Due fiumi dichiarati “esseri umani viventi”: follie del relativismo

Viviamo in tempi affascinanti, da un lato, e surreali dall’altro. In un’epoca in cui moltissimi esseri umani ancora non hanno accesso ai diritti umani ed in cui famosi bioeticisti vorrebbero togliere il diritto alla vita a bambini non nati, appena nati e disabili cognitivi, due fiumi sono stati dichiarati “persone” giuridiche dotate di diritti umani.

In Nuova Zelanda, al fiume Whanganui sono stati concessi gli stessi diritti legali di un essere umano poiché semplicemente la tribù Maori considera il fiume un suo “antenato” ed un “parente”. Allo stesso tempo, la corte indiana ha dichiarato il fiume Gange e il suo principale affluente, la Yamuna, “esseri umani viventi”, considerati sacri nella fede indù. E’ stato deliberato che non si tratta più di correnti d’acqua, ma «entità legali e viventi aventi lo status di una persona giuridica con tutti i diritti, doveri e responsabilità corrispondenti».

Ma secondo quale criterio si può affermare che un fiume ha precisi “doveri e responsabilità”? E quali diritti? Sorgeranno crisi esistenziali quando, per esempio, si dovrà costruire una diga per impedire allagamenti mortali: si lederanno i diritti umani d’esistenza del fiume per preservare i diritti umani d’esistenza della popolazione locale. Aprire le porte dei tribunali agli ambientalisti radicali ci porterà ad affrontare miriadi di cause legali quando vorranno difendere i diritti umani dei loro clienti animali, vegetali, fiumi, montagne, prati, insetti e microorganismi. Ma non serve stravolgere il diritto per difendere i fiumi, l’ambiente e la creazione, sono idee autodistruttive che trovano consenso dopo la proliferazione di nuovi diritti, legata al progressivo relativismo sociale.

Lo ha spiegato bene Pietro Barcellona, l’ex marxista docente di Filosofia del diritto presso l’Università di Catania: «la mancanza di ogni fondamento metafisico e di ogni legittimità trascendente rende l’ordine giuridico contingente e artificiale, privo di qualsiasi riferimento a un ordine naturale comunque riconducibile all’armonia del cosmo. Ogni comando è per sua natura arbitrario, senza giustificazione, né misura. Consumata definitivamente l’idea di fare affidamento su una qualche verità eterna e immutabile, su una qualche ragione universale, non resta che affidarsi alla labile contingenza degli accordi contrattuali e dei patti sociali, con i quali i singoli individui decidono di fissare un argine ai loro illimitati desideri» (Il declino dello Stato. Riflessioni di fine secolo sulla crisi del progetto moderno, Dedalo 1998).

Senza una verità assoluta ed oggettiva da difendere, rimane la dittatura del desiderio: voglio, perciò è un mio diritto. Eppure, il fondamento della legge è dipendente dalla capacità della ragione umana di cogliere ciò che è vero (giusto) e ciò che è falso (sbagliato), abilità pesantemente compromessa a causa delle totalitarie sovrastrutture ideologiche in cui siamo immersi. Ha scritto la filosofa Hannah Arendt: «il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più» (Le origini del totalitarismo, Einaudi 2004).

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Di fronte all’Islam, Richard Dawkins vede nel cristianesimo un baluardo

Ricordate lo zoologo Richard Dawkins? Quello che «la fede cristiana è uno dei più grandi mali del mondo, paragonabile al virus del vaiolo ma più difficile da estirpare» (The God delusion). Ieri era uno degli intellettuali più in voga, oggi è spesso lo zimbello dei media e del mondo accademico. Ma non è questo il punto, piuttosto il suo continuo cammino di conversione.

La parola conversione è errata, egli continua a dire che Dio, probabilmente, non esiste. Ma la sua posizione si è ammorbidita. Se nel 2012 invitava i suoi sottoposti a deridere pubblicamente i credenti, poco tempo dopo -come abbiamo documentato– l’ateo più famoso del mondo ha affermato di essere agnostico. Un anno dopo è arrivato a dichiarasi “culturalmente cristiano”, nel 2015 ha criticato una catena di cinema che si era rifiutata di proiettare un’annuncio contenete una preghiera cristiana: «Se qualcuno si sente “offeso” da una preghiera, allora merita di essere offeso».

Poco tempo fa, invece, in risposta ad un sondaggio sul crescere dell’abbandono della religione da parte dei giovani britannici, Dawkins ha twittato: «prima di rallegrasi per gli spasmi della benigna religione cristiana, non dimentichiamoci del detto: “Mantieni per mano l’infermiera per paura di trovare qualcosa di peggio”». Il suo riferimento è rivolto all‘Islam, infatti il rapporto rilevava anche che il tasso di natalità dei musulmani è superiore alla popolazione generale.

