Sulla morte per suicidio di un giovane prete
- Ultimissime
- 06 Lug 2025
A seguito della tragedia del suicidio di don Matteo Balzano, una riflessione di don Mario Proietti sulla solitudine dei preti, sulla necessità della direzione spirituale costante e della fraternità sacerdotale.
• Preti in crisi, una soluzione: la fraternità sacerdotale! (05/03/2022)
di don Mario Proietti*
*direttore di comunità dell’Abbazia di S. Felice (Giano dell’Umbria)
C’è un silenzio che fa più rumore di mille parole.
È il silenzio che ha avvolto la comunità di Cannobio (Verbano-Cusio-Ossola) all’alba di un giorno qualunque, quando il telefono di don Matteo Balzano ha smesso di squillare e la porta della sua abitazione annessa all’oratorio è rimasta chiusa.
Aveva 35 anni. Era un prete giovane, appassionato, amato. E si è tolto la vita.
Il suo gesto ha lasciato sgomenti. Non solo i fedeli, che lo avevano accolto da pochi mesi e già lo stimavano profondamente. Ma anche confratelli, i vescovi, gli amici, chiunque abbia provato almeno una volta a intuire il peso che un prete porta nel cuore.
Don Matteo non era solo “un bravo sacerdote”. Era un uomo sensibile, entusiasta, dedito al suo ministero. Eppure, qualcosa si è spezzato nel segreto della sua anima, senza lasciare appigli.
Don Matteo Balzano e la solitudine dei preti
La sua morte non può restare un fatto di cronaca. È una domanda aperta. Una ferita nel corpo del presbiterio. Una voce muta che ci costringe a chiederci: quanti preti vivono nella solitudine? Quanti sanno a chi raccontare davvero la loro stanchezza, la loro oscurità, i loro dubbi?
Non possiamo ridurre la sua tragedia a un caso isolato. È piuttosto il segnale di un disagio più profondo, spesso taciuto, spesso ignorato, che abita tanti nostri fratelli nel ministero: la fatica di essere tutto per tutti e il pericolo di non essere più nulla per sé stessi.
In questo contesto risuonano con forza, come una Provvidenza nascosta, le parole che Papa Leone XIV ha pronunciato pochi giorni or sono, durante l’incontro internazionale “Preti felici”, rivolgendosi ai sacerdoti con tono accorato:
«Tante volte quando abbiamo bisogno di aiuto, cercate un buon accompagnatore, un direttore spirituale, un buon confessore. Nessuno qui è solo. E anche se stai lavorando nella missione più lontana, non sei mai solo».
“Nessuno qui è solo”! Lo ha detto il Papa. Ma è davvero così? Don Matteo era solo o si sentiva tale? O, forse, nessuno si è accorto che lo fosse?
Ecco il punto: non basta non esserlo, bisogna saperlo, crederlo, viverlo. La solitudine del prete non è solo geografica o operativa: è una condizione dell’anima che, se non custodita, può diventare una minaccia. Pericolosa. Distruttiva.
La direzione spirituale come prassi costante
E chi accompagna gli altri, perché questo è il sacerdote, ha ancora più bisogno di un accompagnatore vero, stabile, spirituale. Non un confidente di passaggio, non uno sportello d’emergenza, ma una guida, un padre, un uomo che ascolta nel Signore e cammina accanto.
Negli ultimi anni si è trascurato questo aspetto fondamentale della vita sacerdotale. Tanti giovani preti, una volta usciti dal seminario, non trovano più un riferimento stabile per il loro cammino interiore. Non è negligenza. Spesso è paura, vergogna, mancanza di fiducia, o semplicemente una prassi mai suggerita, mai favorita.
Eppure, la direzione spirituale è ciò che può salvare un’anima sacerdotale dallo spegnersi. È lì che si nomina il dolore. È lì che si smascherano le illusioni. È lì che si piange, che si ride, che si prega. È lì che il prete ritorna figlio, per poter essere padre.
Le parole di Papa Leone non sono consigli spirituali per i più sensibili. Sono un imperativo ecclesiale: chi guida, si lasci guidare. Chi predica, si lasci evangelizzare. Chi confessa, abbia qualcuno a cui confessare il suo cuore.
Non sappiamo cosa abbia attraversato il cuore di don Matteo nei giorni precedenti il suo gesto. E non dobbiamo speculare. Ma possiamo e dobbiamo imparare da lui. Imparare a guardarci tra preti con occhi nuovi, a chiederci con verità: “Come stai davvero?”, “Hai qualcuno con cui parli di te?”, “Chi ascolta la tua anima?”.
Non basta essere presbiteri: bisogna anche sentirsi presbiterio.
La differenza non è sottile. È il passaggio dal sacramento vissuto come mandato individuale, al ministero accolto come appartenenza reciproca. Siamo ordinati non per “avere un ministero”, ma per essere parte viva di un unico corpo che serve Cristo e la Chiesa.
Il presbiterio come comunione tra fratelli
“Presbiterio” non è un elenco di nomi sull’annuario diocesano: è una comunione reale di fratelli che condividono il Vangelo, la Croce, la gente, la speranza.
Quando un prete si isola, tutto il presbiterio si impoverisce. Quando un prete cade, tutto il presbiterio è ferito. Quando un prete è sostenuto, tutto il presbiterio si rafforza.
Essere presbiterio è sapere che non cammino da solo, che porto i pesi degli altri e che posso contare su chi porta i miei. Chi si sente presbiterio, non si vergogna della propria umanità. Chi vive il presbiterio, non lascia solo nessuno.
È tempo di tornare a questo vincolo sacramentale come sorgente di pace, di fraternità, e, sì, anche di felicità sacerdotale.
Possiamo, dobbiamo, fare spazio alla direzione spirituale come parte ordinaria della vita sacerdotale. Non una medicina d’emergenza, ma un cammino costante. Non una “cura da seminaristi”, ma il respiro dell’anima del prete adulto.
La morte di don Matteo ci chiede di cambiare stile. Di renderci disponibili gli uni per gli altri. Di smettere di fare i generali solitari e tornare a vivere la fraternità sacramentale del presbiterio.
E se davvero nessuno qui è solo, come dice Papa Leone, allora lo si dimostri nei fatti, nelle telefonate, nelle visite, nei gesti, nelle confidenze, nei silenzi condivisi.
Preghiamo per don Matteo. Ma preghiamo anche perché nessun altro debba più morire nel silenzio del cuore non ascoltato.
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