Superare la legge di Hume in una prospettiva teleologica

David Hume 
 
di Luigi Baldi*
*dottore di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Genova

 

Il problema del rapporto tra giudizi di fatto e giudizi di valore è uno dei più spinosi del pensiero contemporaneo. Si tratta di capire se è possibile o meno ricavare dalla conoscenza della natura, quindi anche della natura umana, delle prescrizioni, ovverosia norme, doveri, quindi anche diritti.

Il primo a impostare il problema in questi termini è il filosofo empirista scozzese David Hume, che nel suo Trattato sulla natura umana sottolinea che è scorretto il procedimento mentale con cui si pretende di passare dall’ambito dell’essere e quello del dover essere, da ciò che è o non è a ciò che, rispettivamente, deve o non deve. Ricavare da un asserto puramente descrittivo, cioè una affermazione che descrive un dato di fatto, un asserto prescrittivo, una conclusione che prescrive un comportamento come moralmente o giuridicamente obbligatorio, è un salto logico che gli appare del tutto arbitrario[1].

La “legge di Hume” è ribadita dal filosofo analitico inglese George Edward Moore (1873 –1958), che, nei suoi Principia ethica, parla, in proposito, di “fallacia naturalistica”, criticando la pretesa di dedurre precetti etici o giuridici dalla constatazione dei caratteri della natura: i termini etici non possono, infatti, essere validamente definiti in modo descrittivo. Il bene non può essere considerato un oggetto esterno, “come un qualsiasi oggetto naturale, descrivibile dalla fisica o dalla metafisica”[2]. Si tratta di un concetto semplice, che non può essere descritto attraverso un elenco di qualità (piacere, felicità, dovere) che le cose buone devono possedere: spiegarlo in questo modo significa risolverlo in altri termini, ridurne la nozione ad altre che indicano delle entità naturali. “Se mi si chiede: che cosa é bene? La mia risposta è che bene è bene e null’altro. O se mi si domanda: come si deve definire il bene? La mia risposta è che esso non si può definire, e questo è tutto quel che ho da dire sull’argomento. Ma per quanto tali risposte appaiano deludenti, sono della più fondamentale importanza”[3].

Il bene è indefinibile perché ognuno è costantemente consapevole della nozione di bene nel momento in cui fa esperienza di cose buone. Esso si comporta come il «giallo», la cui essenza è indefinibile; non è possibile spiegare cosa sia il «giallo» a chi non lo abbia mai visto, ma chi lo ha visto lo coglie in virtù della sua esperienza diretta senza bisogno di nessuna ulteriore spiegazione. Ne consegue l’impossibilità di fondare l’etica su una qualsiasi forma di conoscenza: il bene non è conoscibile razionalmente. Lo stesso filosofo del diritto Hans  Kelsen (1881 – 1973) rileva alla base del giusnaturalismo, cioè della dottrina del diritto naturale, un errore logico, consistente nella pretesa di ricavare norme dalla realtà dei fatti; nessun ragionamento logico, infatti, consente di passare dalla realtà naturale al valore morale e giuridico. “Chi crede di trovare, di scoprire o di prendere conoscenza di norme nei fatti o di valori nella realtà, inganna se stesso. Infatti, anche se inconsciamente, egli deve proiettare le norme (da lui in qualche modo presupposte come fondamento dei valori) nella realtà dei fatti, per potere poi dedurre da questi. Realtà e valore appartengono a due sfere distinte”[4]. Sulla stessa linea si trovano R.M. Hare nel suo Linguaggio della morale e, in Italia, Bobbio, Lecaldano, Carcaterra, Scarpelli, il quale ultimo, proprio muovendo dalla dichiarata cesura tra l’ambito del conoscere e l’ambito dell’agire, è giunto a farsi portavoce di un’Etica senza verità.