E’ curioso che un personaggio del genere possa vedere nell’odiato virus del cristianesimo una sorta di “baluardo” contro qualcosa di peggiore. Già in passato, tuttavia, aveva “difeso” la cristianità: «Non ci sono cristiani, per quanto ne so, a far esplodere edifici. Non sono a conoscenza di nessun kamikaze cristiano. Non sono a conoscenza di alcuna grande denominazione cristiana che crede che la pena per l’apostasia sia la morte». Sarebbe tuttavia curioso chiedergli un parere su un altro sondaggio sempre riguardante i giovani britannici (16-29 anni): se da un lato il 70% non si identifica in nessuna religione, il 59% non frequenta mai servizi religiosi e quasi i due terzi non prega mai, dall’altro si è recentemente scoperto che tre su cinque giovani britannici si sentono infelici, uno su quattro afferma di essere “senza speranza”, la metà di essi ha avuto problemi di salute mentale e dice di non essere in grado di far fronte alle battute d’arresto della vita. Non c’è una correlazione manifesta tra le due indagini, tuttavia non è sembra errato farla poiché si sa quanto la visione esistenziale modifichi totalmente lo sguardo sulla vita e l’approccio ad essa.

I più attenti si saranno stupiti anche del fatto che Dawkins non solo sembra preoccupato della crisi del cristianesimo, ma nemmeno ha proposto come “baluardo” dell’Islam un ateismo strong, come avrebbe fatto qualche anno fa. Poteva esultare per la crescente secolarizzazione della società, ma ha scelto di reagire con preoccupazione. Perché? E’ possibile che condivida l’opinione dell’eminente filosofo francese Philippe Nemo? Nel suo libro, La bella morte dell’ateismo moderno, il docente della prestigiosa ESCP Europe ha infatti concluso l’incapacità dell’ateismo nel saper rispondere alle questioni umane e nel saper creare cultura, tradizione e civiltà. «L’ateismo moderno è morto di morte naturale, non ha saputo mantenere le sue promesse. Si è metafisicamente esaurito e non ha più niente da dire all’uomo». Oggi, ha proseguito, ci risvegliamo «da una sorta di sonno paralizzante durato per ben due secoli. Le grandi domande esistenziali, cui i programmi dell’ateismo non hanno dato risposta, appaiono di nuovo tanto pertinenti quanto urgenti».

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Suffragio femminile, il grande contributo dei cattolici e della Chiesa

E’ piuttosto trascurato il ruolo importante svolto dal mondo cattolico per rivendicare il diritto di voto alle donne. I precursori cattolici, infatti, iniziarono molto prima a battersi per l’uguaglianza femminile rispetto al femminismo, che oggi si appropria indebitamente di tale lotta.

Per restare in Italia, nel 1917 l’attuale Servo di Dio, don Luigi Sturzo -fondatore della Democrazia cristiana e co-fondatore del Partito Popolare, inserì una donna nei suoi organi dirigenti (Giuseppina Novi Scanni) ed invocò il suffragio femminile quando ancora pochi ne parlavano. Nel 1917, fu la giornalista americana Dorothy Day ad organizzare una protesta di fronte alla Casa Bianca, insieme ad altre 39 donne, per l’esclusione femminile dal suffragio. Si convertì al cattolicesimo nel 1927 e si oppose alla rivoluzione sessuale sessantottina. Nel 2000 è stata proclamata serva di Dio. La prima donna a far parte del Consiglio comunale di Vienna nel 1919 per il Partito Socialdemocratico, invece, fu la beata Hildegard Burjan, che l’anno seguente divenne la prima donna eletta deputata al Consiglio nazionale austriaco.

Nel 1919, don Sturzo inserì nel suo manifesto elettorale il voto femminile. Come ha scritto la femminista Giulia Galeotti, l’apertura del sacerdote «aveva alle spalle non solo la tradizione cattolica (il diritto canonico, ad esempio, per secoli è stato il solo a porre sullo stesso piano adulterio maschile e femminile), ma anche un’attività indefessa da parte delle donne cattoliche che ne aveva messo chiaramente in luce doti, capacità e valore». Seppur, certamente, vi fossero ancora perplessità da parte di tanti cattolici, ad iniziare da Pio X.

Nel saggio Il secondo sesso della madre del femminismo, Simone de Beauvoir, troviamo scritto: «Benedetto XV nel 1919 si è pronunciato in favore del voto alle donne; Mons. Baudrillart e Padre Sertillanges fanno un’ardente campagna in questo senso. Al Senato numerosi cattolici, il gruppo dell’Unione repubblicana, e d’altra parte i partiti di estrema sinistra, sono per il voto alle donne: ma la maggioranza dell’assemblea è contraria». Citando Benedetto XV, la de Beauvoir si riferisce al discorso pronunciato il 22 ottobre 1919 all’Unione delle donne cattoliche italiane

Un tema, quello del suffragio femminile, che avvicinò il cammino dei cattolici a quello dei socialisti, in Italia, in Francia e in tanti altri Paesi occidentali: «I partiti democratici occhieggiano al femminismo, si atteggiano di quando in quando a suoi paladini ma non offrono nessun contributo di pensiero e di azione organico e duraturo», si legge nella lettera aperta che nel 1919 l’Unione Femminile Nazionale italiana indirizzò all’on. Antonio Salandra. «Soltanto i partiti clericale e socialista fanno un posto alla donna anche nelle loro organizzazioni economiche e politiche».

