1000 scienziati vs Darwin: selezione naturale non spiega complessità della vita

darwin dayDarwin Day 2019: 1000 scienziati si schierano contro Darwin, contro la selezione naturale ed il gradualismo. Una critica scientifica di importanti evoluzionisti al meccanicismo biologico affermato dal neodarwinsimo, superato dalla scienza moderna e incapace di spiegare la complessità della vita. Nessuna adesione al creazionismo.

 

210 anni fa, il 12 febbraio 1809, nasceva Charles Darwin. Il celebre naturalista che teorizzò, contemporaneamente (o meglio, successivamente) ad Alfred Wallace, la teoria della selezione naturale.

In questi giorni lo si celebra tramite i Darwin Dayorganizzati con evidente strumentalizzazione da militanti ateisti che credono ciecamente che il darwinismo possa realmente essere una prova scientifica contro l’esistenza di un Creatore.

Un’idea sciocca, come ci ha spiegato il biologo de La Sapienza di Roma, Mariano Bizzarri, alla pari di quella dei creazionisti, convinti che sia tutto falso, che la Terra sia stata creata solo qualche millennio fa e le specie che la abitano non abbiano subito alcuna evoluzione ma siano apparse così come le conosciamo.

 

Mille scienziati contro Darwin: un dissenso scientifico alla selezione naturale.

I mille scienziati che hanno firmato l’appello intitolato A scientific dissent from darwnism la pensano in questo modo e hanno manifestato il loro scetticismo circa la teoria popolare sullo sviluppo della vita. In particolare, scrivono, «siamo scettici nei confronti delle affermazioni sulla capacità della mutazione casuale e della selezione naturale di spiegare la complessità della vita».

A firmare il manifesto sono autorevoli scienziati evoluzionisti, come Philip Skell, padre della chimica del carbene e professore emerito alla Pennsylvania State University; Lyle H. Jensen, professore emerito di Biologia dell’Università di Washington; Lev Beloussov, docente di Biologia alla Moscow State University; Stanley Salthe, professore emerito di Zoologia all’Università di New York; Yvonne Boldt, docente di Microbiologia all’Università del Minnesota; Israel Hanukoglu, ordinario di Biochimica e Biologia molecolare all’Ariel University; Henry F. Schaefer, docente e direttore del Centro per la Chimica Computazionale presso l’Università della Georgia (nonché uno dei chimici più citati al mondo, con un Thomson Reuters H-Index di 113); Dean H. Kenyon, professore emerito di Biologia alla San Francisco State University; Ralph Seelke, professore emerito di Biologia all’Università del Wisconsin ecc.

L’iniziativa inizialmente è partita dal Discovery Institute, il principale ente promotore del cosiddetto Intelligent Design, ma nel tempo è stata condivisa anche da scienziati lontani dalle tesi promosse dai sostenitori del Disegno Intelligente. I firmatari, infatti, precisano che «stanno semplicemente accettando la dichiarazione scritta, non indicano il loro accordo o disaccordo verso altre teorie scientifiche (come l’auto-organizzazione, lo strutturalismo o la progettazione intelligente)».

La necessità di questo manifesto è importante in quanto, come viene giustamente scritto, «negli ultimi anni c’è stato uno sforzo da parte di alcuni sostenitori della moderna teoria darwiniana per negare l’esistenza di critici scientifici al neodarwinismo e scoraggiare la discussione delle prove scientifiche a favore e contro il neodarwinismo». Si parla addirittura di “dogma scientifico”, quello che ha impedito una sana discussione scientifica sul libro Gli errori di Darwin (Feltrinelli 2011), pubblicato da Jerry Fodor e Massimo Piattelli-Palmarini e ampiamente sostenuto dal genetista e biologo di fama internazionale, Richard Lewontin (Harvard University).

 

Neodarwinismo e gradualismo superati dall’evoluzione direzionale.

