Se l’aborto è spontaneo si parla di bambino e dolore, altrimenti no
- Giorgia Brambilla
- 21 Ott 2025

Giorgia Brambilla sul racconto di Roberta Rei e il dramma dell’aborto spontaneo. Una narrazione diversa se l’interruzione di gravidanza fosse stata volontaria.

di
Giorgia Brambilla*
*Docente di Etica sociale presso l’Università LUMSA di Roma
Essere o non essere? Dipende.
Se qualcuno ti ha desiderato, sei. e magicamente il tuo corpo ha una forma, la tua vita ha un senso, la tua morte procura dolore a chi ti vuole.
Se non sei voluto, invece, diventi invisibile, nessuno soffre per te, se il tuo cuore batte, abbassano il volume dell’ecografo affinché su di te cali il sipario, in silenzio: tu non esisti.
Questa premessa riguarda il racconto dell’inviata de “Le Iene” Roberta Rei, che ha parlato dell’aborto spontaneo subito e del dolore vissuto per la perdita del suo bambino: «È stato il periodo più difficile di sempre».
Decidere chi è umano e chi non lo è
Come sarebbe stato questo racconto se il figlio in grembo non fosse stato voluto?
La narrazione ovviamente avrebbe escluso ogni riferimento “antropomorfico” dell’embrione e nessuno avrebbe avuto un dolore di cui parlare. Sembra davvero che il destino di un essere umano dipenda da quale cartello hanno scritto sulla tua testa: “desiderato”, “indesiderato”.
La spaccatura è evidente. E il problema è di natura antropologica, se non addirittura gnoseologica.
Infatti, se ho nelle mani non solo l’esistenza di un altro essere umano – e già è un dramma, basti pensare all’aborto o all’eutanasia – ma addirittura la sua essenza, e quindi il potere di riconoscere o meno la sua umanità, vuol dire che non tutti siamo uomini allo stesso modo.
Questo significa che l’umanità – l’essere e vivere da uomini – non dipende dall’essenza data, ma dall’essenza che può esserci o meno; che può esserci secondo determinati gradi, facendo decadere il principio di uguaglianza.
In questa logica non stupisce che l’aborto sia stato il primo ambito in cui è stato contestualizzato questo tipo di referenzialità di auto-determinarsi, cioè di rivendicare in senso assoluto il principio di auto-determinazione secondo un criterio anarchico e arbitrario di “riconoscere”, “applicare”, “giudicare” un uomo come essere – effettivamente – umano1P. Pavone, “La matrice antropologica della questione bioetica”, in G. Brambilla, “Riscoprire la Bioetica”, Rubbettino 2020, pp. 73-99.
L’uomo, allora, è nulla, fino a prova contraria. Il potere sovrano dovrà mostrare la prova contraria – in base ai suoi criteri –, ovvero se quel nulla è “considerabile come” un uomo; di conseguenza, questo essere avrà dei diritti, oppure no.
Infatti, per logica, se dico che tutti gli uomini hanno, in quanto uomini, il diritto alla vita, come insegna il giusnaturalismo moderno, non posso negare tale diritto a nessuno. Se invece nego l’umanità, facendola dipendere dal desiderio opinabile del singolo, il diritto naturale alla vita viene automaticamente a decadere.
Questo è il filo rosso che lega temi apparentemente lontani tra loro, come aborto ed eutanasia.
La Sindrome post abortiva
Mi sembra doveroso segnalare anche un altro delicato ed importante aspetto emerso da questo fatto: la sofferenza del post aborto.
Infatti, la notizia a cui abbiamo fatto riferimento, risale a due mesi fa, ma la giornalista ne ha parlato nuovamente in questi giorni in una trasmissione televisiva. Dunque, un aborto spontaneo o volontario può causare sofferenza? Ebbene sì.
Quella che viene chiamata comunemente “sindrome post abortiva”, riferita sia all’aborto spontaneo sia all’aborto involontario, è definibile come stress psicologico (caratterizzato soprattutto da sentimenti di repressione, negazione e depressione) e intensa emotività successivamente all’aborto2C. Navarini, “Post aborto e autodeterminazione della donna”, in G. Miranda, G. Brambilla, “La bioetica dalla prospettiva della donna”, Editori Riuniti University Press, pp. 338-354.
Si possono distinguere tre livelli di gravità in tale disturbo:
1) Lo stress post aborto, ritenuto quasi fisiologico e presente più frequentemente nel primo trimestre dopo l’intervento;
2) La psicosi post abortiva, che consiste in un perdurare delle condizioni di stress oltre i limiti di durata ordinari (si può diagnosticarla quando la donna presenta sintomi significativi di stress da aborto a sei mesi dall’evento);
3) La sindrome post abortiva, che insorge tardivamente, facendo la sua comparsa generalmente nel primo quinquennio dopo l’aborto, ma manifestandosi talora anche molto più tardi.
