Il Comitato nazionale di Bioetica riconosce l’obiezione di coscienza dei farmacisti

Il Comitato nazionale per la Bioetica (Cnb) si pronuncia a favore dell’obiezione di coscienza dei farmacisti che non vogliono dare la pillola del giorno dopo, ma al contempo chiede che le autorità competenti provvedano a tutelare anche il diritto di chi richiede quel prodotto. Questa la posizione espressa in un documento del 25 febbraio. «A fronte dell’ipotesi che il legislatore riconosca il diritto all’obiezione di coscienza del farmacista e degli ausiliari di farmacia – si legge in una nota del Comitato – i componenti del Cnb si sono trovati d’accordo che, nel rispetto dei principi costituzionali, si debbano considerare e garantire gli interessi di tutti i soggetti coinvolti. Presupposto necessario e indispensabile per l’eventuale riconoscimento legale dell’obiezione di coscienza è, dunque, che la donna debba avere in ogni caso la possibilità di ottenere altrimenti la realizzazione della propria richiesta farmacologia e che spetti alle istituzioni e alle autorità competenti prevedere i sistemi più adeguati nell’esplicitazione degli strumenti necessari e delle figure responsabili per la attuazione di questo diritto». Come ha riferito il vicepresidente del Cnb, Lorenzo D’Avack, «è emersa una maggioranza a favore dell’obiezione di coscienza per i farmacisti. In via generale dunque il Cnb ha riconosciuto che l’obiezione di coscienza ha un fondamento costituzionale nel diritto generale alla libertà religiosa e alla libertà di coscienza». Il farmacista ha dunque un ruolo ritenuto riconducibile a quello degli operatori sanitari e deve necessariamente essere riconosciuta anche a questa categoria professionale il diritto all’obiezione. La notizia è riportata su Avvenire. Depressione invece per il senatore radicale Marco Perducasi, che oltre a voler impedire la libertà dei farmacisti, sostiene che questa decisione si «prefigura come vera e propria istigazione all’aborto». Che non sarebbe neppure tanto male, tra l’altro. Ricordiamo che il 12 ottobre scorso, il Consiglio d’Europa ha riconosciuto l’obiezione di coscienza per i medici (cfr. Ultimissima 12/10/10).

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L’American Psychologist promuove l’attività religiosa per curare disurbi mentali

I disturbi mentali, compresa la depressione e l’ansia, possono essere curati e trattati anche con cambiamenti dello stile di vita, determinati anche per la guarigione di malattie come il diabete e l’obesità. Lo stabilisce Roger Walsh, psicologo della University of California e dell’Irvine’s College of Medicine. Walsh ha studiato gli effetti di quella che è chiamato il “Therapeutic Lifestyle Changes” o TLC (cioè il “cambiamento di vita terapeutico”). Il suo lavoro è stato pubblicato sull’American Psychologist, prestigiosa rivista dell’American Psychological Association (APA). «Cambiare lo stile di vita può offrire notevoli vantaggi terapeutici», afferma il ricercatore. Gli stili di vita presi in considerazione, associati a una maggior sanità psicofisica e  alleati alla guerra verso la depressione e l’ansia, sono: l’esercizio fisico, una dieta ricche di verdure, frutta e pesce, il contatto con la natura, buone relazioni interpersonali e il coinvolgimento religioso e spirituale. Rispetto a quest’ultimo, lo psicologo afferma che «aiuta a ridurre l’ansia, la depressione e l’abuso di sostanze stupefacenti, promuovendo uno stato di benessere». Sopratutto se ci si concentra sull’amore, sul perdono e sull’altruismo, cioè un’estrema sintesi del messaggio cristiano. La raccomandazione che l’American Psychologist fa ai terapeuti, in seguito a questo studio, è di «imparare sempre più i benefici del TLC e dedicare più tempo a promuoverlo tra i pazienti». Questo studio conferma un’infinità di precedenti ricerche (le stiamo raccogliendo in un’unica sezione) che dimostrano come la fede religiosa sia determinante per un sano sviluppo psicofisico. La notizia è apparsa oggi su ScienceDaily.

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Senza Dio, in base a che cosa si giudica il “bene” o il “male”?