La selezione naturale è risultata perfettamente capace di spiegare la “micro-evoluzione” (variazione entro limiti stabiliti di complessità, variazione quantitativa di organi o di strutture già esistenti ecc.), mentre risulta completamente inadeguata a livello di “macro-evoluzione” (innovazione su larga scala, comparsa di nuovi organi, strutture, apparati corporei, materiale genetico ecc.). Anche il gradualismo, tipico della visione ottocentesca del darwinismo, è ormai ampiamente messo in discussione dalla scienza moderna, la quale è orientata verso un modello saltazionistico. Uno dei più importanti paleontologi americani, Steven M. Stanley, ha infatti scritto: «I reperti fossili conosciuti non riescono a documentare un solo esempio di evoluzione filetica (graduale). Dunque non c’è alcuna prova del fatto che il modello gradualistico possa essere valido» (S. Stanley, Macroevolution, Pattern and Process, W. H. Freeman & Co. 1980, p. 39). Ian Tattersall, antropologo dell’American Museum of Natural History di New York, ha concluso che «noi esseri umani non siamo le creature che siamo grazie a una selezione naturale protrattasi per intere ere».

Selezione naturale e gradualismo sono le colonne portanti del neodarwinismo, che vuole imporre alla biologia un approccio meccanicistico. Una visione superata, come ha spiegato il celebre chimico e filosofo Michael Polanyi, in quanto gli organismi biologici non sono comprensibili tramite le leggi della meccanica poiché hanno dentro di sé una propensione individuale a vivere. C’è un fondamentale aspetto teleologico gravemente trascurato dai neodarwinisti, quello ben descritto dal premio Nobel per la chimica Ilya Prigogine: «la Vita avanza dappertutto a tentoni ma, nell’apparente caos dei suoi dinamismi, essa segue delle linee preferenziali di sviluppo che la conducono sino all’autocoscienza presente nell’uomo» (I. Prigogine, Le leggi del caos, Laterza 1993, p.3). L’eminente biologo statunitense Stuart Kauffman ha spiegato che il ruolo della selezione naturale è fortemente ridimensionato dall’evidenza che i sistemi naturali sono portatori di una predisposizione intrinseca all’auto-organizzazione, una tendenza verso un fine ordinato e l’ordine biologico è spesso emerso a prescindere dalla selezione naturale e talvolta malgrado la sua presenza (S. Kauffman, The Origins of Order, Oxford University Press 1993).

Un’evoluzione direzionale, dunque? Il teologo Hans Küng ha sapientemente scritto: «la vera alternativa non è tra evoluzione e creazione, bensì tra visione del mondo in evoluzione, dipendente da Dio trascendente e creatore, secondo un suo disegno, e visione di un mondo in evoluzione, autosufficiente, capace di crearsi e trasformarsi, per una sorta di potenza e intelligenza immanente; la vera alternativa è tra visione atea e materialista e visione religiosa di tutta la realtà aperta al trascendente» (Kung, Dio esiste?, Fazi Editori 2012, p. 830).

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Il darwinismo non ha detronizzato l’uomo, egli resta irriducibile


 
di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista

 
 

Occorre premettere, anzitutto, che Darwin è meglio non venga arruolato da nessuno. Coloro che lo hanno fatto, in passato, per darsi un’aura di scientificità, non gli hanno reso un grande servizio. Penso all’entusiasmo per il darwinismo di Galton, fondatore dell’eugenetica; o a quello di Marx, di Stalin e di Lenin, che videro nell’evoluzionismo la conferma del loro materialismo; a quello dei social-darwinisti e dei biologi guerrafondai di primo Novecento, soprattutto in Germania; a quello di Benito Mussolini che a Trento, nel 1908, in occasione dell’inaugurazione di una statua al darwinista Canestrini, rivendicava la scientificità dell’ateismo in nome, appunto, del naturalista inglese. E’ anche a causa di queste appropriazioni, non poco ideologiche, delle ipotesi darwiniane, che ancora oggi la discussione è spesso più ingarbugliata del previsto.

Fatta questa breve premessa, vorrei sostenere quello che mi sembra un concetto innegabile: nonostante il tentativo insistente e forzato di alcuni darwinisti di stabilire una continuità netta, totale, assoluta, tra l’animale e l’uomo, continuità del resto suggerita da Darwin stesso ne L’origine dell’uomo, non vi sono ancor oggi prove di tutto ciò. Anzi, quello che sappiamo ci indica una evidente discontinuità. Per l’uomo contemporaneo, come pure per Sir Alfred Wallace, colui che insieme a Darwin illustrò per primo al mondo la moderna teoria evolutiva, rimangono ancora inspiegate la pelle glabra, l’andatura bipede, la stazione eretta e la volumetria del cervello: tutte caratteristiche proprie dell’uomo e non dei primati, per giustificare le quali gli evoluzionisti hanno portato svariate argomentazioni, sempre divergenti e contrastanti tra loro.