Passando alla Spagna, tra i pionieri della lotta per l’uguaglianza femminile ci fu il devoto cattolico Manuel de Burgos y Mazo, ministro durante il regno di Alfonso XIII. Si batté per una democrazia cristiana spagnola e nel novembre 1919 presentò un progetto di legge elettorale destinato ad estendere il diritto di voto alle donne maggiorenni. Grande merito ebbe anche María Echarri, segretaria generale della Feminine Catholic Union, secondo la quale «il femminismo, possibile e ragionevole in Spagna, deve essere chiaramente cattolico». Fu una delle prime consigliere del consiglio comunale di Madrid e deputata all’Assemblea nazionale: divenne famosa per la sua “legge della sedia” che obbligò i proprietari di aziende a fornire una sedia alle donne che lavoravano in piedi poiché si riposassero e non soffrissero di problemi alle ovaie e all’utero.

Il 31 gennaio 1945 venne emesso in Italia il decreto legislativo che sancì il suffragio universale anche se non prevedeva l’eleggibilità delle donne. Tuttavia, il 21 ottobre 1945, Pio XII esorterà, senza mezzi termini, le donne a uscire dalla sfera privata: «La vostra ora è sonata, donne e giovani cattoliche; la vita pubblica ha bisogno di voi».

Ma il diritto di voto delle donne venne, non solo teorizzato, ma anche praticato addirittura nel lontano Medioevo cristiano, come già abbiamo avuto modo di segnalare. La celebre storica Régine Pernoud, infatti, ha scritto: «dall’insieme di simili documenti balza fuori un quadro che per noi presenta più d’un tratto sorprendente, dato che, per esempio, vediamo le donne votare alla pari degli uomini nelle assemblee cittadine o in quelle dei comuni rurali» (Medioevo. Un secolare pregiudizio, Bompiani 2001, p.113).

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I Comuni virtuosi che negano il patrocinio al Gay Pride 2018

«Lurido carnevale». Così lo definì Giovanni Testori, grande intellettuale (dichiaratamente gay). Per il regista Franco Zeffirelli, anch’egli omosessuale, si tratta invece di «esibizioni veramente oscene». Parliamo del Gay Pride, la noiosa sagra dell’arcobaleno fintamente felice, che genera lacerazioni sociali ovunque si svolga ed è avversato, sopratutto, dalle stesse persone omosessuali.

Il motivo è spiegato da Sandro Mangano, presidente dei “gay liberali italiani” (GayLib): «Essere omosessuale non vuol dire essere un pagliaccio. Sono contro le carnelavate. Pride significa orgoglio, e penso e con me molti altri, che c’è ben poco da essere orgogliosi in una giornata di sfilate alla brasiliana. Cosa si trasmette? Nulla. Anzi si alimentano critiche». E, stereotipi.

Anche per questo sono sempre più numerosi i sindaci italiani, di destra o di sinistra, che rifiutano di concedere sostegni ufficiali e patrocini all’OndaPride. A Genova, il sindaco Marco Bucci (centrodestra) ha negato quest’anno per la prima volta il sostegno comunale al Gay Pride, concedendolo solo ad «iniziative non divisive per la cittadinanza o comunque non offensive». In linea con il Comune, anche la Regione Liguria ha negato il patrocinio poiché «evento non in linea con le nostre politiche sulla famiglia», come affermato il governatore Giovanni Toti (Forza Italia). Anche la Regione Lombardia, attraverso il governatore Attilio Fontana (Lega), ha confermato la sua estraneità all’evento, preferendo sostenere il Family Day poiché «tutti riconoscono il valore della famiglia. E’ nella Costituzione ed uno dei fondamenti della nostra civiltà».

Il Comune di Perugia è in rotta di collisione con l’associazionismo Lgbt locale, sopratutto in conseguenza di una locandina blasfema realizzata da Omphalos. «Un grave episodio che non può essere banalizzato, in quanto come è dovuto il rispetto per le persone indipendentemente dall’orientamento sessuale, parimenti è dovuto il rispetto per il loro credo religioso», ha spiegato l’assessore Francesco Calabrese (Forza Italia). «E’ per queste ragioni che si è deciso di non patrocinare altri eventi di Omphalos, ossia per mettere la città al riparo da iniziative volutamente provocatorie ed offensive del credo di molti».

A Trento, il presidente della Provincia, Ugo Rossi (centrosinistra/PD), ha definito il Gay Pride «una parata folkloristica ed esibizionistica che non dà un contributo alla società trentina», negando il patrocinio al Dolomiti Pride. Le stesse parole sono state utilizzate anche dal sindaco di Novara, Alessandro Canelli (Lega), mentre rifiutava il patrocinio e la collaborazione economica al Novara Pride: «una manifestazione di tipo simbolico-folkloristico che non può apportare il giusto contributo alla crescita e alla consapevolezza su problemi di questo tipo».