Se nella comunità scientifica permangono ancora dubbi sull’identificazione di una vera e propria sindrome relativa al post aborto, quasi tutti concordano invece sul fatto che l’evento abortivo è in grado di produrre un quadro psicologico problematico e complesso, compatibile con il disturbo post-traumatico da stress3A. C. Speckhard, V. M. Rue, Postabortion Syndrome: An Emerging Public Health Concern, in “Journal of Social Issues”, 48 (1992), pp. 95-119.
Ed è interessante notare che il quadro è molto più grave se l’aborto è volontario (solitamente invece descritto come un momento gioioso da una certa parte politica). Ed è comprensibile perché, nel caso dell’aborto volontario, la morte non è affiancata dalla dimensione del lutto, necessario a chiunque per elaborare la perdita.
La censura dell’informazione sulle conseguenze
La donna, di solito, non ha idea delle sequele psichiche correlate all’aborto, volontario o spontaneo, né sa come affrontare questa dimensione dolorosa e raramente si rivolge a uno psicologo che l’affianchi in questa situazione.
Verrebbe da chiedersi il perché di questa lacuna: il rispetto della libertà non dovrebbe passare attraverso l’informazione? Perché alcuni aspetti della salute della donna vengono omessi se non addirittura boicottati? Di cosa si ha paura?
Forse, sotto sotto, si sa che quando il buon vecchio principio di non contraddizione viene negato e non si hanno argomenti, meglio offrire slogan ideologici, anche se costano cari a madre e figlio.
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1 commenti a Se l’aborto è spontaneo si parla di bambino e dolore, altrimenti no
“Quando il buon vecchio principio di non contraddizione viene negato e non si hanno argomenti, meglio offrire slogan” a ripetizione, o propaganda, come facevano il Gatto e la Volpe con Pinocchio: è molto più facile e meno pericoloso dell’argomentare!
Da dove pensiamo provenga il relativismo morale, la propaganda? Dalla storia, se ha una storia, quindi non è una novità.
Ma il presente è una situazione radicalmente nuova. La novità è il livello di relativismo tra gli intellettuali. E sempre più tra i loro studenti, le masse.
Eppure il relativismo ha una storia, risale all’Eden. Il primo relativista morale non fu, infatti, un essere umano, ma il Diavolo.
Ecco la sua filosofia: “Dio ha detto che nel giorno in cui mangerete il frutto proibito morirete? Io dico di no. Dio vi sta nascondendo qualcosa. Mangiate questo e saprete di cosa si tratta. Conoscerete il lato oscuro di Dio. La luce è relativa all’oscurità, e l’oscurità alla luce. Il bene e il male sono relativi, vedete?”. E quanto successo ha avuto questa “pubblicità”del Diavolo!
Innanzitutto presso i sofisti, da come li descrive Platone. Il più famoso fu probabilmente Protagora, e il suo detto più famoso è: “l’uomo è la misura di tutte le cose: della bontà delle cose buone e della malvagità delle cose cattive”.
Questa era la loro cosiddetta saggezza. “Filosofia” significa “amore per
la saggezza”, l’amore per Sophia. I sofisti si definivano “uomini saggi”, uomini di Sophia. Socrate invece si definiva deliberatamente solo un amante della saggezza.Questa è una distinzione cruciale, perché mostra come l’arroganza dei sofisti scaturisca naturalmente dal loro relativismo, e l’umiltà di Socrate scaturisca naturalmente dal suo disaccordo con il relativismo, la riduzione dell’essere al pensiero, la riduzione delle cose alla mente dell’uomo.
Né in Platone né in Aristotele c’è alcuna riduzione dell’essere al pensiero, e nessuna entificazione o reificazione del concetto come avverrà nell’idealismo postcartesiano.Così mentre per Platone la nostra mente è soggetta all’idea, imita l’idea e partecipa dell’idea, che è un essere principio di essere e di conoscere, per Cartesio la nostra mente, l’io penso diventa fondatore dell’ideale e del reale. Da qui la conseguenza che se il platonismo può introdurre alla religione e alla morale, come è stato riconosciuto dai Padri e da Sant’Agostino, l’egocentrismo cartesiano conduce o all’ateismo o al panteismo, come avverrà con i suoi sviluppi nell’idealismo tedesco e nel marxismo, ossia nella Rivoluzione Sessuale, causa dell’Olocausto dell’aborto (ogni giorno negli USA è come un 11 settembre), come la Rivoluzione Razziale fu la causa dell’Olocausto dei nostri fratelli Ebrei.