Ma soprattutto rimane a tutt’oggi innegabile l’esistenza di un salto ontologico incolmabile tra l’animale e l’animale-uomo. Questo perché, se da una parte è dimostrabile che molte caratteristiche animali sono presenti nell’uomo, come del resto si è sempre pensato anche prima di Darwin, dall’altra è ugualmente provato che una serie di facoltà sono invece peculiari e distintive dell’uomo e solo di lui: il pensiero, l’idea di Dio, il linguaggio, il senso morale, la libertà, l’altruismo…tutte facoltà non giustificabili alla luce della pura evoluzione, che lo scienziato ateo Edoardo Boncinelli ha catalogato abilmente come “incidenti congelati”, cioè come avvenimenti fortuiti, casuali, che non sappiamo spiegare, e che pure esistono. Catalogazione, lo si comprende facilmente, che nasconde, dietro una formula brillante, ma vuota, la cruda verità e cioè l’irriducibilità dell’anima umana a meccanismi puramente materiali ed evolutivi, tanto più se casuali.

Tra gli oratori del Darwin day di Ancona nel 2009, vi era il biologo evolutivo Vincenzo Caputo, dell’istituto di Biologia e Genetica dell’università Politecnica delle Marche, che si considera certamente un grande estimatore di Darwin, e con cui ho avuto modo spesso di discutere via email. Ebbene, Caputo è autore di un breve saggio “Mente e coscienza negli animali: un excursus etologico”, in cui si prendono le distanze dalle forzature di quegli etologi che tentano di equiparare ogni capacità umana con una analoga facoltà animale, finendo appunto per identificare animali ed uomini, e, a seguire, diritti animali e diritti umani. Il leit motiv di questi etologi darwinisti è che ogni differenza tra animali e uomini sia solo quantitativa, e cioè colmabile, e non qualitativa. Eppure scrive Caputo, «non occorre riflettere a lungo per riconoscere la differenza qualitativa essenziale tra il padroneggiare le pratiche del calcolo differenziale o la trigonometria, da una parte, e il saper apprezzare la differenza tra due muchi di caramelle (come sanno fare determinate bestie, ndr), dall’altra”. Analizzando le differenze tra il linguaggio animale e quello umano, Caputo, riprendendo un celebre linguista, scrive che proprio la parola rappresenta ancora oggi «il nostro Rubicone che nessuna scimmia potrà attraversare». Infatti, «nonostante un filone di ricerca etologica intrapreso fin dai primi del Novecento, a tutt’oggi non sono stati scoperti chiari equivalenti del linguaggio umano (cfr. Deacon, 1992, 2000)».

«Anche il tentativo -continua Caputo- di insegnare a primati superiori linguaggi simbolici semplificati (sia il linguaggio americano dei segni, sia l’uso di lessigrammi) ha evidenziato le difficoltà di apprendimento apparentemente insuperabili nel passaggio dalle associazioni condizionate a quelle simboliche (Deacon, 2001). In effetti, l’insegnamento del linguaggio dei segni agli scimpanzé sembrava inizialmente indicare una notevole competenza linguistica di questi primati. Tuttavia, verifiche successive basate sull’esame al rallentatore di filmati eseguiti durante le sessioni di addestramento, rivelavano che la maggior parte dei segni formulati dalla scimmia erano suggeriti inconsciamente dai suoi stessi insegnanti e che l’animale non faceva altro che imitarli nell’intento di ottenere un premio. Altrettanto controversi sono risultati i test in cui si insegnava a degli scimpanzé a disporre dei lessigrammi secondo un ordine prescritto, in modo da formare “frasi” e ottenere premi: gli scimpanzé impararono tutti a maneggiare una certa quantità di simboli, svelando un’impressionante capacità cognitiva. Ma rimane tutt’altro che chiaro se in qualcuno di questi casi di uso dei simboli ci fosse una reale comprensione dei simboli stessi. Ed è proprio “la differenza fondamentale fra l’usare i simboli e il comprenderli a costituire la discontinuità fra gli animali e gli umani, e ciò che porta alla manifesta ed enorme distanza fra le richieste automatiche delle scimmie addestrate al linguaggio e ai voli concettuali degli umani” (Budiansky, 2007). In definitiva, la diversità fra comunicazione umana e animale emersa dagli studi etologici rende difficile tracciare le origini evolutive delle parole facendole risalire a un precursore animale. La maggioranza degli autori sembra invece ipotizzare che il linguaggio si sia originato dopo il distacco della diramazione ominide dagli altri primati (Hauser, 2002; Mithen, 2007) e che costituisca un istinto, una dotazione specie specifica innata che sarebbe rintracciabile soltanto nell’uomo (cfr. Pinker, 2007)…».