Stesso discorso a Rovereto, dove il sindaco Francesco Valduga (lista civica) ha dichiarato di nutrire perplessità quando «si nega l’esistenza della famiglia tradizionale, sulle modalità con le quali viene argomentato il tema delle adozioni e della paternità e maternità nelle coppie omogenitoriali». Ancora non si hanno notizie di Firenze, il sindaco Dario Nardella (PD) aveva infatti negato il sostegno comunale al Gay Pride per il 2016 e il 2017.

Se qualche anno fa il leader di Forza Italia sosteneva che la rivendicazione Lgbt è «una battaglia che in un paese moderno e democratico dovrebbe essere un impegno di tutti», oggi il Corriere della Sera è preoccupato ed osserva che «le argomentazioni di chi nega i patrocini ai Gay pride del 2018 sono probabilmente la spia di una nuova stagione». Certamente più sana e moderna, checché ne dicano Berlusconi&Pascale.

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Il 20% degli atei prega Dio. E’ la realtà che vince sul pregiudizio.

Sono due i motivi per cui non sono affatto sorprendenti i risultati di uno studio britannico secondo cui un adulto su cinque prega Dio nonostante abbia affermato di non essere credente/religioso. Per molti si tratta di un gesto dettato da un profondo momento di crisi: «Per favore, Dio».

Il primo motivo è che si tratta di un fenomeno già noto, nel 2004, infatti, è emerso dal Pew Research Center che tra coloro che si definiscono “atei” e “agnostici”, il 38% crede in Dio (o in uno spirito universale), di cui il 9% è assolutamente certo della Sua esistenza. Tra i “non religiosi”, invece, l’81% crede in Dio, di cui il 39% è assolutamente certo. Il 6% degli “atei”, inoltre, afferma di pregare ogni giorno e l‘11% lo fa saltuariamente. Il recente studio, invece, è stato condotto da ComRes.

Dove sarebbe la sorpresa? Sbaglia profondamente chi volesse cogliere l’occasione per ironizzare sulla presunta incoerenza delle persone non credenti (anche se, a parti invertite, molte di loro non si sarebbero certamente risparmiate), piuttosto è interessante notare che in gran parte sono le circostanze negative della vita a scuotere l’animo anche di chi non crede. E nemmeno questo è sorprendente (ecco il secondo motivo).

Quando tutto nella vita gira alla grande è facile percepirsi autosufficienti, emancipati, indipendenti, dèi di noi stessi e della realtà. Certo, dopo il primo picco di entusiasmo per le cose che finalmente scorrono bene, l’aridità, l’insoddisfazione e la noia sono sempre in agguato e, forse, sono la salvezza che ci riporta con i piedi per terra. Ma per lo più sono la tragedia, la sofferenza, la crisi a far davvero conoscere all’uomo la propria impotenza, finitezza, la sua piccolezza e sproporzione. Il suo bisogno di Qualcuno che intervenga nella vita per salvarla, quel misterioso Bene che chiunque- se è onesto con se stesso- percepisce. E l’uomo è sempre onesto di fronte al dolore.

L’ateismo è più sulle labbra che nel cuore, le circostanze sfavorevoli della vita sono per questo un dono, un’àncora di salvezza poiché altro non fanno che far emergere il bisogno di Infinito presente in ogni uomo. Davanti alla sofferenza, finalmente crollano le incrostazioni ideologiche, i discorsi teologici e ateologici, i pregiudizi di sempre. «Inquietudine, insoddisfazione, desiderio, impossibilità di acquietarsi nelle mete raggiunte: queste sono le parole che definiscono l’uomo e la legge più vera della sua razionalità. Egli avverte un’ansia di ricerca continua, che vada sempre più in là, sempre oltre ciò che è stato raggiunto. Dio, l’infinito, si è calato nella nostra finitudine per poter essere percepito dai nostri sensi, e così l’infinito ha “raggiunto” la ricerca razionale dell’uomo finito» (Benedetto XVI, Messaggio al 27° Meeting per l’amicizia fra i popoli, 21/08/06).

La redazione

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Il card. Sgreccia, un “eretico”? «Le eccezioni di Amoris Laetitia in linea con Familiaris Consortio»

Abbiamo atteso qualche giorno prima di commentare la notizia, indecisi su come avrebbero reagito i nostri amici tradizionalisti alle parole del card. Elio Sgreccia, che recentemente ha lodato il pontificato di Francesco e l’esortazione apostolica Amoris laetitia, vedendovi non un eresia ma una netta continuità con la Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II. Un altro papolatra?

