Altri psicologi contro le adozioni gay: «l’amore non basta»

Famiglia 2Se davvero bastasse soltanto l’amore per crescere ed educare dei figli, come ripete a ritornello chi vuole sostenere l’omogenitorialità, allora famiglie poligamiche con sei mamme e un papà sarebbero certamente più adeguate rispetto ad una coppia omosessuale con soltanto due genitori. Si pensi a quanto amore potrà ricevere un bambino da ben sette persone rispetto a due, magari anche entrambi lavoratori.

Questo discorso -volutamente retorico- ovviamente non viene accettato, anche se coerente con la tesi omosessualista. Il motivo è che in fondo nessuno crede davvero che sia davvero sufficiente soltanto amore per crescere i bambini, tutti siamo stati figli e tutti sappiamo come stanno le cose. Tuttavia è un argomento molto convincente dal punto di vista sentimentale e viene usato proprio a questo scopo.

L’amore non basta, ci dicono gli studi scientifici.  L’amore non basta, lo ripetono sempre gli psicologi, molti dei quali inseriti in questo dossier specifico.

Due importanti esperti hanno recentemente preso anche loro posizione nel breve saggio «Sul paradosso dell’omogenitorialità» pubblicato sul nuovo numero di Vita&Pensiero, rivista dell’Università Cattolica. Vittorio Cigoli, ordinario di Psicologia Clinica delle Relazioni di Coppia e di Famiglia presso l’Università Cattolica di Milano e Eugenia Sacabrini, professore emerito di Psicologia sociale presso l’Università Cattolica di Milano, di cui è stata Preside della Facoltà di Psicologia nonché Presidente della Conferenza Nazionale dei Presidi delle Facoltà di Psicologia per il biennio 2008-2010.

I due esperti partono dalla posizione psicoanalitica classica, già espressa da Silvia Vegetti Finzi, docente di Psicologia Dinamica presso l’Università di Pavia, che fa leva sul triangolo edipico, ritenendo essenziale, per un corretto sviluppo dell’essere umano, il riferimento al padre e alla madre. «L’identità si costruisce attraverso un processo di identificazione», spiegano Scabrini e Cigoli, «che coinvolge tanto la psiche quanto il corpo sessuato dei genitori e che si delinea nella differenza. Al proposito noi preferiamo parlare, con un termine forte, di “incorporazione” ancor prima che di identificazione: la persona del figlio si incorpora infatti nella storia familiare, cioè ne è parte costitutiva».

Rispetto alle teorie del gender e in particolare della queer theory, «che, in linea con la posizione costruttivista, sostiene la tesi che il genere è una pura costruzione sociale» gli psicologi la ritengono «“riduzionista” perché denega la differenza anatomo-biologica. Questa posizione si inserisce in quel fenomeno che Janine Chasseguet- Smirgel (“Il corpo come specchio del mondo”, 2005) ha acutamente indicato come rivolta contro l’ordine biologico caratteristica della cultura dell’Occidente che oggi assume varie forme, dalla mutilazione dei corpi e commercio degli organi, agli interventi di mutazione del sesso, alle madri in affitto, al reimpianto di embrioni congelati dopo la morte dei genitori o di un genitore». All’origine di questo «drammatico disinvestimento sul corpo, che lo “depersonalizza” togliendogli il carattere di corpo vivente, sta la mancata integrazione o meglio, se si vuole, la scissione, tra l’io corporeo e l’io psichico. Ciò porta a varie forme di perversione mosse da un desiderio di onnipotenza (è del desiderio inconscio la connaturata insofferenza del limite) che vuole fare accadere ciò che è impossibile, com’è il generare con corpi “omogeneri”. Ci troviamo così di fronte all’ibrido e all’indistinto. È entro questo quadro che si situa la concezione del corpo come indifferenziato; in esso scompaiono le differenze tra i sessi e tra le generazioni (ma anche tra il bambino e l’adulto) e si preconizza una società fatta di ibridazioni, transgenere, postpadre e postmadre. Potremmo parlare dell’hybris dell’uomo moderno, che nega il limite e il vincolo dell’essere generato, dell’appartenere a un sesso (e perciò non a un altro) e di abbisognare dell’altro per generare.

