psicologia in Nietzsche deve essere inquadrato nel suo progetto di trasvalutazione di tutti i valori. In questo contesto, la psicologia gioca un ruolo capitale, è l’aspetto distruttivo di quel suo filosofare “con il martello”, al punto che il filosofo tedesco giunge a considerarla come “regina di tutte le scienze”» (p. 68).

Nietzsche accusa di «nevrosi» l’uomo occidentale, precisando che «la specie più grave di nevrotico è il santo» (p. 71). Per il filosofo tedesco la colpa di questa nevroticizzazione – giusto per ricordarlo – è del cristianesimo ed in particolare della sua morale. Essa che va decostruita (p. 70), non per giungere ad una nuova moralità, bensì per condurre l’umanità ad uno stadio «extramorale, al di là del bene e del male» (p. 72). È una «posizione totalmente antitetica a quella tradizionale (classica e cristiana) […] poiché la morale è vista come repressiva della soggettività, invece che come promotrice del suo dispiegamento e pienezza» (p. 74). Per la concezione tradizionale il santo è il virtuoso per eccellenza; per Nietzsche il santo è il nevrotico per eccellenza. Ora, ci si potrebbe chiedere cosa centri tutto questo con la psicologia contemporanea. Echavarria è molto chiaro al riguardo: «Questa concezione, in cui la morale “è posta sul lettino”, analizzata e curata da se stessa, ha un peso nei fondamenti della psicoanalisi di Freud e di quasi tutti gli psicologi successivi, segnando profondamente le caratteristiche della prassi. Lo psicologo sarà qualcuno che aiuta un individuo, esausto e infermo a causa della morale vigente nella cultura occidentale, a liberarsi e a superarla, trasformandosi in un individuo “eccezionale”, o almeno a relativizzarla e viverla come una finzione necessaria, però non sempre obbligante» (p. 75).

Giungiamo così alla terza tappa del percorso. Se l’influsso di Nietzsche, come dice Echavarria, «è stato più profondo su Freud» (p. 68), tanto da poter dire che «il più rilevante esponente del “medico filosofo” nietzscheano è stato senza dubbio Freud» (p. 80), e se quest’ultimo «sia con il suo atteggiamento di fondo sia con le sue teorie, è alla base dell’attuale prassi della psicologia» (p. 68), possiamo ben intuire il perché le psicologie contemporanee siano distanti, se non ostili, alla concezione cristiana dell’uomo. Non solo la psicologia del profondo, quindi, ma anche le numerose correnti che da essa nascono o ad essa si oppongono, come le teorie umaniste, sistemiche, cognitiviste, nascondono delle insidiose premesse antropologiche distanti dalla concezione tradizionale. Il professore precisa che non mancano i tentativi di recupero della concezione tradizionale, come la psicologia positiva; né mancano gli autori che ne hanno proposto una sintesi, benché parziale e problematica, come Alfred Adler; neppure sono assenti i contributi cristiani. Tutti, però, sono molto problematici: «Da un iniziale atteggiamento di sospetto o di rifiuto in ambito cristiano verso la nuova psicologia, ci si è spostati poco a poco sino alla posizione opposta di un’assimilazione eccessivamente acritica e una confusione di linguaggi e di teorie che non sembra aiutare la comprensione reale ed efficace dell’uomo» (p. 123).

Echavarria conclude quindi con una proposta: «Non ci sembra di avere un’altra strada che la dura riscoperta della grande concezione tradizionale del perfezionamento dell’uomo, sforzandoci di comprendere le sue connessioni con le problematiche contemporanee, senza cadere nell’identificazione con posizioni in sé estranee, né evitare la discussione, a volte basata su di una opposizione radicale, con gli autori contemporanei. In questa riscoperta, lo studio approfondito di san Tommaso gioca un ruolo fondamentale» (p. 126). Il volume si chiude una deliziosa appendice, dedicata al Magistero di Papa Pio XII. Anche questo sembra essere oggi dimenticato: il Pontefice si era direttamente interessato alla psicologia, dedicandole tre bellissimi discorsi in cui ne aveva sostenuto il valore ed aveva indicato la strada per superarne le problematicità. Grazie a questo saggio ora ogni appassionato studioso può accedervi.