Il problema della legge di Hume e della fallacia naturalistica va considerato alla luce delle nozioni di natura e realtà che si assumono e, più in generale della concezione fisica e metafisica in cui esse si inquadrano. Il filosofo scozzese parte dal presupposto tipicamente moderno e, nel suo caso, empiristico, che l’intelletto debba programmaticamente precludersi la conoscenza di qualunque verità che superi i dati strettamente risultanti dall’esperienza sensibile, avendo solo la possibilità di rielaborare questi ultimi per formulare dei concetti che si riducono a essere soltanto nomi, segni convenzionali, privi di consistenza ontologica in quanto tali (la penna è solo un nome con cui indichiamo gli innumerevoli individui che scrivono, perché per ovvi motivi di comodità e utilità non li possiamo citare tutti ogni volta che ne dobbiamo parlare). Ciò significa che non è possibile conoscere come certa alcuna legge sia fisica che metafisica, in quanto universale e necessaria, potendo giungere al massimo a valutazioni basate sulla probabilità. Questo ovviamente vale ancora di più per l’etica: non posso ricavare con lo strumento razionale una legge morale, un concetto di bene, che sia da considerarsi certo, cioè appunto universale e necessario.

La legge di Hume, come osserva in proposito Berti nel suo Le vie della ragione, non è un qualcosa dotato di valore assoluto ed incondizionato, ma è legata a una visione ben precisa della realtà, sia sul piano fisico sia su quello metafisico, che influenza il suo pensiero e dello stesso Moore, ma che non può essere data per scontata, quasi (e sarebbe proprio un paradosso) un postulato, un …“dogma”. La sua validità sul piano ontologico pare, allora, strettamente legata a una identificazione, data per acquisita, della realtà con il dato naturale e a una nozione empirica della natura, intesa come un puro e semplice fatto, “un puro stato di cose già dato, un insieme di fatti collegati tra loro solo da leggi meccaniche descrivibili e ricostruibili solo mediante calcoli matematici”, e comunque mai, almeno per Hume, determinabili in modo assolutamente certo[5]. Tale visione si accentua particolarmente se il dato naturale è considerato sotto il profilo della biologia, almeno nell’accezione evoluzionistico-casuale, tipica del pensiero di Monod (Il caso e la necessità) e di una lettura filosofica, anch’essa tutt’altro che scontata, di Darwin. Se si pensa che, siccome per Darwin le specie viventi discendono dai rispettivi primati per variazioni casuali e selezione naturale, tutta la realtà (che coincide con la natura, of course) venga fuori e si fondi sulla casualità, con un’evidente arbitrario salto logico dalla biologia alla filosofia o alla … ateologia, è chiaro che la legge di Hume è perfettamente sovrapponibile.

Reale, però, non è necessariamente detto che vada inteso come “ciò che c’è”, quasi una specie di dittatura indiscutibile (questa sì, veramente … dogmatica) del presente, anzi dell’istante come è coglibile dai sensi. Reale è l’infinita ricchezza dell’essere, nella sua profondità inesauribile, che soltanto l’anima umana può potenzialmente cogliere, in quanto apertura sull’infinito. Da questo punto di vista la natura rappresenta una dimensione della realtà, la prima tappa di un percorso che conduce l’intelletto umano a intus-legere, a leggere dentro, scoprire le strutture più intime e nascoste ai sensi, che danno il fondamento, il senso delle cose: “l’essenziale è invisibile agli occhi”, ricorda la volpe al piccolo principe di Saint Exupéri e Montale a sua volta suggerisce che “sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai, perché  tutte le immagini portano scritto: “Più in là”!”. Ogni cosa e, innanzitutto, persona incontrate schiudono orizzonti, ogni aspetto e momento della realtà, la vita intera, suggeriscono, invitano, attendono un compimento, una realizzazione e non accettano di essere rinchiusi nella camicia di forza del dato di fatto, della presenza, come qualcosa di definito, già tutto attuato e definitivo. L’essere è essenza, cioè definizione e anche presenza, ma siccome esso è creato e dipende da Dio, che ne è la pienezza, allora è anche potenzialità, energia, dinamismo, tensione a una realizzazione piena, a una piena attuazione. L’essere di “ciò che c’è” non si accontenta di “ciò che è” ma desidera altro, appetisce (appetitus, ad-petere, tendere a), proprio perché non è già del tutto attuato: ciò che contraddistingue l’uomo è il fatto che egli lo sa, ne è consapevole.