Permetteteci una piccola e pungente premessa: l’informatissima galassia antipapista ha salvato mons. Sgreccia da attacchi irrispettosi, preferendo l’assoluto silenzio. L’ex presidente della Pontificia Accademia per la Vita non è solo giustamente ammirato dal mondo cattolico, ma è perfino idolatrato dal tradizionalismo italiano, sopratutto dopo la nomina bergogliana del successore mons. Vincenzo Paglia. Il giornalista Socci non ha urlato alcuna profezia di imminenti catastrofi, Marco Tosatti non ha pubblicato repliche anonime di qualche suo amico lefebvriano, Sandro Magister ci ha risparmiato la classifica dei super-teologi nemici di AL e nessuno ha visto Roberto De Mattei partecipare a messe riparatrici, proprio lui che contro l’esortazione apostolica aveva coordinato un gruppetto di professori anticonciliaristi e i sedevacantisti della Fraternità San Pio X. Se Giuseppe Rusconi ci ricorda che «mons. Sgreccia ha collaborato a lungo con Joseph Ratzinger», il solerte Riccardo Cascioli ci informa che si tratta di una «personalità cattolica di indubbia ortodossia». Insomma, le recenti parole del più autorevole interprete della bioetica cattolica europea a favore della “eretica” Amoris Laetitia sono una doccia fredda per i blogger antipapisti: silenzio stampa (stesso significativo silenzio all’estero, a partire dal combattivo portale Lifenews). Chiusa premessa.

Nella sua intervista per Avvenire, il card. Elio Sgreccia ha criticato le osservazioni del filosofo Giuseppe Fornero, per il quale il Papa attuale ci avrebbe obbligato a superare i “paradigmi cattolico-laico” in campo bioetico. «Non condivido questa sua interpretazione del pensiero di papa Francesco», ha commentato Sgreccia, «e gli ho inviato tutta una serie di affermazioni secondo le quali il Santo Padre ribadisce nell’Amoris Laetitia che la dottrina non cambia e che i due Sinodi non hanno inteso cambiare la dottrina».

Certo, l’esortazione apostolica individua circostanze attenuanti per i divorziati risposati, che già il filosofo woytliano Rocco Buttiglione (nel suo libro Risposte amichevoli ai critici di Amoris Laetitia), supportato dalla prefazione dell’ex prefetto card. Gerhard Ludwig Müller, ha commentato così: «Esistono quindi alcuni casi nei quali dei divorziati risposati possono (dal confessore e dopo un adeguato discernimento spirituale) essere considerati in grazia di Dio e quindi meritevoli di ricevere i sacramenti. Sembra una novità sconvolgente ma è una dottrina interamente, oserei dire graniticamente tradizionale. Anche se i casi fossero pochissimi i passi incriminati di Amoris Laetitia sarebbero perfettamente ortodossi e gravissima sarebbe la colpa di coloro che hanno accusato di eresia il Papa : calunnia, scisma ed eresia». Tali circostanze attenuanti sono la mancanza di piena avvertenza e deliberato consenso. Lo stesso card. Müller, firmando il libro, ha osservato: «È possibile che il penitente sia convinto in coscienza, e con buone ragioni, della invalidità del primo matrimonio pur non potendone offrire la prova canonica. In questo caso il matrimonio valido davanti a Dio sarebbe il secondo e il pastore potrebbe concedere il sacramento, certo con le precauzioni opportune per non scandalizzare la comunità dei fedeli e non indebolire la convinzione nella indissolubilità del matrimonio».

Il card. Sgreccia si unisce oggi a Buttiglione e Müller, considerando che «il Papa intende chiedere alla Chiesa di essere vicina anche ai divorziati e ai risposati per dire loro che la Chiesa non li abbandona e che ove e quando si presentano le condizioni di vita, concede loro anche i sacramenti ove si presentano le condizioni ammesse e note anche nella “Familiaris Consortio” di Giovanni Paolo II. Questa di papa Francesco è una metodologia pastorale che mira ad accompagnare i fedeli, non a negare i danni del divorzio, ma a ripararli quando si potrà, se non altro in punto di morte». Così, il bioeticista stimato da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI vede quella di Papa Bergoglio «una metodologia pastorale che non smentisce la verità, ma accompagna la fede e cerca di praticare la verità. Questo mi impedisce di assumere toni critici verso il Santo Padre e mi induce spesso a usare lo stesso metodo con famiglie ferite dalle separazioni e in cammino faticoso nella riconciliazione con Dio, nella educazione dei figli e nell’attesa di quel “meglio” che ognuno di noi ha sempre di fronte. Per questo sono grato a papa Francesco, per quello che insegna, senza cambiare la serietà e la verità del patto coniugale e del sacramento».

La redazione

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L’Unione scienziati cattolici: già iscritti illustri nomi della scienza mondiale

Oggi sono circa 700. Parliamo degli scienziati professionisti cattolici che in due anni hanno aderito alla Society of Catholic Scientists (Unione di scienziati cattolici), fondata nel 2016 negli Stati Uniti.

Lo scopo è promuovere la fratellanza spirituale e intellettuale tra persone di fede che lavorano nelle scienze naturali e mostrare l’armonia tra fede e scienza in un’epoca in cui molti ne dubitano.

L’associazione è stata ufficialmente riconosciuta dalla Conferenza episcopale statunitense e  l’attuale presidente, nonché uno dei fondatori, è il dott. Stephen M. Barr, esperto di fisica delle particelle ed eminente professore di Fisica e Astronomia presso l’Università di Delaware.