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Il card. Biffi: «Gesù si è fatto serpente». Ora Socci scomunicherà anche lui?

bergoglio diavoloLa nuova trovata del giornalista di Libero, Antonio Socci, è aver dato del bestemmiatore a Papa Francesco dopo alcune parole pronunciate in una omelia durante la messa mattutina a Santa Marta.

E’ curioso che a definire così il Pontefice sia il giornalista che si guardò bene dal prendere posizione contro la famosa bestemmia pubblica del (suo) Cavalier Berlusconi, nel 2010.

E’ rimasto invece scandalizzato per questa profonda riflessione del Santo Padre a commento del brano biblico sul serpente di Mosé: «Gesù si è “fatto serpente”, Gesù si “è fatto peccato” e ha preso su di sé le sporcizie tutte dell’umanità, le sporcizie tutte del peccato. E si è “fatto peccato”, si è fatto innalzare perché tutta la gente lo guardasse, la gente ferita dal peccato, noi. Questo è il mistero della croce e lo dice Paolo: “Si è fatto peccato” e ha preso l’apparenza del padre del peccato, del serpente astuto». Il Papa ha quindi chiesto memoria «di colui che si è fatto peccato, che si è fatto diavolo, serpente, per noi; si è abbassato fino ad annientarsi totalmente. Ognuno di noi oggi guardi il crocifisso, guardi questo Dio che si è fatto peccato perché noi non moriamo nei nostri peccati e risponda a queste domande che io vi ho suggerito».

Dopo averlo massacrato in prima pagina chiamandolo blasfemo e «ignorante teologico»ha approfittato per rinnovare il suo pippone mistico sulle profezie catastrofiche che riguarderebbero la Chiesa cattolica. Lo stesso di due, tre, quattro anni fa. Lo stesso che ripeterà fra dieci anni, quando forse si sarà separato completamente dal cattolicesimo.

 

Qui sotto il video alla omelia di Papa Francesco

 

Eppure il compianto arcivescovo di Bologna, Giacomo Biffi, molto amato suo malgrado dai tradizionalisti, pronunciò parole molto simili a quelle di Francesco commentando lo stesso brano biblico, senza mai ricevere lo stesso trattamento che oggi subisce il Papa. Il 17 settembre 2000 il card. Biffi disse infatti: «Dice la Sacra Scrittura: “quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di rame restava in vita” (Nm 21,9). Ebbene, dice Gesù, quel serpente sono io: quel serpente è la figura anticipata di quanto sarebbe avvenuto sul Golgota». Se Francesco è stato definito «gnostico» da Socci, perché Biffi rimane impunito?

D’altra parte, è San Paolo prima di tutti che afferma nella Scrittura: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2 Cor. 5,18-21). Nella lettera ai Galati definisce Gesù addirittura una “maledizione”: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendo divenuto maledizione per noi» (Gal 3,13). Dio fece Gesù peccato? Cristo divenuto maledizione? I farisei odierni avrebbero ributtato il povero Paolo di Tarso giù da cavallo una seconda volta.

Oltretutto già un anno fa Papa Francesco citò le stesse parole di Paolo, spiegandole con le stesse espressioni usate oggi: «San Paolo dice che Gesù svuotò se stesso, umiliò se stesso, si annientò per salvarci. È più forte ancora: “Si è fatto peccato”. Usando questo simbolo si è fatto serpente. Questo è il messaggio profetico di queste Letture di oggi. Il Figlio dell’uomo, che come un serpente, “fatto peccato”, viene innalzato per salvarci». Anche il teologo padre Angelo Bellon, conferma: «Dio ha trattato Gesù Cristo come se fosse stato il più grande peccatore di questo mondo. Anzi come se avesse compiuto tutti i peccati degli uomini». Un diavolo, per l’appunto, o serpente, come ricordato dal card. Biffi. Sono ossimori usati da sempre per far percepire la sproporzione di un Dio che non si vergogna di immergersi nella limitatezza umana e, grazie a questo invischiarsi nei peccati dell’uomo, salva l’uomo dagli stessi. Per sempre.