Su Il Foglio del 23/12/10 è apparso un articolo molto interessante intitolato: «Dopo Auschwitz è possibile credere in Dio?». E’ un ritornello che si sente spesso recitare. Eppure Severino Boezio, filosofo romano, rispondeva in questo modo: «da dove i mali, se Dio c’è? Ma se non c’è, da dove il Bene?». Come a dire -continua l’articolo- che postulare come inesistente Dio, non solo non risolve il problema del bene e del male, ma lo aggrava: se Dio non esiste, infatti, è la distinzione stessa tra bene e male che cade, come il relativismo insegna. L’ateo assoluto, intransigente, può infatti giustificare, al più, l’esistenza del male fisico, come effetto di una imperfezione insita nella casualità della natura, ma non può neppure discutere, se è coerente, sul bene e sul male morali. Odi, omicidi, guerre ecc.: in base a quale principio questi eventi “naturali” sarebbero un male morale, se Dio non esiste? Lo sterminio degli ebrei e dei polacchi fu stabilito da un potere umano “legittimo”. Come ritenerlo iniquo, se quel potere non fosse giudicabile da un altro Potere, da una Giustizia ad esso superiore? Ecco perché per condannare Auschwitz, in verità, bisogna non essere del tutto relativisti e credere ancora ad una natura umana non puramente materiale (altrimenti perché Auschwitz piuttosto che una tonnara?), alla Verità, alla Giustizia, cioè a qualcosa di metastorico, eterno, divino. Ma dal momento che i gulag vengono prima dei lager (e non hanno nulla da invidiare ad essi), perché nessun teorico dell’ateismo si domanda: «E dopo Arcipelago Gulag, come credere in Dio?». Forse perché è chiara a tutti l’essenza profondamente atea del comunismo? Forse perché è noto che molti degli oppositori al sistema dei gulag, da Solgenicyn in Urss, a Valladares a Cuba, sino a Harry Wu e Liu Xiaobo, in Cina, sono o sono stati credenti? Ecco che le vicende del Novecento, cioè del secolo più ateo, violento e sanguinoso della storia, se guardate con occhio sincero, svelano che in verità, dopo i gulag e i lager, non è più possibile credere, anzitutto, all’uomo, soprattutto all’uomo che si erge a Salvatore e che tenta di costruire una società  eliminando Dio.

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Morta l’attrice Jane Russell, da sex simbol abortista a pro-life cristiana

Il 28/2/11 è morta in seguito ad una crisi respiratoria l’attrice Jane Russell, considerata una delle più famose sex symbol del cinema hollywoodiano. Ridisegnò il concetto di sensualità fino a divenire una celebre pin-up degli anni ’40 e ’50. Raggiunse l’apice della popolarità con la commedia “Gli uomini preferiscono le bionde” (1953), formando una accoppiata vincente con Marilyn Monroe. Più volte raccontò di essere “incapace di sopportare i bambini”. Ha sempre condotto uno stile di vita un pò selvaggio, divorziando per ben tre volte. Un aborto le fece perdere la sua fertilità e anche la vita, quasi. Questo fatto la porterà a diventare un’antiabortista convinta, abbracciando anche la fede cristiana (che la salvò pure dalla bottiglia). Negava qualsiasi circostanza – stupro o incesto incluso – ritenendo sempre ingiustificato sopprimere la vita di un nascituro. Diceva: «La gente non dovrebbe mai e poi mai abortire. Non mi dite che è un diritto della donna di scegliere cosa fare del proprio corpo. La scelta è tra la vita e la morte». La perdita di fertilità resta un effetto collaterale comune degli aborti: sono tantissime le donne in post-aborto che raccontano la loro storia, ad esempio attraverso l’associazione americana Silent No More Awareness. Come la Russell, testimoniano che l’infertilità è una delle conseguenze più comuni dell’aborto. L’attrice ha anche adottato tre bambini e ha fondato il World Adoption International Fund nel 1955. Diede vita all’ “Hollywood Christian Group”, un gruppo di attori del cinema che si riuniscono settimanalmente a leggere la Bibbia. Donna di sinistra, arrivò ad appoggiare il Partito Repubblicano, giudicato da lei più sensibile ai “princìpi non negoziabili”. Al posto dei fiori, la famiglia dell’attrice, ha chiesto che le donazioni a suo nome siano destinate al Care Net, un pronto soccorso antiabortista per donne in gravidanza. Una delle sue figlie adottive ha raccontato a LifeNewSite alcune battaglie pro-life ingaggiate dalla madre.