Se reale non significa automaticamente naturale, naturale non equivale necessariamente a meccanismo ed empiria. Tommaso d’ Aquino, sulla scia di Aristotele, non utilizza una nozione omogenea ed univoca di natura e, comunque, non esclusivamente empirico-biologica; l’applicabilità della legge di Hume al suo pensiero risulta, quindi, da questo punto di vista, quanto meno problematica. La natura ha un carattere analogico e indica tanto il processo del divenire di ciò che si genera, si trasforma e si corrompe, quanto il principio di tale processo, ovverosia la forma sostanziale, ciò che fa sì che una cosa sia quella che è e non un’altra. Tale principio formale, coincide in ogni cosa (anche non naturale) con il suo fine, cioè con l’operazione, l’azione a cui è predisposta e a partire dalla quale è possibile definirla: così la natura della penna è data dal fine di scrivere e se la penna non scrive non realizza la sua natura, ovvero il suo fine e questo vale anche per l’uomo, la cui forma sostanziale è la ragione, per cui realizza la sua natura, quindi consegue il suo fine proprio attraverso la ragione e la conoscenza.

Se si intende la natura secondo una accezione finalistica (telos), come processo rivolto ad un fine e che nel fine trova il suo compimento, la legge di Hume diviene inapplicabile, perché non si tratta più di dedurre la norma da un fatto, con ovvie conseguenze anche sulla legge naturale. La natura come fine implica, infatti, l’idea di sviluppo e compimento di qualcosa che è già in potenza, con la conseguenza che il dover essere è, a livello implicito, strutturalmente inerente all’essere e la teleologia altrettanto inerente all’ontologia; da una siffatta concezione della natura umana risulta, allora, “possibile ricavare delle norme, delle prescrizioni, dei doveri, e quindi dei diritti”[6]. La visione classica colloca direttamente la natura nell’ambito di una prospettiva teleologica, non come qualcosa di estrinseco ma di intrinsecamente connesso alla sua struttura costitutiva e l’idea di fine rappresenta, da questo punto di vista, il punto di mediazione e di collegamento tra essere e dover essere[7]. Il concetto di fine, come ricorda anche recentemente il filosofo tedesco Robert Spaemann, appare come punto centrale di un nuovo paradigma di razionalità morale, che affronti la questione ecologica nel quadro di una critica all’idea baconiana di dominio dell’uomo sulla natura, di cui è ancora succube il pensiero retrostante la legge di Hume. Tutte le cose, dice ancora San Tommaso, tendono al fine ultimo, che è Dio; la differenza tra gli esseri dotati di ragione e quelli che non lo sono (animali, vegetali, minerali) consiste nel fatto che questi ultimi non ne sono consapevoli, mentre i primi lo sanno e proprio per questo possono con la loro libera volontà scegliere di assecondare o non assecondare questo processo, dire sì o no; in quanto tali sono responsabili di se stessi e anche dei primi, che sono a loro affidati.

L’impostazione di fondo del pensiero scientifico moderno consiste, del resto, nell’escludere la considerazione della finalità dall’indagine sui processi naturali, in nome di una visione meccanicistica e deterministica della realtà, che dal piano fisico (la fisica newtoniana), dove è legittima, si estende a quello metafisico (la filosofia di Descartes e si Spinoza), dove invece è del tutto discutibile. E’ diverso dire, per es., che ho gli occhi predisposti per vedere e dire che vedo perché ho gli occhi. La scienza sperimentale non possiede, però, come riconosce correttamente Galilei, gli strumenti cognitivi per rispondere alla domanda circa l’esistenza o meno di una finalità e non può, perciò, escludere l’esistenza di qualcosa che comunque non sarebbe in grado di cogliere. La predisposizione dell’occhio alla vista è al di fuori dell’ambito del dicibile sul piano rigorosamente scientifico-sperimentale ma appartiene alla dimensione intelligibile della ragione. Essa suppone un ordine ontologico dell’occhio, tale da implicare un’intelligenza ad esso intrinseca, un logos, che lo struttura in modo tale da raggiungere un fine, che è il suo bene, ciò che lo realizza, e la cui mancanza (la cecità) è invece un male, cioè una mancanza, una privazione di bene. Tutto ciò è di competenza del filosofo ed eventualmente del teologo (è sempre la tesi di Galilei) ma non si può, rimanendo sul piano sperimentale, dire che non esiste, appunto perché non riconducibile a tale piano (è lo scientismo moderno). Spetta certamente allo scienziato descrivere uno stato di fatto, che così risulta per una combinazione di fattori, magari casuali, in presenza dei quali è possibile vedere. Se si ritiene, però, che la ragione, quindi la conoscenza, si risolva nel descrivere stati di fatto, il quadro è evidentemente completo e l’impossibilità di ricavare un dover essere risulta una conseguenza logica: il dover essere appare un’imposizione dall’esterno del tutto arbitraria e irrazionale, non, invece, il semplice completamento e l’attuazione di un processo già intrinseco.