«La differenza di genere, generazione, stirpe», spiegano Scabrini e Cigoli, «è invece la costante e lo specifico dei legami familiari. Tale differenza viene trattata in modo diverso dalle varie culture, ma è risaputo come le scissioni tra ordine biologico e psico-antropologico e il diniego delle differenze stiano all’origine di molti e gravi problemi relazionali. Usando una terminologia lacaniana, potremmo dire che l’immaginario (il mondo delle rappresentazioni) ha la meglio sul registro simbolico (il terzo tipico del legame che viene dalla differenza). In ogni caso l’attacco alla differenza e alla complementarietà che ne deriva, che si manifesta attraverso l’invidia, il disprezzo e l’abuso nei confronti dell’altro è un pericolo ricorrente dei legami familiari, come la storia ben insegna.

Perché la richiesta da parte di due omosessuali di adottare un bambino che non potranno mai avere tra loro? «Vi possiamo leggere l’attrattiva nostalgica di un bene da cui si è esclusi per scelta e condizione di vita. Più in generale il clinico vi legge un’angoscia a cui consegue quasi un’ossessione di normalità che può celare un profondo vissuto di inferiorità-marginalità, sentimento che non è peraltro proprietà esclusiva di coppie gay o lesbiche, dato che attraversa la vita di molte coppie e persone. In particolare, l’assillo della normalità si manifesta nella rivendicazione del diritto di ottenere legittimazione sociale. È come se il problema (cioè un ostacolo, un interrogativo profondo) trovasse una soluzione definitiva nella legittimazione legale e sociale. Ma il “normale”, sia esso statistico o legale, non è in grado, in sé, di rispondere alla specificità dell’esserci al mondo e del proprio valore.

«La famiglia», proseguono, «non è solo luogo di affetti, di amore e odio, ma vive anche di un ordine strutturale e simbolico, vive di una dinamica generazionale che ha le sue regole e le sue leggi. Genealogie confuse, assenti o enigmatiche, non facilitano certo il viaggio che fa del bambino un figlio. Nella clinica, specie di orientamento generazionale, ben conosciamo le patologie connesse a tali accadimenti». E ancora: «Stupisce che il tema della omogenitorialità, che comporta necessariamente il destino dei generati, venga posto quasi esclusivamente nei termini dell’eguaglianza di opportunità e di diritti degli adulti, eludendo il tema della responsabilità che sempre le generazioni precedenti hanno su quelle successive, tema che non è solo della singola persona o della coppia che fa questa scelta, ma anche del corpo sociale che può favorirla o ostacolarla avvertendone il pericolo per il proprio futuro».

Non si può dunque esimersi «dall’evidenziare il rischio e pericolo aggiuntivo di tali situazioni che la psicoanalista Janine Chasseguet-Smirgel con espressione forte cosi esprime: “Solo la mancanza di immaginazione permette di veder avanzare con tranquilla stupidità l’enorme massa di problemi che tutto questo ci propone e ci aspetta”. Stupisce anche, da un punto di vista psicologico, che il dolore profondo e l’angoscia che accompagna tali itinerari di vita (sia per gli adulti sia per i figli) venga così raramente alla luce. È come se non fosse possibile parlare di ostacoli, problemi, drammi, invidia, bisogno di riconoscimento essendo tutto coperto dall'”amore”. La ricerca, come abbiamo visto, è rivolta soprattutto a sottolineare gli esiti di “normalità” nello sviluppo dei figli. Ma, se non è compito della psicologia patologizzare, non lo è neppure “normalizzare”».

La redazione

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