Un secondo fondatore è l’attuale vicepresidente, il fisico Jonathan I. Lunine, docente alla Cornell University dove è anche direttore del Center for Radiophysics and Space Research. Lunine è un’autorità internazionale sui pianeti abitabili extraterrestri ed è membro delle principali società scientifiche, convertitosi al cattolicesimo nel 2007 grazie, come ha dichiarato, «alla profondità del pensiero cattolico sulle più profonde questioni che noi umani ci possiamo porre, ma sopratutto l’aver conosciuto i fratelli ed i padri gesuiti dell’Osservatorio Vaticano, il cui impegno di vita tra fede e scienza mi commuove ogni volta che ci penso. La scienza crea un’altra via attraverso cui provare gratitudine verso il Creatore».

Altri nomi importanti nel consiglio di amministrazione sono quelli di Karin I. Öberg, docente di Astrochimica presso l’Università di Harvard; Robert Scherrer, presidente del Dipartimento di Fisica e Astronomia presso la Vanderbilt University; Stephen Meredith, professore di Patologia presso l’Università di Chicago; Martin A. Nowak, professore di Biologia e Matematica presso l’Università di Harvard, dov’è direttore del programma di Evolutionary Dynamics. Ogni giorno arrivano nuove iscrizioni e possono associarsi anche scienziati cattolici al di fuori degli USA.

Alla Conferenza annuale del 2018, che si terrà dall’8 al 10 giugno presso la Catholic Unversity of America, interverrà, tra gli altri, un altro celebre fisico, l’argentino Juan Martín Maldacena, docente presso l’Institute of Advanced Studies dell’Università di Princeton. Maldacena è tra i maggiori esperti della cosiddetta teoria delle stringhe ed è autore della scoperta nota, appunto, come “congettura di Maldacena”. Si dichiara cattolico praticante ed è membro della Pontificia Accademia delle Scienze.

Molti di questi nomi sono già presenti nel nostro dossier sui principali scienziati credenti. Il futuro della SCS ci appare roseo per due ragioni. La prima è la grande attenzione mostrata verso i giovani studenti cattolici, invitati e coinvolti attivamente sia nella preparazione dell’annuale conferenza che nel board di amministrazione. Inoltre, le stesse conferenze trattano tematiche concrete (non i fumosi e teorici rapporti tra scienza e fede): le Origini dell’Universo, nel 2017, ed il Fisicalismo e la mente umana, nel 2018. Coinvolgendo, inoltre, oratori non cattolici.

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Cosa ci fa un crocifisso sul petto di Toro Seduto?

Il famoso capo indiano Toro Seduto fu il leggendario leader dei Lakota Sioux, una figura nota nella storia del selvaggio West. Di lui si conosce la stoica resistenza contro i cowboy statunitensi e la sua sfortunata morte. Quel che pochi sanno è che Toro Seduto indossava sempre un crocifisso al collo.

E’ la storia di un’amicizia, che esemplifica il modo più classico di come si è trasmessa l’esperienza cristiana nei secoli. Non attraverso grandi discorsi o convincimenti filosofici, ma dalla stima per l’altro, dallo stupore per uno sguardo nuovo, diverso. Felice.

Tutto nasce dal grande lavoro svolto da parte dei missionari cattolici in difesa dei popoli indiani dai colonialisti, seminando la pace ed insegnando una pacifica convivenza tra le varie tribù pellerossa. Il più famoso tra questi sacerdoti fu il gesuita Pierre-Jean De Smet, grande amico di Toro Seduto e uno dei pochi bianchi che potevano recarsi nei territori Sioux. Le popolazioni native ammiravano molto le “toghe nere”, come chiamavano i missionari cattolici. De Smet incontrò per la prima volta Toro Seduto nel 1848, il vescovo Thomas O’Gorman ha scritto nel 1904: «Padre De Smet ha lasciato una registrazione completa di quella sua prima visita nell’estate del 1848, annotando che si recò lì in modo transitorio poiché desiderava raggiungere alcune tribù dei Sioux, nell’alto Missouri, nelle lontane montagne rocciose».

Toro Seduto aveva più di una moglie e questo fu un ostacolo alla sua accettazione della fede cattolica. Tuttavia intrattenne una profonda amicizia con padre De Smet. Fu quest’ultimo a fare da mediatore e convincere i Sioux, per la loro salvaguardia, a firmare il famoso trattato di pace di Fort Laramie con gli Stati Uniti. Tanto che il generale Stanley osservò: «solo padre De Smet, nell’intera razza bianca, poteva penetrare tra crudeli selvaggi e ritornare sano e salvo».

Come segno di stima reciproca, padre De Smet regalò il suo crocifisso a Toro Seduto nel 1868 e il capo indiano non se lo tolse più. Con esso volle farsi raffigurare nel suo ritratto più famoso, quello del 1885. Sullo sfondo si intravede un teschio, a conferma che era il tipico crocifisso dei missionari gesuiti. E’ il simbolo del Calvario, cioè il luogo dove Gesù venne crocifisso, che in latino significa “luogo del cranio”. 