L’essere e, al suo interno, la natura, quindi la vita tutta, appaiono come processi orientati, ovverosia una continua e inesauribile tensione verso un qualcosa d’altro, che è il suo bene e ne realizza per questo i il compimento.  L’idea che il bene sia il fine a cui ogni cosa tende elimina in radice il problema del passaggio dai giudizi di fatto a quelli di valore perché riconduce il valore, cioè, appunto, il bene, al fatto, che non è più semplicemente tale, ma inserito in un ordine più ampio.

 

——————————————————-
Note

[1]. D. Hume, Trattato sulla natura umana, III, I, 1, Laterza, Bari 1971, pp. 496-497.
[2]. E. Berti, A proposito della “Legge di Hume”, in, Fondazione e interpretazione della norma, a cura di A. Rigobello, XXXIX Convegno del Centro di Studi filosofici di Gallarate(26, 27 e 28 aprile 1984), Editrice Morcelliana, Brescia 1986, pp. 237-238.
[3]. G.E. Moore, Principia, Bompiani, Milano 1964, I, 6, p. 50.
[4]. H. Kelsen, Il problema della giustizia, Einaudi, 1998, pp. 72-73.
[5]. E. Berti, Le vie della ragione, , il Mulino, Bologna 1987, p. 294.
[6]. E. Berti, Le vie della ragione, cit., p. 293.
[7]. Cfr. R. Spaemann, R. Löw, Die Frage Wozu?, cit. R. Spaemann, “Natur”, in Philosophische Essays,, Reclam, Stuttgart 1983, pp. 19-40; da ultimo R. Spaemann, R. Löw, Fini naturali. Storia & riscoperta del pensiero teleologico, Ares, 2013.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

23 commenti a Superare la legge di Hume in una prospettiva teleologica

« nascondi i commenti

  1. GT ha detto

    Se dovessi affrontare come argomento la Verità porrei sicuramente accento alla realizzazione materiale/morale dell’individuo, piuttosto che sul “bene” in sé.

  2. Woody85 ha detto

    L’articolo mi è piaciuto davvero molto, i miei complimenti al prof. Baldi. Peccato che non sia (ancora) nata una discussione in merito, sarei stato curioso di leggere qualche obiezione, che evidentemente non c’è.

  3. Giorgio Masiero ha detto

    È un bellissimo articolo, che a me ha insegnato molte cose. Grazie.

  4. sto'co'frati e zappo l'orto ha detto

    Dopo l’osservazione di un mio commento,su altro sito web,un caro amico mi ha consigliato di tenere conto esattamente dei lavori di Malthus,Hume e Locke.
    Intanto ho la fortuna di leggere il suo articolo,augurandomi di leggerne altri,così istruttivi,e da lei realizzati.

  5. Semelets ha detto

    Mi sembra però che da questa prospettiva finalistica, o di processi orientati, non possa comunque derivare il “dover essere”, ma al massimo un “conviene essere”.
    Se il dover essere è il semplice completamento e l’attuazione di un processo già intrinseco che gli uomini possono con la loro libera volontà assecondare o non assecondare, allora quel dover essere si configura in realtà come un “conviene essere”. Dal riconoscimento del fine non deriva il dovere di perseguire quel fine, ma tutt’al più la convenienza.

    • Nadia ha detto in risposta a Semelets

      Giochi con le parole. Solo la libertà umana (“devo” fare il bene, per assecondare la mia natura umana) dà senso etico al dovere, che altrimenti diventa la necessità di una legge fisica o biologica (“devo” mangiare per vivere). I due “doveri” sono distinti, come distinti sono i tipi di leggi.

