L’aborto e la probabilità di infezioni all’utero: rassegna scientifica

Infezioni all’utero dovute all’aborto. L’interruzione di gravidanza comporta numerose e possibili conseguenze per la donna, tra le quali danni cronici all’utero. Ecco una raccolta di studi scientifici che lo provano.


Uno sguardo attento e oggettivo della letteratura scientifica porta a concludere che la donna che si sottopone all’interruzione di gravidanza avrà un rischio maggiore di soffrire di depressione e traumi emozionali nel post-aborto, un aumentato rischio di placenta previa, di mortalità materna, di cancro al seno, di nascite premature e aborti spontanei.

Oltre a ciò, una discreta mole di ricerca indica anche l’aumento del rischio di danni (anche cronici) all’utero. Elenchiamo qui sotto alcuni degli studi che lo dimostrano (l’elenco è in costante aggiornamento).

 

 

ELENCO DI STUDI SCIENTIFICI SU ABORTO E INFEZIONI ALL’UTERO

 

Il 15 novembre 1984 l’American Journal of Obstetrics and Gynecology ha pubblicato un articolo intitolato “Pelvic infection is a common and serious complication of induced abortion and has been reported in up to 30% of all cases.” L’articolo riconosce che l’infezione pelvica è una complicanza frequente e grave dell’aborto indotto (30% dei casi). I rischi che ne conseguono riguardano l’infertilità futura, dolore cronico addominale o una gravidanza ectopica[1].

 
Nel numero di agosto dell’anno 1989 dell’American Journal of Obstetrics and Gynecology, un articolo intitolato “The frequency and management of uterine perforations during first-trimester abortions”, tre noti abortisti hanno riconosciuto che le perforazioni uterine durante gli aborti di routine nel primo trimestre avvengono sette volte di più di quanto si pensasse. E concludono: «Maggior parte delle perforazioni uterine non vengono riconosciute e trattate». Queste perforazioni sono pericolose non solo perché possono provocare emorragie interne letali, ma anche perché lasciano un tessuto cicatriziale nel grembo materno che ostacola una successiva gravidanza. L’articolo stima che circa il 2% di tutti gli aborti durante il primo trimestre di gravidanza provocano perforazioni all’utero[2].

 
Sempre nel 1989 sul “British Journal of Cancer” è stato pubblicato uno studio realizzato da ricercatori italiani dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano, nel quale si riconosce che i casi di neoplasie della cervice uterina, cioè l’insieme di tumori che colpiscono il collo dell’utero delle donne, tende a presentarsi più frequentemente in seguito ad aborti indotti[3].

 
Nel marzo 2002 su The Lancet viene pubblicato uno studio scientifico che dimostra come un uso prolungato di contraccettivi orali possa essere un cofattore che aumenta il rischio di carcinoma della cervice uterina[4].

 
Nell’aprile 2003 su The Lancet è apparso uno studio scientifico realizzato dall’International Agency for Research on Cancer di Lione, nel quale si conferma che l’uso prolungato di contraccettivi ormonali è associato ad un aumentato rischio di cancro cervicale[5].

 
Il 6 gennaio 2007 lo scrittore Antonio Socci ha riportato sul quotidiano “Libero” le parole della dottoressa Kustermann, storica ginecologa abortista e primario di ostetricia e ginecologia della Mangiagalli di Milano, pubblicate sulla rivista laicista “Micromega”. La Kustermann riconosce: «l’aborto chirurgico legale presenta un rischio del 4 per cento di complicazioni più o meno gravi, che vanno dalla necessità di ripetere l’intervento, all’emorragia, alla perforazione dell’utero, all’infezione dell’utero che si manifesta nei giorni seguenti con febbre alta e dolori intensi. Quindi permangono dei rischi che possono determinare anche conseguenze di lungo periodo per la donna: per esempio un’infezione grave o una perforazione uterina che può determinare una sterilità permanente»[6].

 
Nel dicembre 2011, sulla rivista “Acta et Obstetricia Gynecologica Scandinavica” è stato dimostrato un legame significativo tra un aborto indotto precedentemente e l’aumento del rischio di isterectomia post-partum. Le donne sono state seguite dal gennaio 2003 ad ottobre 2009[7].

 
Sempre nel dicembre 2011, la rivista “Contraception” ha pubblicato uno studio basato su 4.931 donne che hanno abortito con la RU486 (ovvero con lo steroide mifepristone). Queste sono state messe a confronto con 4.925 donne senza una storia di aborto indotto e 4.800 donne con un precedente aborto chirurgico e le hanno seguite durante la gravidanza e il parto. Le donne con un precedente aborto farmacologico (RU486) avevano un più alto rischio di sanguinamento vaginale rispetto a coloro che non avevano mai abortito. Il rischio era tuttavia simile a coloro che avevano un precedente aborto chirurgico[8].

 

 

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NOTE
[1]^ http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/6541876
[2]^ http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/2527465
[3]^ http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2247205/
[4]^ http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/11943255
[5]^ http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12686037
[6]^ http://www.kattoliko.it/leggendanera/modules.php?name=News&file=article&sid=1929
[7]^ Ultimissima 5/01/12
[8]^ Ultimissima 5/01/12

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