La redazione

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Crolla il protestantesimo negli Usa: l’errore di conformarsi al mondo

Secondo un recente sondaggio, il protestantesimo sta letteralmente crollando negli Stati Uniti, lasciando campo a chi si definisce “senza religione”. Il numero dei cattolici, al contrario, rimane stabile. Un segnale forte al progressismo cattolico che vorrebbe aprirsi al mondo seguendo l’esempio della confessione protestante.

Il calo del protestantesimo americano di ben 14 punti in 12 anni è stato rilevato da ABC/WashingtonPost, corrispondente ad un aumento di 9 punti dei no religion ed un mantenimento dei cattolici attorno al 22%. Anzi, secondo altri report, il numero dei cittadini statunitensi che si definiscono cattolici è in costante aumento: da 48,5 milioni del 1965 ai 76,7 milioni nel 2014.

Certamente tali numeri, per quanto riguarda il cattolicesimo, devono molto all’influenza ispanica. Tuttavia, se si osserva nel dettaglio, anche tra gli statunitensi non ispanici la percentuale di cattolici è rimasta pressoché costante negli ultimi 12 anni: il 22% nel 2003 ed il 20% del 2018.

Nel 2014, commentando le idee del figlio spirituale del card. Martini, il teologo Vito Mancuso (La Chiesa è indietro, deve adeguarsi al mondo!), spiegavamo come i fratelli protestanti -da quando si sono emancipati dalla successione apostolica-, hanno cercato di conformarsi al mondo secolare, annacquando la dottrina cristiana per renderla più digeribile agli uomini moderni. Una scelta distruttiva, non solo per gli abbandoni ma anche per proliferare di centinaia di altri piccoli protestantesimi, separati gli uni dagli altri. Anche nel 2015 facevamo presente tale realtà, commentando: è l’uomo che vuole una vita vera che è chiamato a cambiare se stesso abbracciando coerentemente la proposta cristiana. La Chiesa, al contrario, rimane la stessa e si sforza il più possibile di trovare un linguaggio nuovo (come chiede l’attuale pontefice) per comunicare la stessa dottrina.

Interessante il commento del vescovo americano Thomas J. Tobin: «Alcuni dicono che la Chiesa cattolica, per sopravvivere, debba diventare più simile ai protestanti (per esempio: preti sposati, donne sacerdotesse, aborto, matrimoni omosessuali). Un nuovo sondaggio ha invece mostrato che i fedeli protestanti sono diminuiti del 14% negli ultimi 15 anni! I cattolici dovrebbero osservare meglio prima di agire».

Mons. Tobin è in linea con quanto afferma spesso Papa Francesco, sopratutto nelle sue omelie del mattino: «Mettiamo all’asta la nostra carta d’identità; siamo uguali a tutti. La mondanità ti porta al pensiero unico e all’apostasia», ha denunciato Bergoglio. «Questo è l’inganno della mondanità, e per questo Gesù chiedeva al Padre, in quella cena: “Padre, non ti chiedo che di toglierli dal mondo, ma custodiscili dal mondo“, da questa mentalità, da questo umanismo, che viene a prendere il posto dell’uomo vero, Gesù Cristo, che viene a toglierci l’identità cristiana e ci porta al pensiero unico: “Tutti fanno così, perché noi no?”. Chiediamo al Signore per la Chiesa, perché il Signore la custodisca da ogni forma di mondanità. Che la Chiesa sempre abbia l’identità disposta da Gesù Cristo; che tutti noi abbiamo l’identità che abbiamo ricevuto nel battesimo, e che questa identità per voler essere come tutti, per motivi di “normalità”, non venga buttata fuori. Che il Signore ci dia la grazia di mantenere e custodire la nostra identità cristiana contro lo spirito di mondanità che sempre cresce, si giustifica e contagia».

La redazione

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La prima fonte su Gesù di Nazareth? Risale al 30 d.C.

I quattro Vangeli sono inattendibili essendo stati redatti a molti anni di distanza dai fatti che pretendono narrare. Così si sente dire spesso, ma è un’affermazione falsa. Vediamo perché.

Innanzitutto più volte abbiamo sottolineato che le informazioni su Gesù di Nazareth sono più numerose e vicine ai fatti raccontati rispetto a moltissimi altri personaggi storici, come Giulio Cesare, Adriano, Marco Aurelio, Giuseppe Flavio, Socrate, Alessandro Magno ecc. Tanto che il celebre studioso John Robinson ha commentato: «La ricchezza dei manoscritti, e, soprattutto, lo stretto intervallo di tempo tra la scrittura e le prime copie esistenti, di gran lunga fanno dei Vangeli il miglior documentato testo di qualsiasi scritto antico della storia» (Can we Trust the New Testament?, Grand Rapids 1977, p. 36).

In secondo luogo, gli evangelisti hanno tratto gran parte delle informazioni da fonti pre-sinottiche (orali e scritte), in circolazione già pochi anni dopo la morte di Gesù. «Alcuni discepoli di Gesù», ha aggiunto il principale biblista vivente, John P. Meier, «possono aver cominciato a raccogliere e sistemare detti di Gesù anche prima della sua morte» (Un ebreo marginale, Vol. 1, Queriniana 2006, p. 157).