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Il sociologo Francesco Alberoni: «morale cristiana è alla base della cultura»

Sulla prima pagina de Il Corriere della Sera, nella sua rubrica «Pubblico e privato», è apparso oggi un articolo del noto sociologo Francesco Alberoni. Il tema è la presenza o meno della moralità cristiana nella società. Dopo aver criticato il concetto che «la società moderna» sia «diventata una babele etica in cui tutto è permesso», ha sottolineato che oggi «tutti accettano le massime del discorso della montagna». E ancora: «Tutti accettano il comandamento fondamentale del cristianesimo “ama il prossimo tuo come te stesso”, dove per prossimo si intende qualsiasi altro essere umano, di qualsiasi razza e religione egli sia. Tutti accettano il principio fondamentale che si deve rispettare la parola data anche col nemico». Ha continuato sottolineando che la morale cristiana è alla base del pensiero di Kant, della condanna della tortura e della pena di morte di Cesare Beccaria, dietro la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, l’uguaglianza fra maschi e femmine ecc.. Non solo, «resta alla base di quelle che consideriamo virtù: l’amore, la bontà, la generosità, la sincerità, la fedeltà, il disinteresse, la gratitudine, la tolleranza». E anche di quelli che giudichiamo come “vizi”.  Alberoni conclude: «quasi tutti guardano al Pontefice come a una altissima autorità morale, e non solo in Italia e nel mondo cattolico, ma anche per altre confessioni. Il nucleo essenziale della morale cristiana negli ultimi tempi non ha perso terreno, ma si è esteso e continua a estendersi ad altre culture e altre civiltà. Per questo i cristiani sono temuti e perseguitati».

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Giornalista critica la lobby omosessuale: minacciata di morte

Una nota ed apprezzata editorialista del quotidiano britannico Daily Mail, Melanie Phillips, ha ricevuto minacce di morte dopo che ha criticato il progetto del mondo omosessuale di introdurre la cultura “omosex” in tutte le materie del curriculum delle scuole in Gran Bretagna.

In un articolo del 24 gennaio 2011, titolato “E’ vero che i gay sono stati spesso vittima del pregiudizio, ma ora rischiano di diventare i nuovi McCarthy”, ha polemizzato sul fatto che gli studenti britannici saranno quotidianamente bombardati da espliciti riferimenti all’omosessualità, durante le lezioni di matematica, geografia e scienza, grazie ad un’iniziativa sponsorizzata dal Governo e finalizzata all’introduzione dell’«agenda gay» nei programmi scolastici.

In geografia, per esempio, gli studenti verranno stimolati a considerare quali siano le motivazioni che spingono gli omosessualia trasferirsi dalla campagna alla città o studiare particolari fenomeni sociologici, come la nascita del primo «gay neighbourhood» (sobborgo gay) del mondo. In matematica dovranno imparare a calcolare e fare statistiche sul numero di omosessuali presenti nella popolazione. Alle elementari verranno utilizzati personaggi omosessuali nei problemini di logica. Per quanto riguarda la scienza, verranno ovviamente studiati i presunti fenomeni di omosessualità in natura, con particolare riguardo ai «pinguini imperatore» ed agli «orsi marini».  Per i più piccini, verranno introdotte idonee letture sul tema attraverso la promozione di libri come “And Tango Makes Three”, la storiella di due pinguini omosessuali che allevano un cucciolo. Durante le lezioni di disegno e tecnica, invece, gli studenti saranno stimolati a realizzare simboli legati al movimento per i diritti omosessuali, mentre gli insegnanti di inglese dovranno promuovere un’idonea conoscenza del «LGBT vocabulary», il linguaggio del mondo Lesbian, Gay, Bisexual and Transexual, e dovranno anche tener conto di personaggi omosessuali quando agli studenti verrà chiesto inscenare una recita teatrale.

Melanie Phillips prende sul serio i rischi derivanti da questa iniziativa: «Per quanto possa sembrare assurda, questa iniziativa rappresenta l’ultimo tentativo di lavaggio del cervello dei ragazzi attraverso una propaganda camuffata da educazione». Siamo di fronte -continua la giornalista-, ad un «abuse of childhood», un vero e proprio abuso minorile. «Si tratta della solita implacabile e spietata campagna promossa dalla lobby per i diritti dei gay, finalizzata a distruggere la stessa idea che possa esistere un comportamento sessuale normale», ha spiegato. Oggi infatti esiste un preciso e sistematico progetto culturale il cui dichiarato intento è quello di penetrare profondamente nella mentalità comune. Si assiste quindi ad un passaggio per cui «esprimere concetti che ieri costituivano comuni norme morali, oggi rischia di essere non solo socialmente inaudito, ma anche vietato per legge». La donna in precedenti articoli aveva condannato le terribili discriminazioni subite dagli omosessuali nei Paesi islamici.