Concludendo il suo studio il professor Caputo attribuisce a Dawin il merito di averci lasciato «la consapevolezza che noi umani siamo inestricabilmente (= filogeneticamente) legati agli altri animali. Questo dato scientifico ci rende “meno soli” nell’universo, anche se la nostra peculiarità cognitiva esalta innegabilmente la distinzione di Homo sapiens entro il mondo animale. Una variante del dualismo cartesiano sembra perciò resistere (umano vs animale), malgrado le ingegnose indagini di quegli etologi e psicologi evolutivi che tentano di colmare l’abisso cognitivo che ci separa dagli altri animali. Pinker (2007) ha giustamente fatto rilevare che gli sforzi di questi ricercatori…sono destinati a uno scontato fallimento.

L’altra eredità darwiniana che ha profondamente inciso sulla nostra visione della natura è il “gradualismo”, cioè l’idea secondo la quale l’evoluzione si verificherebbe secondo un costante e continuo passaggio tra forme di vita impercettibilmente diverse: per Darwin infatti le specie non esistono, se non come costrutti metafisici della mente umana. In realtà, le ricerche svolte nel corso del Novecento hanno chiaramente dimostrato che le specie sono “prodotti” reali della natura e il meccanismo che le crea è la cladogenesi o speciazione, che Darwin non aveva pienamente compreso (cfr. Mayr, 1990). Ed è proprio la speciazione che, generando in perpetuo discontinuità fra gli organismi, tende a saturare quelle opportunità ecologiche che il divenire del Pianeta offre costantemente alla vita. Se il cambiamento evolutivo si verificasse, come Darwin pensava, esclusivamente secondo la modalità del gradualismo filetico, che può solo modificare una stessa linea di discendenza, la vita prima o poi perirebbe sotto i colpi spietati dell’estinzione.

Questa visione gradualistica del processo evolutivo, enfatizzando la continuità uomo-animale (cfr. Rachels, 1996), ha inoltre fornito all’attuale movimento animalista un potente argomento a favore dei “diritti animali”. I più accesi sostenitori della filosofia animalista hanno addirittura introdotto il termine “specismo” per stigmatizzare la discriminazione nei confronti dei “non-umani”, sottolineando che questa attitudine discriminatoria è simile al razzismo e al sessismo (cfr. Rachels, 1996). Secondo uno dei massimi esponenti del movimento di “liberazione animale”, così come il razzista attribuisce maggior peso agli interessi della sua etnia e il sessista a quella del suo sesso, “lo specista permette che gli interessi della sua specie prevalgano su interessi superiori di membri di altre specie” (Singer, 2003). L’animalismo più avanzato si è poi dedicato al cosiddetto “Progetto Grande Scimmia”, esposto in un libro che esordisce col seguente proclama “Noi chiediamo che la comunità degli eguali sia estesa a includere tutti i grandi antropoidi: esseri umani, scimpanzè, gorilla e oranghi” (citato in Castignone, 1997; cfr. anche Marks, 2003). Non c’è chi non veda in questo vero e proprio fanatismo zoofilo la forma più estrema di antropomorfismo. Attribuendo infatti diritti agli animali ed elevandoli di conseguenza a membri della comunità morale, li vincoleremmo a obblighi che non possono né comprendere né tantomeno ottemperare. Perseverando in questa assurda pretesa, si arriverebbe al paradosso per cui una volpe dovrebbe rispettare il diritto alla vita del pollo e intere specie sarebbero condannate ipso facto all’estinzione in quanto creature istintivamente criminali (Scruton, 2007, 2008)!».