Non c’è mai stato un Papa che ha bestemmiato, ha scritto il giornalista toscano. Gli ha risposto il vaticanista Andrea Tornielli, ricordando che anche Giovanni Paolo II sottolineò lo stesso paradosso: «L’analogia colpisce ancora di più», commentò Wojtyla, «se consideriamo che la salvezza della morte fisica, provocata dal veleno dei serpenti nel deserto, avviene attraverso un serpente. La salvezza dalla morte spirituale – la morte che è il peccato e che fu causata dall’uomo – avviene attraverso un Uomo, attraverso, il Figlio dell’uomo “innalzato” sulla croce».

«Non ci sono parole», commentava pochi mesi l’Associazione Papaboys rispetto alla quotidiana creatività di Antonio Socci, «solamente la consapevolezza che c’è bisogno di uno psichiatra bravo, ma molto bravo per uno dei più accaniti e violenti sostenitori della “crociata” disumana contro Papa Francesco». Lo psichiatra no, certamente tanto calore umano da parte delle persone che gli sono vicine, per un uomo in crisi esistenziale che sta facendo tanto male a molti cattolici che ancora in lui credono. E ogni giorno si trovano sempre più confusi e lontani dalla comunione ecclesiale.

 
AGGIORNAMENTO 11/04/17
Su Aleteia.it, Giovanni Marcotullio ha ben affrontato la questione dal punto di vista teologico, spiegando perché le critiche a Francesco sono pretestuose e sterili, seppur possano servire per approfondimenti fruttuosi.

 

La redazione

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L’allieva di Veronesi cambia idea: «ora, da laica, dico no all’eutanasia»

oncologa eutanasiaL’ultimo accorato appello del prof. Umberto Veronesi, scomparso l’8 novembre del 2016, a favore dell’eutanasia è contenuto nel “Manifesto per una legge sull’eutanasia”, firmato insieme a Cinzia Caporale e Marco Annoni. Questo è in sostanza il suo lascito, ricordato dalla radicale Emma Bonino a Milano durante il funerale laico: il diritto di decidere se e come anticipare la morte.

«Io credo che la dignità stia da un’altra parte», gli risponde oggi una sua allieva, Sylvie Menard, oncologa ed ex direttrice del Dipartimento di Oncologia sperimentale dell’Istituto Nazionale dei Tumori. Dapprima favorevole alla dolce morte, tanto da redigere anche il suo testamento biologico, oggi si batte contro l’eutanasia. Da laica.

«Ho fatto il ‘68 sulle barricate a Parigi. Il nostro motto era “proibito proibire”», racconta intervistata da Il Giornale”. Poi si è ammalata di cancro e ha cambiato prospettiva: «La malattia cambia la nostra visione della vita. La morte non è più virtuale ma diventa reale. Non ci sentiamo più immortali e siamo obbligati a fermarci e a riflettere». E ancora: «Ci sono molti disabili che accettano la loro condizione e che la vivono con grande coraggio. Ho conosciuto malati gravi felici di vivere. Le stesse persone che, da sane, non avrebbero mai pensato di poter vivere così. Ho conosciuto tanti malati che inizialmente rifiutavano le terapie, ma che poi le hanno accettate, appena hanno accettato la loro malattia. Il fattore “tempo” è importantissimo».

La Menard ritiene che la proposta di legge attualmente in discussione in Parlamento «creerà più problemi di quelli che vuole risolvere», poiché  «il testamento biologico avrebbe senso se si sapesse a priori come ci sentiremo da malati, o se non fossimo più in grado di intendere e di volere. Rischia di essere controproducente nel caso in cui qualche erede in attesa della casa della mamma faccia valere queste disposizioni anche in caso di un po’ di demenza senile».

Dal motto sessantottino “proibito proibire” alla convinzione che «in uno Stato dove l’eutanasia è permessa, sarà difficile, per chi è contrario e vuole vivere, continuare a chiedere assistenza e cure senza farsi condizionare dalla società circostante». Un’indagine fatta in Svizzera sui pazienti che hanno chiesto di morire, ha proseguito l’oncologa, mostra che è la solitudine, e non la malattia in sé, il fattore preponderante che spinge il paziente a chiedere l’eutanasia. Il concetto di “morte degna” andrebbe bandito perché la vita del malato terminale è comunque degna di essere vissuta. La vita, anche in stato terminale, dovrebbe avere sempre il primato sugli impulsi di morte, fermo restando che «con la terapia del dolore, l’eventuale ricorso alla sedazione più o meno profonda, il problema di morire nel dolore non esiste più».

Se una donna oncologo, allieva di Veronesi, è giunta a queste conclusioni, vuol dire che quello dell’eutanasia potrebbe essere un falso problema oppure, nella peggiore delle ipotesi, un escamotage legale per sbarazzarsi di chi è divenuto un fardello troppo pesante da portare. Si pensi, ad esempio,  alle persone con demenza senile o affette da Alzheimer. In questi casi, chi potrà dare il consenso all’eutanasia? Non certo il diretto interessato in quanto non più capace di intendere e di volere, anche qualora avesse sottoscritto il testamento biologico, giacché ogni testamento può essere revocato e rivisto.

Qui subentra una questione etica di rilievo che concerne i terzi interessati, cioè i parenti o i tutori. Potrebbero costoro asserire in tutta coscienza che, nel momento topico, la volontà del morente sia ancora quella di essere dolcemente ucciso?          

Salvatore Bernocco

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«L’ateismo porta la pace!». Ma la risposta di Enrico Mentana è da incorniciare

risposta mentanaSi definisce «fondamentalista atea». E’ una commentatrice della pagina Facebook del giornalista Enrico Mentana, direttore del TG La7. Il suo commento al recente attentato di Stoccolma è stato particolarmente curioso: «Se tutti fossero atei come in casa mia il mondo sarebbe sicuramente più pacifico. Odio profondo verso tutte le religioni».

Al commento ha risposto direttamente Mentana: «Già nella Russia di Stalin le misero al bando. E’ stato il regime più crudele della storia con il suo stesso popolo, tra deportazioni nei gulag e omicidi. Questo per dirle che la sua è una colossale minchiata».

Non ci sarebbe altro da aggiungere, lo abbiamo ripetuto tante volte a chi incolpa i cristiani degli errori di cui si sono macchiati nella storia. Non solo in Unione Sovietica, ma in tutte le principali dittature della storia venne impostato l’ateismo di Stato: nella Cina di Mao Tse-tung, ancora oggi nella Corea del Nord, nell’Albania di Hoxha -citato pure nella Costituzione!-, nella Cambogia di Pol Pot, nella Jugoslavia di Tito ecc. La pace, laddove il rifiuto ufficiale di Dio è arrivato ai piani alti, è sempre stata la grande assente.

Occorre infine riflettere sul come molti reagiscano agli attentati dei fondamentalisti islamici accusando in generale le religioni. Questo dimostra la lungimiranza di Papa Francesco e di Benedetto XVI che, come abbiamo ripetuto proprio nei giorni scorsi, hanno voluto evitare a tutti i costi di generalizzare e di associare direttamente la religione islamica al fondamentalismo omicida. «Bisogna fare questa distinzione», ha spiegato Francesco, «perché tante volte si usa il nome della religione, ma la realtà non è quella della religione».

La redazione

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«Pressioni di Obama?», mons. Georg smentisce la bufala contro Ratzinger

smentita bufala socciAlla fine anche mons. Georg Gänswein, prefetto della Casa Pontificia e segretario particolare del Papa emerito, è dovuto intervenire sulla recente bufala contro Benedetto XVI inventata dagli ambienti antimodernisti della sedicente “resistenza cattolica”.

La persona più vicina a Papa Ratzinger, che trascorre con lui parte delle sue giornate, ha smentito qualunque pressione dell’ex presidente americano, Barack Obama o di Hillary Clinton, nei confronti di Benedetto XVI. «Non è per niente vero, è inventato, è un’affermazione senza fondamento. Io ho parlato anche con Papa Benedetto dopo questa intervista e ha detto che non è vero». Probabilmente mons. Georg si riferisce alla recente intervista rilasciata da mons. Luigi Negri, il quale ha erroneamente preso per vere notizie diffuse in Italia dal turiferario Antonio Socci.

«La rinuncia», ha chiarito il segretario di Ratzinger, «era una decisione libera, ben pensata, ben riflettuta e anche ben pregata. Queste cose che si sono lette recentemente sono inventate e non sono vere. Papa Benedetto non è la persona che cede a delle pressioni. Tutt’altro. Quando ci sono state sfide e quando si è dovuto difendere sia la dottrina sia il popolo di Dio è proprio lui che si è comportato in modo esemplare: non è fuggito quando è arrivato il lupo, ma ha resistito, e questo non sarebbe mai stato motivo per lasciare il pontificato e rinunciare».

 

Qui sotto l’intervista a mons. Georg Gänswein

 

L’intervista realizzata da Fabio Marchese Ragona è stata pressoché ignorata, così come accadde per quella che lo stesso vaticanista fece al card. Gerhard Ludwig Müller, quando il prefetto spiegò che non c’è necessità di risposta ai Dubia dei quattro cardinali poiché «“Amoris Laetitia” è molto chiara nella sua dottrina», dicendosi stupito del ricatto compiuto nell’aver reso pubblica la questione, «costringendo quasi il Papa a dire sì o no. Questo non mi piace. E’ un danno per la Chiesa discutere di queste cose pubblicamente».

A riprendere le parole di mons. Georg è stata invece l’Associazione Papaboys, titolando: «Per l’ennesima volta Benedetto XVI smentisce Socci (ed i “falsi gufi” come lui)». L’attacco a Ratzinger, infatti, non è arrivato dai laicisti di Repubblica ma dall’insana frangia cattolica che domina sui social network e che ha come animatore principale proprio Antonio Socci. Nessuno ne parlerebbe, infatti, se quest’uomo non si fosse dato (misteriosamente) l’obiettivo di diffamare quotidianamente la Chiesa, prendendo egregiamente il testimone di Corrado Augias. Sostenuto, in questa circostanza, da Maurizio Blondet ed Ettore Gotti Tedeschi.. Ricordiamo che Benedetto XVI in persona smentì la questione nel libro Ultime conversazioni (Garzanti 2016), come abbiamo già ricostruito.

dimissioni ratzinger

 

Infine vorremmo sottolineare tre cose importanti che si rilevano dall’intervista a mons. Georg Gänswein:
1) La conferma dell’ottimo rapporto tra Benedetto XVI e Papa Francesco.

2) Il segretario di Ratzinger ha confermato che la famosa citazione dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo, pronunciata durante il famoso discorso a Ratisbona, non rappresenta il pensiero di Benedetto XVI sull’Islam. Lo aveva già detto il Papa emerito il 17/09/06: «si trattava di una citazione di un testo medioevale, che non esprime in nessun modo il mio pensiero personale». In quell’occasione Ratzinger rimandò al chiarimento emesso dal segretario di Stato, card. Bertone, il quale scrisse: «La posizione del Papa sull’Islam è inequivocabilmente quella espressa dal documento conciliare Nostra Aetate: “La Chiesa guarda con stima i musulmani, che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini”. Nel ribadire il Suo rispetto e la Sua stima per coloro che professano l’Islam, Egli si augura che siano aiutati a comprendere nel loro giusto senso le Sue parole». Per questo motivo abbiamo evitato di citare il discorso di Ratisbona nel nostro approfondimento della posizione del Papa emerito nei confronti dell’Islam, la stessa manifestata oggi da Papa Francesco.