MINACCE DI MORTE. L’1 febbraio 2011 il Daily Mail pubblica però un altro articolo della Philips, intitolato: «Gli inviti ad uccidermi arrivati questa settimana dimostrano che i valori fondanti della nostra società sono in grave pericolo». La giornalista scrive che «mi aspettavo una forte reazione, la quale avrebbe ampiamente confermano la verità di quello che avevo scritto. La risposta, tuttavia, ha superato perfino le mie aspettative». Nell’ultima settimana, ha dichiarato, «sono stata sottoposta ad una straordinaria effusione viziosa di odio e di incitamento alla violenza», attraverso messaggi di posta elettronica, internet e social network.

Su Twitter infatti sono comparsi dei messaggi che suggerivano di uccidere  la giornalista prima di gettarla nel Tamigi, ovviamente il tutto condito da insulti irripetibili che solitamente sono però riservati solo ai  cattolici. Su alcuni messaggi di posta elettronica ha trovato scritto: «Sei una donna vile, velenosa, orribile e vecchia, la gente come te dovrebbe essere messa a tacere con la paura», e ancora: «Spero che tu venga investita da un treno», «Spero che la tua casa bruci» ecc… La Philips ha concluso con ironia: «Se la lobby gay voleva adoperarsi per cercare di dimostrare il mio punto di vista, non poteva fare un lavoro migliore».

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Oscurati i gruppi Facebook contro Yara Gambirasio creati da cyberbulli atei

In Ultimissima 28/2/11 facevamo notare come diversi gruppi che deridevano con macabro sadismo la morte di Yara Gambirasio (e ironizzavano sui suoi genitori), postassero contemporaneamente insulti anche verso il Santo Padre e i cristiani. Osservavamo che gli stessi che si sbellicavano dalle risate intitolando e animando gruppi come «Yara e Sara due bimbe minchia in meno» o «Dammi tre parole: Gambirasio senza prole», erano gli stessi che, tra una bestemmia e l’altra, usavano lo stesso tipo di “humor” contro esponenti della chiesa e del mondo cattolico, dicendosi contemporaneamente “fan” dell’UAAR, MicroMega e di tutta una serie di personaggi del panorama ateistico nazionale. Comportamenti presenti esclusivamente sul web, luogo in cui l’illusorio anonimato permette l’abbandono di ogni freno inibitore e scatena la perversione e la frustrazione accumulatasi nel cervello di questi soggetti. Illusorio anonimato perché di fatto -leggiamo su Il Corriere della Sera– tutti i gruppi sono stati chiusi e la polizia postale ha chiesto anche di potere risalire agli amministratori. Il quotidiano cita anche il gruppo (che al momento di scrivere è stato definitivamente oscurato) «Sarah Scazzi contro Yara Gambirasio (Schieramento Sarah Scazzi)». Il giornalista riporta le parole di uno degli amministratori (un certo Pà Pasalaqua), il quale deve evidentemente aver letto l’articolo che l’UCCR ha scritto in proposito. Tant’è che scrive: «Ci definiscono cyberbulli atei. Lol [cioè, risata…]». Condividiamo l’ironia dell’articolista de Il Corriere, il quale risponde: «Che ci sarà da ridere, però, non si capisce». Qualcuno è arrivato perfino a difendere questi personaggi (lo leggiamo dai commenti che il nostro articolo ha ricevuto) riducendo questo comportamento a semplice “Humor Nero”. Come se classificare questo tipo di ironia ne giustificasse l’uso e rendesse l’insulto meno offensivo verso le persone coinvolte in queste tragedie. Altri invece sostengono che sbeffeggiare la vicenda di Yara o di Sarah Scazzi sarebbe educativo verso i giornalisti e i bigotti che creano il caso mediatico e fanno finta di dispiacersi.

Continuiamo a ritenere che una visione cristiana della vita e della morte, partendo dalla misteriosità dell’essere e dalla universale fratellanza degli uomini -figli di un unico Padre- aiuterebbe sicuramente ad attenuare perversioni del genere. Le numerose eccezioni presenti nella società dimostrano soltanto l’esistenza di persone non credenti che -consapevolmente o meno- possiedono uno sguardo sicuramente molto più cristiano verso l’uomo, di tanti sedicenti cattolici “adulti”.