«In realtà– conclude Caputo- pur nella piena consapevolezza del vincolo filogenetico che ci unisce agli altri animali, mi sembra pura cecità ideologica non voler vedere le incommensurabili differenze cognitive che ci separano da essi, come lucidamente sostenuto dal più grande biologo evolutivo del Novecento, Ernst Mayr (1904-2005): “L’ondata di sgomento per la “detronizzazione” dell’uomo non si è ancora placata. Privare l’uomo della sua condizione di privilegio, come imponeva la teoria della discendenza comune, fu il primo effetto della rivoluzione darwiniana, ma, non diversamente da altre rivoluzioni, anch’essa finì con l’andare troppo oltre, come dimostra l’affermazione fatta da alcuni estremisti, secondo cui l’uomo non è “niente altro” che un animale. Ciò naturalmente non è vero; certamente, da un punto di vista zoologico, l’uomo è un animale, ma un animale unico, che differisce da tutti gli altri per così tanti aspetti fondamentali da giustificare una scienza separata specificamente dedita al suo studio. Fermo restando questo punto, non si deve dimenticare in quanti modi, spesso insospettati, l’uomo riveli la sua ascendenza. Nel contempo l’unicità dell’uomo giustifica in qualche misura un sistema di valori riferito all’uomo e a un’etica antropocentrica. In questo senso una forma profondamente modificata di antropocentrismo continua a essere legittima” (Mayr, 1990, pag. 384)».

L’unicità dell’uomo, l’antropocentrismo biblico: questo è quello che un credente difende senza possibilità di arretrare, e che “il più grande biologo evolutivo del Novecento”, riconosce. Perché è solo questa unicità che salva l’uomo dal non senso, e che gli attribuisce quella dignità che gli ha permesso di dominare la natura, di alzare gli occhi al cielo, di interrogarsi sul senso dell’esistenza, di costruire, in ogni tempo necropoli e sepolcri, nella convinzione che solo le bestie sono destinate a divenire per sempre polvere e terra. Nessun darwinismo, per quanto ideologico e agguerrito, potrà mai scalfire questa verità, autoevidente da quando l’uomo esiste; autoevidente, potremmo dire, come il concetto per cui l’uomo comprende in sé la natura animale, mentre l’animale, al contrario, non è in grado di farlo.

Alla luce di queste considerazioni, anche l’espressione di Mayer, secondo cui il darwinismo avrebbe “detronizzato” l’uomo, è solo un tributo ad un certo darwinismo ideologico negato subito dopo, con l’affermazione della unicità dell’uomo. Bastava già Aristotele, senza Darwin per dirci che l’uomo è anche animale; bastava la narrazione del genesi, con la terra vivificata dal soffio di Dio creatore a renderci consapevoli della nostra natura anche animale, anche mortale. Anche, appunto…ma non solo. Nè Copernico, come si usa spesso dire, né Marx, né Darwin, né Freud, hanno dunque in alcun modo detronizzato l’uomo, se non nella lettura ideologica di chi vuole negare la sua dignità, la sua anima, per negare, al contempo, Dio i valori.

Da Scritti di un pro-life (Fede&Cultura 2009)

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Continuità e salti: la chiusura ideologica del mondo biologico


 
di Alessandro Giuliani*
*biostatistico e primo ricercatore presso l’Istituto Superiore di Sanità

 
 

Nel suo bellissimo libro ‘Ai miei figli’ , Pavel Florenskij, martire nei Gulag staliniani e insieme una delle menti più lucide del ventesimo secolo che spaziava dalla matematica, alla storia dell’arte, alla teologia ed alla chimica, coglieva con chiarezza la potenza disumanizzante del positivismo nel concetto di ‘continuismo’. Se ogni forma della natura (vivente o non vivente) poteva essere totalmente compresa in termini di variabili e leggi evolutive che variavano con continuità (in matematica si dice differenziabili), senza punti singolari, catastrofi, brusche discontinuità, allora semplicemente tali forme erano solo un’illusione o al più una gradevole curiosità senza valore conoscitivo e tutte le nostre idee di bellezza, di vita buona, di giustizia puri accidenti storici.