3) Mons. George ha anche voluto chiarire una ennesima fake news di Antonio Socci, quando quest’ultimo disse di aver trovato in un’intervista rilasciata dal segretario di Ratzinger sul ruolo di Benedetto XVI, delle «esplosive parole». «Siamo ad una svolta», urlò Socci per mesi ingannando i suoi lettori e sostenendo che mons. Georg avesse dichiarato che quello di Benedetto XVI è un ministero allargato e che, quindi, sarebbe ancora lui il Papa legittimo. «Nessun malinteso», ha spiegato il segretario di Ratzinger, «il Papa è uno e l’altro è stato Papa. Se ci sono interpretazioni diverse, a volte maliziose, questa è la vita». Chiamale maliziose…

La redazione

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Scusa, ma che male fa il matrimonio tra Lilly e il suo robot?

retorica lgbtChe male fa, a te, che Lilly possa sposarsi con il suo robot? Cambia qualcosa alla tua vita? Non sei d’accordo? Nessuno chiede che tu sposi un robot, semplicemente che venga coronato il suo sogno. Chi sei tu per discriminare i desideri e i diritti di Lilly?

No, non ci siamo convertiti alla retorica arcobaleno di Boldrini&Cirinnà, semplicemente ci avvaliamo dei loro stessi “argomenti” a favore del matrimonio omosessuale per dimostrare come essi possano essere applicati anche a qualunque fantasia umana, da chi chiede di sposare una persona del suo stesso sesso a chi vorrebbe unirsi in matrimonio con il proprio padre o la propria madre, da chi vorrebbe sposare 3 donne a chi, adulto e consapevole, si è innamorata di un robot.

Quest’ultimo è un caso avvenuto realmente in Francia, una donna –Lilly– dice di essersi innamorata del suo robot stampato in 3-D, di nome InMoovator e vorrebbe sposarlo: «Sono orgogliosa di essere robosexual», ha dichiarato. «Non facciamo del male a nessuno e siamo felici». Le stesse parole utilizzate da chi intende convincere per la liberalizzazione delle nozze gay. A Lilly non piacciono i contatti fisici con le persone e da 19 anni si innamora solo dei robot: «Non è un’idea ridicola o cattiva, si tratta semplicemente di uno stile di vita alternativo».

Quando vengono minate le fondamenta del matrimonio che -come dice la parola stessa “matris”, “madre”- è l’istituto previsto, pensato e appositamente progettato per unire saldamente un uomo e una donna, diventando così l’ambiente protetto migliore per la nascita di un bambino, allora tutto cade. Perché “discriminare” tutte le altre formazioni umane, escludendole dalle possibilità concesse alle persone dello stesso sesso? Non solo incestuosi o poligamici, ma anche i sologamy, cioè coloro che vogliono sposare se stessi (fenomeno sempre più in crescita negli Usa). E i robosexual? Con quali argomenti dire “no”, una volta che al matrimonio vengono tolte le fondamenta, ovvero la sua finalità alla esclusiva coppia naturale?

Troppo comodo dire che Lilly ha un disturbo mentale, e le coppie incestuose? Quelle poligamiche che manifestano negli USA reclamando gli stessi diritti degli omosessuali? Ricordiamo inoltre che fino a pochi anni fa anche l’omosessualità era considerata -a torto o a ragione, non ci interessa- patologia dalla psicologia ufficiale. Gli psicologi si sbagliavano? Allora potrebbe sbagliarsi anche per i robosexual, no?

La famiglia è una sola e il matrimonio è finalizzato soltanto per coppie composte da uomo e donna (e non è affatto una discriminazione, oltretutto, come ha sentenziato la Corte di Cassazione nel 2015). Negare queste due verità significa anche doversi farsi carico di tutte le sue conseguenze, concedendo inevitabilmente le nozze anche a tutti i prodotti della fervida mente umana: il caos totale. «Utilizzare il matrimonio per unioni diverse da uomo e donna», ha infatti scritto il laicissimo Sergio Romano, «è un furto di tradizione che non conviene nemmeno agli omosessuali».

La redazione

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