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Storici rispondono a Riccardo Di Segni: «bimbi ebrei sempre restituiti a famiglie»

A 13 mesi dalla visita di papa Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma, per il rabbino capo di Roma, Riccardo Segni «non c’è stata ancora alcuna ”risposta decisiva” alla richiesta delle Comunità ebraiche italiane di riportare alla luce le storie dei bambini scampati alla Shoah, nascosti in conventi, battezzati e mai restituiti a quello che rimaneva delle loro famiglie o comunità originarie, spesso lasciati ignari delle loro origini». Si ammette quindi che furono numerosissimi gli ebrei nascosti e salvati nei conventi cattolici (cosa impossibile senza l’autorizzazione del Pontefice), ma si accusa di averli battezzati e lasciati ignari delle loro origini ebraiche.

LO STORICO NAPOLITANO: «TUTTI RESTITUITI»– «La Santa Sede ha sempre restituito alle loro famiglie di origine i bambini ebrei scampati all’Olocausto in istituzioni cattoliche e ha sempre ordinato di non battezzarl», lo ribadisce, in una nota inviata all’ASCA, il prof. Matteo Luigi Napolitano, Delegato internazionale del Pontificio Comitato di Scienze Storiche per i problemi della Storia contemporanea. «Hanno suscitato grande sorpresa le dichiarazioni dal Rabbino Di Segni sui bambini ebrei scampati alla Shoah, nascosti in conventi, battezzati e mai restituiti dalla Santa Sede alle loro comunita’ e famiglie di origine». Ha continuato Napolitano: «In qualità di Delegato internazionale del Pontificio Comitato di Scienze Storiche per i problemi della Storia contemporanea, tengo a precisare che la Santa Sede ha dato una risposta ampia e documentata alla delicata questione già diversi anni prima: esattamente con un lungo articolo a mia firma, basato su fonti inedite vaticane, e apparso il 18 gennaio 2005 sul quotidiano ”Avvenire”, come pure con il volume ”Pacelli, Roncalli e i battesimi della Shoah” (Piemme 2005), che ho scritto assieme al Dott. Andrea Tornielli. Le nostre ricerche – conclude Napolitano – hanno portato a due importanti conclusioni: le direttive ecclesiastiche furono sempre di non battezzare i bambini ebrei affidati dalle loro famiglie alla Sede Apostolica, affinché sfuggissero alla Shoah; in secondo luogo, la prassi seguita dalla Santa Sede nel dopoguerra (e accadde anche in un caso italiano) fu sempre quella di restituire i bambini alle loro famiglie di origine, ossia a genitori o a parenti, qualora queste fossero tornate a chiederne la riconsegna».

LA STORICA LOPARCO: «POCHISSIMI BATTEZZATI»- Nel 2004, la storica Grazia Loparco, docente alla Pontificia facoltà di scienze dell’educazione Auxilium, pubblicò un ampio studio (“Gli ebrei negli istituti religiosi a Roma”. Dall’arrivo alla partenza (1943-1944), sugli ebrei salvati, per ordine di Pio XII, nei conventi romani: 4.329 in un centinaio di istituti religiosi femminili, in una quarantina di istituti maschili e in una decina di parrocchie. Pubblicati i risultati su Avvenire, si conferma che rispetto agli ebrei accolti nei conventi «il numero di battesimi fu minimo» mentre non vi è «alcun caso di non restituzione di bimbi alle famiglie». I bambini degli orfanotrofi ebraici tornarono invece «tutti alle loro comunità», dice la studiosa. E aggiunge che quando alcuni bambini chiedevano il battesimo «venivano dissuasi perché non erano nelle condizioni di libertà per farlo». Fondato su documenti d’archivio e su testimonianze dirette, lo studio è dolorosamente avvincente, non tace infelici tentativi di conversione né omette il caso di sei battesimi a Roma: di cinque «piccole ebree, accolte, salvate e successivamente battezzate» a Santa Maria delle Grazie in via della Balduina, e quindi quello struggente di una neonata, salvata da una razzia dei nazisti dalle Francescane Missionarie di Maria di via Giusti. Lo ricorda vividamente suor Myriam Capone: «Passò proprio lì davanti un camion carico di ebrei, uomini, donne e bambini, sorvegliati dalle SS. Una donna emise un piccolo grido per attirare l’attenzione. La suora guardò e vide che le porgeva, e quasi le lanciava, la bimba che teneva stretta fra le sue braccia. Il camion sparì. Suor Gesù Eucaristia rientrò commossa, con la creaturina tra le braccia. Doveva avere circa due mesi». Trasferita più al sicuro con altre orfanelle, «nessuno venne a cercarla. Compiuti sette anni, venne battezzata col nome di Mirella, nome di battesimo della superiora. Poi è stata adottata, ma veniva molto spesso a trovarci. Anche dopo essersi sposata, ha chiesto dove mi trovavo, ed è venuta a salutarmi con il marito e la figlia adottiva (indiana), fino a Rovereto, dove mi trovavo allora».

Molti altri invece si convertiranno liberamente una volta divenuti grandi. Così come il predecessore di Di Segni, il capo rabbino di Roma di quel tempo, Eugenio Zolli, che appena finita la guerra decise di farsi battezzare con il nome di “Eugenio Pio Israel Zolli“, in forma di gratitudine verso l’operato della Chiesa e del suo Pontefice nei confronti degli ebrei di Roma: «Ciò che il Vaticano ha fatto resterà indelebilmente ed eternamente scolpito nei nostri cuori. Sacerdoti, come pure alti prelati, hanno fatto cose che resteranno per sempre un titolo di onore per il cattolicesimo» (P. Dezza, “Eugenio Zolli: Da Gran Rabbino a testimone di Cristo (1881-1956)” La Civiltà Cattolica, 21/2/1981, pag. 340)

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Maddy Curtis, il nuovo idolo americano: «non abortite i bimbi down»

Maddy Curtis, nona di dodici figli, quattro dei quali con la sindrome di Down, è la finalista del popolare programma americano Idol dell’edizione 2010. Viso giovane e ormai noto della televisione americana, con i suoi 20 anni ha condiviso la sua bella voce e la sua convinzione in difesa della vita umana dal concepimento alla morte naturale. Come racconta su ArgentinoSalerta, la sua fede cattolica e l’esperienza di famiglia hanno svolto un ruolo decisivo nella sua carriera come cantante alle prime armi. Dall’amore verso i suoi fratelli ha capito la grandezza del dono della vita: «Credo che Dio abbia voluto usare la mia storia per mostrare quanto siano speciali i bambini con sindrome di Down. Il novanta per cento delle donne incinte che ricevono una diagnosi prenatale di neonati sindrome di Down sceglie l’aborto. Questo mi spezza il cuore. I miei fratelli sono così speciali per me e mi hanno permesso di cambiare molto. Voglio dire a tutti quanto io sia sia felice e contenta di poter vivere assieme a loro». Putroppo la Curtis ha pienamente ragione, come dimostrano diversi studi sociologici citati da Avvenire 23/2/10.

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Salgono al 50% gli americani “pro-life” (scendono al 42% i “pro-choice”)

Un sondaggio pubblicato a fine gennaio su Fox News, rivela che la maggioranza degli americani considera più indispensabile salvaguardare la vita nascente piuttosto che sostenere il (presunto) diritto della madre di scelta se accettare o meno se il proprio figlio debba nascere o essere soppresso. Il 50% del campione utilizzato si è identificato come “pro-life”, e il 42% come “pro-choice”, con un margine di errore del 3%. La maggioranza dei primi è mediamente vicina ai Repubblicani mentre i secondi ai Democratici. All’interno del partito politico repubblicano, il 69% si dichiara a favore della vita, rispetto al 26% pro-choice. Invece in quello democratico è il 59% a dichiararsi “pro-choice”, rispetto al 32% che ritiene di essere “pro-life”. Quest’ultimo è sicuramente il dato più interessante. Tra gli “indipendenti” invece, il 47% è pro-life rispetto al 41%. Il sondaggio di Fox News, si legge sul grande portale LifeSiteNews, è parte di una serie di recenti sondaggi nazionali che dimostrano una crescente maggioranza degli americani che si sta schierando a favore della vita. Nel maggio del 2010, il Gallup aveva invece rilevato che il 47% degli americani era favorevole alla vita rispetto al 45% che si consideravano come pro-choice. La differenza tra le due visioni della vita si è quindi ampliata, già a partire dall’inversione di tendenza del 1997, quando il 50% degli americani si dichiararono pro-choice, contro il 40% di pro-life. Nel 2001, sempre il Gallup, rilevava che il margine si era ridotto al 6% a favore della posizione pro-choice (47% a 41%). Una delle sondaggiste, Lydia Saad, ha attribuito i risultati del sondaggio alla dichiarata campagna abortista del presidente Obama, il quale ha recentemente elogiato perfino il Planned Parenthood (cfr. The Christian Post 21/2/11), nonostante esso sia al centro di una pesante inchiesta giudiziaria (cfr. Ultimissima 7/2/11)

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