Non casualmente Florenskij prende le mosse dal concetto matematico degli ‘infiniti di diversa potenza’, sviluppando alcune idee del matematico Georg Cantor e curiosamente convergendo con il concetto di ‘diversi ordini di realtà’ che aveva affascinato secoli prima un altro genio profondamente cristiano e a lui sorprendentemente simile: Blaise Pascal. La cosa può sembrare astrusa ma non lo è affatto: se una particolare legge di crescita a spirale (si pensi ad esempio a certe conchiglie, ma anche a certe reazioni chimiche oscillanti che generano delle spirali nel mezzo in cui avvengono, o a certe formazioni rocciose..) non è un puro accidente di una continuum di forme tutte ugualmente possibili ma risponde invece a dei criteri di ottimalità nella sua relazione con l’ambiente e/o nella sua formazione, allora, indipendentemente da variazioni del sostrato (mutazioni che influenzano i ritmi di espressione genica per la conchiglia, cambiamenti nella concentrazione di prodotti e reagenti nella reazione chimica oscillante, variazioni di temperatura e pressione nell’orogenesi nel caso delle rocce) la spirale rimarrà praticamente identica a sé stessa. In fisica un tale comportamento si denota con la fascinosa parola ‘attrattore’, una certa forma, una certa modalità o ritmo è un ‘attrattore’ se il sistema continua ad adottarlo anche quando sottoposto a perturbazioni. Tanto più vasto è ‘il bacino di attrazione’ di un certo attrattore, tanto più resistente (e frequente) sarà la modalità corrispondente. In presenza di ‘attrattori’ il costante ed immemore flusso della continuità che tutto travolge e tutto trasforma si spezza e deve ‘chinare la testa’ a dei vincoli generali di ottimalità che ‘impongono certe soluzioni’ rispetto ad altre, il progresso non è più un flusso continuo ma un ‘saltabeccare’ da una ‘forma ammessa’ ad un’altra. La causalità ‘top-down’ (il finalismo avrebbe detto Aristotele, ma non ci impelaghiamo in termini sdrucciolevoli) si sovrappone al puro ‘costruire dal basso’ in termini di ‘forme privilegiate’ che indicano semplicemente delle ‘condizioni globali’ favorite dall’ambiente. Allora non avrà molto senso elucubrare sull’effetto di quel piccolo cambiamento (gene in più o in meno, mutazione X o Y) che con tutta probabilità verrà ‘riassorbito’ dal vincolo ‘top-down’, dalla stabilità cioè della forma generale in cui si inscrive.

 Ora, se non andiamo troppo a fondo con le conseguenze generali, nessuno scienziato crede ragionevolmente ad un’ ipotesi continuista assoluta e onnipresente, vista la dovizia di contro-esempi che la natura ci propone; per rimanere nel mondo della biologia, potremmo considerare come i livelli di espressione di circa 30.000 geni, ciascuno potenzialmente variabile su quattro ordini di grandezza (e quindi con la possibilità di generare un numero praticamente infinito di configurazioni) si risolva in solo 200 ‘pattern stabili’ corrispondenti ai diversi tessuti del nostro corpo, circa mille forme ‘ideali’ di configurazioni tridimensionali di proteine spiegano l’universo praticamente infinito di possibilità di ripiegare nello spazio stringhe di una lunghezza variabile da circa trenta a diecimila aminoacidi, e potremo continuare con l’esistenza di sole tre possibili simmetrie per il corpo degli animali ecc. ecc. Quando però si entra nel campo dell’evoluzionismo questo semplice buon senso viene subito meno e l’ipotesi continuista deve essere difesa a spada tratta contro tutte le possibili evidenze contrarie.

Ho potuto sperimentare di persona la forza di questo pregiudizio in quasi due anni di ‘contesa’ con gli anonimi revisori di un saggio scientifico che ho scritto in collaborazione con il mio amico israeliano Eli Reuvenidal titolo: “Emergent properties of gene evolution: species as attractors in phenotypic space”: il fatto che il saggio sia stato alla fine accettato da una rivista di fisica e non da una di biologia non è per nulla casuale, infatti solo i revisori di Physica A (una rivista di meccanica statistica) hanno avuto un atteggiamento ‘laico’ nei confronti del nostro lavoro sollevando obiezioni e commenti (a cui abbiamo risposto soddisfacentemente visto che poi il lavoro è stato accettato) sulla congruità tra ipotesi di lavoro e risultanze sperimentali e sulle metodiche di calcolo utilizzate e non, come i revisori di ben cinque riviste di biologia a cui era stato sottomesso in precedenza, sull’ideologia sottesa al nostro lavoro. Insomma la rivista di fisica ha avuto un atteggiamento scientifico, quelle di biologia un atteggiamento dogmatico. La conclusione della contesa ci ha fatto sicuramente piacere anche se rimane il rammarico della rigida chiusura delle riviste biologiche che sarebbero state un foro molto più rilevante per il nostro lavoro (la rilevanza non ha a che vedere con la caratura scientifica che al contrario è forse maggiore nel caso di Physica A ma della capacità di incidere del nostro lavoro nel campo della biologia dove è effettivamente innovativo, laddove sotto l’aspetto della meccanica statistica, si tratta di niente di più di un’applicazione elegante di metodi assodati).