      • Semelets ha detto in risposta a Nadia

        Non ho capito quali sono le parole con cui starei giocando. Mi sembra di non essermi discostato dal contenuto dell’articolo, che pretende di far derivare il dover essere in senso etico dalla presa di coscienza dei processi orientati.
        Nella tua frase “devo fare il bene, per assecondare la mia natura umana”, quel “devo” non ha di per sè implicazioni etiche: è utilizzato in un semplice significato di causa-effetto (se voglio assecondare la mia natura, devo agire in un certo modo, proprio nella stessa accezione che ha nell’affermazione che se voglio sopravvivere, devo mangiare) e il problema etico è solo spostato più a monte, lasciando aperta la domanda: da dove deriverebbero le implicazioni etiche relative al dover assecondare la propria natura?

        • DSaeba ha detto in risposta a Semelets

          Indubbiamente. A partire da Aristotele non si parla mai di dovere, ma di libero fiorire della natura umana.

          Quindi, se il fiorire della propria razionalità è ciò che veramente contraddistingue l’essere umano, ciò non implica ci sia un dovere, ma una vera e propria convenienza.

          • Semelets ha detto in risposta a DSaeba

            Utilitarismo dunque?

            • DSaeba ha detto in risposta a Semelets

              Onestamente no. L’utilitarismo interpreta la virtù umana in funzione dell’utile, esattamente come l’epicureismo. Anzi, si può dire che la virtù coincida con l’utile, inteso ovviamente in senso molto ampio (non apprezzo l’utilitarismo, ma è un’etica molto interessante)

              Invece per l’etica aristotelica la virtù è un divenire, un habitus, che deve essere compreso per arrivare al bene. La virtù non coincide con nulla se non con sè stessa.

              • semelets ha detto in risposta a DSaeba

                Il problema però rimane sempre se io “sia tenuto” ad arrivare al bene o se “mi convenga” arrivare al bene; nel secondo caso la questione del fondamento dell’etica, che è l’argomento dell’articolo, rimane irrisolta.
                Se io devo perseguire il bene perchè è ciò che come essere umano mi conviene fare, il non perseguimento del bene si configura solo come occasione mancata e non come colpa o peccato. E’ sostanzialmente la posizione di Vattimo quando dice che il peccato va inteso nel senso in cui lo intendiamo quando utlizziamo tale parola relativamente ad un’occasione mancata (“che peccato!”).

  6. L’articolo espone una linea teorica corretta, ma insufficiente a fondare definitivamente l’etica. Mi astengo qui dal riportare quanto di vero c’è nell’analisi del linguaggio morale fatta da Hare, perché sarebbe un discorso troppo lungo. Mi limito ad esporre il punto fondamentale, che può essere espresso anche nei termini dell’analisi linguistica hareana. Illustro poi in modo molto sintetico la struttura globale che può portare ad una fondazione razionale definitiva dell’etica.

    1) Richiamare al finalismo è corretto e ciò porta ad esporre l’ontologia dell’etica di Aristotele e di San Tommaso contro l’empirismo materialistico di Hume, che corrisponde ad una concezione puramente fenomenistica della realtà: non ci sono sostanze e dunque nemmeno essenze che possano essere orientate per Hume.

    2) Ma anche il finalismo è un dato di fatto e non può bastare il notare che di fatto “bonum est quod omnia appetunt”, perché la bontà morale di un certo ordine etico (quello derivante dal finalismo intrinseco alla natura umana) dipende in ultima istanza dalla causa da cui l’orientamento finalistico della realtà è derivato. Infatti nessuno potrebbe ragionevolmente sostenere che qualcuno che agisce a caso (anche quando le sue azioni casuali corrispondessero di fatto ad azioni buone), sia un vero agente morale, poiché le due condizioni per essere agente morale sono la libertà (e il caso non è libertà), che implica una scelta consapevole del bene, e l’intelligenza (e il caso di per sé non è intelligente), che è necessaria a comprendere i termini di ogni possibile scelta.