Ma c’è un altro argomento su cui vorremmo soffermarci più dettagliatamente: le lettere di San Paolo scritte, come tutti sanno, precedentemente ai Vangeli. In particolare, la Prima Lettera ai Corinzi è stata composta nel 50-55 d.C., dunque soltanto circa vent’anni dopo la crocifissione del Cristo. In essa sono già presenti tutti i “dati salienti del cristianesimo”: è morto per i nostri peccati; fu seppellito ed è risorto il terzo giorno; apparve a Pietro, e poi ai Dodici; apparve a più di cinquecento fratelli; apparve a Giacomo, poi a tutti gli apostoli; per ultimo è apparso anche a Paolo stesso.

In questa lettera Paolo afferma di voler trasmettere ai lettori quel che lui stesso ha ricevuto (παραλαμβάνω) direttamente dai discepoli. Il defunto ebreo ortodosso Pinchas Lapide rimase così impressionato da tale lettera (il capitolo 15, in particolare) che la definì «una formula di fede che può essere considerata come una dichiarazione di testimonianza oculare» (The Resurrection of Jesus: A Jewish Perspective, Ausburg 1983, p. 98-99). Il biblista Richard Bauckham, dell’Università di Leeds, ha sottolineato che il termine “testimonianza oculare” «non ha significato forense, ma significa osservatori di prima mano di quegli eventi». Ovvero, Paolo è entrato in contatto con «informatori che parlavano per conoscenza diretta» (Jesus and the Eyewitnesses, William B. Eerdmans Publishing Company 2006).

Anche gli studiosi più critici sono concordi che ciò che Paolo sta trasmettendo lo ha appreso nell’imminenza dei fatti descritti. Lo studioso non credente Gerd Lüdemann ha affermato: «gli elementi della tradizione citati da Paolo devono essere datati ai primi due anni dopo la crocifissione di Gesù, non più tardi di tre anni. La formazione delle tradizioni di apparizione menzionate in 1 Cor. 15,3-8, cade tra il 30 e il 33 d.C.» (The Resurrection of Jesus Christ: A Historical Inquiry, Promethus 2004, p. 38). L’agnostico Bart. D. Ehrman ha scritto: «Paolo deve aver incontrato Cefa e Giacomo tre anni dopo la sua conversione, ricevendo le tradizioni che riportò nelle sue lettere, verso la metà degli anni Trenta, diciamo nel 35 o nel 36. Le tradizioni che ereditò erano, ovviamente, più vecchie e risalivano probabilmente a un paio d’anni circa dopo la morte di Gesù. Ciò dimostra in modo lampante quanto fosse di pubblico dominio, immediatamente dopo la data tradizionale del suo decesso o quasi, che Gesù fosse vissuto e morto (Did Jesus Exist? HarperCollins Publishers 2012, p. 132). Lo stesso affermano studiosi del calibro di John Dominic Crossan, EP Sanders, Gary Habermas, Ulrich Wilckens, Joachim Jeremias, Robert Funk («La convinzione che Gesù fosse risorto dai morti aveva già messo radici nel momento in cui Paolo si convertì intorno al 33 d.C. Dato che Gesù morì verso il 30 d.C., il tempo per il loro sviluppo era quindi di due o tre anni al massimo», What Did Jesus Really Do?, Polebridge Press 1996).

Tutto questo attesta una semplice verità: il contenuto dei Vangeli (compresa passione, morte e resurrezione di Cristo) era già noto, diffuso e discusso appena dopo la morte in croce di Gesù. Quando tutti i testimoni oculari (amici e nemici dei Dodici apostoli) erano ancora vivi e potevano smentire tali racconti, se fossero stati falsi o alterati. Il Sinedrio e i nemici di Cristo, se avessero voluto, avrebbero taciuto immediatamente i suoi seguaci…ma nessuna fonte ebraica o romana riporta nulla del genere. Anzi, fonti non cristiane come Giuseppe Flavio, confermano i contenuti evangelici.

Lasciamo la conclusione al già citato non credente Bart D. Ehrman, ricercatore dell’Università della Carolina del Nord: «Non dobbiamo attendere il Vangelo di Marco, datato attorno all’anno 70, per sentir parlare del Gesù storico. La prova, che traiamo dagli scritti di Paolo, combacia perfettamente con i dati forniti dalle tradizioni evangeliche, le cui fonti orali risalgono quasi certamente alla Palestina romana degli anni Trenta del I secolo. Paolo dimostra che, a pochi anni di distanza dal periodo in cui era vissuto Gesù, i suoi seguaci discutevano di quanto aveva detto, fatto e vissuto il maestro ebreo palestinese che era stato crocifisso dai romani su istigazione delle autorità ebraiche. E’ una straordinaria convergenza di prove: le fonti evangeliche e i resoconti del nostro primo autore cristiano. E’ difficile spiegare tale convergenza se non dando per certa l’esistenza di Gesù» (Did Jesus Exist? HarperCollins Publishers 2012, p. 132, 133).

La redazione

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