Senza entrare troppo nei dettagli (chi fosse interessato può collegarsi al sito della rivista o chiedermi il pdf), il lavoro ha dimostrato, attraverso l’analisi di circa 1300 geni codificanti di lievito (Saccharomyces Cerevisiae) che una distanza genetica continua (misurazione delle differenze in termini di numero di mutazioni del DNA tra due diverse varietà ed un loro ibrido) andava di pari passo con un fenotipo discreto (le popolazioni ibride, indipendentemente dal genotipo assumevano solo uno di due possibili ‘pattern’ di ‘malleabilità’ delle proteine corrispondenti). La presenza di poche forme vincolate da una parte era conseguenza del fatto che un organismo funziona se e solo se le sue proteine lavorano di concerto e dall’altra indicava le specie come ‘attrattori’ (forme privilegiate) nello spazio biologico e non semplici accidenti lungo un flusso continuo di variazione. Insomma ogni specie (varietà) è una configurazione ‘ottimale’ e bilanciata tra i ruoli svolti da ogni proteina nell’armonia globale che indirizza la variabilità genetica continua di fondo. Le risposte dei revisori ‘biologici’ sono state a volte di semplice incredulità (non può essere ci deve essere qualcosa di sbagliato), di disprezzo (gli autori non capiscono niente di genetica di popolazione), di accusa (chissà dove hanno preso i dati..), a volte si alzavano obiezioni astruse ed inconsistenti (qualcuno non si è neanche accorto che la nostra distanza era sull’intero profilo dei 1300 valori di rapporto e non su uno solo..). Se si pensa che ogni rivista dava da leggere il nostro lavoro ad un numero variabile da due a quattro revisori si può immaginare quanti rospi abbiamo dovuto ingoiare… Comunque io avevo già intenzione di lasciar perdere, ma Eli che è più testardo di me (e di questo lo ringrazio) ha voluto comunque andare avanti e in qualche modo ci siamo riusciti…

Perché tanto accanimento? Nel libro del mio amico Enzo Pennetta sul darwinismo (recensito su questo sito) c’è uno specchietto molto bello sul perché l’ideologia positivista del progresso continuo abbia bisogno di un paradigma continuista e rimando il lettore interessato al bellissimo libro di Enzo. Io, in maniera un po’ subdola istillerò il dubbio che troppe imprese biotecnologiche, con troppi denari investiti, implicano un paradigma continuista di ‘piccoli cambiamenti migliorativi’ (OGM, terapia genica, singoli bersagli molecolari di farmaci, spiegazione genetica delle malattie..) perché il dubbio magari infiltratosi proprio dalla parte più ‘sacra’ (e tutto sommato meno finanziariamente rilevante) come la biologia evolutiva possa minare dalle fondamenta il castello della tecnoscienza.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

La misteriosità del linguaggio umano e il fallimento del neodarwinismo

Ci siamo soffermati recentemente sulla scoperta delle ossa di uno scheletro di “Australopithecus sediba” ritrovato in Sudafrica e che i quotidiani hanno troppo entusiasticamente identificato come l’anello mancante tra la scimmia e l’uomo. Facevamo notare che se risultasse davvero così, sarebbe un duro colpo per il neo-darwinismo, dato che la scoperta porta con sé un’altra prova contro l’idea dell’evoluzione graduale, perno centrale della teoria di Darwin (cfr. Ultimissima 12/9/11).

In questi giorni il docente di Linguistica generale nella Scuola Superiore Universitaria IUSS di Pavia, Andrea Moro, esperto di sintassi e neurolinguistica, già visiting scientist presso il MIT e la Harvard University, tra i fondatori del Dipartimento di Scienze Cognitive al San Raffaele di Milano nel 1993, ha parlato della misteriosità del linguaggio umano descrivendo anche le tappe del progresso in questo campo.

Circa cinquant’anni i riduzionisti pensavano, spinti come sempre da forti condizionamenti filosofici, che tra gli esseri umani e gli altri animali «non ci fossero distinzioni qualitative rispetto al codice di comunicazione». Tuttavia «a guastare la festa, verso la fine degli anni cinquanta del secolo scorso vennero degli studi sulla struttura logica del linguaggio che mostrarono come ridurre il codice di comunicazione umana solo a meccanismi di tipo statistico era impossibile». L’essere umano rimane misteriosamente irriducibile, infatti «le grammatiche contengono nel loro nucleo la capacità potenziale di produrre strutture infinite. Inoltre, la comparsa dell’infinito non ammette gradualità, esclude cioè che esistano negli altri esseri viventi “precursori” di questa capacità: certamente gli animali comunicano, ma non lo fanno utilizzando meccanismi capaci di “costruire” l’infinito». Quindi anche in questo caso nessuna evoluzione graduale. L’uomo è tutta un’altra cosa.