    2.1) Da ciò consegue che nell’ipotesi che un finalismo di fatto provenga da un’origine ontologica non intelligente e non libera (il caso), il finalismo che di fatto si dà, in realtà non è moralmente obbligante, poiché, essendo derivato dal caso, avrebbe potuto consistere in un ordine di leggi della natura umana totalmente diverso e persino apposto a quello che di fatto si è realizzato, senza alcuna ragione che non sia, appunto, una mera combinazione casuale di altro tipo. Se l’attuale ordine di leggi ontologiche della natura umana (che comprende il finalismo attualmente operante) deriva dal puro caso, allora tale finalismo avrebbe potuto essere completamente diverso e con ciò sarebbero stati diversi anche i principi morali che se ne sarebbero ricavati. Invece che la vita e la conservazione della vita, il fine di un altro ordine finalistico avrebbe potuto essere INDIFFERENTEMENTE dal punto di vista razionale (che è quello che interessa la filosofia), la morte e il nichilismo assoluto. Perché no?

    3) La conclusione è che se non vi è una causa ontologica intelligente e libera, qualsiasi ordine finalistico sia presente di fatto, non è un ordine finalistico che possieda in sé le ragioni sufficienti per imporsi come moralmente obbligatorio, proprio perché avrebbe potuto essere un ordine totalmente diverso.

    4) Attraverso altri passaggi, si può dimostrare poi che quella causa intelligente e libera deve essere infinitamente intelligente e libera, altrimenti potrebbe non essere infallibile nell’avere stabilito il bene, e dunque si conclude che o c’è Dio (inteso filosoficamente come Atto Puro d’essere, cioè come Infinito in Atto o Ipsum Esse Subsistens) come causa del finalismo di fatto riscontrato in natura, oppure non ci sono sufficienti elementi per fondare razionalmente l’etica.

    • Giorgio Masiero ha detto in risposta a a-theòs=a-éthos

      Grazie, a-theòs=a-éthos! Con la tua spiegazione ci hai dato la chiave del tuo nomignolo… A parte gli scherzi, quanto è profonda la filosofia, ragazzi! E c’è chi vorrebbe dichiararne il funerale in nome della tecno-scienza…

      • a-theòs=a-éthos ha detto in risposta a Giorgio Masiero

        Grazie Giorgio. Almeno però la tecno-scienza dà da vivere al tecno-scienziato (anche a quello buono eticamente), mentre il filosofo muore letteralmente di fame (che sarebbe il meno), ma sopratutto è impossibilitato a continuare i propri studi (anche se è buono eticamente, anzi, in certi casi proprio per quello) 🙁

        In questi giorni (spedirò il tutto entro domani) sto completando le ultime correzioni al saggio che ho scritto proprio su questo fondamentale argomento: la fondazione razionale dell’etica come necessitante in ultimo il riferimento a Dio. Dopo di che come filosofo sono finito.

    • DSaeba ha detto in risposta a a-theòs=a-éthos

      Come ho già detto al prof. Baldi a lezione, mi chiedo perchè l’etica del funzionalismo e di un certo rinascimento del finalismo, ovvero l’etica di McIntyre, non venga presa particolarmente in considerazione.

      In fondo lo stacco principe nel superamento della Legge di Hume, ovvero il considerare la natura umana in maniera finalistico-razionale, è arrivato grazie all’apporto del filosofo scozzese.

      • a-theòs=a-éthos ha detto in risposta a DSaeba

        Confesso di non conoscere bene McIntyre, ma per quanto ho letto (“Dopo la virtù”), lo trovo molto interessante. Per ora però non ho approfondito troppo le posizioni di chi ha riportato in auge l’etica delle virtù, non perché io sia in un qualunque modo sfavorevole a questa prospettiva, ma perché non è quella che mi interessa in prima istanza. Parlare di virtù implica, infatti, occuparsi di etica in senso stretto, mentre io sono più interessato ai problemi più generali e fondamentali di tipo metaetico.

        Inoltre per molti autori contemporanei, anche tomisti, l’etica delle virtù costituisce un rifugio per evitare accuratamente di occuparsi della famigerata “legge di Hume”, che danno per assodata secondo una qualche vulgata (normalmente secondo la vulgata che la intende come “dimostrazione” della dicotomia incolmabile tra fatti e valori).

        • DSaeba ha detto in risposta a a-theòs=a-éthos

          Grazie per la risposta. Io mi sono appassionato all’etica dopo un esame universitario, e sto leggendo alcuni testi consigliatimi. Tuttavia nessun filosofo mi ha colpito come McIntyre.

  7. Luigi Pavone ha detto

    Proporrei alla redazione UCCR di realizzare nella Home una bacheca con gli articoli a carattere culturale, filosofico. E’ un peccato che articoli di questo tipo siano travolti dal flusso della attualità. In questa bacheca, per come io me la immagino, gli articoli, 3 o 4, scorrerebbero molto più lentamente. Inoltre la bacheca fornirebbe un incentivo in più per la stesura di questo genere di articoli, dato che questi avrebbero un trattamento speciale, ma giustamente speciale. Insomma, due binari: attualità, cultura. Uno “veloce”, l’altro “lento”.

  8. Licurgo ha detto

    Alla critica di Hume si può rispondere anche in via assiologica.
    Se noi non avessimo i valori non potremmo sviluppare nemmeno la conoscenza. Se noi non avessimo evidenza istintiva del fatto che l’essere sia bene, che la conoscenza aiuta a mantenere ed amplificare l’essere, non avremmo nemmeno sviluppato la conoscenza ma avremmo vissuto come molti animali.
    Ovvero, se noi non avessimo istintivo ed innato il concetto di ‘bene’ (che, detta volgarmente, è ciò che mantiene ed implementa l’essere) e, specularmente, di ‘male’, non avremmo cercato alcuna forma di conoscenza.
    Di qui, se poi si vede che i nostri concetti conoscitivi (derivati dai valori) sono rispondenti alla realtà (e lo sono, anche se magari parzialmente), si percepisce il finalismo si arriva comunque dritti dritti alle argomentazioni sviluppate poi giustamente da A-theos A-ethos.
    A chi nega il finalismo in nome dell’evoluzione, si risponde che anche l’evoluzione è regolata da leggi (più o meno ancora approfondite) della materia, e dove c’è legge, e dunque intelligenza come funzione, non può non esserci un’intelligenza cosciente; anche perchè, se poi si ammette il ‘caso’ (con tutti problemi che derivano, in primis come possono coesistere ‘caso e necessità’ come vorrebbe Monod essendo principi mutualmente contraddittori), si dovrebbe sempre capire da dove viene questo ‘caso’ che sarebbe comunque una forza che orienta la materia.

    • a-theòs=a-éthos ha detto in risposta a Licurgo

      Una cosa è quanto avviene di fatto e un’altra cosa è la giustificazione teorica del fatto. Che l’uomo percepisca come beni i fini verso i quali è naturalmente inclinato è una questione diversa dal giustificare razionalmente la bontà di tali fini. Quello che sostengo io è proprio che, nell’ipotesi che l’ordine finalistico, che di fatto si dà, abbia il caso come causa (e non Dio), la “naturale” tendenza a considerare tale finalismo come un bene, corrisponderebbe all’individuazione di un bene solo “prima facie”, di un bene in definitiva solo apparente, proprio perché verso un qualsiasi ordine finalistico proveniente dal caso (e già questa è una nozione che Aristotele e San Tommaso riterrebbero assurda, proprio perché definiscono il caso in antitesi a ciò che avviene “sempre o per lo più”) o da qualsiasi altra causa che non sia Dio, non può esservi obbligazione morale.

      • Licurgo ha detto in risposta a a-theòs=a-éthos

        Io sono d’accordo con Lei sulla sua dimostrazione dell’infinità intelligenza e libertà della causa prima partendo dal finalismo.
        Sul discorso che siamo noi a percepire come ‘bene’ i nostri ‘fini’, meno, o forse mi son spiegato male io.
        Se non avessimo intuitivamente evidente il concetto di ‘bene’ in quanto tale (e che razionalmente si può concettualizzare come ‘ciò che conserva ed implementa l’essere’ proprio per spiegare come non li ritenga disgiunti dalla razionalità) non potremmo nemmeno considerare mai un ‘bene’ particolare un nostro ‘fine’ particolare.
        Ora, che ‘scopo’ e ‘bene’ siano intimamente collegati è un a fortiori della sua argomentazione tomista, che reputo comunque validissima anche a se stante

« nascondi i commenti