Questi dati, continua Moro, portarono Noam Chomsky (capostipite di questi studi) a dichiarare: «gli esseri umani sono in qualche modo progettati in modo speciale con una capacità di natura e complessità sconosciuta». In un articolo del 2010, Moro aggiungeva: «la variazione tra le lingue umane non è illimitata perché non è, come invece lasciava credere una certa filosofia del 900, né frutto né del caos né di una convenziona arbitraria. I confini di Babele esistono e sono scritti nella nostra carne. Si aprono dunque quesiti sulla questione dell’evoluzione della nostra specie impensabili nel secolo scorso, ma rimane fondamentale la consapevolezza che il nucleo del linguaggio umano, la sua capacità creativa, è un mistero». Per chi volesse approfondire consigliamo l’acquisto del suo libro, “I confini di Babele. Il cervello e il mistero delle lingue impossibili” (Longanesi 2006) .

 

In questo video il neurolinguista Andrea Moro dialoga sulla sua esperienza nel mondo scientifico assieme al celebre docente di matematica presso l’Università di Princeton, Edward Nelson.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

L’Australopithecus sediba contro Darwin, il neo-darwinismo e il gradualismo

La scoperta delle ossa di uno scheletro di “Australopithecus sediba” ritrovato in Sudafrica ha fatto letteralmente esultare i neo-darwinisti di mezzo mondo, proprio a conferma del grande bisogno di prove per veder confermate le loro radicali teorie (con ovvi interessi filosofici).

La questione degli “anelli mancanti” tra la scimmia e l’uomo è in realtà un grande problema per chi sostiene che anche la macro-evoluzione abbia seguito gli stessi meccanismi della micro-evoluzione, processi che non possono essere messi minimamente in dubbio (questo per non illudere troppo il movimento creazionista). Non a caso nel novembre 2010 l’Università di New York, attraverso il geologo Michael Rampino, ha dichiarato che «l’evoluzione non è più sostenuta dalla geologia» (cfr. Ultimissima 19/11/10), proprio perché il gradualismo formulato da Charles Darwin non è oggi più compatibile con la storia geologica. E questo è un altro dato di fatto.

La scoperta dello scheletro di cui stanno parlando oggi i quotidiani, utilizzando pure titoloni imbarazzanti come “L’anello mancante nell’evoluzione umana” (cfr. Il Corriere della Sera 9/11/11), è paradossalmente un’ennesima prova contro la tesi gradualista, e quindi contro il perno dell’evoluzionismo darwiniano.

Come riporta correttamente Enzo Pennetta dal suo sito web, la notizia innanzitutto è vecchia, se n’era già parlato nel 2010. Ad esempio su “Pikaia”, il portale dell’evoluzione di Telmo Pievani, si informava della presenza di pareri discordanti. Tim White, paleoantropologo dell’University della California e tra i più esperti in materia, ha considerato questo scheletro solo un esponente tardivo di Australopithecus africanuse ne spiega la motivazione. La stessa posizione pare averla presa anche John Hawks, antropologo dell’Università del Wisconsin-Madison. Dunque l’A. sediba non sarebbe affatto un anello di congiunzione con l’uomo.

Ma se questi scienziati si sbagliassero, andrebbe ancora peggio per i neodarwinisti. Come riporta un equilibrato articolo apparso su “LeScienze” i risultati di questa ricerca «pongono così in dubbio la teoria di un graduale ampliamento del cervello durante la transizione da Australopithecus a Homo». Dove sembrava di vedere la definitiva consacrazione del meccanismo neo-darwiniano, emerge invece un grande ostacolo: si allontana l’ipotesi di uno sviluppo gradualistico del cervello. E i biologi, ricorda Pennetta, sanno che il gradualismo è un punto centrale del neo-darwinismo.

Sintetizzando: 1) l’Australopithecus sediba è una specie di A. Africanus, e allora niente “anello” di congiunzione con Homo. 2) l’Australopithecus sediba è un anello di congiunzione con Homo, e allora la sua scoperta comporta molte difficoltà per l’evoluzionismo neo-darwiniano a causa del suo cervello che non mostra un’evoluzione graduale.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace