Emanuela Orlandi, analisi completa delle piste investigative
- Dossier
- 23 Set 2013
Emanuela Orlandi è viva? E’ stata rapita dalla Banda della Magliana? Il Vaticano sa qualcosa? La pista sessuale, Sabrina Minardi, De Pedis, Marco Accetti, i Lupi Grigi e Acga. Sulla sparizione di Emanuela Orlandi sono molte le piste investigative emerse negli anni, ognuna con punti forti e deboli. In questo dossier analizziamo tutte le ipotesi sul caso Orlandi, arrivando a indicare la più promettente.
[Pagina aggiornata al 02 agosto 2024].
Il caso di Emanuela Orlandi è uno dei più grandi misteri italiani.
La cittadina vaticana scomparve il 22 giugno 1983, una delle tante sparizioni che avvengono ogni anno, ma presto diventò l’unico caso caratterizzato da una fitta rete di rivendicazioni di presunti rapitori attraverso telefonate e comunicazioni anonime, ritrovamenti di oggetti ed effetti personali.
Eppure mai una prova certa e indubitabile della sua presenza in vita, soltanto minacce incrociate tra diversi autori delle missive, richieste assurde ma, allo stesso tempo, anche dettagli effettivamente precisi sulla ragazza. Il tutto in mezzo a chiari depistaggi, altre ragazze morte o scomparse in circostanze misteriose nello stesso arco temporale, sciacalli in cerca di vantaggi personali (visibilità mediatica, vendita libri ecc.) e fantomatici super testimoni.
Un “grande teatro” ai danni della famiglia che prosegue senza soluzione di continuità da oltre 40 anni e che ogni volta si dice sia “ad un passo dalla svolta”. Parallelo al caso Orlandi è da sempre inserita anche la sparizione di Mirella Gregori, un caso analogo svoltosi in territorio italiano.
Due volte archiviata dalla Procura (1997 e 2015), la vicenda è stata riaperta dai magistrati romani e vaticani nel 2023.
In questo dossier, continuamente aggiornato, analizziamo ogni pista investigativa e tutte ipotesi principali emerse finora, indagando per ognuna i punti forti e quelli deboli.
Daremo per assunta la cronologia della vicenda, chi volesse approfondire può leggere il nostro dossier precedente.
- 1. ASPETTI CONTROVERSI
- 1.2 Le amiche/amici di Mirella Gregori
- 1.3 I testimoni oculari
- 1.4 Il ruolo di Giulio Gangi e del Sisde
- 1.5 L’avvocato Gennaro Egidio.
- 1.6 La zia Anna Orlandi
- 1.7 I paesi di Bolzano e Torano
- 1.8 I telefonisti Pierluigi, Mario e l’Amerikano
- 1.9 I vari comunicati e le sigle (“Phoenix”, “Turkesh” ecc.)
- 1.10 Progetto del sequestro di altre cittadine vaticane
- 1.11 Gli appelli di Giovanni Paolo II
- 1.12 I genitori di Emanuela e la Sala Borromini
- 1.13 La scuola di musica “Ludovico da Victoria”
- 2. IL RUOLO DEL VATICANO
- 2.1 Mancata collaborazione del Vaticano?
- 2.2 Esiste un dossier Orlandi in Vaticano?
- 2.3 Depistaggi ai danni del Vaticano
- La cassa di documenti a Santa Maria Maggiore
- La pista inglese: la (finta) nota-spese
- Pietro Orlandi e l’ex Nar Vittorio Baioni
- Emanuela tra Civitavecchia e la Sardegna
- Il card. Poletti e l’aborto di Emanuela Orlandi
- Le ossa nella Nunziatura Apostolica
- Giancarlo Capaldo e la “trattativa segreta” con il Vaticano
- La tomba nel Cimitero teutonico
- Le accuse di Marcello Neroni a Giovanni Paolo II
- 2.4 Conclusioni sul ruolo del Vaticano
- 5. LA PISTA DELLA MAGLIANA
- 5.1 Sabrina Minardi
- 5.2 Sarnataro e i De Tomasi
- 5.3 Sergio Virtù, Angelo Cassani e Gianfranco Cerboni
- 5.4 Antonio Mancini, Maurizio Abbatino e Maurizio Giorgetti
- 5.5 Don Vergari e la Basilica di Sant’Apollinare
- 5.6 Enrico De Pedis
- 5.7 Punti forti
- 5.8 Punti deboli
- 5.9 Conclusioni sulla pista della Banda della Magliana
- 7. LA PISTA DI MARCO ACCETTI
- 7.5 Il caso della baronessa Rotschild
- 7.6 L’attentato a Giovanni Paolo II
- 7.7 Marco Accetti e l’omicidio di José Garramon
- 7.8 Marco Accetti, la pedofilia e la sparizione di Magdalena Chindris
- 7.9 Marco Accetti e la sparizione di Mirella Gregori
- Il piano della sparizione di Mirella
- Il bar e il litigio prima della sparizione
- Il giorno della sparizione, il citofono e l’incontro
- Un giovane biondo nella vita di Mirella
- Mirella dopo la sparizione
- L’indagine sul sovrastante vaticano Raoul Bonarelli
- L’incontro tra Mirella e la madre a Villa Borghese
- 7.10 Marco Accetti e la sparizione di Emanuela Orlandi
- Il piano della sparizione di Emanuela
- Perché la scelta su Emanuela
- Come fu ingannata Emanuela
- L’incontro davanti al Senato
- La telefonata a casa e il rientro in Vaticano
- Emanuela il giorno dopo la sparizione
- Emanuela a Monteverde e Torvajanica
- Comparsa dell’Amerikano e sviluppi successivi
- I comunicati del fronte Turkesh e l’arresto di Accetti
- Trasferimento di Emanuela all’estero (Parigi)
- Marco Accetti e il caso di Alì Estermann
- 7.11 Marco Accetti e altre vittime coinvolte
- 7.12 Marco Accetti, il padre e i suoi famigliari
- 7.13 La morte di Catherine Skerl
- 7.14 La sparizione di Alessia Rosati
- 7.15 Il caso Orlandi e i continui riferimenti a Fatima
- 7.16 Marco Accetti e l’archiviazione del 2015
- 7.17 Punti forti
- 7.18 Punti deboli
- 7.19 Conclusioni sulla pista di Marco Accetti
- 9. CONCLUSIONI
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1. GLI ASPETTI CONTROVERSI DEL CASO ORLANDI
Come prima cosa è opportuno riportare integralmente il testo che il pubblico ministero, Giovanni Malerba, utilizzò nella sua requisitoria del 1997 per ricostruire il momento della scomparsa di Emanuela Orlandi:
«Alle ore 16,30 circa del giorno 22 giugno 1983 la quindicenne Orlandi Emanuela, cittadina dello Stato del Vaticano, figlia del commesso del palazzo apostolico Orlandi Ercole, usciva dalla sua abitazione sita in via di Sant’Egidio all’interno della città del Vaticano e si recava presso l’istituto “Ludovico Da Victoria”, ubicato in piazza Sant’Apollinare, ove frequentava un corso di flauto. Raggiungeva la scuola e dopo le lezioni se ne usciva verso le ore 19. Telefonando a casa riferiva alla sorella Federica di essere stata avvicinata da un uomo il quale le aveva proposto di partecipare al defilè che l’atelier Fontana avrebbe tenuto a Palazzo Borromini per ivi distribuire materiale propagandistico della ditta Avon dietro compenso di lire 375.000. La circostanza veniva poi confermata da Monti Raffaella, amica della Orlandi, che dichiarava di essersi brevemente intrattenuta con Emanuela all’uscita dalla scuola verso le ore 19,20, di avere appreso della proposta di lavoro ricevuta dall’amica e di aver salutato la stessa Emanuela alla fermata dell’autobus 70. Successivamente, alle ore 19,20 del 22 giugno, si perdeva ogni traccia della Orlandi che non faceva rientro nella propria abitazione e non forniva più alcuna notizia di sé»1citato in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 52sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 2,3.
1.1 Le amiche e compagne di Emanuela Orlandi
Nelle vicende di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori compaiono varie amiche e amici sulle quali non si è mai riuscita a fare vera luce.
Nel 2013 Marco Accetti, reo-confesso di aver orchestrato la sparizione di Emanuela, disse a Pietro Orlandi: «Le amiche più coinvolte sono state almeno due, una compagna di scuola (non di classe) del Convitto nazionale e una di musica. Poi c’era una ragazza di una associazione cattolica, in Vaticano, che anche voi familiari conoscevate e noi usavamo come tramite»3in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 23.
In una delle prime interviste, Accetti aggiunse che quella delle amiche di Mirella e Emanuela fu una «complicità involontaria», contattate anche loro con la scusa della vendita di prodotti della Avon. Per ingannare Emanuela e farla salire in auto davanti al Senato avrebbero coinvolto tre coetanee: una compagna del Convitto nazionale, una della scuola di musica e un’amica. Due sarebbero state le ragazze coinvolte per Mirella: una compagna delle medie di via Montebello e un’amica4F. Peronaci, Cinque amiche coinvolte, due per Mirella, Il Corriere della Sera 29/06/2013.
a) Raffaella Monzi
Dalla sentenza istruttoria del giudice Adele Rando del 12/12/1997, nella deposizione di Natalina Orlandi del 23/6/83 e dalla testimonianza di Raffaella Monzi, sappiamo che il 22/6/83 quest’ultima, finita la lezione di musica all’Istituto da Victoria, alle 19:20 è salita sull’autobus 70 vedendo Emanuela avvicinata da una ragazza dai capelli ricci, a lei sconosciuta5G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 2.
Raffaella Monzi, nell’interrogatorio del 9/07/83 affermò che Emanuela le disse che non poteva prendere l’autobus perché «ho un appuntamento per lavoro, devo incontrare una persona […] [E’] un lavoro da fare solo dalle 16 alle ore 18:30 e per una volta». A quel punto sarebbe sopraggiunta un’altra loro amica e compagna, Maria Grazia Casini, con la quale aveva preso l’autobus n° 70, salutando Emanuela.
Il 28/07/83 davanti al pubblico ministero Domenico Sica, Raffaella Monzi ha affermato di essere uscita dalla scuola assieme ad Emanuela:
«Ricordo che Emanuela corse per le scale mentre io mi trattenni a parlare con altre compagne. Ritrovai poi Emanuela e parlammo un po’. La ragazza mi disse (aveva visto giungere l’autobus 26): “che faccio, lo prendo o no?”. Ciò in riferimento al fatto che avrebbe dovuto percorrere solo una fermata, per andare a prendere l’autobus 64 diretto al Vaticano. Le risposi: “fai un po’ te!”. Allora Emanuela aggiunse: “Sai, perché ho trovato un lavoro”, e poi di seguito: “Si tratta di distribuire volantini dell’Avon (società di vendita di cosmetici) per due ore».
Raffaella Monzi aggiunse che a Emanuela «l’offerta di lavoro per la Avon le era stata fatta mentre era in compagnia di un’amica».
In un’intervista del 1993, dieci anni dopo, fornì questa versione:
«La lezione era finita, ci incamminammo in gruppo verso l’uscita della scuola. Per raggiungere la fermata dell’autobus si doveva fare un pezzetto a piedi. Non so come, quel tratto di strada mi ritrovai a percorrerlo assieme con Emanuela. Sono passati dieci anni e non so più bene di cosa parlammo lungo il cammino. Stranamente, rammento ancora perfettamente come era vestita Emanuela: una maglietta bianca, i jeans e sulle spalle aveva uno zaino di cuoio. Dentro c’era il flauto. Emanuela mentre aspettavamo il bus mi fece quello strano discorso su cui poi tanto ha insistito la polizia. Mi disse, cioè, che poche ore prima mentre veniva a scuola, era stata avvicinata da un tale, un uomo, il quale le aveva offerto un lavoro. Le avrebbero dato 375mila lire al mese, per distribuire volantini o qualcosa del genere. Insomma, mi chiedeva un consiglio. Non sapeva se accettare, era in dubbio […]. Dopo un po’, poiché l’autobus 70 non arrivava, Emanuela disse: “Che dici? Vado in largo Argentina a prendere il 64?” […]. Poi, il 70 è arrivò. Ma era strapieno. Salii sul predellino. Sentii Emanuela, dietro di me, dire: “Aspetto il prossimo”».
Qui sotto un’intervista a Raffaella Monzi risalente agli anni Novanta
Nel febbraio 2016 abbiamo intervistato Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, ecco cosa ci disse:
«Raffaella Monzi non fu sempre molto chiara. Alla Monzi, Emanuela disse che era indecisa se aspettare, non l’autobus, ma l’uomo dell’Avon per dargli una risposta visto che lui le aveva detto che l’avrebbe aspettata all’uscita per sapere quale era stata la risposta dei genitori nell’accettare o meno il lavoro. Emanuela arrivò alla fermata non per prendere l’autobus (quella è ormai una delle tante leggende un questa vicenda), ma perché lì avvenne l’incontro con l’uomo e lei tornò li perché, forse, non vedendolo fuori dalla scuola pensò di recarsi nel posto dove l’aveva incontrato».
Raffaella Monzi raccontò di aver ricevuto strani messaggi e telefonate minatorie: «Cominciarono le telefonate anonime. Ne arrivarono tante, tantissime, a casa. Ero terrorizzata. Più di una volta, un uomo al telefono disse: “Raffaella farà la fine di Emanuela, e anche una bella ragazza”».
Nel 2023 il giornalista Fabrizio Peronaci ha confermato che Raffella Monzi, 60enne, non si sarebbe più ripresa ed è in cura in una struttura psichiatrica a Subiaco (RM).
La madre di Raffaella Monzi ha dichiarato:
«Da quel giorno del 1983 la vita di Raffaella non è stata più la stessa. Eravamo tanto esasperati e spaventati che decidemmo di andare via da Roma e di trasferirci a Bolzano, ma c’erano persone che hanno continuato a controllarci. Raffaella fu seguita da un giovane biondino. Ogni volta ce lo trovavamo davanti e un giorno le disse: “Vieni via con me, lascia i tuoi genitori…”. Fu un episodio che ci colpì anche se decidemmo di non darci peso, pensando che fosse uno spasimante. Tornati a Roma, Raffaella mi raccontò che una persona la fotografava per strada. E un giorno ricevetti una telefonata: “Ho visto tua figlia sul treno: è bellissima. La voglio sposare”. Non ho mai saputo chi fosse e come avesse il nostro numero di telefono. Di certo era una persona che la controllava. Per mia figlia è stato un incubo dal quale non si è più ripresa».
Se il racconto della madre della Monzi è vero, la persona descritta ha alcuni punti in comune con Marco Accetti, l’uomo che si è accusato di aver orchestrato il sequestro Orlandi-Gregori. Di professione fotografo, gli Atti hanno rilevato l’abitudine a fermare e incontrare giovani adolescenti con lo scopo di fotografarle6G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 48. Lui stesso, inoltre, ha ricordato di essersi innamorato di una ragazza giovanissima (la figlia di Magdalene Chindris) e di aver desiderato sposarla. La stessa frase riportata dalla signora Monzi.
Pietro Orlandi rispose a queste dichiarazioni scrivendo che «la Monzi, poveraccia, vive con la madre, non sta in una clinica privata»7P. Orlandi, commento scritto su Facebook, 15/07/2023.
b) Maria Grazia Casini
Il 13/07/83 e il 28/07/83 ci furono due testimonianze di Maria Grazia Casini, un’altra studentessa della scuola, la quale (il 13/07) riferì la presenza di una ragazza bassina, con i capelli corti e ricci, vicino ad Emanuela alla fermata dell’autobus:
«L’ultima volta che ho visto Emanuela è stata il 22 giugno alle ore 19 all’uscita dalla scuola Ludovico da Victoria. Emanuela era ferma con una sua amica ad una fermata dell’autobus 70. Quando è arrivato il 70 io sono salita mentre Emanuela e l’amica sono rimaste ferme dove si trovavano […]. Sembrava che le due ragazze fossero in attesa di qualcuno, l’atteggiamento di Emanuela era molto teso»8M.G. Casini, testimonianza al Reparto operativo dei carabinieri di Roma, 13/07/1983.
L’amica anonima citata, dai capelli corti e ricci, non era certamente la Monzi perché le due si conoscevano.
Nell’interrogatorio del 28/07/83 la Casini riferì infatti di essere uscita dalla scuola assieme ai compagni Tina Vasaduro e Maurizio Cappellari, ai quali si aggiunse proprio Raffaella Monzi. Ai magistrati disse che di questa ragazza non ricordava il nome, ma che «frequentava la scuola di musica, ha circa quindici anni, è poco più bassa di Emanuela, con i capelli corti, ricci e di colore nero […]. Emanuela era impaziente, in attesa dell’arrivo di una persona o di un mezzo pubblico, tanto che rispose distrattamente al saluto»9M.G. Casini, testimonianza al Reparto operativo dei carabinieri di Roma, 13/07/1983.
La sera stessa della scomparsa, Federica Orlandi, sorella di Emanuela, parlò al telefono con Maria Grazia Casini, la quale le confermò che Emanuela era con una ragazza al momento in cui si erano salutate10testimonianza di Federica Orlandi al Reparto operativo dei carabinieri di Roma, 29/07/1983.
Sintetizziamo le testimonianze delle due amiche:
- Raffaella Monzi saluta Emanuela alla fermata dell’autobus 7011G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 2, vi sale assieme a Maria Grazia Casini12verbale del 09/07/83, vede Emanuela avvicinata da una ragazza sconosciuta dai capelli ricci13G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 2;
- Maria Grazia Casini vede Emanuela ferma alla fermata dell’autobus 70 insieme a un’amica14verbale del 13/07/83, che frequentava la scuola di musica15verbale del 28/07/83, bassa e con i capelli neri16verbale del 13/07/83 e ricci17verbale del 28/07/83;
c) Laura Casagrande
Entrambe rilevano la presenza di una ragazza riccia vicino a Emanuela.
La notte della sparizione, suor Dolores, direttrice dell’istituto, venne avvisata da Ercole Orlandi e telefonò a tutte le allieve. La religiosa apprese la presenza di un’altra ragazza e la riconobbe in Laura Casagrande, la quale negò di essere stata presente.
Interrogata nel 2024 sul tipo di capelli che portava (se ricci e scuri), Casagrande rispose che «sì, ho fatto la permanente successivamente a questi fatti: l’estate successiva o quella stessa estate».
La Casagrande e la Orlandi, nel pomeriggio della sparizione, si scambiarono il numero di telefono in vista della fine dell’anno scolastico.
L’8/07/1983 i presunti rapitori di Emanuela telefoneranno a casa di Casagrande dicendo di aver avuto il numero da Emanuela e che la ragazza era fuori dall’Italia. Nel 2024 Casagrande ricordò che «la voce aveva un timbro tra l’arabo, l’orientale e il mediorientale, anche se non so distinguere l’arabo dal turco». L’impressiona sua è che non si trattava di un italiano che stava imitando un accento straniero.
Secondo il reo confesso Marco Accetti, il messaggio comunicato alla Casagrande sarebbe stato un codice per la fazione opposta alla sua e alludeva al fatto che Emanuela «poteva trovarsi in territorio della Città del Vaticano»18in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 136.
Ascoltata nel 2024 dalla Commissione parlamentare, Laura Casagrande fornì una terza diversa dichiarazione sul giorno della scomparsa rispetto a quanto dichiarato in passato. Se una volta o disse di aver visto Emanuela vista alla fermata degli autobus 70 e 26, l’8 luglio 1983 affermò di averla vista da lontano, girandosi ogni tanto mentre frettolosamente si avviava verso l’autobus, fino a che non la vide più. Nel 2024 invece disse: «non ho assistito all’uscita» di scuola, «non uscimmo insieme, me ne sarei ricordata».
Messa di fronte a queste contraddizioni, la Casagrande ha dichiarato: «Non ho memoria alcuna. Non ricordo nulla di tutto quello che ha riletto della mia deposizione dell’epoca. Ho un vuoto totale». Per quanto riguarda l’immagine di lei che si guarda indietro per vedere Emanuela, rispose: «No, quell’immagine del tardo pomeriggio, anche dopo aver riascoltato il testo della deposizione, non la ricordo».
Sempre nel 2024, Casagrande ha riferito che finito l’anno accademico smise di frequentare la scuola di musica in quanto rimasta turbata: «Ho chiesto io di non andare. Non me la sentivo più. Ho avuto diversi esaurimenti nervosi nel corso della mia vita. La mia storia non è finita quel giorno».
Un altro ricordo vivido sono le domande di suor Dolores, direttrice della scuola di musica, dopo la sparizione di Emanuela sul fatto se lei fosse mai stata importunata da qualcuno. Ha anche sostenuto di non aver conosciuto Maria Grazia Casini e soltanto vagamente Raffaella Monzi.
Per quanto riguarda Laura Casagrande, è stata ascoltata nel 2024 dalla Commissione parlamentare d’inchiesta e ha scelto in parte di secretare l’audizione. Secondo le testimonianze è stata un’audizione sofferta, con molti momenti di difficoltà e forte emotività. Si è contraddetta spesso e ha pronunciato diversi «non ricordo», «buio totale», «il nulla» riguardo il giorno della sparizione di Emanuela19F. Peronaci, Caso Orlandi-Gregori, i tanti «non ricordo» delle amiche. Il presidente della commissione d’inchiesta: «Il Vaticano sta collaborando», Il Corriere della Sera, 20/07/2024.
Qualche dettaglio in più lo ha fornito riguardo alla telefonata ricevuta dai presunti rapitori alcuni giorni dopo, sostenendo di aver capito «che non era uno scherzo, il timbro di voce era tra l’arabo e l’orientale, il medio orientale io non lo so distinguere, se era turco o arabo o afgano, non so, ma era verosimile e molto incalzante. Non riuscivo a stare dietro alla dettatura veloce, dicevo ‘un attimo’, il messaggio era lunghissimo, tante pagine. Poi con i miei genitori consegnammo tutto all’Ansa, di persona, come c’era stato detto di fare»20F. Peronaci, Caso Orlandi-Gregori, i tanti «non ricordo» delle amiche. Il presidente della commissione d’inchiesta: «Il Vaticano sta collaborando», Il Corriere della Sera, 20/07/2024.
d) Sabrina Calitti
Le indagini di polizia all’epoca individuarono anche Sabrina Calitti, alla quale Emanuela disse dell’offerta lavorativa ricevuta21R. Pera, Emanuela Orlandi – E questo è solo l’inizio, Giustizia, 18/07/23 e di voler uscire prima da lezione, avvenuta infatti alle ore 1822G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3.
Un altro compagno di classe di Emanuela, M.D.L. sostenne invece che quel giorno le lezioni terminarono per tutti in anticipo di 15 minuti, alle 18.45 circa, questo «perché il maestro, che è un sacerdote, Mons. Valentino Miserachs, doveva celebrare la messa, all’interno della scuola, per le nozze d’argento dei miei genitori»23citato in R. Pera, Emanuela Orlandi – E questo è solo l’inizio, Giustizia, 18/07/23.
Le lezioni terminarono alle 18 o alle 18.45? Nemmeno su questo si è giunti a una certezza storica.
e) Silvia Vetere
Un’altra compagna che ha testimoniato è Silvia Vetere, in classe con Emanuela al liceo scientifico del Convitto nazionale: «Emanuela aveva intenzione di trovarsi un lavoro. Non aveva voglia di studiare e faceva sega a scuola»24verbale di Silvia Vetere del 22/07/1983 25verbale di Silvia Vetere del 11/11/2008. Nel 1983 la Vetere riferì che Emanuela si sarebbe confidata con lei pochi giorni pima della sparizione dicendole: «Non mi vedrete per un po’».
In una deposizione del 2008, Vetere riferì confermò la testimonianza del 1983, sostenendo che Emanuela era svogliata e andava male a scuola (fu effettivamente rimandata in due materie, latino e francese), voleva trovarsi un lavoro. L’ex compagna ricordò che Emanuela saltava spesso scuola, firmando da sola le giustificazioni ma non rammentò se le assenze si intensificarono nel periodo precedente alla sua scomparsa. Disse comunque di non vederla mai truccata, né noto alcun cambiamento negli ultimi anni26P. Nicotri, Emanuela Orlandi, 34 anni fa, una pista affiora dalle carte giudiziarie ma ormai, BlitzQuotidiano, 22/06/2017.
Riguardo alle assenze da scuola, Pietro Orlandi ha ribadito nel 2024 che Emanuela «quell’anno fece 13 assenze, tutte giustificate da mia madre. E non nell’ultimo periodo, quello prima della scomparsa»27B. Dominic, Caso Orlandi, il fratello Pietro sul diario di Emanuela: “Storia vecchia e falsa”, FanPage 22/04/2024.
Nel 2014 la Vetere fu cercata dal giornalista Tommaso Nelli: «Fra il maggio e l’ottobre 2014 avevo cercato Silvia Vetere. Prima all’abitazione del 1983 e poi tramite la sorella, che però mi spiegò come fosse impossibilitata a parlare, perché affetta da seri problemi di salute»28T. Nelli, Atto di dolore, 2016.
Nel 2023 Massimo Festa, cugino di Silvia Vetere, ha dichiarato:
«Silvia è stata vittima di un ulteriore sequestro, è stata portata in strutture psichiatriche per impedirle di ripetere quel che sapeva su Emanuela Orlandi. Quel che le era stato confidato era scomodo. Per questo è stata prelevata a più riprese, bombardata di farmaci, narcotizzata, annichilita nel corpo e nella psiche, in una struttura per tossicodipendenti, nella fascia a nord di Roma, e in centri specializzati per pazienti psichiatrici. Quel 13 luglio 1983, tramite l’articolo su L’Unità, cominciò a emergere che era in possesso di informazioni delicate, e successivamente, negli interrogatori, potrebbe essere stata intimidita. Fatto è che non si è mai più ripresa. Anche grazie al ruolo avuto da una nostra parente, non ho più avuto modo di incontrare Silvia da molti anni. Ora potrebbe anche essere morta».
A tale dichiarazione ha risposto Pietro Orlandi, scrivendo all’intervistatore di Festa, Fabrizio Peronaci, che non sarebbe vero nulla:
«Fatti dire dalle compagne di classe chi era la Vetere. In Procura hanno capito la personalità e l’hanno lasciata perdere per le falsità dette. Mi hanno già scritto alcune compagne di classe che conoscevano Emanuela e la Vetere, dicendomi: “La Vetere? In classe la conoscevamo tutti che soggetto era“. Il trattamento farmacologico, ma per altri motivi, lo faceva già prima della scomparsa di Emanuela. Le compagne e i compagni di Emanuela quando ci parlai mi assicurarono che la Vetere e Emanuela non le hanno mai viste parlare, né si sono frequentate e a malapena si conoscevano»29P. Orlandi, commento scritto su Facebook, 15/07/2023
f) Pierluigi Magnesio
Un altro amico e coetaneo di Emanuela era Pierluigi Magnesio, allora cittadino vaticano, frequentante l’Istituto tecnico aeronautico e figlio di un elettricista in servizio presso la Santa Sede (non era suo compagno di scuola).
Nel weekend dopo la scomparsa Magnesio si recò a Ladispoli e cenò in una trattoria con i genitori, il nome “Pierluigi” fu lo stesso del primo telefonista che chiamò a casa Orlandi proprio tre giorni dopo la sparizione, dicendo di essere in un ristorante al mare con i genitori.
Il 12/08/1983 nel verbale dell’interrogatorio di Pierluigi Magnesio presso la Procura di Roma si legge: «In merito alla giornata del 22 giugno (giorno della scomparsa) dichiara di aver visto Emanuela “nel primo pomeriggio del 22 giugno. Veniva da casa per recarsi alla scuola di S. Apollinare. Parlò per qualche minuto con me e con gli amici miei e decidemmo di rivederci dopo la scuola, alle ore 19,30, dietro la mola Adriana”».
Nell’agosto 1987 il sostituto procuratore generale Giovanni Malerba chiuse la prima inchiesta scrivendo:
«Non sembra azzardata l’ipotesi che il ‘Pierluigi’ delle prime tre telefonate possa identificarsi nel predetto Magnesio Pierluigi; l’età del giovane al momento del fatto induce senz’altro a escludere il suo consapevole e volontario coinvolgimento nel sequestro; e tuttavia, ove il ‘telefonista’ Pierluigi si identificasse nel Magnesio, dovrebbe inferirsi che questi fosse stato contattato dai sequestratori e indotto, verosimilmente con minacce, a effettuare le prime telefonate in funzione di depistaggio. Ove così fosse, ancora oggi il Magnesio potrebbe fornire utilissimi elementi per l’identificazione dei sequestratori. Appare pertanto utile, se non necessario, approfondire l’indagine sul punto».
Il 27 ottobre 1987 la trasmissione Telefono giallo si occupò del caso Orlandi e ricevette questa telefonata: «Buona sera, sono Pierluigi. Se parlo, mi ammazzano». Secondo i successivi approfondimenti della Procura di Roma si sarebbe trattato proprio di Pierluigi Magnesio, il quale si sarebbe trasferito all’estero in un paese non rivelato.
Nel febbraio 2014, Pierluigi Magnesio è apparso in una video-intervista sul canale Youtube Indagini Aperte rivelando alcuni aspetti interessanti (oltre al fatto di essere allora «innamoratissimo» di Emanuela e averglielo più volte detto, ricevendo sempre dei rifiuti per la sua immaturità).
Innanzitutto ha smentito che Emanuela fosse “ingenua”, come spesso ripetuto dal fratello Pietro, la ricorda furba, intellettualmente e fisicamente matura, marinava la scuola e aveva il senso del denaro, mostrandosi certo che non avrebbe potuto prendere sul serio la proposta dell’uomo dell’Avon (375mila lire per distribuire volantini) e che avesse mentito alla sorella durante la telefonata, forse per «nascondere un amore segreto […] un appuntamento e prendere tempo». Tuttavia non la vide mai in compagnia di un fidanzato o di una persona adulta.
L’ipotesi di Magnesio non può essere corretta, se Emanuela fosse stata davvero scaltra mai avrebbe potuto inventarsi una bugia tanto assurda. Perché 375mila lire? Sarebbe stato molto più credibile un compenso più adeguato (infatti la sorella le disse di lasciare perdere). Oltretutto, la ragazza non chiamò per avvisare di un ritardo quella sera ma per confrontarsi con i genitori se accettare o meno la proposta, la sfilata si sarebbe infatti svolta il sabato successivo alla sala Borromini.
Mentre dai verbali risulta che il 12/08/1983 Magnesio riferì ai carabinieri di non aver mai visto Emanuela nel giorno della scomparsa, nell’intervista ha sostenuto il contrario: l’avrebbe vista verso le 14 mentre lei usciva dal Vaticano, invitandolo a recarsi all’appuntamento che aveva con la sorella Cristina alle 19 al Palazzaccio, dopo la lezione di musica. Magnesio si sarebbe quindi presentato all’ora indicata e con altri amici (tra cui Cristina e Angelo Rotatori) si sarebbero recati verso la scuola di musica non vedendo arrivare Emanuela. Trovarono però l’edificio chiuso. L’indomani mattina avrebbe saputo della scomparsa. Messo di fronte a questa contraddizione, Magnesio ha risposto: «Verbalizzarono male gli investigatori, avevo anche paura e posso aver detto qualcosa di sbagliato».
Secondo Pietro Orlandi, invece, Magnesio «non era con Cristina e gli amici il 22 giugno ad aspettare Emanuela. Era fuori con i genitori».
Un fatto inedito raccontato da Magnesio è che una settimana prima della scomparsa, nei pressi di casa Orlandi, Emanuela gli avrebbe dato due baci sulle guance (gesto che non faceva mai) dicendogli “addio”. Magnesio sostiene di essersi ricordato di quest’episodio solo negli ultimi anni.
Nella videointervista, Magnesio accusa il giornalista Pino Nicotri di dire il falso quando scrive che suo padre avrebbe molestato Emanuela nei giardini vaticani, episodio (la molestia) che non aveva mai sentito prima e che è emerso nel 2016 nel libro di Tommaso Nelli. Notizia che Nelli ha ricevuto da un’amica e compagna alla scuole medie di Emanuela, la quale avrebbe ricevuto tale confidenza da Emanuela nei primi mesi del 1983. Magnesio non ricorda cambiamenti in Emanuela dagli anni precedenti.
Magnesio, pur riferendo di avere un ricordo del Vaticano come un ambiente ovattato, «con l’aria un po’ pesante» (precisando poi di parlare anche dell’ambiente della sua famiglia, un po’ “all’antica”), ricorda di aver visto una volta scendere Emanuela dall’auto di don Gaetano Civitillo, insegnante della scuola di musica, aggiungendo però di aver usufruito anche lui stesso di un passaggio in auto e che era normale che il sacerdote accompagnasse i ragazzi dell’Azione Cattolica dalla scuola al Vaticano (dove c’era la sede).
Nonostante le domande incalzanti dei giornalisti, chiaramente orientati sulla “pista sessuale”, l’amico di Emanuela ha allontanando l’idea che la giovane avesse relazioni particolari con prelati dell’Azione Cattolica (come Ian Wilson ecc.) e che in generale potesse aver subito qualche abuso sessuale. Aggiungendo: «Ve lo giuro sulla mia vita, Emanuela era pura, era candida come la neve, non frequentava nessun prelato, né si prostituiva».
L’amico di Emanuela ha anche confermato con certezza che quella registrata sulla musicassetta era la voce di Emanuela mentre ripeteva il nome della scuola frequentata, riconoscendone le particolarità del tono colloquiale. Al contrario, non ha riconosciuto la voce della giovane nell’audio delle presunte sevizie.
Infine, ritiene che possa essere stata rapita da qualche conoscente stretto, «un lupo travestito da agnello», perché era molto diffidente e non si sarebbe intrattenuta o allontanata con un estraneo. Esclude categoricamente che lo zio Mario Meneguzzi possa aver avuto a che fare con questa vicenda, pur conoscendolo molto poco. Afferma di aver parlato dopo così tanti anni perché il Vaticano sarebbe cambiato e ritiene che allora avrebbe potuto essere silenziato per le sue parole.
Gli intervistatori non hanno ritenuto di chiedere a Pierluigi Magnesio se fu realmente lui a telefonare nel 1987 a Telefono giallo, perché avrebbe fatto quella telefonata e per quale motivo ci sarebbe stato qualcuno (e precisamente, chi?) che avrebbe voluto ammazzarlo o silenziarlo per una testimonianza che non aggiunge molto a quanto si è sempre saputo sul caso Orlandi.
Rimane molto controverso che i carabinieri possano aver verbalizzato male un punto così importante e centrale come l’alibi di Magnesio e i suoi movimenti il giorno della scomparsa. C’è chi ha per questo sospettato che Magnesio «sappia molto di più, che addirittura sia stato testimone o che, al pari di Sonia De Vito nel caso Gregori, sia stato coinvolto suo malgrado, con l’inganno e, successivamente, ricattato».
f) Fabiana Valsecchi
Il giudice Fernando Imposimato, da sempre convinto che il doppio rapimento fosse opera premeditata della Stasi, sostenne che una ragazza coinvolta sarebbe stata Fabiana Valsecchi: «Ho svolto indagini serie, che lasciano pochi margini di dubbio»30F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 111.
Il giornalista Fabrizio Peronaci ha riferito il nome della Valsecchi a Marco Accetti, mentre quest’ultimo raccontava lo svolgimento dei fatti di fronte al Senato. L’uomo, colto di sorpresa, avrebbe risposto: «Da chi l’hai saputo? Chi te l’ha detto?»31F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 111.
Nell’atto di opposizione all’archiviazione del 2015, la famiglia Orlandi chiese inutilmente al pubblico ministero di effettuare un’audizione a Fabiana Valsecchi «sui suoi rapporti con Emanuela Orlandi»32G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 57.
1.2 Le amiche di Mirella Gregori
Anche nel caso di Mirella Gregori vi è almeno un’amica il cui profilo è sempre stato piuttosto controverso.
a) Sonia De Vito
Al centro della sparizione di Mirella c’è Sonia De Vito, vicina di casa e figlia dei proprietari del bar sotto casa dei Gregori.
Proprio il 7 maggio 1983, giorno della sparizione, Mirella fu vista nel locale dei De Vito dove si chiuse in bagno assieme a Sonia per almeno un quarto d’ora.
Secondo la deposizione di De Vito del 05/07/198333Deposizione di Sonia De Vito, 05/07/1983, Sonia avrebbe visto Mirella alle 15:30 del 7/05/1983 e, dopo aver parlato con le per 15 minuti, Mirella sarebbe andata via di fretta dicendole di un appuntamento con Alessandro De Luca, ex loro compagno delle medie, alle 15:30 a Porta Pia.
Nel seguente video, la ricostruzione dei primi momenti dopo la sparizione e la reticenza di Sonia De Vito:
Fabio Rossi, ex carabiniere che ha indagato sul caso Gregori, ha confermato che Mirella e Sonia si rinchiusero in bagno per un quarto d’ora e Sonia confermò agli inquirenti che Mirella le avrebbe parlato di un appuntamento con Alessandro, l’ex compagno delle medie che le avrebbe citofonato poco prima, non seguendo la dissuasione della stessa Sonia.
Secondo la deposizione di De Vito, l’incontro inizialmente non era stato fissato al monumento del bersagliere, ma a piazzale della Croce Rossa. Proposta rifiutata da Mirella perché troppo distante da casa, dal momento che dopo aveva un appuntamento con un’amica. Mirella uscì dal bar di Sonia alle quattro meno un quarto, in ritardo rispetto all’appuntamento che era stato fissato con Alessandro per le tre e mezza.
Non è chiaro quando Sonia De Vito avrebbe riferito che Mirella sarebbe andata a suonare la chitarra a Villa Torlonia, come sempre ripetuto sui media, affermazione che non compare nella sua deposizione del 05/07/1983.
Quattro mesi dopo, nel settembre 1983, i sedicenti sequestratori telefonarono al bar del padre di Mirella descrivendo minuziosamente gli indumenti che la ragazza indossava il giorno della sparizione, compresa la marca della biancheria intima.
L’avvocato degli Orlandi (ed in seguito dei Gregori), Gennaro Egidio (morto nel 2005), era convinto della reticenza di Sonia De Vito:
«Sapeva molto bene quello che aveva indosso la Mirella. Perché in effetti le scarpe sapeva che le aveva comprate lei in quel negozio, il maglione glielo aveva prestato lei. La Sonia è stata sempre un elemento molto difficile, i carabinieri ci hanno provato in tutti i modi, la polizia anche. L’hanno interrogata, stra-interrogata fino al punto che diviene poi maggiorenne, non c’era più nulla da fare. La Sonia era quella che le cose… la confidente della Mirella. Ed è strano che la Sonia… Ecco, la Sonia ha avuto sempre paura di parlare».
In molti sospettarono che Mirella, nel bagno con lei, le avesse rivelato dove si stava effettivamente recando (sempre che Sonia non ne fosse già a conoscenza). Sonia De Vito venne inizialmente accusata di falsa testimonianza e reticenza, accusa poi archiviata.
Maria Antonietta Gregori, sorella di Mirella ha affermato a proposito di Sonia De Vito: «Da quel maledetto giorno non si è mai più fatta viva con noi, proprio lei che mia madre trattava come un’altra figlia. Mai una telefonata, una visita. E per la mia famiglia è stato un grande dolore: lei e Mirella erano sempre insieme. Questo comportamento ci è sempre sembrato strano».
Il giornalista Fabrizio Peronaci ha scritto che il fatto che «Sonia De Vito abbia tenuto per sé molti segreti è una possibilità concreta: fu indagata a lungo e minaccia da sempre denunce contro chi tenti di avvicinarla»34F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.
Nell’atto di opposizione all’archiviazione del 2015, la famiglia Orlandi chiese al pubblico ministero di effettuare un’audizione a Sonia De Vito «sulla provenienza delle ingenti risorse di cui disponeva la sua famiglia»35G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 57.
Una nota riservata del Sisde datata 31/10/198336Informativa SISDE, 31/10/1983 riporta che qualche mese dopo la scomparsa di Mirella, nel bar dei De Vito, Sonia disse testualmente a un’amica: «Certo…lui ci conosceva, contrariamente a noi che non lo conoscevamo…quindi poteva fare quello che voleva…come ha preso Mirella poteva prendere anche a , visto che andavamo insieme».
Perché Sonia De Vito non ha mai riferito di questa figura nelle sue numerose deposizioni?
Nel seguente video (2013), il reo-confesso Marco Accetti segnala la complicità al finto sequestro di un’altra amica di Mirella:
Nel 2024, interrogata dalla Commissione parlamentare, Sonia De Vito ha chiesto di secretare la sua audizione sostenendo comunque di non ricordare nulla37G. Galanti, Orlandi-Gregori, i silenzi dell’amica Sonia De Vito nella commissione sulle ragazze scomparse: “Secretate tutto, non ricordo nulla, Repubblica 18/06/2024.
b) Giuseppe Calì
Sempre nel 2014 è stato ascoltato dalla Commissione Parlamentare anche Giuseppe Calì, all’epoca cameriere e dipendente del bar dei Gregori, “Da Baffo”, al civico 81 di via Nomentana.
L’uomo disse di essere stato l’ultimo a vedere Mirella, la quale attorno alle 16, salutata l’amica Sonia, si sarebbe diresse «verso destra», percorrendo il marciapiede, vale a dire in direzione di Porta Pia e del monumento al Bersagliere, Non quindi verso Villa Torlonia (verso sinistra), come disse agli inquirenti Sonia De Vito.
Calì ha smentito la versione riportata da Fabrizio Peronaci de Il Corriere circa un suo presunto licenziamento per non aver riferito agli inquirenti una versione concordata con i De Vito, affermando invece (come già fece nel 202338F. Rossi, Mirella Gregori, la ragazza inghiottita dalla terra, 2023) di aver lavorato dai De Vito fino al 1985 (Mirella scomparve nel 1981), di non essere stato licenziato ma di essere andato via per motivi personali e di non aver mai cambiato versione.
Mirella «andò verso destra, ha confermato Calì, «io in quel momento ero al telefono con la mia ragazza e l’ho vista uscire. Mi disse “ciao” dandomi una pacca sulla spalla. È andata verso Porta Pia, non verso Villa Torlonia che uscendo dal bar era a sinistra».
Nel 2023, intervistato da Fabio Rossi39F. Rossi, Mirella Gregori, la ragazza inghiottita dalla terra, 2023 Calì ha riferito anche sull’atteggiamento dei De Vito in generale:
«Avevano una paura incontrollabile che potesse accadere qualcosa di brutto anche a Sonia. Si chiusero in un mutismo apparentemente incomprensibile e che non fu ben accettato dai Gregori i quali avrebbero voluto più collaborazione. Ma, ripeto, la paura era tanta e Cosmo (il padre di Sonia) era molto determinato a tenere fuori la figlia da qualsiasi situazione pericolosa. Ho lavorato con loro per altri due anni, fino al 1985 quando mi sono sposato»
.
Lo stesso Fabio Rossi, nel 2022 o 2023 si è recato a casa di Sonia De Vito parlando però con il figlio, il quale disse che la mamma non voleva avere contatti con nessuno40F. Rossi, Fabio Rossi, autore del libro sul caso Gregori: “È stata cercata solo Emanuela Orlandi, Mirella mai”, Mow 26/05/2023.
c) Fabio De Rosa
Altrettanto sospetta risulta essere la posizione dell’attuale marito di Sonia De Vito, ovvero Fabio Massimo De Rosa, già all’epoca fidanzato di De Vito.
In un verbale risalente del 1983, riportato dal settimanale Giallo, un’amica di Mirella, Simona, disse ai carabinieri che «poco prima di sparire, Mirella mi rivelò di aver respinto gli approcci espliciti di Fabio, il fidanzato della sua amica Sonia. Quando parlai con Fabio e Sonia, il giorno dopo la scomparsa di Mirella, mi sembrarono entrambi quasi indifferenti».
Ascoltato due volte in Commissione parlamentare nel 2024, De Rosa ha rilasciato dichiarazioni contrastanti.
Oltre a contraddirsi sull’orario di arrivo al bar il giorno della scomparsa, ha sorprendentemente negato di essere mai stato ascoltato dal magistrato Ilario Martella. Pertanto i responsabili della Commissione hanno trasmesso gli atti in procura.
1.3 I testimoni oculari
Se Emanuela fosse stata davvero rapita è difficile pensare che sia stata fatta salire a forza su un’auto davanti a Palazzo Madama, una scena simile non sarebbe passata inosservata.
Uscita da scuola, la giovane aveva appuntamento con la sorella Cristina vicino alla sede del Tribunale della Cassazione (7 minuti a piedi da piazza Sant’Apollinare) la quale, però, non l’ha mai vista arrivare.
Le ultime ad averla vista sono le sue amiche e compagne alla fermata dell’autobus e certamente ha telefonato a casa dicendo di aver incontrato qualcuno che le avrebbe proposto di promuovere prodotti cosmetici Avon, per una somma (spropositata) di 350.00 lire, durante una sfilata di moda nell’atelier delle Sorelle Fontana (lo stesso ha testimoniato l’amica Monzi).
Le Sorelle Fontana hanno smentito la notizia della sfilata di moda riferendo però a Giulio Gangi, il primo a intraprendere le indagini, che «altre ragazze si erano rivolte a loro perché un uomo sulla trentina le aveva fermate per strada con una proposta simile a quella usata per adescare la Orlandi».
Esistono però due presunti testimoni oculari di quanto sarebbe accaduto prima dell’entrata nella scuola di musica, i quali riferiscono un incontro tra Emanuela e un uomo che guidava una BMW (sembra di colore verde), il quale le avrebbe mostrato qualcosa (sembra dei cosmetici) da qualche contenitore (una borsa, un cofanetto o un tascapane militare) con sopra una scritta (“Avon” o solo la lettera iniziale).
a) Il vigile Alfredo Sambuco
Il primo di essi è stato il vigile Alfredo Sambuco, deceduto dopo il 2002, in servizio in Piazza Madama con turno 14-2141G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3.
Poche ore dopo la sparizione di Emanuela, il vigile venne interrogato da Pietro Orlandi a cui riferì per la prima volta che la giovane sarebbe stata avvicinata da un uomo con una Bmw.
La testimonianza di Sambuco è importante in quanto conferma in maniera indipendente il racconto che Emanuela fece al telefono con la sorella Federica (era stata avvicinata da un uomo), prima ne parlasse qualunque organo di informazione e prima che la polizia indagasse.
Ancora oggi Pietro Orlandi avvalora tali informazioni: «Reputo attendibile e genuino quello che mi disse il vigile per il semplice fatto che ci descrisse le cose che effettivamente aveva detto Emanuela al telefono. Se lui ci avesse raccontato una storia diversa diversa non gli avrei creduto visto che sarebbe stata poi smentita da quanto detto da Emanuela».
Il 25/06/1983 il vigile Sambuco fu interrogato anche da Giulio Gangi, amico di famiglia degli Orlandi nonché agente del SISDE (Servizi segreti civili italiani), al quale disse (con davanti la foto di Emanuela) di averla vista attorno alle 17 parlare con un uomo sui 40-45 anni, carnagione scura, capelli castani e radi nella parte anteriore del capo, in prossimità di una Bmw vecchio tipo di colore verde.
L’uomo le aveva mostrato una borsa con la scritta “Avon” contenente cosmetici. All’invito del vigile a spostare l’auto, l’uomo avrebbe risposto “Vado via subito”. Dopo un’ora uno sconosciuto avrebbe domandato al vigile dove si trovasse la Sala Borromini, ma Sambuco non ricordava se si trattava dello stesso uomo della Bmw42dialoghi riportati nella sentenza istruttoria del giudice Adele Rando, 19/12/97 43dialoghi riportati G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3.
Nella deposizione ufficiale di Sambuco, datata 02/07/1983, la scena si sarebbe svolta davanti al civico 57, la Orlandi andava in direzione opposta rispetto alla scuola e interloquiva con un uomo sceso da una Bmw verde metallizzato attorno alle 17.
Qui sotto il confronto tra l’identikit fornito da Alfredo Sambuco e Enrico De Pedis:
Il 27/07/1983 il vigile Sambuco fu convocato dal sostituto procuratore Domenico Sica ma non si presentò.
Nel seguente video, un’intervista al vigile Alfredo Sambuco risalente agli anni Novanta:
Nel dicembre 1993, intervistato da Telefono Giallo, il vigile disse che la scena si svolse alle 19 e che si avvicinò all’uomo poiché l’auto era in divieto di sosta, venendo rassicurato che l’avrebbe spostata subito. In quel momento la ragazza gli avrebbe domandato dove fosse la sala Borromini. Una versione diversa da quella rilasciata dieci anni prima.
Pochi giorni dopo, intervistato per l’Indipendente sempre nel dicembre 199344G.P. Pelizzaro, “Vidi Emanuela con un uomo“, L’Indipendente, 22/12/1993, Sambuco cambiò ancora versione: alle 17 del 22/06/1983 (non le 19 come disse in precedenza, «mi sono sbagliato» ma le 17 erano «l’orario che riferii sia ai carabinieri, sia a Domenico Sica quando mi chiamò per interrogarmi»), Emanuela proveniva da piazza Sant’Apollinare attraverso Corso Rinascimento ed era diretta verso un’auto in sosta davanti al civico 57, una BMW vecchio modello (1978), per la precisione una 530i di colore verde scuro metallizzato.
L’uomo che era con lei, ricordò Sambuco, aveva circa 35 anni, 1,75, leggermente stempiato, con volto allungato e con in mano una valigetta 24 ore. Era italiano, non turco. Il vigile si sarebbe avvicinato alla coppia per comunicare il divieto di sosta dell’auto ma Emanuela gli chiese dov’era la sala Borromini dell’oratorio San Filippo Neri, in piazza della Chiesa Nuova. L’uomo tornò all’auto e la ragazza proseguì a piedi.
Nel 2002, una volta in pensione, intervistato dal giornalista Pino Nicotri, Alfredo Sambuco aggiunse che Emanuela «la vedevo passare tutti i giorni», una volta la avrebbe anche accompagnata alla Tappezzeria del Moro per far riparare la custodia del flauto. Aggiunse inoltre: «Io non ho mai parlato di “Avon” o di scritte “Avon”, né di borse con la scritta “Avon”…forse da qualche parte ho ancora la copia del verbale della mia dichiarazione ai carabinieri di via Selci, ma mi ricordo benissimo che non ho mai parlato di “Avon” né con loro né con il magistrato Domenico Sica quando mi ha interrogato»45citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, pp. 23, 29.
Il padre di Emanuela, Ercole Orlandi, smentì le parole di Sambuco dicendo che Emanuela si recava alla scuola di musica solo tre giorni a settimana: «Se Sambuco dice che conosceva Emanuela, o mente o dice una cosa nuova. La faccenda della riparazione del flauto è un’invenzione: ce l’abbiamo portata noi»46citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 31. Di fronte a queste diverse versioni, il vigile Sambuco dirà in seguito: «Sa, quella gente era così giù di corda che non me la sono sentita di non dargli nessuna speranza»47citato in P. Nicotri, Emanuela Orlandi, la verità, Baldini Castoldi Dalai 2008, pp. 38, 39.
Due responsabili della Avon di Roma precisarono che le rappresentati erano soltanto donne e nessuna con BMW o borse recanti il marchio48G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3. Inoltre, all’agente Gangi dichiararono che non avevano rapporti con l’atelier delle Sorelle Fontana. Le telecamere del Senato invece non erano in funzione49Rapporto di polizia, luglio 1983, allegato agli atti d’inchiesta del giudice Rando.
Nel 2008 il giornalista Max Parisi si recò in Procura per segnalare la presenza in un parcheggio sotterraneo di Villa Borghese di una BMW intestata a Flavio Carboni, faccendiere di molti misteri italiani. Interrogato dai magistrati nel 2010, Carboni non fornì alcun elemento utile: ne confermò la proprietà ma disse di non averla più utilizzata dal 1982, quando fu arrestato. Secondo il gestore del garage l’auto sarebbe stata parcheggiata nel 1995 o 199650G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 53.
Nel 2023 Marco Accetti ha sostenuto che l’identikit e la descrizione effettuata dai due testimoni oculari ritraggono un soggetto con il viso allungato e leggera stempiatura: «Tutto ciò corrisponde alla mia persona e faccio presente di aver chiesto più volte un confronto con il testimone Bosco, il funzionario di polizia che mi vide al Senato. Ma i magistrati non lo hanno concesso»51M. Accetti, Dichairazione su Facebook, 13/07/2023.
Qui sotto un raffronto tra Marco Accetti e l’identikit prodotto dalla testimonianza del vigile Sambuco.
Tornando alla testimonianza del vigile Sambuco, a nostro avviso rimane da considerare attendibile soltanto la prima versione, quella rilasciata ai familiari poche ore dopo la scomparsa. Tutto il resto sembra contraddittorio e inficiato nella sua attendibilità.
b) Il poliziotto Bruno Bosco
Un secondo testimone oculare sarebbe stato il poliziotto Bruno Bosco, anch’egli in servizio davanti al Senato il giorno della sparizione di Emanuela.
Il 25/6/83, interrogato da Giulio Gangi, affermò di aver visto Emanuela assieme ad un uomo, ricordando anche la scritta a grandi caratteri sul cofanetto mostrato dall’uomo alla giovane, con solo la lettera “A”52R. di Giovacchino, Storie di alti prelati e gangster romani, p. 21.
Il 28/6/83 mise a verbale il suo racconto: l’uomo era alto 1,80mt., capelli castano chiari, corti, camicia e pantaloni chiari, mostrava un tascapane di colore militare con la scritta “Avon”, la scena avveniva davanti al civico n° 3 di piazza Madama, la ragazza aveva uno zainetto sulle spalle.
Rispetto allo zainetto, il fratello Pietro riferisce che Emanuela indossava «una cartelletta con gli spartiti» e «il flauto traverso nello zainetto»53P. Orlandi Mia sorella Emanuela, pp. 13 e 45.
Nel 2002 lo scrittore Pino Nicotri cercò di intervistare Bruno ma, alla sola evocazione del cognome Orlandi, l’uomo avrebbe reagito minacciando querele54P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 30.
Conclusioni sulle testimonianze oculari
Le versioni dei due presunti testimoni oculari, Sambuco e Bosco, collimano in alcune parti mentre si contraddicono in altre.
Questo porta necessariamente alla conclusione che entrambi videro effettivamente Emanuela Orlandi, pur contraddicendosi su elementi secondari. Ciò è motivato da tre argomenti:
- Se avessero inventato la scena non avrebbero potuto fornire elementi in comune così specifici;
- Se si fossero accordati tra loro non avrebbero prodotto due versioni in contraddizione su alcuni elementi, pur secondari;
- La descrizione coincide, a loro insaputa, con il racconto telefonico fatto da Emanuela stessa alla sorella Federica;
Sintetizzando le due testimonianze, emerge tale scenario: davanti a una abitazione in piazza Madama (civico 57 per Sambuco, civico 3 per Bosco) un uomo è assieme Emanuela e le mostra un oggetto (una borsa con cosmetici o una valigetta nera per Sambuco, un tascapane di color militare per Bosco) con scritto “Avon” (nel 2022 Sambuco dirà di non aver mai parlato né di borse, né di scritte).
Nel 2013, Margherita Gerunda, il pm che indagò nelle prime ore che seguirono la sparizione, sorprendentemente negò l’attendibilità dei testimoni:
«Non credo che quel giorno Emanuela Orlandi sia andata alla scuola di musica passando per corso del Rinascimento, dove si usa credere che sia stata vista da un vigile e da un poliziotto. Ho maturato la convinzione che i testimoni si siano prestati a dire o a confermare cose che permettevano loro di andare sui giornali, dare interviste, insomma avere il loro piccolo momento di fama se non di gloria. Per uscire almeno una volta nella vita dall’anonimato e sentirsi protagonisti, alla ribalta, partecipi di una storia che interessa molta gente».
Quelle di Gerunda sono affermazioni controverse e prive di logica, desta stupore che tale persona avesse la responsabilità delle indagini allora. Com’è possibile sostenere che entrambi i pubblici ufficiali, per “fame di notorietà” possano aver creato una testimonianza indipendente ma sostanzialmente simile a poche ore dalla sparizione, quando di questa oltretutto non se ne stava ancora occupando nessuno, né la polizia, né i media?
Nel 2014 Marco Accetti, reo-confesso di aver inscenato la sparizione, rispose opportunamente agli scettici sull’attendibilità dei due testimoni:
«Un vigile urbano ed un poliziotto riprenderebbero la bugia della Orlandi e la farebbero propria? Quindi due pubblici ufficiali mentono agli investigatori ed ai giudici senza nulla averne in cambio. Se tra l’altro riferiscono più o meno la stessa circostanza, se ne deduce che si saranno concordati su quanto falsamente raccontare. Per cui ben due pubblici ufficiali si accordano tra loro per mentire riguardo alla grave scomparsa di una minorenne, rischiando di avere conseguenze giudiziarie e di essere espulsi dai rispettivi corpi, perdendo il lavoro. Tutto questo lo avrebbero fatto solo per apparire, senza neanche dover scrivere tre libri sul caso». Eppure, dalle deposizioni, sappiamo che «non vi è stato accordo tra loro, altrimenti avrebbero prodotto versioni omologhe», tuttavia vi è una somiglianza «con gli aspetti fondamentali di quel che si racconta. Infatti ambedue testimoniano che un uomo mostrava del materiale ad una ragazza, la quale corrispondeva alle fattezze dell’Emanuela».
Concordiamo pienamente con questa osservazione e riteniamo attendibili, in linea generale, le prime testimonianze dei due agenti.
Riportiamo infine una riflessione altrettanto opportuna di Giulio Gangi: «Tutto fa pensare che l’uomo della BMW voleva essere notato: dal colore squillante della sua auto al fatto che avesse parcheggiato la vettura in direzione contraria al senso di marcia, al posto prescelto, cioè proprio di fronte all’ingresso del Senato»55citato in R. di Giovacchino, Storie di alti prelati e gangster romani, p. 22.
1.4 Il ruolo di Giulio Gangi e del Sisde
Abbiamo già citato Giulio Gangi, l’amico di famiglia arrivato a casa Orlandi il giorno dopo la scomparsa di Emanuela, il 24/6/83.
È un giovane ben inserito negli ambienti della politica (Partito repubblicano) e del mondo dello spettacolo, con amicizie importanti (Franco Cristaldi, Antonello Falqui, Enzo Trapani, Claudio Baglioni, cantante preferito di Emanuela ecc.), grazie alle quali arriva negli uffici di Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini e nel 1979 diventa assistente di Mauro Dutto nella Commissione parlamentare di Vigilanza RAI. Qui conosce Mario Meneguzzi, Capo Ufficio Servizi della Camera dei Deputati, e il suo capo Mario Peruzy.
Grazie a Meneguzzi e Peruzy, Gangi strinse contatti con Vincenzo Parisi, all’epoca vice direttore operativo del SISDE (Servizi segreti civili italiani), in cui vi entrò proprio nell’aprile 1983 con la qualifica di coadiutore nel servizio segreto civile. Due mesi dopo si trovò in casa degli Orlandi, proprio grazie alla sua conoscenza con i Meneguzzi.
Affermò di essersi interessato «inizialmente a titolo personale e in quanto legato da un pregresso rapporto di amicizia con Monica Meneguzzi, cugina di Emanuela»56sentenza istruttoria Adele Rando, p. 82, dicendo di avere il sospetto di sequestro per prostituzione.
Gangi ha sostenuto di aver conosciuto gli Orlandi a Torano dove lui e la famiglia di Emanuela si recavano in villeggiatura (luogo confermato da Pietro Orlandi57P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 59.
Nell’autunno 2005, Giulio Gangi, spiegò più dettagliatamente il suo ruolo:
«Bisogna che io sfati una leggenda inventata da voi giornalisti. Cominciamo col dire che io conoscevo gli Orlandi da prima della scomparsa di Emanuela: ero giovane, avevo poco più di vent’anni. Mario Meneguzzi, lo zio della Orlandi, aveva una figlia e proprio di questa ragazza mi innamorai. Mi piaceva tantissimo, era riservata, educata, elegante nel comportamento. Una brava ragazza che conobbi perché l’estate dell’82 andai con un amico a fare una gita fuori porta nel paesino dove gli Orlandi avevano una casetta di villeggiatura (Torano). Fu così che la vidi per la prima volta. Quindi non è vero che il Sisde mi ordinò di infiltrarmi nella famiglia Orlandi per chissà quale scopo. Ad ogni modo, non mi fidanzai mai con la ragazza in questione, ci conoscemmo e diventammo amici. Ci frequentammo tra il 1982 e il 1983 perché le facevo la corte. La sera che scomparve Emanuela lei mi telefonò e mi diede la notizia. Poi mi richiamò due giorni dopo -il 25 giugno 1983- e mi chiese se potevo dare una mano a cercarla perché le avevo detto che ero della polizia, non del Sisde. La sera del 25 andai a casa Orlandi, in Vaticano. Mi accompagnò il collega amico col quale quella volta andai a fare la gita, lui rimase in strada io salii a casa loro e parli coi genitori e lo zio. In quel momento al Sisde non importava un accidenti di Emanuela Orlandi»58citato in O. Lupacchini, M. Parisi, Dodici donne un solo assassino?, Koiné 2006, pp. 184, 185.
Il 01/11/2008 Giuglio Gangi precisò ancora una volta: «Fu una mia iniziativa perché ero molto amico dei cugini, conoscevo anche il fratello. Fui io a presentarmi a casa degli Orlandi, la sera dopo, insieme ad un amico comune, Marino Vulpiani, che è medico e dunque fa tutt’altro mestiere. Anche lui era preoccupatissimo perché viveva a Torano, lo stesso paese della famiglia. L’unico agente del SISDE a occuparsi della vicenda, fin dai primi giorni, sono stato io»59R. di Giovacchino, Storie di alti prelati e gangster romani, p. 23.
Ercole Orlandi, padre di Emanuela, tuttavia ha sempre sostenuto che Gangi era per lui uno sconosciuto, anzi venne colpito dal fatto che a un certo punto disse che usava trascorrere le vacanze estive a Torano, proprio dove si recavano gli Orlandi.
Gangi era o non era un estraneo? Aveva o no conosciuto gli Orlandi in vacanza? Pino Nicotri ha rivolto queste domande a Ercole Orlandi e sostiene di averlo messo in imbarazzo: il papà di Emanuela rispose di aver capito che Gangi e Meneguzzi si conoscevano da come si erano salutati60P. Nicotri, Emanuela Orlandi, la verità, p. 52.
La vicenda rimane controversa e non è secondario identificare bene i rapporti tra Gangi e gli Orlandi in quanto le prime indagini, le più importanti, vennero svolte proprio dall’agente del Sisde.
Un altro particolare strano è che la magistratura venne a conoscenza dell’esistenza e del ruolo di Gangi soltanto nel 1993-1994, dieci anni dopo la sparizione di Emanuela61Il Corriere della Sera, 08/02/1994. La famiglia non disse mai nulla delle prime ricerche svolte da lui?
Nel dicembre 1993, nonostante il rammarico manifestato62Gangi G., Lettera a Carlo Azeglio Ciampi, 17/11/1993 al consiglio dei ministri Carlo Azeglio Ciampi, Gangi venne allontanato dai Servizi63Consiglio dei Ministri, Lettera di trasferimento di Gangi, 03/12/1993 per aver svolto nel 1983 «inopportune indagini»64Gangi G., Lettera a Carlo Azeglio Ciampi, 17/11/1993 sul caso della Orlandi.
Pietro Orlandi ha riferito che quando iniziarono a comparire i primi comunicati, fu Giulio Gangi a comunicargli che dietro a “Phoenix”, una delle sigle di presunti rapitori comparse dopo la sparizione di Emanuela, ci sarebbero stati proprio i servizi segreti italiani65P. Orlandi, Mia sorella Emanuela.
Il 30/05/2013, Pino Nicotri ha scritto di aver ricevuto questa risposta da Giulio Gangi in merito alla rivelazione fatta da Pietro Orlandi: «Mi sono limitato a dire: “Boh, forse sono i nostri che cercano di muovere le acque” quando si seppe della prima lettera firmata Phoenix. Oltretutto, io al Sisde ero già stato allontanato dalle ricerche riguardanti Emanuela».
Il 14/11/2013 anche Marco Accetti ha ricondotto “Phoenix” ad alcuni membri del Servizio di Informazioni della Sicurezza Democratica (Sisde).
Oltre a avviare le prime indagini su Emanuela, intervistando i presunti testimoni Sambuco e Bosco, recandosi dalle Sorelle Fontana e contattando la Avon, Gangi cercò anche la BMW verde tundra66citato in F. Peronaci, Emanuela Orlandi, morto Giulio Gangi, l’agente Sisde che partecipò alle prime indagini (e fu poi epurato), Il Corriere della Sera 03/11/2022 descritta dal vigile Alfredo Sambuco trovandola in un’officina di Roma.
Era stata portata con un vetro rotto da una donna che alloggiava al residence Mallia. Gangi si recò ad incontrarla (ha smentito che fosse Sabrina Minardi) venendo accolto con arroganza. Una volta rientrato in ufficio, raccontò, venne sgridato dal suo capo: «La donna doveva avere contatti diretti: prese il numero di targa e in pochi minuti riuscì a farsi sentire. Pensai che fosse l’amante di qualche pezzo grosso, uno dei nostri papaveri».
Ci sarebbe anche da chiarire il motivo per cui, rivelato sempre dal padre di Emanuela, il SISDE si sarebbe occupato di pagare le spese dell’avv. Egidio, da loro stessi suggerito, senza dire nulla alla famiglia67P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 69.
Un ulteriore punto di attenzione risale all’agosto 1983, quando la famiglia, su suggerimento degli agenti del SISDE, inviò una domanda al “Fronte Turkesh”, una delle sigle di presunti rapitori che inviarono messaggi sul caso Orlandi, per metterli alla prova sulla reale conoscenza dei fatti: dove cenò Emanuela il 20 giugno (3 giorni prima della sparizione)? La risposta fu corretta: con “parenti molto stretti”.
Pietro Orlandi ha spiegato che questo dettaglio era conosciuto soltanto in famiglia68P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 106, oltre chiaramente agli agenti del SISDE che suggerirono la domanda.
Nella sentenza di proscioglimento del 1997 si evidenziò che con la comparsa di varie sigle dopo il 20/07/83, tra cui il “Fronte Turkesh”, terminò il primo periodo di autenticità del caso (cioè quello dei tre telefonisti).
Un altro elemento controverso fu l’episodio risalente nel settembre 1983 quando Gangi comunicò agli Orlandi che entro quindici giorni la sorella sarebbe stata liberata. Aveva ricevuto indicazioni da suoi superiori o da suoi fonti?
Le sue indagini lo portarono ad essere allontanato dai Servizi, causa eccesso di intraprendenza.
Giulio Gangi è morto il 02/11/2022 nella sua abitazione, probabilmente per ictus. Le sue ultime indagini erano orientate verso Marco Accetti69F. Peronaci, Caso Orlandi, la vita spericolata dell’ex agente Gangi e la sua ultima pista, Corriere della Sera, 04/09/2022.
Nel maggio 2024 di fronte alla Commissione parlamentare, il cugino di Emanuela, Pietro Meneguzzi, ha smentito la versione di Giulio Gangi sul giorno di arrivo in casa Orlandi e soprattutto sul motivo per cui si interessò così repentinamente alla vicenda.
Secondo Pietro Meneguzzi, infatti, Gangi si presentò in Vaticano il 24/06/1983 (due giorni dopo la scomparsa, nello stesso giorno in cui comparve un primo trafiletto su Il Tempo) assieme a Marino Vulpiani e Gianfranco Gramendola, allora responsabile del SISDE. Inoltre ha dichiarato di aver conosciuto Gangi per via del suo lavoro alla Camera, lui lo aveva sentito parlare della scomparsa di Emanuela e questo fu il motivo per cui si presentò. «Non è vero che conoscesse già da prima mia sorella Monica», ha aggiunto, «che tra l’altro allora aveva solo 15 anni, molti meno di lui. Secondo me si è confuso, l’ho ribadito anche in procura di recente».
Gangi si sarebbe confuso? Eppure, come è stato fatto notare, confermò la sua versione agli inquirenti il 19/7/1993, il 25/01/1994 e il 23/10/2008, versione contenuta anche nella sentenza di archiviazione di Adele Rando (1997).
a) Il diario di Emanuela preso dagli 007 italiani
Un tema controverso è quello relativo al diario di Emanuela che sarebbe stato prelevato da casa Orlandi dagli 007 italiani, in particolare Giulio Gangi e Marino Vulpiani.
Ne ha parlato nel 2024 il settimanale Giallo70A. De Vita, Emanuela Orlandi, gli 007 presero il diario della ragazza scomparsa e lo diedero alla polizia dopo un mese: tra le pagine i riferimenti a Giovanni Paolo II, FQ Magazine, 22/05/2024 pubblicando un documento riservato, spedito dal Ministero dell’Interno alla questura di Roma il 19/7/1983, quasi un mese dopo la scomparsa della Orlandi.
Si trasmetteva la fotocopia di un’agenda di Emanuela Orlandi, «occasionalmente acquisita dal noto organismo», ovvero i servizi segreti italiani. Sul diario fotocopiato, una compagna di classe di Emanuela faceva riferimento a un fantomatico “Giovannino”, poi esplicitamente chiamato “G.P.II” (Giovanni Paolo II), ritenuto chiaramente uno scherzo tra adolescenti.
Inoltre, si legge nella nota, «si invia, altresì, altro appunto di detto organismo (i servizi segreti, ndr) riguardante l’installazione di una linea telefonica del centralino della Città del Vaticano per i contatti con i presunti rapitori dell’Orlandi».
Quest’ultimo dettaglio dimostra una collaborazione tra gli 007 italiani con i vertici ecclesiastici per l’installazione della famosa linea riservata attivabile tramite il codice 158.
Inoltre, viene confermato in linea generale l’immediato interessamento dei servizi segreti al caso Orlandi, come sempre sostenuto anche dalla famiglia Orlandi. Tuttavia non si capisce perché il diario di Emanuela era da quasi un mese nelle mani degli agenti segreti, ancora prima che in quelle degli inquirenti.
Sempre nel 2024, davanti alla Commissione parlamentare, Pietro Orlandi ha sostenuto: «I servizi segreti sono venuti a casa nostra tre giorni dopo la scomparsa di Emanuela perché Giulio Gangi, un personaggio dei servizi che aveva anche casualmente conosciuto Emanuela, era amico di nostra cugina Monica. Per noi erano persone che ci stavano aiutando, dalla cameretta di Emanuela prendevano tutto, per noi erano la salvezza, gli davamo tutto».
Il fatto che gli 007 avrebbero «preso di tutto» ha generato molta sorpresa in quanto è poco probabile che non venissero redatti dei verbali di acquisizione dei reperti.
Pietro Orlandi ha replicato con sdegno all’inchiesta di Giallo, sostenendo che non si trattassero di diari segreti ma scolastici, a portata di tutti. Ricordo che spesso Emanuela veniva anche presa in giro in quel periodo. Una volta indagarono su una scritta trovata in quelle pagine. C’era scritto “Sto con Marcello da nove mesi”. Ma lo aveva scritto mia sorella Federica, non Emanuela»71B. Dominic, Caso Orlandi, il fratello Pietro sul diario di Emanuela: “Storia vecchia e falsa”, FanPage 22/04/2024.
Conclusioni su Giulio Gangi e il Sisde
La posizione di Giulio Gangi nel caso Orlandi risulta poco chiara, ancora meno lo è quella del SISDE (Servizi segreti civili italiani).
Il cugino di Emanuela, Pietro Meneguzzi, nel 2024 ha dichiarato alla Commissione parlamentare che «Gangi lo conoscevo per via del mio lavoro alla Camera, e lui mi aveva sentito parlare della scomparsa di Emanuela, ma non è vero che conoscesse già da prima mia sorella Monica, che tra l’altro allora aveva solo 15 anni, molti meno di lui. Secondo me si è confuso, l’ho ribadito anche in procura di recente».
Quindi, Gangi come arrivò in casa Orlandi? Era amico di Pietro Meneguzzi? Era innamorato di Monica Meneguzzi (disse che aveva poco più di 20 anni, invece ne aveva 15) e l’aveva conosciuta l’estate prima a Torano? O ci arrivò grazie all’amico comune Marino Vulpiani, agente del SISDE? E perché risultò un estraneo agli occhi di Ercole Orlandi?
Gangi è morto, ma il suo amico e collega Marino Vulpiani è ancora vivo e potrebbe chiarire da chi furono stati chiamati e perché.
Rispetto a Gangi, nella requisitoria del 1997, il giudice Giovanni Malerba stigmatizzerà invece il «non lineare comportamento» di Gangi72citato in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, pp. 124, 143.
Perché fin dai primi mesi vollero intervenire i servizi segreti, quando già stava indagando il loro agente Gangi, pur in forma privata, e la polizia? All’epoca si pensava fosse un comune caso di allontanamento volontario o di un rapimento a scopo sessuale, i servizi non si occupavano di queste cose. Ebbero informazioni diverse? Che ruolo si ritagliarono nella vicenda e quali piste seguirono?
Difficile pensare che furono loro dietro al “Fronte Turkesh”, i cui membri oltre a comunicati deliranti fornirono anche riscontri concreti e attendibili, noti solo alla famiglia (lo vediamo più sotto). Ma gli stessi Orlandi non furono messi a conoscenza di ciò. Quindi il SISDE ingannò anche la famiglia e il loro agente Giulio Gangi? Oppure a operare furono soltanto alcuni membri deviati, come ritiene Marco Accetti?
1.5 L’avvocato Gennaro Egidio
La vicenda Orlandi contiene al suo interno molti profili controversi, ad esempio quelli relativi all’avvocato di famiglia Egidio Gennaro.
Il 22/07/1983 durante una conferenza stampa, Mario Meneguzzi, zio di Emanuela, annunciò la nomina di Egidio.
In quel mese effettivamente Meneguzzi disse alla stampa di essere stato lui a «nominare l’avvocato Egidio, perché lo ritengo più adatto a questo genere di cose del mio legale abituale, l’avvocato Gatti»73A. Purgatori, Colloquio fra il giudice e lo zio di Emanuela, il Corriere della Sera, 07/1983.
Il figlio Pietro, nel 2023, contraddì però suo padre dicendo: «Egidio non fu assolutamente portato da mio padre, nessuno lo conosceva. Mio padre propose Gatti e il SISDE consigliò Gennaro Egidio»74P. Meneguzzi, intervista per Quarto Grado, Rete4, 14/07/2023.
Il giornalista Pino Nicotri ha però sottolineato che Adolfo Gatti si era già occupato di casi importanti essendo stato l’avvocato della famiglia Agnelli in occasione del rapimento della suocera. Inoltre, si stupisce che Meneguzzi potesse avere come «avvocato usuale» uno dei migliori penalisti d’Italia.
Il 12/7/1993 Ercole Orlandi, padre di Emanuela, sostenne invece che la scelta di questo legale era stata “suggerita” loro dal funzionario del Sisde Gianfranco Gramendola, il quale aveva provveduto anche a presentarglielo75P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 69. Gramendola tuttavia smentirà la circostanza.
Gramendola si recò anche lui a casa Orlandi, accompagnando Gangi e presentandosi come “Leone”. Giulio Gangi più avanti dirà che si trattava del suo capo sotto falso nome76citato in P. Nicotri, Emanuela Orlandi, la verità, p. 67 e sospetterà fortemente del suo operato domandandosi: «E se fosse stato un complice del rapimento?»77citato in O. Lupacchini, M. Parisi, Dodici donne un solo assassino?, Koiné 2006, p. 54.
Nel 2002, Ercole Orlandi affermò: «Noi a Egidio non abbiamo mai pagato neppure una lira, la questione economica era già stata sistemata prima che mi facessero firmare il documento preparato dal Sisde per la nomina del legale. Per giunta solo dopo vari anni mi hanno comunicato che con quella firma avevo nominato un altro avvocato, Massimo Krogh, come sostituto di Egidio in caso di suo impedimento»78citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 69.
Massimo Krogh è stato legale di Pietro Orlandi almeno fino al 2015.
Nel 2013 Pietro Orlandi ha confermato che «fu Gianfranco Gramendola, carabiniere del Sisde, nome in codice Leone a presentarcelo esclamando: “Tranquilli, quest’avvocato è la mano di Dio!”. Poi fu lo stesso Egidio a dirci che si era occupato dei Rothschild e, mi pare, del caso Calvi. Era sempre lui, l’avvocato, ad andare a parlare con il cardinal Giovanni Battista Re, allora assessore della Segreteria di Stato».
Infatti, l’avv. Egidio fu anche legale della famiglia della baronessa Jeanette de Rothschild, sparita a Sarnano (Marche) il 29/11/1980 e il cui scheletro (oltre a quello della sua segretaria Gabriella Guerin) fu ritrovato il 27/01/1982 sui monti del maceratese (a 15km di distanza). Un caso apparentemente legato alla Orlandi, ne parliamo più sotto.
Nel 2013 Marco Accetti inserì il caso della baronessa nell’ambito della guerra tra fazioni vaticane e riferì che nel “ganglio” opposto al suo ci sarebbero stati esponenti del Sisde: «Alcuni membri della parte a noi avversa credettero di ravvisare in noi i responsabili della morte della baronessa Rothschild, per cui nel 1983, dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, suggerirono alle famiglie delle ragazze la nomina legale dell’avvocato Gennaro Egidio, già legale della famiglia Rothschild in ordine alla scomparsa della baronessa».
In realtà per la famiglia Gregori sembra sia andata diversamente: il padre della ragazza dichiarò allora che soltanto a seguito del primo comunicato del gruppo “Turkesh”, in cui si fece il nome di Mirella per la prima volta, venne deciso di rivolgersi allo stesso avvocato della Orlandi.
Nel video qui sotto, Maria Antonietta Gregori riferisce una terza versione: fu l’avv. Egidio a proporsi alla famiglia Gregori dopo il primo comunicato del “Fronte Turkesh”
Nel 2024 alla Commissione parlamentare sempre Maria Antonietta Gregori lamentò il diverso trattamento riservato alle famiglie: «I Servizi dissero che era un avvocato di fama internazionale e già seguiva la famiglia Orlandi, visto che c’erano state le telefonate di proposta di scambio con Ali Agca. Noi fummo travolti da Gennaro Egidio, dicemmo di sì, ma mentre gli Orlandi non lo hanno mai pagato una lira, mio padre e mia madre hanno pagato, si sono indebitati parecchio, le sue parcelle erano salatissime»79F. Peronaci, Orlandi-Gregori, in commissione parlamentare la sorella di Mirella: «Interrogate l’amica». Il fratello di Emanuela: «Ho tre piste», Corriere della Sera 09/04/2024.
A tale proposito è intervenuto Pietro Orlandi, per precisare che «quando proposero a mio padre l’avvocato Egidio, lui disse “io non me lo posso permettere” e Gramendola (uno degli 007 presenti in casa fin dai primi giorni, NDA) disse “voi non vi dovete preoccupare”». Il fratello di Emanuela ha quindi dedotto che sarebbe stato pagato o dal SISDE o dal Vaticano stesso80F. Peronaci, Orlandi-Gregori, in commissione parlamentare la sorella di Mirella: «Interrogate l’amica». Il fratello di Emanuela: «Ho tre piste», Corriere della Sera 09/04/2024.
Nel gennaio 2016 abbiamo intervistato Marco Accetti, il quale ci ha detto:
«Il “Fronte Turkesh” era qualcuno dei servizi segreti, o l’altra parte o l’avv. Egidio, che poi è la stessa cosa. Egidio era un ruolo un po’ dell’altra parte, faceva capo ai vertici dello IOR per cui sapevamo che era persona dell’altra parte. Tutte le telefonate a lui non significavano nulla, era solo affinché le riferisse poi ai giornalisti. Non avevamo niente da chiedere all’avv. Egidio e lui niente da darci».
In che senso l’avv. Egidio sarebbe stato “l’altra parte”? Accetti intende membro dei servizi segreti o della la fazione opposta alla sua, quindi in qualche modo coinvolto nel caso, oppure nel senso semplicemente di una delle parti con cui la sua fazione interloquiva?
Un ultimo aspetto “controverso” sull’avv. Egidio fu la sua idea, esposta nel 2002 al giornalista Pino Nicotri, che la soluzione del caso Orlandi si trattasse di una spiegazione “più semplice”, una pista che portava a Torano, alla zia Anna Orlandi e al suo amante. Ne parliamo nella prossima sezione, dedicata proprio alla zia Anna.
Quelli dell’avv. Egidio (pagato dal Sisde) erano convinzioni e dubbi autentici oppure stava indirizzando un giornalista molto informato e attivo sul caso verso una pista falsa, lontana da quella reale? Ritorna poi il paese di Torano, luogo di incontro tra Giulio Gangi (Sisde) e la famiglia Orlandi.
Sempre Nicotri, nel 2023 ha ricordato che in un articolo sul Corriere della Sera a firma di Andrea Purgatori comparvero alcune dichiarazioni dello zio Mario Meneguzzi alla stampa: «Sono stato io a nominare l’avvocato Egidio, perché lo ritengo più adatto a questo genere di cose del mio legale abituale, l’avvocato Gatti». Nicotri ha però sottolineato che Adolfo Gatti si era già occupato di casi importanti essendo stato l’avvocato della famiglia Agnelli in occasione del rapimento della suocera. Inoltre, si stupisce che Meneguzzi potesse avere come «avvocato usuale» uno dei migliori penalisti d’Italia.
Conclusioni sull’avv. Egidio
Rimane misterioso chi introdusse l’avv. Gennaro Egidio in casa Orlandi, lo zio Meneguzzi o i servizi segreti? Ha ragione Meneguzzi o Ercole Orlandi? Chi lo pagò? Perché i Gregori dovettero pagarlo, mentre gli Orlandi no?
Ci sono persone che potrebbero aiutare a fare luce su questo, ad esempio l’avv. Massimo Krogh, che venne nominato allora come sostituto (a insaputa della famiglia) e fino a qualche anno fa era difensore di Pietro Orlandi.
Non risulta infine che la famiglia Orlandi abbia mai commentato la convinzione del proprio legale, Gennaro Egidio, sul fatto che la sparizione di Emanuela fosse legata al paese di Torano e alla zia Anna Orlandi.
1.6 La zia Anna Orlandi
La zia di Emanuela, Anna Orlandi, è stata coinvolta più volte nella vicenda.
Come già detto nella sezione precedente, il primo a parlarne fu l’avv. Gennaro Egidio, legale degli Orlandi e dei Gregori, nel maggio 2002, dialogando con Pino Nicotri.
Emanuela potrebbe essersi allontanata di sua iniziativa? «Tutto è possibile», rispose l’avvocato, collegando subito a questa risposta una vicenda inedita:
«C’è tutta la questione dove loro passavano le vacanze, nel paesino, lì a Torano. Tutta gente che era intorno alla zia dell’Emanuela, Anna mi pare che si chiami. Questa donna che veniva seguita addirittura e nonostante la sua età, e non vorrei aggiungere altro. Che è una santa donna, una bravissima donna. E perché c’era una persona che era diventato un amico addirittura dell’Anna e compagnia bella, e lei quindi parlava liberamente, perché parlava sempre molto bene, con orgoglio dei della nipote e degli altri. E quindi non si è mai capito questo tizio chi fosse, come mai poi dopo alla fine è scomparso proprio dopo che Emanuela era scomparsa […]. Lui dette un nome falso all’Anna. Questo è il punto. Questo tizio magari successivamente potrebbe avere a che fare, per l’amor del cielo […] Questo qui accompagnava e conosceva molto bene l’Anna, che l’aveva conosciuto se ricordo bene in via Cola di Rienzo, c’era quest’uomo, mentre lei era in un negozio, che poi lei conobbe. E poi questo cominciò a conoscerla, a seguirla, a frequentarla… e delle volte uscivano anche con l’Emanuela insieme […] Ci sono state tante di quelle persone che volevano seguire questa storia che veniva adoperata per altri fini, per altre questioni». Nicotri afferma: «E anche gli Orlandi credo non sapessero in realtà chi era e che faceva la figlia», risposta: «Sono pienamente d’accordo con lei».
La zia Anna, morta nel novembre 2011 all’età di 80 anni, ha sempre abitato in casa Orlandi, crescendo Pietro, Emanuela e gli altri figli assieme a Maria e Ercole Orlandi. Dopo la scomparsa di Emanuela, la donna smise di abitare in Vaticano per trasferirsi nel paesino di Torano.
E’ comprensibile a questo riguardo la perplessità di Pino Nicotri sul fatto che nessuno della famiglia abbia mai parlato di lei nelle varie interviste e libri (neanche in quello di Pietro Orlandi, Mia sorella Emanuela), tanto che ha scritto di averne «scoperto l’esistenza solo parlando con l’avvocato Egidio, nel corso di una telefonata. Secondo il cronista che vi scrive e segue il caso Orlandi da dieci anni, la rilettura di vecchi appunti in effetti fa apparire la zia Anna come un personaggio che potrebbe diventare centrale».
La vicenda della zia Anna Orlandi porta direttamente ad una delle piste minoritarie del caso, proposta dalla fotografa Roberta Hidalgo (ne parliamo più sotto). La Hidalgo, dopo essersi procurata del materiale biologico di vari esponenti della famiglia Orlandi, sostenne che Emanuela Orlandi sarebbe in realtà figlia di Anna Orlandi (cioè, quella che è la zia) e Paul Marcinkus, cardinale e allora capo dello Ior. Emanuela vivrebbe con il fratello Pietro a Roma, mentre la vera moglie di Pietro, Patrizia Marianucci, vivrebbe in campagna. Una tesi decisamente estrema, come vedremo.
Restando sulla zia Anna, Roberta Hidalgo sostenne anche che avrebbe avuto una relazione con un uomo sposato di nome Giuliani, il quale avrebbe abitato con la propria moglie nel paesino di Torano, dove gli Orlandi andavano a passare le vacanze. La relazione adulterina tra Anna e Giuliani sarebbe stata ben nota in paese.
Poco dopo la scomparsa di Emanuela, Anna Orlandi smise di abitare in casa dagli Orlandi per ritirarsi a Torano, dove avrebbe accolto in casa e curato Giuliani quando questi rimase paralizzato. L’uomo avrebbe vissuto con lei fino alla morte. Da allora Anna Orlandi si sarebbe fatta chiamare Giuliana Giuliani, cognome al quale avrebbe anche intestato il telefono di casa.
Soffermiamoci un attimo sul nome Giuliani.
Il telefonista “Pierluigi”, che chiamò casa Orlandi subito dopo la scomparsa di Emanuela, disse di averla vista (chiamandola “Barbarella”) mentre vendeva collanine in piazza Campo de Fiori e voleva degli occhiali Ray Ban. Ercole Orlandi ricordò che due estati prima, a Torano, Emanuela e alcune amiche avevano venduto ad un banchetto di strada delle collanine e ricordò un discorso proprio sui Ray Ban nell’estate precedente, sempre a Torano, tra la mamma di Emanuela, Emanuela e una sua amica, Ines Giuliani, «figlia non ricordo se di un vigile urbano o di un poliziotto che comunque si chiamava Nicola e abitava a Roma in via Portinari»81citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 33.
E’ curioso che il cognome dell’amica di Emanuela fosse Giuliani, lo stesso che secondo Roberta Hidalgo sarebbe appartenuto all’uomo con cui la zia Anna Orlandi avrebbe avuto una relazione adulterina a Torano. Una coincidenza?. Da dove prese questo cognome la Hidalgo?
Intervistata da Pino Nicotri, la zia Anna Orlandi rispose confermando parte della storia, cioè che l’uomo le aveva dato un nome falso (confermato anche da Ercole Orlandi) e che quando lei scoprì che era sposato decise di non vederlo più. Lo stesso disse anche ai magistrati, che non riuscirono a rintracciare quest’uomo né ad interrogarlo.
Conclusioni sulla zia Anna Orlandi
L’avv. Egidio, Roberta Hidalgo e la zia Anna Orlandi hanno confermato la presenza di un uomo nella vita di quest’ultima, che lei avrebbe conosciuto con un nome falso. L’avvocato di famiglia, Egidio, e Hidalgo sostengono anche una relazione (Egidio) adulterina (Hidalgo). Mentre Hidalgo localizza questa relazione a Torano, paese di villeggiatura degli Orlandi (chiamando l’uomo “Giuliani”), Egidio sembra localizzarla a Roma (in via Cola di Rienzo) anche se inizia il discorso fortemente allusivo con queste parole: «C’è tutta la questione dove loro passavano le vacanze, nel paesino, lì a Torano. Tutta gente che era intorno alla zia dell’Emanuela, Anna mi pare che si chiami».
Mentre Hidalgo è convinta che la zia Anna avesse anche avuto una relazione con mons. Marcinkus da cui sarebbe nata Emanuela, l’avv. Egidio sospettò un coinvolgimento di Emanuela nella relazione tra la zia Anna e l’uomo misterioso («e delle volte uscivano anche con l’Emanuela insieme»), elemento che alcune persone avrebbero voluto usare per «altri fini».
Non ci risulta che gli Orlandi abbiano mai chiarito definitivamente questa vicenda della zia, rispondendo ai dubbi dell’avv. Egidio o al libro della Hidalgo. La ritengono comprensibilmente una vicenda offensiva, che tocca vicende private di una loro intima parente, tuttavia mettere luce su tutto ciò aiuterebbe a togliere ogni minimo sospetto.
Anche la fotografa Hidalgo dovrebbe chiarire le fonti delle sue affermazioni e, soprattutto, da dove abbia reperito che il cognome dell’uomo che avrebbe avuto una relazione con Anna Orlandi fosse Giuliani.
1.7 Emanuela Orlandi e i paesi di Torano e Bolzano
Nella vicenda Orlandi compaiono frequentemente due paesi italiani, Torano e Bolzano.
Nel corso degli anni sono emersi più volte, intrecciati ad alcune piste investigative che non sembrano avere alcun collegamento tra loro.
a) Emanuela Orlandi e Bolzano
La prima volta che appare Bolzano, capoluogo di provincia del Trentino-Alto Adige, nel caso Orlandi è legato alla (controversa) compagna di Emanuela, Raffaella Monzi.
Come abbiamo visto in una sezione precedente, la Monzi fu una delle ultime persone a vederla prima della sparizione. Negli anni successivi raccontò di aver ricevuto tantissimi messaggi e telefonate minatorie che la costrinsero a trasferirsi a Bolzano, sua città d’origine.
La madre di Raffaella ha confermato che dal 1983 la vita di Raffaella cambiò radicalmente e «decidemmo di andare via da Roma e di trasferirci a Bolzano, ma c’erano persone che hanno continuato a controllarci. Raffaella fu seguita da un giovane biondino. Ogni volta ce lo trovavamo davanti e un giorno le disse: “Vieni via con me, lascia i tuoi genitori…”. Fu un episodio che ci colpì anche se decidemmo di non darci peso, pensando che fosse uno spasimante».
Un’altra vicenda che si svolge in quest’area geografia iniziò il 04/03/1985, quando Josephine Hofer Spitaler, abitante di Terlano (15 minuti da Bolzano), dichiarò ai carabinieri che il 15/8/83 vide arrivare presso la casa in cui abitava un’auto targata Roma, da cui scesero un uomo e una ragazza barcollante che riconobbe essere Emanuela Orlandi (avrebbe indossato un girocollo in materiale non metallico dai colori sbiaditi, mentre Emanuela indossava una fascetta gialla e rossa, come si vede nella famosa foto che fu appesa a Roma82P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 178).
L’appartamento in cui fu fatta entrare la ragazza era abitato da Kay Springorum e Francesca di Teuffenbach. Dopo tre giorni, il 19/8/83 sarebbero arrivati Rudolf di Teuffenbach, cognato di Kay Springorum, sua moglie e un’altra donna. La ragazza con la fascetta sarebbe stata portata in Germania83P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, pp. 179-191.
La Hofer confermò il racconto di fronte al giudice istruttore e ai sospettati i quali, però, si ritennero estranei ai fatti sostenendo di aver ospitato quel giorno altre persone84Atti del processo, 05/08/97. Il giudice Adele Rando verificò che Rudolf di Teuffenbach (l’uomo che avrebbe prelevato Emanuela da casa dei coniugi) appartenere al Sismi, con funzioni di capocentro della sede di Monaco di Baviera (la Hofer, pur non essendo a conoscenza di questo, riferì di aver sentito che la ragazza sarebbe stata portata in Germania)85A. Rando, Atti del 19/12/97, p. 28.
Il giornalista Tommaso Nelli ha rintracciato molteplici aspetti non chiari nella testimonianza della Hofer.
Oltre ad alcune contraddizioni nelle varie deposizioni e alla sorprendente decisione di presentarsi in caserma dopo così tanto tempo, nel 1985 il figlio Norbert Spitaler smentì che la donna avesse parlato in casa della vicenda, come invece da lei sostenuto. Josephine Hofer indicò inoltre altri colori (verde-grigio) relativi alla fascetta indossata dalla ragazza e emersero attriti tra lei e gli Springorum (l’avevano licenziata nell’ottobre 1983). Infine, non vi fu alcun riferimento a Emanuela Orlandi nelle telefonate degli Springorum e dei Teuffenbach, intercettate per tre mesi.
Nel 1997 la sentenza conclusiva assolse gli indiziati soprattutto perché si dimostrò con ragionevole certezza che, il 19/08/1983, Rudolf di Teuffenbach non era a Terlano bensì a Monaco di Baviera. Pietro Orlandi, per nulla soddisfatto, scrisse: «Le indagini in quella direzione si sono fermate proprio per la presenza di un funzionario dei nostri servizi segreti militari»86P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 186).
All’incirca nello stesso periodo di tempo in cui sarebbero avvenuti i fatti di Terlano raccontati da Josephine Hofer Spitaler, a pochi chilometri di distanza nella città di Bolzano, l’insegnante di musica Johanna Blum avrebbe ricevuto una telefonata tra la mezzanotte e l’una.
Recatasi ai carabinieri della città (in data non chiara), la Blum riferì che «tra fine di luglio e inizio agosto del 1983, in casa mia squillò il telefono. Risposi. Una giovane, parlando rapidamente, disse: “Sono Emanuela Orlandi, mi trovo a Bolzano, informi la polizia”. Poi attaccò». Subito dopo, avrebbe ricevuto «un’altra telefonata. Una voce maschile mi ordinò: “Dimentichi quello che ha sentito, capito?” Poi interruppe la comunicazione. Spaventata, chiamai il 113: mi dissero di chiudermi in casa»87citata in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 182.
La donna disse di essere stata più volte a Roma, di aver distribuito a colleghi o allievi i propri biglietti da visita e di conoscere la scuola di musica di Emanuela “per la sua notorietà” ma di non avere avuto contatti specifici88citata in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 182.
Rimane controverso il fatto che anche lei, come la Hofer, abbia denunciato i fatti a così tanto tempo di distanza e soltanto dopo la denunica di Josephina Hofer.
b) Emanuela Orlandi e Torano
Il paesino di Torano, al confine tra Lazio e Abruzzo, era il luogo di villeggiatura degli Orlandi.
Entrò nella vicenda con il primo telefonista che chiamò casa Orlandi dopo la sua sparizione: “Pierluigi” disse di aver visto Emanuela (chiamandola “Barbarella”) mentre vendeva collanine in piazza Campo de Fiori e voleva degli occhiali Ray Ban.
Il padre Ercole si ricordò che effettivamente due estati prima, proprio a Torano, Emanuela e alcune amiche avevano venduto ad un banchetto di strada delle collanine. Inoltre, durante l’estate precedente, sempre a Torano, si affrontò un discorso sui Ray Ban tra la mamma di Emanuela, Emanuela e una sua amica, Ines Giuliani, «figlia non ricordo se di un vigile urbano o di un poliziotto che comunque si chiamava Nicola e abitava a Roma in via Portinari»89citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 33.
Come abbiamo visto nella sezione a lui dedicata, l’agente del Sisde Giulio Gangi -che da subito aiutò la famiglia Orlandi nella ricerca di Emanuela- conobbe gli Orlandi diverso tempo prima del 1983. Si innamorò della cugina di Emanuela, figlia dello zio Mario Meneguzzi e fu lei a coinvolgerlo il giorno della sparizione90O. Lupacchini, M. Parisi, Dodici donne un solo assassino?, Koiné 2006, pp. 184, 185.
Infine, nella precedente sezione abbiamo indicato che sempre nel paesino di Torano si dipanerebbe il caso della zia Anna Orlandi.
L’avvocato di famiglia, Gennaro Egidio, e la fotografa Roberta Hidalgo, sostennero che la donna frequentasse un uomo conosciuto sotto falso nome. La zia Anna confermò di aver conosciuto un uomo sotto falso nome ma che si sarebbe allontanato appena saputo che era spostato.
Hidalgo parlò invece di una relazione adulterina che sarebbe divenuta stabile dopo la sparizione di Emanuela, quando Anna Orlandi si trasferì definitivamente a Torano. L’avv. Egidio legò la sparizione di Emanuela a una «questione dove loro passavano le vacanze, nel paesino, lì a Torano. Tutta gente che era intorno alla zia dell’Emanuela, Anna mi pare che si chiami». Aggiungendo che la zia e quest’uomo misterioso «delle volte uscivano anche con l’Emanuela insieme», elemento che alcune persone avrebbero voluto usare per «altri fini».
Conclusioni su Torano e Bolzano
Dagli elementi emersi finora non sembra vi siano collegamenti importanti tra il caso Orlandi e questi Paesi.
E’ pur vero che vi sono coincidenze a dir poco singolari che si potrebbe ulteriormente verificare, come quelle esposte finora. Ma al momento sembrano per l’appunto soltanto mere casualità.
1.8 I telefonisti Pierluigi, Mario e l’Amerikano
Con i telefonisti ci riferiamo a coloro che chiamarono casa Orlandi (e non solo) già pochi giorni dopo la sparizione di Emanuela: “Pierluigi” e “Mario” e, qualche giorno dopo, l’Amerikano (ma ci fu anche il “calabrese”).
Si citarono a vicenda e produssero elementi in comune, dimostrando un collegamento tra loro. L’avvocato della famiglia Orlandi, Egidio, era convinto che «era sempre lui, una sola persona per tutti questi personaggi»91G.P. Pelizzaro, Emanuela e Mirella, una regia per due misteriosi rapimenti, L’Indipendente, 18/12/1993.
Mentre i primi due sostennero che Emanuela si fosse allontanata volontariamente, il terzo introdusse il tema della contrattazione tra Emanuela e la liberazione di Alì Agca.
a) Il telefonista “Pierluigi” e il caso Orlandi
Il nome “Pierluigi” compare più volte nel caso Orlandi.
Innanzitutto fu il primo telefonista che chiamerà a casa Orlandi il 25 giugno 1983, due giorni dopo la sparizione di Emanuela, senza che il telefono fosse ancora dotato di registratore92G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 3, 4.
“Pierluigi” disse di avere 17 anni e di essere stato spinto a chiamare dalla sua fidanzata. Quest’ultima avrebbe visto le foto di Emanuela sui giornali riconoscendo la ragazza che avrebbe incontrato il 23/06 (giorno della scomparsa) in Campo de Fiori mentre vendeva piccole mercanzie e prodotti della Avon93G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3. Disse che Emanuela portava capelli tagliati di recente a caschetto, diceva di chiamarsi Barbarella, era assieme ad un’amica più grande e aveva con sé un flauto riposto in una custodia nera94citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, pp. 31, 32.
Il telefonista aggiunse che Emanuela avrebbe rifiutato la proposta della sua ragazza di suonare il flauto in piazza Navona in quanto «per leggere avrebbe dovuto mettersi un paio di occhiali con la montatura bianca che la imbruttivano», preferendo la marca Ray Ban, la stessa che indossava la fidanzata di Pierluigi. L’uomo riferì inoltre che Emanuela soffriva di astigmatismo ad un occhio95G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 3 .
Il fatto sorprendente è che ancora nessuno aveva rivelato pubblicamente che Emanuela, prima di sparire, aveva telefonato a casa parlando proprio di un lavoro offerto per distribuire volantini per la Avon. Inoltre, come già osservato in una sezione precedente, il padre Ercole Orlandi ricordò che due estati prima, a Torano, Emanuela e alcune amiche avevano venduto ad un banchetto di strada delle collanine, nonché ricordò un dialogo sui Ray Ban, sempre a Torano, tra la mamma di Emanuela, Emanuela e una sua amica, Ines Giuliani96P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 33.
“Pierluigi” telefonò anche il giorno successivo (26/06/1983) dicendo di essere in un ristorante al mare con i genitori (con tanto di rumori di piatti in sottofondo). Aggiunse poi che Emanuela avrebbe dovuto suonare all’ormai prossimo matrimonio della sorella.
Nella sentenza del 2015 si confermò che i dettagli forniti dal telefonista corrispondevano tutti alla verità dei fatti e convinsero gli inquirenti all’autenticità del telefonista97G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3.
Qui sotto la ricostruzione della telefonata di “Pierluigi”:
Per quanto riguarda il ristorante in località marina citata da “Pierluigi”, ricordiamo che il 19/09/83 in una lettera firmata “Gruppo Phoenix”, una delle sigle che comparve dopo la sparizione di Emanuela, si minacciò il primo telefonista: «“Pierluigi” è assai pericoloso stare in quella trattoria con le spalle verso la porta perché ci sono troppe “correnti d’aria”: un nostro vecchio “amico” ha fatto una brutta fine davanti ad un piatto di spaghetti».
Chi era “Pierluigi”? Come poteva conoscere dettagli veri e così personali su Emanuela, quando ancora nessuno stava indagando sulla sua scomparsa?
Un amico (e spasimante) di Emanuela Orlandi era Pierluigi Magnesio, anch’egli cittadino vaticano. Non è mai stato chiarito dove fosse il giorno della scomparsa, allora disse di essere stato a Ladispoli con la famiglia mentre recentemente ha sostenuto di aver atteso Emanuela dopo la lezione di musica assieme alla sorella Cristina. Certamente però nei due giorni successivi fu realmente a Ladispoli e cenò con i genitori in un ristorante sul mare. Il telefonista si stava riferendo a lui?
Nel 2013, Marco Accetti, reo-confesso di aver orchestrato l’allontanamento di Emanuela, ha fornito la sua versione dicendo che scelsero il nome “Pierluigi” per alludere a mons. Pierluigi Celata, che affermò essere acerrimo nemico di Marcinkus, nonché riferimento della fazione di cui faceva parte (senza che il prelato fosse coinvolto con le loro attività). Mons. Celata sarebbe stato anche il suo confessore durante la frequentazione del collegio San Giuseppe De Merode.
Mons. Pierluigi Celata, futuro diplomatico in Vaticano, abitava allora sopra le Sorelle Fontana, citate nella telefonata di Emanuela alla sorella Federica il 22/06/83. L’istituto De Merode si trovava in piazza di Spagna, nello stesso luogo in cui avevano la maison le “Sorelle Fontana”98N. Misani, Giovanna, Micol, Zoe Fontana, L’Enciclopedia delle donne, vicino al luogo in cui il gruppo “Phoenix” il 13/11/83 lasciò dei proiettili Magnum calibro 357.
Il cappellano dell’Istituto De Merode era padre Salvatore Pappalardo99Biografia del card. Salvatore Pappalardo, Enciclopedia Treccani (confermato anche da Accetti), al quale l’8/7/1983 venne consegnata una cassetta con lo voce registrata attribuita a Emanuela Orlandi (voce riconosciuta certamente autentica dai familiari e dall’amico Pierluigi Magnesio100video-intervista al canale Youtube Indagini Aperte, 03/02/2024).
Pietro Orlandi ha ricordato anche che l’arcivescovo Pierluigi Celata all’epoca della scomparsa di Emanuela era il segretario del Segretario di Stato, Agostino Casaroli, il quale avrebbe ricevuto le telefonate dell'”Amerikano” sulla linea codificata 158.
Per quanto riguarda il rumore di sottofondo di un ristorante, Accetti scrisse:
«Costui dice di chiamare da un ristorante (il noto ristorante di Torvaianica frequentato da vari protagonisti di questi fatti [gli uomini di De Pedis, NDA]). Fui io personalmente a registrare il rumore di sottofondo al ristorante “Pippo l’Abruzzese” di Tor Vaianica […]. Nel caso la telefonata potesse essere registrata e sottoposta al giudizio di un esperto, le caratteristiche specifiche di alcuni rumori potevano far risalire proprio a quell’ambiente»101M. Accetti,Memoriale, 16/04/2014.
Le altre indicazioni (o codici) presenti nella telefonata le descrisse così102M. Accetti,Memoriale, 16/04/2014:
- “Pierluigi” dice che deve compiere 17 anni ➡ Codice delle apparizioni di Fatima, cioè 13-5-17 (da associare all’età di “Mario”, il secondo telefonista, che dirà di avere 35 anni103G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3);
- Emanuela si fa chiamare Barbarella ➡ Codice di Chiesa Santa Barbara de’ Librari presso Campo de Fiori, piazza in cui aveva il negozio Domenico Balducci nel quale riciclava denaro di Pippo Calò (alias Mario Aglialoro) e che fu ucciso nel 1981 da De Pedis per aver trattenuto denaro di Calò;
- Emanuela è in compagnia di un’altra ragazza ➡ Codice della compagna del Convitto, complice nel giorno della sparizione di Emanuela;
- Emanuela deve suonare al matrimonio della sorella a settembre ➡ Codice che indicava che sarebbe rientrata entro settembre se si fosse accettata la trattativa;
Secondo la testimonianza dei familiari della Orlandi, la voce di “Pierluigi” risultò essere posata, senza inflessioni. Fu da loro ribattezzato per questo “il pariolino”.
Marco Accetti ha affermato invece che “Pierluigi” sarebbe stata una ragazza: «Pierluigi era una mia amica, certo: valutammo che la sua voce si avvicinasse di più a quella di un diciassettenne e funzionò»104citato in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014. Aggiunse: «Era una mia consuetudine, nei miei vari lavori cinematografici, usare delle ragazze per prestar la voce a personaggi di adolescenti maschili»105M. Accetti,Memoriale, 16/04/2014.
“Pierluigi” non è solo il nome del primo telefonista ma anche quello di un compagno di classe di Emanuela Orlandi, Pierluigi Magnesio. Anch’egli cittadino vaticano, figlio di un elettricista in servizio presso la Santa Sede. Fu la prima persona a cui pensarono gli investigatori dopo la comparsa del primo telefonista.
Il sostituto procuratore generale Giovanni Malerba, nella sua requisitoria dell’agosto 1997, ipotizzò addirittura che fosse stato proprio lui, sotto pressione o minaccia, a telefonare:
«Non sembra azzardata l’ipotesi che il ‘Pierluigi’ delle prime tre telefonate possa identificarsi nel predetto Magnesio Pierluigi; l’età del giovane al momento del fatto induce senz’altro a escludere il suo consapevole e volontario coinvolgimento nel sequestro; e tuttavia, ove il ‘telefonista’ Pierluigi si identificasse nel Magnesio, dovrebbe inferirsi che questi fosse stato contattato dai sequestratori e indotto, verosimilmente con minacce, a effettuare le prime telefonate in funzione di depistaggio. Ove così fosse, ancora oggi il Magnesio potrebbe fornire utilissimi elementi per l’identificazione dei sequestratori. Appare pertanto utile, se non necessario, approfondire l’indagine sul punto».
Il 27/10/1987 mentre la trasmissione Telefono Giallo si stava occupando del caso Orlandi, ricevettero questa telefonata in diretta: «Buonasera, sono Pierluigi. Se parlo, mi ammazzano». Secondo gli approfondimenti della Procura di Roma si trattò proprio di Magnesio, l’amico di Emanuela. Questa vicenda emerse per la prima volta nella richiesta di archiviazione del 2013.
Magnesio vivrebbe all’estero, in un Paese non rivelato.
b) Il telefonista “Mario” e il caso Orlandi
Il 28/06/83, a cinque giorni dalla scomparsa di Emanuela e dopo due giorni dall’ultima telefonata di “Pierluigi”, comparve “Mario”, il secondo telefonista.
La telefonata venne registrata, siamo in possesso della telefonata integrale ascoltabile qui sotto (qui la trascrizione integrale).
“Mario” disse di avere 35 anni e di voler scagionare un suo amico che lavora per la Avon, aggiungendo che con quest’ultimo lavorano solo due ragazze, di cui una si chiama “Barbarella” (lo stesso nome usato da “Pierluigi”), la quale sarebbe rientrata a casa a settembre per il matrimonio della sorella (altro indizio usato già dal primo telefonista)106G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3.
Con spiccato accento romano, “Mario” disse che tale “Barbarella” avrebbe i capelli tagliati a caschetto (altro indizio fornito da “Pierluigi”) e verrebbe da Venezia. Si sarebbe allontanata da casa perché «c’ho ‘na vita piatta, una vita troppo comune».
Nella lunga e confusa telefonata, “Mario” descrisse così “Barbara”: «Capelli corti, scuri, alta, alta più de me perché so’ un po’ bassetto». Lo zio Meneguzzi domandò maggior precisione sull’altezza della ragazza e l’uomo rispose: «Un metro e cinquanta, sessanta?». Il telefonista apparve titubante, tanto che nell’audio si sente una seconda voce che gli suggerisce: «No de più, de più».
Il 19/09/83 nella già citata lettera del “Gruppo Phoenix”, oltre a “Pierluigi” si minacciò anche “Mario”: «Vogliamo generosamente ricordare a Mario che nella pineta c’è tanto posto per aumentare la vegetazione. La persona amica che ha tradito può assolvere le proprie colpe perché è meglio una confessione oggi che la morte domani, a tutti gli elementi implicati giova ricordare che sono ovunque raggiungibili. Order N.Y. A.D.C.».
Nel suo Memoriale, Marco Accetti diede la sua versione rispetto al secondo telefonista:
«In seguito chiamerà un certo “Mario” (sapevamo dell’esistenza di un latitante appartenente alla criminalità di origine mafiosa, e identificabile con lo pseudonimo di “Mario Aglialoro” [si riferisce a Pippo Calò, NDA]. Di costui si vociferava potesse essere il mandante dell’omicidio del presidente del Banco Ambrosiano, dottor Calvi. Questo riferimento avrebbe dovuto contribuire ulteriormente ad allarmare le persone vicine a monsignor Marcinkus. Essendo il riferimento, in senso lato, quello di un “malavitoso”, il parlare dovrà apparire ‘sporco’ e illetterato. Costui dichiara di essere proprietario di un bar, riferimento al bar Gregori, che colloca accanto a ponte Vittorio Emanuele II, nei cui pressi si trova il negozio del padre di Stefano Coccia. Per cui Mario, nella stessa telefonata, cita la Orlandi, la Gregori e Stefano. Dichiara altresì di avere 35 anni, e questa età posta assieme all’età dichiarata dal sedicente Pierluigi, ricompone ulteriormente la nota data di Fatima, 13-5-17».
Accetti si riferisce a Stefano Coccia, un giovane che fu da lui effettivamente fermato verso fine novembre 1983. Determinante sarebbe stato il numero civico del negozio del padre, 351, che avrebbe richiamato l’apparizione di Fatima. Coccia confermò che venne avvicinato da Accetti e da una donna nei pressi della gioielleria del padre con la scusa di una fotografia107G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 46, 48. Ne parliamo in una successiva sezione.
Ecco i codici schematizzati presenti nella telefonata di “Mario”, secondo il racconto di Accetti108M. Accetti, Memoriale, 2014:
- Il nome “Mario” ➡ Codice di Mario Aglialoro, cioè Pippo Calò, mandante dell’omicidio Calvi;
- Proprietario di un bar ➡ Codice di Mirella Gregori, i cui genitori possedevano un bar;
- Un bar accanto a ponte Vittorio Emanuele II ➡ Codice del negozio del padre dove verrà fermato Stefano Coccia;
- “Mario” ha 35 anni ➡ Codice delle apparizioni di Fatima (13-5-17), va unito ai 17 anni di “Pierluigi”;
- “Mario” parla di una “ragazza francese”, amica di un qualcuno vicino piazza Navona ➡ Codice dei servizi segreti francesi in rapporto con Francesco Pazienza, abitante vicino a piazza Navona;
- “Mario” cita il quartiere Monteverde ➡ Codice di Villa Stricht, residenza di molti prelati statunitensi tra cui mons. Bruno e mons. Marcinkus;
- “Mario” accenna ad altre ragazze ➡ Codice, già usato da “Pierluigi”, per indicare le tesstimoni che confermeranno le “accuse” della Orlandi verso Marcinkus una volta rientrata a casa;
Nel febbraio 2006 Antonio Mancini, uno dei boss della banda della Magliana e collaboratore di giustizia, affermò di aver riconosciuto nella voce di “Mario” uno dei killer della Magliana, col soprannome di Rufetto, ovvero Libero Giulioli109G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 11. Per Mancini costui era «alle dipendenze unicamente di De Pedis, era il suo sicario personale e già all’epoca possedeva un ristorante a Trastevere»110citato in O. Lupacchini, M. Parisi, Dodici donne un solo assassino?, Koiné 2006, pp. 48, 49. Il confronto della voce tra Mario e Libero Giuliani, realizzato dalla polizia, diede esito negativo111G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 12.
Nel 2008 la voce di “Mario” risultò avere un “elevato grado di similitudine” con quella dell’uomo che telefonò a “Chi l’ha visto?” nel 2005, aprendo di fatto le indagini sul collegamento tra il caso Orlandi e la Banda della Magliana112G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 26.
Sempre nel 2008 i periti della Procura di Roma hanno ritenuto somigliante la voce di “Mario” a quella di Giuseppe De Tomasi, membro della Banda della Magliana. Un abbaglio in quanto la sentenza di ordinanza del giudice istruttore Otello Lupacchini, datata 13 agosto 1994, riferiva che De Tomasi era in carcere dal 21/06/83.
Nell’estate 2013, il giornalista Fabrizio Peronaci assistette all’imitazione di Marco Accetti della voce del telefonista “Mario”, descrivendola così:
«Quel giorno in terrazza, mi chiese di posare il telefonino a terra, per essere certo che non registrassi, tirò il fiato più volte, allargò il diaframma, si sfregò il naso soffiando, chiuse gli occhi per concentrarsi e cominciò a parlare velocemente. “Allora, signor Orlandi, me stai a sentì?… Tu fija ha detto che se chiama Barbarella, che è stufa de ’sta vita piatta, che vole annassene pe’ conto suo pe’ quarche tempo”. Impressionante. Stesso timbro. Identico intercalare del sedicente Mario, la cui voce registrata ho ascoltato più di una volta»113F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.
Nel 2013 furono gli inquirenti a comparare la voce di Marco Accetti a quella di “Mario”, concludendo l’impossibilità ad «effettuare alcuna analisi di tipo strumentale» a causa della notevole distanza temporale, rilevando però similitudini soggettive tra le cadenze linguistiche tra Accetti, l'”Amerikano”, “Mario” e “Phoenix”114G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 49.
Nel gennaio 2016 abbiamo intervistato Marco Accetti, il quale ha confermato di essere stato il telefonista “Mario”, usando appositamente un accento romanesco: «L’ha capito anche Egidio che fece fare delle perizie assieme a Nicola Cavaliere, allora capo della Mobile, e hanno capito che era la stessa persona». Intendeva dire che l'”Amerikano” e “Mario” erano la stessa persona, cioè Accetti stesso.
Nel 2018 abbiamo realizzato una comparazione di voci tra Marco Accetti e il telefonista “Mario”, questo è il risultato:
Nelle conclusioni della Procura sull’attendibilità di Marco Accetti, i magistrati hanno usato proprio la telefonata di “Mario” come esempio per dimostrare che l’uomo conoscerebbe bene gli elementi oggetto dei vari processi ma risulterebbe vago e poco circostanziato sugli elementi mai pubblicati.
Ecco cosa scrissero gli inquirenti:
«Esemplificativa è stata l’analisi effettuata nel corso della deposizione del 18 aprile 2013 del testo della telefonata di “Mario” della quale sono stati riportati negli anni solo piccoli brani e che non è stata oggetto di stampa nemmeno processuale. Rispetto a tale telefonata, Accetti non conosce né durata, né contenuto, salvo poi darne un’interpretazione in chiave di “codici” presenti all’interno della stessa e dichiarare di essere stato presente quando venne effettuata escludendo tuttavia che si sia trattata di una telefonata unica»115G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 50, 51.
Nel 2024 una perizia fonica richiesta dal legale di Marco Accetti e affidata al consulente tecnico Marco Arcuri, esperto di informatica e di IA, ha evidenziato tramite metodo Linear Predictive Coding (LPC) una compatibilità media dell’86% tra la voce del telefonista “Mario” e quella di Accetti.
c) Il telefonista “l’Amerikano” e il caso Orlandi
L’entrata in scena del terzo telefonista, l'”Amerikano” (o “Amerikano”), il 5/7/83 (due giorni dopo il primo appello di Papa Wojtyla), segnerà la svolta nella vicenda. Fu soprannominato dall’avv. Egidio l'”Amerikano” perché perché parlava (o, meglio, simulava) un accento italo-americano.
Alle 12:50 telefonò prima alla Santa Sede e, dopo un’ora, a casa Orlandi, facendo ascoltare un nastro con la voce di Emanuela (quasi certamente autentica) mentre ripete più volte questa frase: «Scuola convitto nazionale Vittorio Emanuele II. Dovrei fare il terzo liceo quarto anno scientifico»116Trascrizione integrale della telefonata dell’Amerikano, 05/07/1983.
Nelle telefonate successive disse che “Pierluigi” e “Mario” erano membri dell’organizzazione, rivendicò di essere il rapitore e collegò il rapimento di Emanuela alla liberazione del terrorista turco Alì Agca, attentatore di Giovanni Paolo II in piazza San Pietro il 13 maggio 1981. Diede come codice per i successivi contatti il numero 158 e comunicò l’ultimatum per la liberazione di Agca il 20 luglio 1983117G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 4.
Qui sotto la ricostruzione dell’entrata in scena dell'”Amerikano“:
Vi furono diversi contatti telefonici tra lui e l’avv. Gennaro Egidio, legale degli Orlandi, la maggior parte dei quali registrati.
Nella prima telefoanta dell’Amerikano, giunta a casa Orlandi il 05/07/83, il telefonista fece ascoltare una voce femminile registrata, presumibilmente di Emanuela Orlandi, la quale ripeteva: «Devo fare il terzo liceo st’altr’anno, scientifico….a gennaio saranno sedici….mi verranno ad accompagnà st’altr’anno….un paesino sperduto…per Santa Marinella…convitto nazionale».
Ecco di seguito la telefonata, pubblicata anche sul nostro canale YouTube (qui la trascrizione integrale):
Vincenzo Parisi, direttore del Sisde, fece un’identikit dell'”Amerikano” (rimasto riservato fino al 1995), osservando che sarebbe stato un profondo conoscitore della lingua latina, addirittura uno straniero che avrebbe acquisito prima il latino dell’italiano. Lo giustificò dicendo che un italiano «non utilizzerebbe mai il verbo “translare” al posto di “trasferire”, “novello” al posto di “nuovo”».
Il 10/04/94 il padre di Emanuela, Ercole Orlandi, dichiarò: «Siamo vittime di un’oscura ragion di stato. […] Quel personaggio con l’accento americano, sapendo che il nostro apparecchio era sotto controllo, non faceva durare la telefonata più di sei minuti. Doveva avere un timer. Spaccava il secondo e agganciava».
Quanto alle telefonate, Ercole Orlandi ricordò anche che l’“Amerikano” gli aveva detto che era inutile tentare di registrarle perché avrebbe potuto far apparire le chiamate in quindici posti diversi.
Una volta gli investigatori riuscirono ad isolare le prime quattro cifre delle telefonate, che risultarono essere partite dall’Ambasciata Americana di via Veneto. La polizia scoprì in seguito che le telefonate partivano da una cabina della stazione Termini, ma una volta messa sotto controllo si scoprì che mentre le chiamate risultavano effettivamente in partenza dall’apparecchio pubblico, dentro la cabina non c’era nessuno118da L’ombra del Sisde nel rapimento, Il Corriere della Sera, 08/02/1994.
L’Amerikano aveva effettivamente un apparecchio per la triangolazione delle telefonate, capace di far rimbalzare su un’altra utenza la chiamata iniziale proteggendo il numero di partenza?
Nel 2013 Marco Accetti si è auto-accusato di aver ideato l’allontanamento di Emanuela e Mirella, dichiarando di essere stato anche il principale telefonista, cioè l'”Amerikano“, la cui voce doveva ispirarsi a Thomas Macioce119M. Accetti, Memoriale, 2014, a suo dire vero responsabile della politica dello Ior.
In una telefonata del 07/07/83, l’Amerikano affermò che Emanuela non era nata in Vaticano. Si è sempre ritenuto essere un errore, che avrebbe dimostrato che l’uomo non avesse avuto i dettagli della giovane da lei stessa. Tuttavia emerse che effettivamente Emanuela divenne cittadina vaticana solo nel 1981, come confermato dal fratello Pietro120P. Orlandi, commento su Facebook, 14/07/2023.
In una nostra intervista a Marco Accetti, l’uomo ha sostenuto che l'”Amerikano” sarebbe stato interpretato anche da una donna:
«Molte volte noi volevamo passare per balordi davanti all’opinione pubblica, le telefonate dell’Amerikano servivano solo per i giornali, per fare cassa di risonanza, pressione. Per esempio, c’è un nastro registrato in cui c’è anche l’Amerikana, non solo l’Amerikano. Ho detto a Capaldo: “Lei lo vuole il nome e cognome di questa ragazza? Lei la può chiamare e questa le conferma”. Mi ha risposto: “Ah no, non voglio sapere niente, per carità”. C’è una ragazza che ha fatto l’Amerikana: in questo nastro, in cui finge di essere americana, pronuncia male la parola “States” dicendo letteralmente “States”. Ma quando mai un’americana sbaglierebbe così? Io so chi è questa persona, una ragazza romana di estrema sinistra. Nessuno mi ha mai chiesto nulla».
Nel 2023, la Procura italiana avrebbe individuato proprio colei che lesse un comunicato con un finto accento inglese (la cosiddetta Amerikana). La donna, romana, di estrema sinistra e allora frequentante l’ISEF, avrebbe ammesso il suo coinvolgimento121F. Peronaci, Caso Orlandi: individuata una donna coinvolta nelle rivendicazioni, Corriere della Sera, 27/07/23.
Più volte Marco Accetti ha chiesto di confrontare la sua voce con quella del principale telefonista.
Un confronto venne fatto dalla Procura nel 2013, comparando la voce dell’“Amerikano” con quella di Marco Accetti, previa acquisizione di un saggio fonico, concludendo l’impossibilità ad «effettuare alcuna analisi di tipo strumentale» a causa della notevole distanza temporale, rilevando però similitudini soggettive tra le cadenze linguistiche tra Accetti, l'”Amerikano”, “Mario” e “Phoenix”122G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 49.
Nel 2018 abbiamo realizzato anche noi un confronto tra le voci di Accetti e l’Amerikano, qui sotto il risultato:
Nel 1983 l’agenzia Ansa rilevò un’assonanza tra il comunicato del 20/7/83 dell'”Amerikano” e il linguaggio dei brigatisti che sequestrarono Aldo Moro: «Il gerundio usato nella seconda parte del messaggio (“pervenendo alla soppressione del 20 luglio”) è significativo e ha un precedente nel comunicato n. 9 delle Brigate rosse (“eseguendo la sentenza”), diffuso durante il sequestro Moro»123F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, spunta il caso Moro: la nonna di Katy Skerl fu testimone in via Fani, Corriere della Sera, 03/07/2023.
Nel 2024 una perizia fonica richiesta dal legale di Marco Accetti e affidata al consulente tecnico Marco Arcuri, esperto di informatica e di IA, ha evidenziato tramite metodo Linear Predictive Coding (LPC) una compatibilità media dell’86% tra la voce del telefonista “Amerikano” e quella di Accetti.
Sempre nel 2024, dopo aver nuovamente rivendicato la paternità delle telefonate dell’Amerikano, in particolare la prima arrivata a casa Orlandi il 05/7/1983, Accetti ha aggiunto di conoscere la cabina telefonica da cui avvenne la telefonata, ovvero innanzi alla stazione ferroviaria dell’Acqua Acetosa. Informazione mai emersa prima.
Nel 2024, ascoltato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta, l’ex procuratore Giancarlo Capaldo ha confermato la necessità di maggiori indagini su Accetti il quale, «non può essere liquidato perché è pur sempre un soggetto che è presente nella vicenda Orlandi fin dal primo momento», in particolare «l’autore delle telefonate effettuate dal cosiddetto americano non è nient’altri che Accetti». Ha inoltre ribadito alcune delle prove elencate poco sopra.
Conclusioni sui telefonisti
A prescindere dalle dichiarazioni di Accetti, il ruolo dei telefonisti rimane controverso: mitomani? Reali rapitori? Depistaggio? Ebbero a che fare con Emanuela? Perseguivano interessi loro approfittando della sparizione della ragazza?
Non si può negare che, seppur non diedero mai prova indubitabile di aver rapito Emanuela e di tenerla in ostaggio (sarebbe bastata una sua fotografia con un quotidiano a fianco, come fecero i rapitori di Aldo Moro), rivelarono particolari precisi della ragazza e fecero ritrovare (l’Amerikano) documenti da lei posseduti il giorno della sparizione (seppur in fotocopia), spartiti musicali con scritte di Emanuela, uno scritto della ragazza (riconosciuto dai familiari) nonché inviarono alcune sue parole registrate sulla scuola frequentata.
Rispetto alla voce di Emanuela in cui riferisce la scuola da lei frequentata, alcuni sostengono che poteva essere stata carpita prima della sparizione. Sarebbe strano che avesse rilasciato un’intervista senza dirlo alla famiglia, inoltre se venne fatta a scuola perché nessuno ne parlò quando emerse l’audio dopo la sua scomparsa? Avrebbe mai potuto essere fatta solo a lei e non agli altri compagni?
Si sostiene anche che i telefonisti avrebbero ottenuto i dati privati di Emanuela da amiche, compagne o familiari.
Non è un’obiezione pertinente: come possono delle amiche o dei familiari rivelare dettagli privati di Emanuela ad un estraneo, venire poi a conoscenza della sparizione di Emanuela e leggere quei particolari sui giornali, forniti come prove dai rapitori, senza collegare le cose? Avrebbero subito informato la polizia di aver riferito loro quei dettagli. A meno che fossero in complicità con i telefonisti.
O i telefonisti ebbero realmente a che fare direttamente con Emanuela, oppure hanno avuto a che fare con suoi amici e/o parenti, e questo comporta o la loro complicità (volontaria o involontaria) nella sparizione oppure l’aver subito delle minacce.
Nelle conclusioni della Commissione parlamentare Mitrokhin, si legge:
«E’ certo che i telefonisti, gli autori dei messaggi o i loro ispiratori avessero, o avessero avuto, contatti con Emanuela, con la famiglia o con conoscenti di Emanuela o della famiglia». Questo lo «conferma una valutazione in audizione del dottor Imposimato, che pure ha idee molto nette in proposito, avendo seguito il caso per conto dei familiari di Emanuela, allorché dichiara che “le lettere sono, almeno in parte, una prova dei collegamenti tra chi le scriveva e la ragazza scomparsa”, come riconosciuto anche dai magistrati, che però non hanno ritenuto provato che costoro effettivamente avessero rapito la ragazza – e la tenessero segregata – – al momento in cui recapitavano, per un ampio lasso di tempo, i messaggi».
Nella requisitoria del Procuratore generale della Corte di Appello, Giovanni Malerba, si legge invece:
«Né si dica che i primi “telefonisti” fossero persone non soltanto estranee al progetto criminoso, ma altresì all’oscuro di esso; nei successivi messaggi del gruppo che rivendicava il sequestro, più di una volta è dato rinvenire riferimenti ai “nostri elementi Pierluigi e Mario”; e per di più il Pierluigi, nei colloqui telefonici, si mostrava al corrente di particolari rivelatisi esatti (flauto, occhiali con montatura bianca non graditi alla giovane, astigmatismo ad un occhio, imminente matrimonio della sorella ecc.). Tutto questo dimostra lo stretto collegamento tra Pierluigi e Mario e coloro che rivendicavano il sequestro»124requisitoria del pm Malerba, 6/08/97.
Nella sentenza di archiviazione del 2015 firmata dal gip Giovanni Giorgianni si riporta la ricostruzione eseguita dagli inquirenti nel 1997, concludendo che dopo i primi telefonisti, che apparvero «connotati di autenticità», il quadro si frantumò in una «pluralità spesso contraddittoria di voci riconducibili a gruppi eterogenei dai fini indecifrabili la cui connotazione comune è probabilmente costituita dall’uso strumentale delle notizie divulgate dagli organi di informazione»125G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 5.
L’unico dato oggettivo sono le numerose perizie sulla voce di Marco Accetti che lo identificano in maniera certa come uno o più telefonisti (sicuramente l’Amerikano), come d’altra parte ammesso anche dall’ex procuratore Giancarlo Capaldo nel 2024.
1.9 I vari comunicati e le sigle (“Phoenix”, “Turkesh” ecc.)
Dopo il 20/07/1983, scaduto l’ultimatum dato dall’“Amerikano” per la liberazione di Agca in cambio di Emanuela Orlandi, sulla scena comparvero una serie di sigle dai nomi più improbabili che a loro volta, spesso tramite sconclusionati comunicati, rivendicarono la responsabilità del sequestro.
a) Fronte Turkesh” e il caso Olrandi
Il 4/08/83 la prima sigla a comparire fu il “Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh“, evidente richiamo al colonnello nazionalista turco Arsaplan Turkesh, l’ideologo dei “Lupi Grigi” e di Alì Agca.
Con i loro “Komunicati”, i componenti di tale sigla vollero accreditarsi come amici e solidali di Alì Agca, tentando di portare l’attenzione sugli idealisti turchi e sui “Lupi Grigi”. Diverse volte le loro lettere partivano da Ancona, si sospettò che a imbucarle sarebbe stato un marittimo turco.
Inoltre, nel loro primo komunicato, per la prima volta il caso di Mirella Gregori fu collegato a quello di Emanuela Orlandi («Mirella Gregori? Vogliamo informazioni»). Da quel momento infatti le due famiglie furono tutelate dallo stesso avvocato, Gennaro Egidio.
Qui sotto uno dei comunicati del “Fronte Turkesh“:
Ma davvero i membri del “Fronte Turkesh” pensavano di poter essere creduti? Già all’epoca si sottolineò che «è ben lungi dall’ideologia dei movimenti estremisti turchi denominarsi “anticristiani”». A nostro avviso fu un’operazione (volutamente?) controproducente.
Tra l’altro, gli autori dei comunicati apparvero in contrasto con il comportamento dello stesso Agca il quale dal giugno 1983 produsse infinite dichiarazioni deliranti per inficiare le acquisizioni sul “livello” turco delle indagini.
Il “Fronte Turkesh” voleva portare l’attenzione sui turchi e Alì Agca voleva toglierla.
Data l’assurdità di molti komunicati anche il tentativo di renderli appositamente controproducenti risuta piuttosto ovvio e banale. Se non fosse stato per i dettagli biografici e le fotocopie dei documenti che fornirono riguardanti Emanuela, oltre alle telefonate ad amiche e compagne per dettare i loro messaggi, nessuno li avrebbe mai presi sul serio.
Nell’agosto 1983, ad esempio, su suggerimento degli agenti del SISDE, la famiglia Orlandi inviò una domanda al “Fronte Turkesh”, mettendoli alla prova sulla reale conoscenza dei fatti. Chiesero dove cenò Emanuela il 20 giugno (3 giorni prima della sparizione) e la risposta fu con “parenti molto stretti”. Era vero.
Pietro Orlandi ha spiegato che questo dettaglio era conosciuto soltanto in famiglia126P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 106, oltre chiaramente agli agenti del SISDE che suggerirono la domanda.
In un altro caso, a distanza di mesi dissero che il 22/04/1983 Emanuela “era stata in Chiesa”. La famiglia inizialmente negò ma gli inquirenti riscontrarono effettivamente che la giovane partecipò nel coro a una commemorazione presso la chiesa di Sant’Apollinare per l’anniversario di morte di un cardinale.
Il 05/09/83 arrivò una telefonata dal “Turkesh” alla redazione dell’Ansa di Milano, l’interlocutore disse di chiamarsi “Aliz”.
Nel settembre 1983 l'”Amerikano” screditò l’attendibilità del “Fronte Turkesh”: dopo l’apparizione dei primi komunicati, infatti, il telefonista fece ritrovare un’audiocassetta (oltre alla fotocopia dello spartito di musica con autografi attribuiti a Emanuela) in cui escluse la validità dei comunicati pervenuti dopo il 20/7/83127G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 5 dicendo: «Turkesh non esiste, è un’invenzione degli italiani o del Vaticano per coprire la verità».
Secondo il reo-confesso Marco Accetti, auto-accusatosi di aver inscenato il finto sequestro della Orlandi e di essere stato i telefonisti “Mario” e l'”Amerikano”, dietro al gruppo “Turkesh” ci sarebbe stata la fazione vaticana opposta alla sua con l’aiuto del SISMI (servizi segreti italiani)128M. Accetti, Memoriale, 2014.
Nel 2016, da noi intervistato, Marco Accetti, ci ha confermato che «il “Fronte Turkesh” era qualcuno dei servizi segreti» o comunque qualcuno affiliato alla fazione vaticana avversa alla sua.
Riguardo al fatto che nel primo komunicato si parlò per la prima volta della Gregori, Accetti ha sostenuto che «la nostra controparte, che si era finta gruppo Turkesh ed era a conoscenza del prelevamento di Mirella, tirandola in ballo ci mandava a dire: smettetela con la Orlandi, che crea troppo subbuglio in Vaticano, ora parliamo dell’altra ragazza… Ci invitavano ad abbassare il livello di scontro»129in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 139.
Nel 2023 il giornalista Fabrizio Peronaci ha ricordato una vecchia pista d’indagine che ravvisava analogie tra i messaggi dell'”Amerikano”, del “Fronte Turkesh” e quelli dei brigatisti che rapirono Aldo Moro (1978). In particolare, un certo uso del gerundio, il ritmo sincopato, alcune locuzioni130F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, spunta il caso Moro: la nonna di Katy Skerl fu testimone in via Fani, Corriere della Sera, 03/07/2023.
Fu notato già nel 1983 dall’agenzia Ansa quando si rilevò l’utilizzo di una locuzione famosa ai tempi del sequestro Moro: «La nota personalità». Frase utilizzata anche nelle rivendicazioni firmate “Fronte Turkesh”131Komunicato XXX, 27/11/1985 132Messaggio del 3/12/1985.
Infine, ricordiamo che nel comunicato del 22/11/84 del “Fronte Turkesh” si inserì la frase “Via Frattina 1982”133P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, pp. 122, 123. Secondo Marco Accetti si tratterebbe di un riferimento alla camicetta bianca con cui fu vestita la salma di Katy Skerl (“Frattina 1982”).
b) “Phoenix” e il caso Orlandi
Il 22 settembre 1983 comparve anche una seconda sigla, il “Phoenix”.
Non è noto il motivo di questo nome, Phoenix è la capitale dello stato americano dell’Arizona ma anche il nome di un parco di Dublino (Irlanda) dove Giovanni Paolo II si recò in visita esattamente quattro anni prima.
La caratteristica peculiare di questa sigla furono le minacce rivolte ai sequestratori della Orlandi, quindi presumibilmente al “Fronte Turkesh” e ai tre telefonisti.
Il una lettera del 19/09/83 (documento fatto ritrovare però il 24/09/83) il “Phoenix” disse di aver individuato tramite loro “operatori” «cinque componenti tra cui “P e M”. Uno di loro ha commesso lo sbaglio di “vantarsi” di aver preso parte al prelevamento che è stato molto semplice e rapido con l’uso di una persona “amica”».
Rivolgendosi direttamente ai telefonisti, la sigla li minacciò. A “Pierluigi” fu detto: «E’ assai pericoloso stare in quella trattoria con le spalle verso la porta perché ci sono troppe “correnti d’aria”: un nostro vecchio “amico” ha fatto una brutta fine davanti ad un piatto di spaghetti», riferendosi al fatto che il telefonista disse di chiamare da un ristornate sul litorale romano.
Al secondo telefonista, invece, dissero: «Vogliamo generosamente ricordare a Mario che nella pineta c’è tanto posto per aumentare la vegetazione. La persona amica che ha tradito può assolvere le proprie colpe perché è meglio una confessione oggi che la morte domani, a tutti gli elementi implicati giova ricordare che sono ovunque raggiungibili. Order N.Y. A.D.C.».
In particolare il riferimento alla “pineta” appare piuttosto singolare e specifico come minaccia, un luogo mai citato da “Mario” nella sua telefonata (al contrario del “ristorante” citato da “Pierluigi”). Il reo-confesso Marco Accetti ha sostenuto: «Se io devo fare una minaccia di morte posso dire: ti strozzo, ti accoltello, ti sparo, ti infilo in un pilone di cemento..ma nella pineta mai, non ci penso proprio!»134in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 156.
Per questo l’uomo ritiene che la minaccia della “pineta” sarebbe legata all’omicidio di José Garramon avvenuto esattamente tre mesi dopo (20/09/83) proprio nella pineta di Castel Porziano, dove Accetti investì in circostanze misteriose il giovane.
Minacce al “Fronte Turkesh” comparvero nel messaggio del 27/09/83, quando scrissero di aver deciso di «porre termine, con i mezzi a nostra disposizione, a questa “bravata” farsa turca codice 158 durata troppo tempo». Fu concessa «agli elementi implicati nel prelevamento di Emanuela Orlandi la scelta della propria sorte, se risponderanno esattamente alla richiesta del 6-9-83». In caso contrario «la “sentenza” sarà irrevocabile».
Il 09/10/83, nel loro terzo comunicato il “Phoenix” minacciò nuovamente i sequestratori parlando di un «nostro personale avvertimento al diretti responsabili affinché riportino immediatamente le condizioni naturali di libertà della minore Emanuela Orlandi», altrimenti «estirperemo alla radice questa pseudo organizzazione che, oltre ad essere colpevole di altre situazioni, è causa di spiacevoli inconvenienti».
Pietro Orlandi ha riferito che quando iniziarono a comparire i primi comunicati, fu Giulio Gangi a comunicargli che dietro a “Phoenix”, una delle sigle di presunti rapitori comparse dopo la sparizione di Emanuela, ci sarebbero stati proprio i servizi segreti italiani135P. Orlandi, Mia sorella Emanuela.
Il 30/05/2013, Pino Nicotri ha scritto di aver ricevuto questa risposta da Giulio Gangi in merito alla rivelazione fatta da Pietro Orlandi: «Mi sono limitato a dire: “Boh, forse sono i nostri che cercano di muovere le acque” quando si seppe della prima lettera firmata Phoenix. Oltretutto, io al Sisde ero già stato allontanato dalle ricerche riguardanti Emanuela».
Il 14/11/2013 anche Marco Accetti ha ricondotto “Phoenix” ad alcuni membri del Servizio di Informazioni della Sicurezza Democratica (Sisde).
Non si può escludere che l’interesse fosse solo depistare gli inquirenti e la stampa, usandoli per tenere il caso sotto i riflettori e inviando a presunti interlocutori messaggi o codici da interpretare e decifrare. Le minacce del gruppo Phoenix ad altre sigle e ai primi telefonisti sembra dimostrare l’inserimento nel caso di gruppi con obbiettivi opposti o l’azione dei servizi segreti italiani.
c) “Nomlac” e il caso Orlandi
Il 03/09/84 apparve anche il Nomlac, cioè la “Nuova organizzazione musulmana per la lotta anticristiana”.
Gli autori della lettera ribadirono le condizioni per il rilascio di Alì Agca avanzate in una lettera giunta tredici giorni prima, sostenendo inoltre che Emanuela Orlandi «non è prigioniera del Fronte di liberazione turco anticristiano» (cioè il “Fronte Turkesh”) e che si troverebbe in Europa. Se le condizioni non saranno rispettate, aggiunsero, la giovane verrà uccisa e ci sarebbero anche stati attentati contro il Vaticano.
Gli autori chiesero in cambio anche una notevole somma di denaro.
Anche in questo caso, come per le precedenti sigle, nessuno credette all’autenticità delle rivendicazioni e l’avvocato degli Orlandi, Gennaro Egidio, replicò dicendo: «Finché non sarà fornita la certezza dell’esistenza in vita di Emanuela, messaggi come questi non dovrebbero meritare molta credibilità». Per il legale si sarebbe trattata della «stessa mente coordinatrice» degli altri comunicati.
d) Fu la Stasi a scrivere i comunicati del caso Orlandi?
L’ex colonnello della Stasi, Gunther Bohnsack, riferì che furono loro gli autori dietro la sigla “Fronte Turkesh”136F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 17 di questi messaggi e di quelli firmati “Phoenix”: «Ci divertivamo a scriverli in un italiano molto scorretto. Cercavamo così di aiutare i bulgari assurdamente accusati per l’attentato di Agca». E ancora: «Si, li facevamo noi, insieme a colleghi dei servizi segreti bulgari che incontravamo qui a Berlino»137citato in P. Nicotri, Emanuela Orlandi: la verità, p. 109.
Bohnsack confermò in un’altra intervista: «Chiedevamo la liberazione di Ali Agca, l’attentatore del Papa. E uno scambio con la ragazza. Volevamo far credere di essere dei nazionalisti turchi, interessati alla sorte del loro compagno. Ma lo scopo vero era naturalmente quello di stornare l’attenzione dalla Bulgaria». Avrebbero usato il “caso Orlandi” anche per minacciare il giudice Ilario Martella, allora istruttore sull’attentato a Wojtyla e sul rapimento della Orlandi138F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 19.
Secondo Bohnsack, a richiederlo sarebbero stati i servizi segreti bulgari nelle vesti di Jordan Ormankov e Markov Petkov139F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 19 e le lettere non sarebbero partite dalla Germania dell’Est ma da loro referenti di Francoforte e degli Stati Uniti, «il tedesco era scritto con errori per dare l’impressione che si trattasse dei Lupi Grigi»140citato da F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 19.
Le affermazioni di Bohnsack sembrano smentite direttamente da Markus Wolf, capo della Stasi, quando spiegò che nei loro interessi non rientrava Alì Agca, «in quel momento avevamo altri interessi, la Nato, la Germania Ovest, non il Papa». In Vaticano era difficile piazzare spie, un agente infiltrato era il benedettino Eugen Brammertz, utile «per sapere come intendesse muoversi la Curia. Ma più in là non andammo».
Wolf ha rivelato inoltre che nella Stasi c’era la XXesima divisione che lavorava sulla Chiesa, «ma poiché questo ufficio non dava i risultati sperati, lo chiudemmo».
Oltre a queste parole di Wolf, quanto disse Bohnsack è piuttosto controverse.
Al di là dell’italiano scorretto per simulare di essere nazionalisti turchi, perché rendere i comunicati così farneticanti?
Nessuno infatti li prese mai sul serio, né li attribuì ai nazionalisti turchi. Davvero la Stasi pensava di poter passare per fondamentalisti islamici usando il nome “Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh” e “Nuova organizzazione musulmana per la lotta anticristiana”? Davvero non capirono che era un’azione controproducente, che portava l’attenzione proprio laddove tale gruppo cercava di allontanarla, cioè sui bulgari e sull’Est?
La presunta strategia della Stasi, oltretutto, sarebbe stata in contrasto con il comportamento dello stesso Agca il quale, dal momento della scomparsa di Emanuela produsse infinite dichiarazioni deliranti «con l’effetto chiaro di inficiare le acquisizioni sul “livello” turco delle indagini»141richiesta di archiviazione, 2015.
Va considerato inoltre che tali comunicati erano sì sconclusionati, ma contenevano qualche informazione specifica che l’ex colonnello Bohnsack non ha mai spiegato come li avessero ottenuti.
In uno dei komunicati, ad esempio, fu scritto che «Emanuela formulò una frase che rese di ghiaccio suo padre»142Komunicato 22/11/83, episodio -pur abbastanza vago- confermato dal padre Ercole: «Si, mia figlia reagì in modo inconsueto, con una frase pesante nei miei riguardi poco prima della scomparsa».
Inoltre, in che modo i servizi segreti tedeschi sarebbero venuti in possesso della fotocopia della tessera scolastica con la foto di Emanuela e la ricevuta di versamento, allegati ad un comunicato di “Phoenix” del 13/11/83? E’ vero che furono già stati fatti ritrovare il 6/7/83 dall'”Amerikano, ma non era certo materiale reso pubblico e disponibile dalla polizia italiana.
Come mai i servizi segreti italiani (Sisde) non fecero mai riferimento all’inserimento della Stasi? Anzi, in una loro relazione scrissero che i «quattro comunicati del Turkesh e gli altrettanti di Phoenix, infatti, portano ad acclarare l’ipotesi che gli estensori siano a conoscenza di fatti inerenti a Emanuela Orlandi o relativi alla sua vicenda, sconosciuta sia agli organi di stampa che agli stessi presunti rapitori».
Nella requisitoria del Procuratore generale della Corte di Appello, Giovanni Malerba, si legge:
«Alcuni dei comunicati del Fronte Turkesh evidenziano rilevanti connotazioni di autenticità e genuinità in quanto accompagnati da prove foniche e documentali riferibili a Emanuela Orlandi -registrazione di frasi pronunciata dalla giovane, fotocopia di documenti quali la tessera scolastica di Emanuela e lo spartito di esercizi per il flauto, fotocopia di parole e frasi vergate di pugno della medesima ed altresì a Mirella- descrizione dell’abbigliamento anche intimo, della giovane, con dettagli estremamente precisi, noti solamente a chi avesse avuto contatto con costei. Questi i dati certi che andavano al di là della varietà delle sigle di rivendicazione, il cui unico scopo era di sviare le indagini sulla pista fascista e sulla CIA». E’ sorprendente che «le “prove documentali” della disponibilità dell’ostaggio (messaggi autografi, tessera di iscrizione scolastica) fossero in possesso non soltanto di taluno dei gruppi che ne rivendicavano il sequestro, ma anche del contrapposto gruppo Phoenix […]. Tuttavia, al di là delle incoerenze e dei contrasti apparenti, dall’analisi dei messaggi provenienti da coloro che fornivano le più convincenti prove, foniche e documentali, di effettiva disponibilità dell’ostaggio (segnatamente del messaggio recuperato in un furgone RAI in Castelgandolfo), con buona pace dei Lupi Grigi e affini, il contenuto di tali messaggi denota un livello di cultura, di conoscenze, di capacità valutativa di situazioni politiche, diplomatiche e giuridiche italiane e vaticane, per un verso decisamente fuori dalla portata intellettuale delle formazioni che pur si contendevano la rivendicazione dei sequestri e per l’altro riconducibile ad ambiente italiano, o meglio romano»143requisitoria del pm Malerba, 6/08/97.
Nel 2014 anche Marco Accetti commentò le parole dell’ex colonnello Bohnsack, scrivendo che nessun documento o testimonianza ha mai confermato tali dichiarazioni, inoltre, pur volendo a suo dire allontanare sospetti dai bulgari,«coloro che si presentavano come gruppo “Phoenix”, si qualificavano come una certa entità mafiosa che minacciava i sequestratori della Orlandi e li esortava a liberarla. E di ciò la “Stasi” non ne aveva chiaramente alcun interesse, in quanto l’unica loro motivazione era accusare i terroristi turchi di aver compiuto l’attentato al Pontefice».
E’ pur vero che il giudice Rosario Priore, che interrogò a lungo Bohnsack, lo ritenne sincero quando gli parlò dell’attività di disinformazione da parte della Stasi per allontanare i sospetti dai bulgari relativamente all’attentato al Papa («per difendere il buon nome dello Stato bulgaro»)144Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, pp. 20,21, tuttavia non c’è mai stata una prova oggettiva di questo né, tanto meno, del fatto che la Stasi intervenne anche nel caso Orlandi.
Conclusioni sui comunicati e le varie sigle del caso Orlandi
Nella sentenza di proscioglimento del 1997 si evidenziò che con la comparsa di varie sigle dopo il 20/07/83, tra cui il “Fronte Turkesh”, terminò il primo periodo di autenticità del caso (cioè quello dei tre telefonisti).
Se i telefonisti e le varie sigle (“Phoenix”, “Turkesh”, “Nomlac”, “Tukum” ecc.) che rivendicarono il rapimento di Emanuela avessero davvero voluto ottenere il ritiro delle accuse di Agca verso i paesi dell’Est, la sua liberazione e il recupero dei soldi spariti con il crack del Banco Ambrosiano, perché non dimostrarono in maniera certa di aver sequestrato la Orlandi?
Certo, come abbiamo visto si sforzarono di produrre dettagli biografici piuttosto precisi di Emanuela, come diverse fotocopie di tessere e iscrizioni alla scuola di musica e una fotocopia del frontespizio di un album con gli spartiti alla giovane.
Molto più semplicemente sarebbe bastata una fotografia di Emanuela con a fianco un quotidiano che mostrasse la data, il classico metodo utilizzato da tutti i gruppi terroristici per stabilire una prova di vita degli ostaggi e negoziare con le autorità per le loro richieste.
I casi sono tre:
1) I presunti sequestratori (telefonisti e autori dei comunicati) avevano solo carpito in qualche modo oggetti e informazioni dettagliate sulla Orlandi senza aver nulla a che vedere con la sua sparizione;
2) I presunti sequestratori (telefonisti e autori dei comunicati) erano entrati in contatto con chi aveva sequestrato Emanuela Orlandi per motivi estranei al ricatto internazionale (nella sentenza di proscioglimento del 1997 si sospettò infatti che ci potesse essere stato «un contatto con il gruppo che per primo aveva ottenuto e utilizzato le informazioni su Emanuela, per appropriarsene e riciclarle a sua volta»145G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 5);
3) I presunti sequestratori (telefonisti e autori dei comunicati) effettivamente erano tali ma non avevano interesse ad un ricatto pubblico con i loro interlocutori e usarono i media soltanto per lanciare allusioni ricattatorie (messaggi, codici ecc.), mentre la vera trattativa sarebbe avvenuta sotto traccia. D’altra parte Agca ritirò le sue accuse due giorni dopo la sparizione della Orlandi, leggendovi un messaggio nei suoi confronti per motivi inspiegabili all’opinione pubblica ma nonostante ciò la Orlandi non fu rilasciata e pochi anni dopo il turco tornò ad accusare i servizi bulgari.
1.10 Il progetto di sequestro di altri cittadine vaticane
Il 24/07/1984, un anno dopo la sparizione di Emanuela (e Mirella) avvenne la deposizione ai carabinieri di Raffaella Gugel, figlia di Angelo Gugel, aiutante di camera del Papa.
Ecco la testimonianza di Raffaella Gugel:
«Dopo alcuni giorni che il Santo Padre fu attentato dal terrorista turco, mio padre mi disse di stare attenta per la strada perché per la città del Vaticano erano circolate voci di un possibile rapimento di un cittadino vaticano in cambio del terrorista turco Alì Agca […]. In quel periodo io andavo a scuola in Corso Vittorio Emanuele II, istituto tecnico commerciale “Vincenzo Gioberti”, e ogni mattina alle ore 8,15 prendevo l’autobus 64 dal capolinea, ubicato nella piazza quasi di fronte all’ingresso di Porta Sant’Anna. Alla fermata successiva al capolinea saliva a bordo un uomo sui 28-30 anni, in giacca e pantaloni sportivi, il quale prendeva posto a sedere e notavo che mi osservava ripetutamente. Questo episodio si è verificato quasi ogni mattina. Preciso che nell’arco di una settimana succedeva tre giorni di fila, poi vi era una pausa di un giorno. E successivamente, gli altri 2, 3 giorni, rincontravo quest’uomo. Fin dai primi “incontri” con questo uomo sull’autobus riferii l’episodio a mio padre. Questi incontri durarono due o tre settimane, ma alla fine non lo vidi più. Posso riferire i dati somatici di quest’uomo. Era alto un metro e 80, corporatura snella, carnagione scura, tipo nazionalità turca, capelli scuri ricci con occhi scuri»146citata in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 6.
Quando il padre Angelo Gugel venne a sapere dei pedinamenti a sua figlia, interruppe la frequentazione della scuola delle figlie.
Interrogato nel 1995, Ercole Orlandi spiegò di essersi dato inizialmente come motivazione del sequestro di Emanuela una confusione con la figlia di Gugel, dovuta al fatto che lui e il padre della ragazza si somigliavano notevolmente147R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 140.
Nel seguente video si sospetta che i sequestratori possano aver sbagliato persona, tra la Orlandi e la Gugel, condizionati dalla forte somiglianza dei rispettivi padri:
Il magistrato Ferdinando Imposimato riferì anche che secondo i rapporti dei Carabinieri, vi furono pedinamenti non soltanto di Raffaella Gugel ma anche della sorella Flaviana Gugel e della figlia del Capo della sicurezza del Vaticano, Camillo Cibin. Fu testimoniato anche da un dipendente della polizia vaticana148F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 6.
Secondo Marco Accetti, reo-confesso di aver orchestrato l’allontanamento di Emanuela, questi pedinamenti così “appariscenti” sarebbero iniziati dal 1981 per evitare la collaborazione tra Alì Agca e gli inquirenti, rassicurando l’attentatore e facendogli credere che si stava organizzando un sequestro di cittadini vaticani da contraccambiare con la sua scarcerazione149M. Accetti, Memoriale, 2014.
Inizialmente si sarebbero scelte le figlie di Gugel150Accetti M., Memoriale, BlitzQuotidiano 16/06/2014, addetto all’anticamera papale, a pedinarle sarebbe stato lo stesso uomo che verrà fatto incontrare sia a Mirella che Emanuela il giorno della loro sparizione: «Si trattava di un estremista islamico tra i tanti rifugiati in Europa, ce n’erano in Germania, Svizzera, Francia, che aveva orientamento diverso, rispetto ai vari Agca o Celebi si poteva considerare di sinistra. Fecero da tramite i nostri referenti della nunziatura in Turchia e il sindacato di polizia Pol-Der, lo stesso che aveva intercettato le voci di attentato»151in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 102.
Soltanto nel 1983, secondo il suo Memoriale152Accetti M., Memoriale, BlitzQuotidiano 16/06/2014, la scelta sarebbe caduta sulla famiglia Orlandi e, in particolare, su Cristina, sorella di Emanuela. L’idea fu scartata per la giovane età e si sarebbe scelto Emanuela per la predisposizione caratteriale e in quanto frequentava la scuola di musica nel palazzo di Sant’Apollinare, che Accetti definisce «feudo storico del Card. Caprio, nostra controparte».
Conclusioni sui pedinamenti ad altre cittadine vaticane
La grande domanda è perché di questi pedinamenti non fu avvertita anche la famiglia Orlandi. Avrebbe dovuto farlo la Gendarmeria, ma anche gli stessi Gugel e Cibin non avvisarono Ercole Orlandi, nonostante abitassero nella stessa palazzina. Come mai?
I Carabinieri che accolsero le deposizioni e tutti i giornalisti che si sono occupati del caso non hanno mai indagato in merito in tutti questi anni?
Il tema dei pedinamenti prima della sparizione esclude automaticamente la pista pedofilo-sessuale in quanto nessun maniaco o pedofilo pedinerebbe in maniera così appariscente per giorni le sue vittime.
Un dettaglio non secondario è che Emanuela Orlandi divenne cittadina vaticana soltanto il 23 marzo 1983, tre mesi prima della sparizione.
Se si assume che tali pedinamenti abbiano un legame con la scomparsa di Emanuela, la giovane cittadina vaticana sarebbe stata la terza scelta dopo Raffaella Gugel e la figlia del Comandante della Gendarmeria, Camillo Cibin.
1.11 Gli appelli di Giovanni Paolo II sul caso Orlandi
Dieci giorni dopo la sparizione di Emanuela Orlandi, il 03/07/83, Giovanni Paolo II lanciò, in modo sorprendente, un appello pubblico perché Emanuela potesse tornare «non perdendo la speranza nel senso di umanità di chi abbia responsabilità in questo caso».
Fu un chiaro accenno al rapimento, anche se fino ad allora le autorità ritenevano si trattasse di una scappatella volontaria. Erano infatti giunte solo le telefonate di “Pierluigi” e “Mario”, mentre quella dell”Amerikano” arrivò due giorni dopo l’appello papale, a suggello della pista del rapimento a scopo ricattatorio.
Seguirono altri 7 appelli che portarono inevitabilmente l’attivazione della magistratura, dei servizi segreti e il caso Orlandi divenne noto in tutto il mondo.
Qui sotto la voce di Giovanni Paolo II nel primo appello sul caso Orlandi:
Per lo scrittore Pino Nicotri l’intervento di Papa Wojtyla e il successivo dell’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini, furono fatali in quanto avrebbero fatto capire a tutti, soprattutto ai comunisti sovietici e alla Stasi, un punto debole di cui approfittarsi.
Nicotri lo definì un “ingenuo passo falso“, di fatto una “condanna a morte” per Emanuela. Ha tuttavia sospettato che il Pontefice sapesse già della morte di Emanuela e quindi non avesse timore di aggravare la situazione con i suoi appelli. Quest’ultima, in particolare, è un’affermazione priva di alcuna prova o dimostrazione.
In realtà i primi a parlare di “rapimento” furono proprio i familiari di Emanuela nel comunicato che fecero pubblicare all’Ansa due giorni dopo la sparizione di Emanuela, il 24/06/1983153Scomparsa ragazza cittadina vaticana, Ansa 24/06/1983.
Nel 2023 Nicotri ha notoriamente cambiato idea. Se nel 2014 sospettò un complotto vaticano ed escluse che gli appelli furono fatti per “istintivo buonismo”154P. Nicotri, Caso Orlandi, Scalfaro depistò, Italia Oggi, 09/10/2014, nel 2023 ha riconosciuto che «quegli appelli il Papa li fece per generosità»155P. Nicotri, in Caso Orlandi, «la pista amical-parentale è la più credibile», La NBQ, 14/07/2023.
Il fratello Pietro Orlandi ha sempre apprezzato l’intervento di Wojtyla: «Si rivolse a chi aveva “responsabilità in questo caso”, quando le autorità italiane non si erano praticamente mosse». Il Papa, scrive Pietro, doveva avere buoni motivi per esporre la Chiesa a un prezzo tanto alto: assedio mediatico sulla “ragazzina cara al pontefice”, l’oscuramento dei suoi successi come capo di Stato, subbuglio internazionale e dei servizi di sicurezza156P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 87.
Sempre Pietro Orlandi ha raccontato che il 27/07/83 Giovanni Paolo II convocò i genitori e, in lacrime, parlò per la prima volta di “un`organizzazione terroristica”. Altrettanto fece il 24/12/83 quando visitò gli Orlandi per gli auguri natalizi: «Cari Orlandi, voi sapete che esistono due tipi di terrorismo, uno nazionale e uno internazionale. La vostra vicenda è un caso di terrorismo internazionale».
Il reo-confesso Marco Accetti ha sostenuto invece che il Papa non sarebbe stato informato correttamente e chi preparò l’appello del 3 luglio lo avrebbe portato su piste confondenti volendo «sottrarsi alla nostra minaccia di rivelare pubblicamente la “realtà” relativa al “sequestro”, rendendolo a loro volta pubblico. Ci anticipano nella nostra intenzione, sia pur virtuale, rendendolo di pubblico dominio. Dichiarano in questo modo che trattasi di un qualcosa di “esterno”, un rapimento qualunque, cosicché la Città del Vaticano risulta esserne estranea, senza responsabilità alcuna. È anche un modo di dichiarare che non accettano le nostre istanze»157M. Accetti, Memoriale, 2014.
Il magistrato Ferdinando Imposimato, al contrario, riferì dei suoi incontri con Giovanni Paolo II:
«La sua convinzione era che Emanuela Orlandi fosse stata vittima di un complotto internazionale. So che lui ha avuto un grande trauma per il sequestro di Emanuela Orlandi, perché capiva che, pur non essendo colpevole del sequestro – ci mancherebbe altro – questo era comunque collegato all’attentato, era un fatto commesso contro di lui. Quindi lui era la causa del sequestro, anche se ovviamente non ne era responsabile. Lui mi ha sempre manifestato, anche indirettamente attraverso i suoi collaboratori, apprezzamento per quello che stavo facendo nella ricerca della verità»158F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 20.
La giornalista Rossella Pera ha giustificato in qualche modo l’intervento del Papa ricordando che «per una “semplice” sparizione, a casa Orlandi, a presentarsi è un uomo del Sisde; così come vicino al Sisde era l‘avvocato consigliato e pagato dai servizi stessi: Egidio. A ciò bisognerebbe aggiungere che Emanuela, la cittadinanza vaticana, l’aveva acquisita da pochissimo tempo e quindi, non sarebbe stata questa l’eventuale motivo del sequestro»159P. Rossella, Caso Orlandi. La pineta con le radici nel sangue, La Giustizia, 27/06/2023.
Conclusioni sugli appelli di Giovanni Paolo II
Come si è visto vi sono state diverse reazioni agli appelli del Papa, dal definirli un passo falso al vederli come atti di coraggiosa generosità e preoccupazione.
Conoscendo l’estrema prudenza della Santa Sede nell’intervenire su specifici casi riteniamo che tali appelli fossero motivati da elementi di urgente necessità, dovuta a indagini interne o a informazioni carpite da fonti affidabili che convinsero le autorità vaticane a orientarsi in direzione del sequestro prima di chiunque altro.
Non è pensabile altrimenti l’aver corso il rischio di una figuraccia internazionale per una tale esposizione papale se non si fosse stati in qualche modo sicuri che non si trattava di una semplice scappatella.
E’ anche possibile la lettura fatta da Marco Accetti, cioè un modo di rendere pubblica una vicenda per sottrarsi a una trattativa che avrebbe avvantaggiato i malintenzionati se fosse rimasta sotterranea.
Tra tutte le ipotesi, queste due paiono le più verosimili.
1.12 I genitori di Emanuela Orlandi e la Sala Borromini
Un ennesimo aspetto controverso della vicenda Orlandi è dove fossero realmente i genitori di Emanuela il giorno della scomparsa. Nei verbali si legge che riferirono che quel giorno rientrarono a casa dopo le 19. Ma prima dove si trovarono?
Al centro di questo equivoco c’è il giornalista Gian Paolo Pelizzaro, storica firma de L’Indipendente che si occupò del caso Orlandi dagli anni Novanta. Nel dicembre 1993, oltre a intervistare il vigile Alfredo Sambuco, raccolse varie informazioni sulla Orlandi scoprendo che quando Emanuela telefonò a casa, poco prima della scomparsa, «non riuscì a parlare con la madre poiché era andata a seguire un saggio di danza della sorella piccola, Cristina, alla sala Borromini»160G.P. Pelizzaro, “Vidi Emanuela con un uomo“, L’Indipendente, 22/12/1993.
Un dettaglio oggi sorprendente, che contrasta con quanto si è sempre saputo.
Nel 1994, Pelizzaro fu invitato a casa degli Orlandi dopo aver diffuso il rapporto del SISDE (datato 14/11/1983) che identificava l'”Amerikano” in un alto prelato. Ripercorrendo la giornata della scomparsa di Emanuela, la madre disse: «Lasciammo Emanuela a casa. Noi dovevamo andare a Fiumicino. Sapeva che saremmo tornati nel tardo pomeriggio. In casa era rimasta la sorella maggiore Federica».
Essendo in contraddizione con quanto raccolto dalle sue fonti, cioè che si sarebbero recati al saggio di danza di Cristina alla sala Borromini, il giornalista chiese un chiarimento ed Ercole Orlandi rispose che qualcuno si era sbagliato perché loro due, quel giorno, andarono a Fiumicino ad aiutare Eugenio, il fratello di Ercole, per fare dei lavori.
Nel 2011 Pietro Orlandi, nel suo libro Mia sorella Emanuela, riportò una terza versione, non necessariamente incompatibile: sua mamma, subito dopo pranzo, avrebbe iniziato a preparare l’impasto per la pizza da mangiare a cena, poi i genitori sarebbero usciti161P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, EdizioniAnordes 2011, pp. 43-48.
Pelizzaro riferisce che la notizia sul saggio di Cristina Orlandi alla sala Borromini fu ripresa anni dopo da Repubblica, l’8/10/1997, nell’articolo intitolato: “Orlandi, ultimo colpo di scena”: «La madre non è in casa, ma si trovava alla sala Borromini per seguire un saggio di danza della sorella più piccola, Cristina. Emanuela parla con la sorella maggiore, Federica. Sono le sue ultime parole, dopo quella conversazione la ragazza scompare».
Il giornalista de L’Indipendente respinse l’idea che l’autore stesse attingendo al suo articolo, in quanto scriveva in ambito giudiziario-investigativo: «L’articolo, corredato da un ampio box, riguardava la requisitoria dell’allora sostituto procuratore generale Giovanni Malerba, con la richiesta di archiviazione dell’inchiesta indirizzata dal giudice istruttore Rando».
Dove si trovavano davvero i genitori nel pomeriggio del 22/06/1983? A Fiumicino o al saggio di Cristina alla Sala Borromini, luogo citato nella telefonata di Emanuela e distante solo 300 metri dal luogo in cui la giovane scomparve?
E se Cristina Orlandi era al saggio di danza, come poteva essere davanti al Palazzaccio alle 19 con alcuni amici, in attesa di Emanuela, come si è sempre detto? Raggiunse il luogo una volta finita l’esibizione?
Il reo-confesso Marco Accetti ha riferito che il codice relativo alla Sala Borromini usato da Emanuela nella telefonata avrebbe indicato la figura di Francesco Pazienza, agente SISMI, all’epoca residente nel centro di Roma vicino alla Sala Borromini, appunto. Inoltre, il vigile urbano Alfredo Sambuco raccontò di aver riconosciuto Emanuela nella giovane che quel pomeriggio del 22 giugno gli chiese dove si trovasse la Sara Borromini.
1.13 La scuola di musica “Ludovico da Victoria” di Emanuela Orlandi
La scuola di musica frequentata da Emanuela, in piazza Sant’Apollinare 49 e collegata alla Basilica di Sant’Apollinare, è un luogo da sempre al centro del caso. E non solo perché fu l’ultimo ambiente frequentato certamente da Emanuela prima della scomparsa.
Innanzitutto va ricordato che la segreteria particolare di Oscar Luigi Scalfaro, che nell’agosto 1983 (due mesi dopo la sparizione di Emanuela) divenne ministro dell’interno (e nel 1992 presidente della Repubblica), era composta da quattro stanze e si trovava proprio nello stesso palazzo e allo stesso piano della scuola di musica frequentata da Emanuela162P. Nicotri, Caso Orlandi, Scalfaro depistò, Italia Oggi, 09/10/2014.
Un altro elemento controverso riguardante la scuola di musica emerse il 30/7/1983 e ne abbiamo dettagliatamente parlato nel capitolo dedicato alle ipotetiche piste sessuali.
Il bidello della scuola, Franco De Lellis, aveva una figlia che era dedita alla droga assieme al marito, oltre a partecipare come comparsa a film pornografici diretti dal regista Bruno Mattei. Quest’ultimo girava pellicole di fascia bassa a carattere erotico, spesso legate morbosamente al mondo ecclesiastico (“tonaca movie”).
Dai vari interrogatori ai membri della famiglia De Lellis e allo stesso Mattei163R. Pera, Caso Orlandi, il regista Bruno Mattei e quelle presenze aliene a Sant’Apollinare, La Giustizia 05/08/2023 emerse che nella scuola Ludovico da Victoria pernottavano persone estranee, oltre alla figlia di De Lellis. Lo stesso Mattei, proprietario di una BMW verde metallizzato (stesso colore e modello dell’auto appartenuta all’uomo dell’Avon visto con Emanuela il giorno della sparizione), frequentò la scuola e pernottò lì nel maggio 1983, un mese prima della scomparsa.
Non vi sono tuttavia riscontri di indagini successive su questo filone delle indagini.
Nel giugno 2024 Alessandra Cannata, allieva della scuola da Victoria e amica di Emanuela, ha invece riferito alla Commissione parlamentare che nella scuola «c’era un bel clima. Era una buona scuola».
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2. EMANUELA ORLANDI E IL RUOLO DEL VATICANO
Il periodo in cui avvenne la sparizione di Emanuela Orlandi fu decisivo per l’Europa, la quale viaggiava verso la caduta del muro di Berlino e la posizione del Vaticano era (e fu) determinante in tutto questo.
La Chiesa cattolica in quel periodo era impegnata fortemente nel sostenere e finanziare la nascita e la resistenza pacifica del sindacato polacco di Solidarnosc, universalmente riconosciuto per essere stato l’artefice della democrazia in Polonia e del crollo del regime comunista in tutti i Paesi del Patto di Varsavia. Il leader del sindacato, Lech Walesa, fu insignito del Premio Nobel per la Pace.
Nello Stato Pontificio vi furono tuttavia due linee guida opposte, una guidata dal card. Agostino Casaroli, segretario di Stato, propenso al dialogare con il comunismo, l’altra, guidata dal polacco Papa Wojtyla, orientata alla contrapposizione aperta. La storia ha decretato che l’orientamento di Giovanni Paolo II fu vincente e determinante per l’implosione (misteriosamente) non violenta dell’Unione Sovietica.
E’ in questo contesto che molti hanno collocato la sparizione di una cittadina vaticana, evento mai avvenuto né prima, né dopo. Non si può trascurare il fatto che il giorno della scomparsa di Emanuela, il 22 giugno 1983, Giovanni Paolo II si trovasse proprio in Polonia.
Nel gennaio 2023, dopo l’archiviazione da parte della procura italiana, il promotore di giustizia vaticana Alessandro Diddi ha aperto un fascicolo sul caso Orlandi, affidando le indagini alla Gendarmeria vaticana. L’avvocato di Orlandi, Laura Sgrò, aveva infatti presentato due denunce in Vaticano, nel 2018 e nel 2019164F. Peronaci, Il Vaticano riapre il caso Orlandi, Corriere della Sera 10/01/2023.
2.1 Mancata collaborazione del Vaticano?
Una tradizione instancabilmente ripetuta da decenni vuole che il Vaticano abbia scarsamente collaborato con le autorità italiane nel caso Orlandi. La famiglia, alcuni magistrati e molti giornalisti lamentano costantemente l’eccessiva prudenza e gli eccessivi silenzi delle autorità vaticane.
Tra i più autorevoli esponenti di queste lamentele vi fu il giudice istruttore Adele Rando quando scrisse che «l’apporto istruttorio delle rogatorie introdotte davanti all’Autorità Giudiziaria della citta del Vaticano, lungi dal soddisfare i quesiti per i quali le stesse erano state proposte, si traduce nella conferma di alcuni interrogativi che hanno imposto la scelta processuale dello stralcio».
Più recentemente anche l’ex procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Capaldo, si è unito al coro di proteste per «la scarsa anzi nulla collaborazione da parte del Vaticano»165G. Capaldo, intervista al programma Atlantide di La7, 21/06/23.
Adele Rando e Giancarlo Capaldo, proprio i giudici responsabili delle due archiviazioni sul caso Orlandi a causa delle loro inconcludenti indagini.
Le parole di Adele Rando furono smentite dal collega Rosario Priore, titolare dell’inchiesta sull’attentato al Papa del 1985, il quale si confrontò a lungo con il card. Silvio Oddi, allora prefetto della Congregazione per il clero. Interrogato nel 2005, Priore ricordò che Oddi «fu di una gentilezza assoluta perché ci aiutò nella ricostruzione del sequestro Orlandi (lo interrogai insieme alla collega titolare di quel procedimento, il giudice Rando)»166Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, p. 12.
Inoltre, è noto che le indagini di Adele Rando (assieme al’ex prefetto Vincenzo Parisi, capo della Polizia dal 1987 al 1994) sul caso Orlandi non portarono ad alcuna certezza nonostante la stretta vicinanza temporale ai fatti, trascurando diverse piste investigative (quella di Bolzano si interruppe non appena emerse la presenza di un funzionario del SISMI, servizi segreti italiani167S. Petrone, Rispoli: Orlandi, indagare sulla pista di Terlano, Alto Adige, 13/05/2011) ed acquisendo tre faldoni top secret, sempre del SISMI, sulla Orlandi senza mai consegnarli agli atti d’indagine e alla famiglia, tanto che ancora oggi risultano scomparsi168Emanuela Orlandi, scomparsi tre fascicoli raccolti dal Sismi, Repubblica, 01/11/2021.
Ricordiamo inoltre che Adele Rando è lo stesso magistrato che convocò con ben 7 anni di ritardo il confronto tra la madre di Mirella, Maria Vittoria Arzenton, e il sovrastante vaticano Raoul Bonarelli, vanificando le indagini in tal senso.
Per quanto riguarda Giancarlo Capaldo, le responsabilità furono ancora maggiori in quanto la sostanziale inattività investigativa costrinse l’allora procuratore Giuseppe Pignatone ad avocare a sé l’indagine per decretarne l’archiviazione. Gli accertamenti di Capaldo nei confronti di Marco Accetti, ad esempio, furono assolutamente minimali e insufficienti, arrivando ad esempio a liquidare un’intercettazione telefonica altamente compromettente tra l’uomo e la sua ex moglie solamente perché il primo definì “pazza” la donna mentre lo minacciava di rivelare alla polizia il suo coinvolgimento nel caso Orlandi se non avesse accettato i termini di affidamento della figlia.
Tra le enormi mancanze dell’ex magistrato Capaldo vi fu anche l’aver costantemente ignorato gli esposti in Procura dell’avvocato di Accetti riguardo al trafugamento della bara di Katy Skerl dal Cimitero del Verano, verità accertata soltanto nel 2022, ben 7 anni dopo.
Questi ex magistrati sembrano aver voluto scaricare sul Vaticano le responsabilità della non risoluzione del caso Orlandi, al posto di riconoscere la forte lacunosità delle loro indagini investigative.
Nel 2008 il magistrato Gianluigi Marrone, giudice unico della Città del Vaticano dal 1991 al 2009, parlò di «false polemiche» legate alla collaborazione vaticana, assicurando personalmente «che il Vaticano non ha mai risposto negativamente a una richiesta di rogatoria». Sul caso Orlandi «sono stato coinvolto spesso nella preparazione di queste rogatorie e, per quel che mi compete, le assicuro che tutte hanno avuto regolare risposta. Altro è, naturalmente, se la risposta viene ritenuta soddisfacente o no. Non si può dire che il Vaticano non ha collaborato o, peggio ancora, continuare a dire che non c’è mai stata collaborazione con la magistratura italiana»169G. Marrone, Tre piccoli furti e rogatorie internazionali, L’Osservatore Romano, 06/07/2008.
Al di là di questo, certamente il Vaticano non ha mai avuto un ruolo attivo nelle indagini, al contrario di quanto avvenuto nel 2023 con l’apertura di un’inchiesta guidata dal promotore di giustizia Alessandro Diddi. L’annuncio del Vaticano di intraprendere le indagini risale al 9/01/2023, dieci giorni dopo la morte di Joseph Ratzinger (ma annunciate pubblicamente nell’aprile 2023)170F. Pinotti, G. Capaldo, La ragazza che sapeva troppo, Solferino 2023, p. 13 171F. Pinotti, Sul caso Orlandi il Papa vuole piena verità. Il mondo ci guarda: non nasconderemo nulla, Corriere della Sera, 10/04/2023.
Uno dei principali esperti del caso Orlandi, il giornalista Pino Nicotri ha cambiato idea sul ruolo del Vaticano, sostenendo nel 2023 che «il Vaticano, perennemente accusato da tutti di reticenza, in realtà ha trasmesso i documenti – compresa l’informativa relativa a quest’episodio del 1978 – alle autorità italiane», riferendosi allo scambio epistolare tra il card. Casaroli e il padre spirituale di Natalina Orlandi riguardante gli abusi subiti da quest’ultima da parte dello zio Meneguzzi.
Inoltre, ha proseguito Nicotri, «sappiamo che il Vaticano all’epoca delle indagini permise ai servizi segreti italiani di controllare le telefonate sul proprio territorio. Sarebbe interessante sapere che fine hanno fatto le relazioni degli agenti italiani su quanto ascoltato nelle intercettazioni ai centralini vaticani. Si può dire che il Vaticano ha collaborato oltre il proprio dovere»172P. Nicotri, in Caso Orlandi, «la pista amical-parentale è la più credibile», La NBQ, 14/07/2023.
A conferma di ciò, nel 2024 il settimanale Giallo ha pubblicato173A. De Vita, Emanuela Orlandi, gli 007 presero il diario della ragazza scomparsa e lo diedero alla polizia dopo un mese: tra le pagine i riferimenti a Giovanni Paolo II, FQ Magazine, 22/05/2024 un documento riservato, spedito dal Ministero dell’Interno alla questura di Roma il 19/7/1983, quasi un mese dopo la scomparsa della Orlandi.
Oltre a trasmettere la fotocopia di un’agenda di Emanuela Orlandi prelevata dai servizi segreti italiani, si evidenziava che gli stessi servizi annotarono «l’installazione di una linea telefonica del centralino della Città del Vaticano per i contatti con i presunti rapitori dell’Orlandi». Un dettaglio che conferma la collaborazione tra gli 007 italiani con i vertici ecclesiastici per l’installazione della famosa linea riservata attivabile tramite il codice 158.
«Il Vaticano non aveva nulla da temere perché non c’entrava niente», ha commentato tal proposito Pino Nicotri. «I nostri 007, come pure figura nelle carte in questione, avevano avuto il permesso – oltre che di installarsi nel centralino telefonico – di installare una speciale linea telefonica “per eventuali contatti coi rapitori”».
Va inoltre tenuto presente che i “segreti di Stato” esistono da sempre per qualunque nazione, Italia compresa, e da un certo punto di vista è anche giusta una simile tutela interna. Inoltre, come ricordato dal giudice Rosario Priore, non esiste alcun trattato di assistenza giudiziaria fra lo Stato italiano e la Santa Sede174R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 28/09/2005, p. 18, al di là di norme di cortesia.
La collaborazione tra Stati non è mai semplice, a volte addirittura conflittuale. La Francia, ad esempio, nascose addirittura Oral Celik ben sapendo chi fosse e che era ricercato dall’Italia per l’attentato a Giovanni Paolo II175F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 12 176A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 31/05/2005, p. 9.
Nel 2024 il presidente della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul caso Orlandi-Gregori, Andrea De Priamo ha voluto smentire il mito della mancata comunicazione del Vaticano con queste parole:
«Nella corrispondenza diplomatica, nell’analisi della documentazione che abbiamo cominciato a reperire, emerge un’ampia collaborazione, diversamente da quanto spesso è stato riportato, tra Stato italiano e Santa Sede». Ciò «smentisce anche alcune ricostruzioni di un Vaticano reticente o indifferente rispetto a questa vicenda, ma al contrario mostra un quadro molto diverso: una forte preoccupazione e una volontà di collaborazione per risolvere il caso», in particolare nella «fase iniziale, tra luglio e agosto dell’83»177F. Peronaci, Caso Orlandi-Gregori, i tanti «non ricordo» delle amiche. Il presidente della commissione d’inchiesta: «Il Vaticano sta collaborando», Il Corriere della Sera, 20/07/2024.
a) L’indagine interna di padre Federico Lombardi
Nel febbraio 2012 nell’ambito di Vatileaks, emerse un appunto riservato scritto da padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede e probabilmente destinato a mons. Georg, segretario di Ratzinger.
In esso si avanzarono alcune perplessità sulla scarsa collaborazione con le autorità italiane (almeno in alcune delle forme richieste – rogatorie, deposizione Bonarelli), domandandosi se «fosse una normale e giustificata affermazione di sovranità vaticana, o se effettivamente si fossero mantenute riservate delle circostanze che avrebbero potuto aiutare a chiarire qualcosa».
In seguito, padre Lombardi svolse una personale indagine interna per sincerarsi dell’esistenza o meno di documenti o testimoni, pubblicando i risultati il 4/04/2012.
Il portavoce dalla Santa Sede ricordò l’interessamento di Giovanni Paolo II e del card. Agostino Casaroli, segretario di Stato, tanto da mettere a disposizione per i contatti con i rapitori con una linea telefonica particolare. Dalla sua verifica appurò che «non solo la segreteria di Stato stessa, ma anche il Governatorato furono impegnati nel fare tutto il possibile» per collaborare con gli inquirenti, «a cui spettava evidentemente la competenza e la responsabilità delle indagini, essendo il sequestro avvenuto in Italia. La piena disponibilità alla collaborazione da parte delle personalità vaticane che a quel tempo occupavano posizioni di responsabilità, risulta da fatti e circostanze».
Padre Lombardi scrisse che «tutte le lettere e le segnalazioni pervenute in Vaticano furono prontamente girate al Dott. Domenico Sica e all’Ispettorato di P.S. presso il Vaticano, si presume che siano custodite presso i competenti uffici giudiziari italiani». Rispetto alle tre rogatorie indirizzate alle autorità vaticane nella seconda fase dell’inchiesta (una nel 1994 e due nel 1995), esse «trovarono risposta (note verbali della segreteria di Stato N. 346.491, del 3 maggio 1994; N. 369.354, del 27 aprile 1995; N. 372.117, del 21 giugno 1995)».
Il tribunale vaticano ascoltò inoltre i soggetti indicati dalla magistratura italiana (Ercole Orlandi, Camillo Cibin, card. Agostino Casaroli, mons. Eduardo Martinez Somalo, mons. Giovanni Battista Re, mons. Dino Monduzzi, mons. Claudio Maria Celli) e le loro deposizioni vennero inviate alle autorità richiedenti e «i relativi fascicoli esistono tuttora e continuano a essere a disposizione degli inquirenti». Padre Lombardi ricordò infine la concessione vaticana alla autorità italiane di accedere al centralino e porre sotto controllo i telefoni di cittadini vaticani «senza alcuna mediazione» di funzionari vaticani.
La dettagliata nota del portavoce vaticano si concluse respingendo le ingiuste accuse di mancata collaborazione, riportando la sensazione che «non si ebbe in Vaticano alcun elemento concreto utile per la soluzione del caso da fornire agli inquirenti». L’opinione prevalente delle autorità vaticane fu che il sequestro fosse utilizzato «da una oscura organizzazione criminale per inviare messaggi od operare pressioni in rapporto alla carcerazione di Alì Agca e agli interrogatori dell’attentatore del papa. Non si ebbe alcun motivo per pensare ad altri possibili moventi del sequestro».
Infine, padre Lombardi lamentò che «l’attribuzione di conoscenza di segreti attinenti al sequestro stesso da parte di persone appartenenti alle istituzioni vaticane, senza indicare alcun nominativo, non corrisponde quindi ad alcuna informazione attendibile o fondata; a volte sembra quasi un alibi di fronte allo sconforto e alla frustrazione per il non riuscire a trovare la verità».
A conferma di ciò, il capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, mostrò apprezzamento per la nota vaticana con queste parole: «Accolgo con soddisfazione le dichiarazioni di padre Lombardi».
2.2 Esiste un dossier Orlandi in Vaticano?
Non è mai stato chiarito in maniera definitiva se le autorità vaticane abbiano creato o meno un dossier Orlandi, contenente elementi d’indagine interna.
Alla rogatoria del marzo 1995, ad esempio, le autorità vaticane risposero di non avere mai avuto registrazioni o trascrizioni delle telefonate provenienti dall’”Amerikano”.
Tuttavia agli atti dell’archiviazione del 1997 è presente la testimonianza di mons. Francesco Salerno, consulente legale presso la Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede, il quale nel dicembre 1993 dichiarò agli inquirenti Adele Rando e Rosario Priore quanto segue:
«Confermo la convinzione che la scomparsa della Orlandi potesse in qualche modo costituire un elemento di pressione su ambienti strettamente legati al Sommo Pontefice. Ricordo che all’epoca dei fatti ebbi modo di rappresentare tali convinzioni a monsignor Giovanni Battista Re, all’epoca assessore alla Segreteria di Stato, al quale ebbi modo anche di offrire una mia possibile collaborazione in tale vicenda. Monsignor Re mi disse, peraltro, che non gli sembrava necessaria una verifica in tale direzione, riferendomi che avrebbe lasciato le cose così come si trovavano […]. Gli inutili tentativi di identificare gli sconosciuti interlocutori telefonici che chiamavano sulla linea riservata, messa a disposizione dalla Segreteria di Stato, portano oggettivamente a ritenere che all’interno della Segreteria stessa, o comunque in quegli ambienti, Vi potesse essere taluno che informava tempestivamente gli interlocutori telefonici […] sul punto non sono in grado di fornire alcuna utile spiegazione ma ritengo che negli archivi della Segreteria di Stato siano custoditi documenti relativi alla vicenda di cui ci occupiamo e che forse potrebbero essere chiarificatori in tal senso»178A. Rando, Sentenza di archiviazione 1997, p. 85.
Nella richiesta di archiviazione del 2015 della Procura di Roma si legge «l’esistenza o meno di un fascicolo vaticano relativo ad Emanuela Orlandi risulta smentita dalle indagini per altro verso svolte», riferendosi alle dichiarazioni del 2005 di mons. Bruno Bertagna che, «in qualità di addetto presso la Segreteria di Stato prima e di Segretario Generale del Governatorato poi, escluse l’espletamento di indagini sulla vicenda all’interno della Città del Vaticano»179G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015.
Secondo Pietro Orlandi vi sarebbero invece carte secretate e delle stesse ha scritto a Papa Francesco, riferendosi al «dossier “Rapporto Emanuela Orlandi”» che sarebbe stato a disposizione nel 2012 della Segreteria Particolare di Papa Benedetto XVI.
Nel 2023 l’arcivescovo Georg Gaenswein, ex segretario di Benedetto XVI, ha ricordato di aver parlato a lungo con Pietro Orlandi e aver fatto fare in Vaticano «un promemoria su quale fosse la situazione allora riguardo a Emanuela Orlandi». Fu realizzato «un appunto, si vedeva che non c’era niente di nuovo. Poi lo stesso Orlandi ha detto in un’intervista che io avrei un dossier. Non è vero, non ho alcun dossier. Se lui pensa a questo appunto, che poi ho dato a Papa Benedetto, di questo si tratta»180Don Georg chiarisce: non esiste un dossier vaticano su Emanuela Orlandi, feci redigere un appunto per Papa Ratzinger su tutte le cose note, Il Faro di Roma, 17/04/2023.
Queste affermazioni non sembrano coerenti con le parole del promotore di giustizia vaticana Alessandro Diddi, il quale ha invece basato la sua inchiesta su documenti e carte vaticane, «tante, tantissime, ho avuto modo di leggerle e analizzarle. Ci sono state anche acquisizioni interne di carte vecchie, vecchissime, impolverate. E altre ne sto cercando ancora»181citato in F. Pinotti, Sul caso Orlandi il Papa vuole piena verità. Il mondo ci guarda: non nasconderemo nulla, Corriere della Sera, 10/04/2023.
Nel 2024 padre Federico Lombardi, ex direttore della sala stampa vaticana nell’era di Benedetto XVI, ascoltato dalla Commissione parlamentare, ha confermato invece che quello redatto in Vaticano era solo «un appunto personale» che «di per sé» doveva rimanere «riservato», e che era destinato alla segreteria particolare di Benedetto XVI, non certo un dossier particolare con “segreti”.
Lombardi ha spiegato che la vicenda nacque da un incontro tra mons. Gaenswein, segretario di Ratzinger, e Pietro Orlandi, richiesto da quest’ultimo. Orlandi portò un suo libro sulla vicenda e informò Gaenswein di un’imminente manifestazione in ricordo della sorella, chiedendo se il Papa poteva dire qualcosa in merito all’Angelus. Gaenswein si rivolse allo stesso Lombardi, il quale relazionò attentamente il libro per iscritto: «Spiegavo un po’ l’atteggiamento di Pietro e quello comprensivo per la famiglia. E poi illustravo le domande che a me al tempo non erano chiare», suggerendo, se lo si fosse ritenuto «opportuno» di poter «continuare ad approfondire degli argomenti. Preparai questo testo all’inizio di gennaio e lo mandai via email. A febbraio alla trasmissione Chi l’ha visto, un po’ per caso vidi Pietro Orlandi con il mio appunto in mano. Chiamai Gaenswein: “hai dato questo appunto a qualcuno”? Ma entrambi cademmo dalle nuvole».
Quell’appunto fu trafugato dall’ex maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele: «Addirittura per noi fu proprio quella la vicenda chiave per appurare da dove avveniva la fuga di documenti che in quel periodo erano tantissimi».
2.3 Depistaggi ai danni del Vaticano
Di pari passo con l’ossessività mediatica per il caso Orlandi sono emersi, periodicamente, diversi depistaggi contro il Vaticano.
Sorprende sempre come possano giornali, lettori e famigliari delle vittime abboccarvi ogni volta salvo rimanere puntualmente delusi. Evidentemente perché c’è una pregiudizievole convinzione che lo Stato del Vaticano sia il grande responsabile del caso, anche perché è l’unico soggetto che si può attaccare e tirare costantemente in ballo senza subire alcuna conseguenza.
a) La cassa di documenti a Santa Maria Maggiore
Nel libro Addio, Emanuela, pubblicato nel 2022 da Maria Giovanna Maglie, viene pubblicato un certificato dei Servizi segreti spagnoli di cremazione del corpo di Emanuela, documento che sarebbe stato contenuto in una cassa tumulata nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma.
Nel gennaio 2024 in uno dei sit-in per Emanuela Orlandi, il fratello Pietro ha parlato di questa pista emersa dai messaggi del 2014 tra due figure chiave dello scandalo Vatileaks 2, Francesca Immacolata Chaoqui e Angel Vallejo Balda, rispettivamente membro e segretario della Commissione referente sulle attività economiche e amministrative della Santa Sede (COSEA). Sarebbe entrato in possesso recentemente di questi messaggi grazie al giornalista Emiliano Fittipaldi.
I messaggi chiamano in causa il card. Santos Abril y Castellò, ex arciprete di Santa Maria Maggiore, e l’ex ministro della Cultura, Dario Franceschini. Si parla dei lavori al campo Santo Teutonico (pista falsa) la presenza, sotto quelle tombe, di una cassa che sarebbe poi stata portata a Santa Maria Maggiore. Dario Franceschini avrebbe potuto confermare perché ricevette le persone coinvolte e avrebbe autorizzato i lavori a Santa Maria Maggiore o avrebbe autorizzato la costruzione di un muro.
Nell’aprile 2024 Pietro Orlandi ha sostenuto che non sarebbe possibile avere accesso a quella zona della basilica in quanto sarebbe stata commissariata e il responsabile sarebbe un monsignore che vive in Vaticano a Santa Marta (e che non avrebbe risposto ai messaggi di Orlandi). Solo lui avrebbe accesso a quell’area e avrebbero frapposto tre porte chiuse a chiave prima di accedere a quella zona.
Il fratello di Emanuela dice di aver comunicato questo ai procuratori italiani e vaticani e ritiene che «le cose scritte dalla giornalista Maglie siano vere, che i servizi stranieri abbiano fatto un lavoro sulle criticità del Vaticano ed una di queste era la storia di Emanuela».
b) La pista inglese: la (finta) nota-spese
Nel 2017 con la pubblicazione del libro Gli impostori di Emiliano Fittipaldi, nasce la “pista inglese”.
Il giornalista ha ricevuto un documento da una fonte vaticana, una lettera di cinque pagine, datata marzo 1998, inviata dal card. Lorenzo Antonetti (morto nel 2013), allora capo dell’Apsa (l’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), a Jean Luis Tauran (morto nel 2018), segretario di Stato e Giovanni Battista Re, suo sostituto.
Il titolo è: “Resoconto sommario delle spese sostenute dalla Città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi. Roma 14 gennaio 68.”. A parte la data, che è quella di nascita della Orlandi, si tratta per l’appunto di una lista delle spese «a seguito dell’allontanamento domiciliare» di Emanuela e «delle fasi successive». Si fa riferimento all’«attività commissionata» dal card. Casaroli e si cita un allegato di 197 pagine contente le fatture .
Segue un dettaglio di voci con relativi costi (oltre 483 milioni, quasi mezzo miliardo di lire) che il Vaticano avrebbe sostenuto dal 1983 al 1997 per aver mantenuto la Orlandi a Londra, concluso con la voce «disbrigo di pratiche finali» e trasferimento in Vaticano. Gli ostelli in cui avrebbe soggiornato sarebbero la Casa Scalabrini (tra l’83 e l’85) e l’Institute of St. Marcellina (dall’85 all’88).
Il documento sarebbe stato custodito nella cassaforte della Prefettura degli affari economici svaligiata nel marzo del 2014, non è protocollato e privo di firma del suo estensore, cioè del card. Antonetti.
Ci si riferisce al singolare furto di documenti, senza scasso, avvenuto tra il 29 e il 30 marzo 2014 in uno dei tanti armadi nelle stanze della Prefettura. Furto di cui parlò mons. Maurizio Abbondi, capo ufficio della Prefettura stessa, durante il processo di Vatileaks 2. Si trattava di un archivio riservato sotto la responsabilità del segretario Angel Vallejo Balda e alcuni dei documenti trafugati vennero restituiti anonimamente un mese dopo. Atti che mons. Abbondi definisce «di dieci, vent’anni fa, che di fatto non avevano più alcun valore» anche se ritenuti da lui «sgradevoli».
Nel libro Nel nome di Pietro (Sperling & Kupfer 2017) di Francesca Immacolata Chaoqui, membro della Commissione referente sulle attività economiche e amministrative della Santa Sede (COSEA), lascia intendere che il furto sarebbe stato attuato dallo stesso Vallejo Balda. Il quale ha però negato ogni addebito. La donna, elencando i fascicoli rispediti dopo il furto cita tra gli altri «il file di Emanuela Orlandi e capisco il finale di una storia che deve rimanere sepolta”».
Un’indagine de L’Espresso nelle strutture citate nel documento non ha trovato alcun riscontro. Secondo il documento, all’Institute of St. Marcellina la Santa Sede avrebbe versato 18 milioni di lire. Nella lista spese compare anche il nome di Camillo Cibin, l’ex capo della Gendarmeria vaticana (morto nel 2009), come se anche lui fosse stato ospite qui.
La responsabile ha escluso che potessero aver ospitato degli uomini e «se Cibin fosse stato qui me lo ricorderei». Aggiunse inoltre di conoscere bene la storia di Emanuela Orlandi e che se fosse stata ospite l’avrebbe riconosciuta. Mise a disposizione i registri di quegli anni, dai quali non comparve né Cibin, né la Orlandi. Per quanto riguarda i resoconti finanziari, non emerse nessuna cifra legata alla vicenda e tanto meno vicine a 18 milioni.
L’inviato dell’Espresso, Stefano Vergine, aggiunse una riflessione pertinente, ovvero che se davvero Emanuela fosse stata ospite non avrebbero usato il suo vero nome in un registro ufficiale. Peccato non faccia lo stesso ragionamento anche per la lista della spesa vaticana, nella quale si vorrebbe credere che davvero possano essere state mantenute in maniera trasparente le voci di Emanuela Orlandi e Camillo Cibin.
Nel documento si cita anche il nome della ginecologa Lesley Regan, sostenendo che avrebbe ricevuto denaro nel periodo dal ’90 al ’93 per visitare Emanuela e, molto probabilmente per farla abortire. Contattata da l’Espresso, la donna nega di avere fatture a nome della Orlandi, e dice di non poter ricordare, dopo tanti anni, se ha curato una ragazza con le fattezze di Emanuela.
Oltre a Fittipaldi, nel 2017 lo stesso documento è stato consegnato anche agli Orlandi i quali hanno chiesto un’istanza di accesso agli atti per visionare «un dossier custodito in Vaticano», ricevendo risposta da mons. Angelo Becciu, sostituto per gli Affari generali della segreteria: «Abbiamo già dato tutti i chiarimenti che ci sono stati richiesti. Non possiamo fare altro che condividere, simpatizzare e prendere a cuore la sofferenza dei familiari però per noi è un caso chiuso. Non so se la magistratura ha qualcosa ma noi non abbiamo niente da dire in più rispetto a quanto detto tempo fa».
Se il portavoce della Santa Sede, Greg Burke, ha definito la lista spese pubblicata da Fittipaldi «falsa e ridicola», il card. Giovanni Battista Re -uno dei due destinatari del documento- ha risposto: «Non ho mai visto quel documento pubblicato da Fittipaldi, non ho mai ricevuto alcuna rendicontazione su eventuali spese effettuate per il caso di Emanuela Orlandi».
L’anonimo avvalora infine la “lista spese” del Vaticano rivelata da Pietro Orlandi: «Ciò che c’è scritto in quel documento è vero, ne sono abbastanza convinto. Non è opera di mitomani. Quando fu bollato come falso, io ho continuato le mie indagini e sono entrato in possesso di documenti in cui ci sono riscontri che mi dicono che quanto c’è scritto in quei fogli è vero. Alcune persone, in contatto con personalità della Chiesa Anglicana, mi hanno detto delle cose in relazione alla presenza di Emanuela a Londra».
Pietro Orlandi ha creduto fortemente al documento («il muro sta cadendo», commentò a caldo), sostenendo che «ciò che c’è scritto in quel documento è vero, ne sono abbastanza convinto. Non è opera di mitomani. Quando fu bollato come falso, io ho continuato le mie indagini e sono entrato in possesso di documenti in cui ci sono riscontri che mi dicono che quanto c’è scritto in quei fogli è vero. Alcune persone, in contatto con personalità della Chiesa Anglicana, mi hanno detto delle cose in relazione alla presenza di Emanuela a Londra».
Inoltre, aggiunse Orlandi, «ci sono delle relazioni tra personaggi di alto livello del Vaticano e le istituzioni inglesi sulla questione di mia sorella. Prima di renderli pubblici, alla mercè di tutti, devo trovare un modo per dimostrarne l’autenticità in maniera assoluta, così da proteggerli dalle accuse di chi vorrebbe delegittimarli. Ho fatto errori in passato che non ripeterò. Spero di avere le prove per quando inizierà la commissione parlamentare d’inchiesta».
All’avvio della Commissione parlamentare, nel 2024, Orlandi non ha mostrato alcuna prova di autenticità.
Lo stesso Fittipaldi, tuttavia, ha dovuto riconoscere di aver pubblicato una polpetta avvelenata, di essere stato una pedina dei “corvi vaticani” oppositori di Papa Francesco, che il documento è pieno «di errori formali» (qui un elenco), definendolo «dossier apocrifo», «nota spese taroccata» e «il falso della Orlandi».
L’avvocata di Orlandi, Laura Sgrò, ha contraddetto il suo assistito Pietro Orlandi dichiarando: «E’ un falso, capiamoci, un documento di quella natura non può mai passare per documento originale […], non ha nessuna caratteristica, sia dalla modalità di scrittura sia di contenuti, che nulla a che vedere con la scrittura vaticanese e documenti ufficiali».
In molti lo ritengono un attacco a Giovanni Paolo II, infatti se il card. Antonelli fu creato cardinale proprio dal papa polacco, Re e Touran erano fra i suoi più stretti collaboratori. Il card. Casaroli, infine, anch’egli citato nel testo, era il Segretario di Stato Vaticano in quel tempo.
Il giornalista Fabrizio Peronaci, interrogato a tal proposito dalla Commissione parlamentare, ha dichiarato che tale pista parte da un documento «depositato, sì, all’interno di una cassaforte, ma che è stato palesemente giudicato falso, non autentico, una copia mal realizzata anche del lessico ecclesiastico. Questo a me, personalmente, induce a non prendere in considerazione queste carte»182F. Peronaci, Commissione parlamentare, 16/05/2024, p. 88.
c) Pietro Orlandi e l’ex Nar Vittorio Baioni
Pietro Orlandi ha resuscitato la pista inglese sostenendo di aver ricevuto un’email da un uomo «che mi ha fatto capire di essere un ex Nar», convinto di sapere che Emanuela sarebbe stata a Londra e lui avrebbe preso parte alla sua segregazione.
Nel 2024 Orlandi ha comunicato il nome di quest’uomo alla Commissione parlamentare che lo ha trasmesso alla Procura di Roma183F. Peronaci, Orlandi-Gregori, in commissione parlamentare la sorella di Mirella: «Interrogate l’amica». Il fratello di Emanuela: «Ho tre piste», Corriere della Sera 09/04/2024.
Il fratello di Emanuela ha aggiunto che dopo avergli scritto, l’uomo è sparito, ha eliminato tutti i suoi account. Così lui ha cercato di contattare suoi ex amici, tra cui Cristiano Fioravanti (fratello di Valerio detto Giusva, ex terrorista) e Massimo Carminati ma, ha commentato, «pare non voglia parlare con me».
Nel settembre 2024 Pietro Orlandi ha rivelato pubblicamente il nome dell’ex NAR, corrispondente a Vittorio Baioni, chiedendo di indagare su di lui e lamentandosi che nessuno lo ascolta.
d) Emanuela tra Civitavecchia e la Sardegna
Nell’aprile 2023 Fabrizio Peronaci sul Corriere della Sera rivela un documento “riservatissimo” pervenuto in redazione, e collegato alla “pista inglese”, da parte di un anonimo “servitore della Repubblica”.
Emanuela sarebbe stata “certamente” a Civitavecchia il giorno stesso della sparizione per poi passare in Sardegna, a Santa Teresa di Gallura, e infine all’estero (in Corsica184F. Peronaci, Commissione parlamentare, 16/05/2024, p. 87). Luogo scelto in quanto si incrociavano i segnali radio dei radiofari italiani e francesi e permetteva di non essere tracciati grazie alle interferenze.
Sarebbero stati utilizzati agenti dormienti della sezione Gladio o SB. Fino al 2000, prosegue il dossier, Emanuela potrebbe essere stata ospite in Inghilterra “sotto protezione“ di una fondazione ecclesiastica, collegandosi così alla pista inglese apertasi nel 2017.
«La cosa certa», scrive l’anonimo “servitore dello Stato”, «è che tra il 1993 e il 2000 Emanuela è stata ospite in una casa di South Kensington, a Londra, sotto la gestione dello Ior, che ha provveduto al suo mantenimento lontano dagli affetti, con il plauso e l’appoggio del Sacro collegio per le opere misericordiose, che a quel tempo utilizzava come cassa la fondazione Nova». La parola “Nova” è un anagramma della ditta di cosmetici Avon, parola (codice?) citato da Emanuela nell’ultima telefonata.
Interrogato in merito dalla Commissione parlamentare nel 2024, Peronaci disse di non avere certezza dell’autenticità e tuttavia di aver pubblicato la notizia per poter «attivare qualche memoria», anche se «ciò non è avvenuto e quel lavoro è ancora in uno stato latente»185F. Peronaci, Commissione parlamentare, 16/05/2024, p. 88.
e) Il card. Poletti e l’aborto di Emanuela Orlandi
Nel 2024 il fratello Pietro Orlandi ha coinvolto anche il card. Ugo Poletti (morto nel 1997), sostenendo che avrebbe scritto a un tale Frank Cooper (definito “sottosegretario inglese”) lasciando intendere che Emanuela dovesse abortire con l’intervento della ginecologa Lesley Regan citata nella (falsa) nota spese.
f) Le ossa nella Nunziatura Apostolica
Nell’ottobre 2018 durante dei lavori nella Nunziatura Apostolica sono state ritrovate alcune ossa e la Santa Sede ha informato le Autorità italiane. Le indagini sul Dna hanno concluso che si trattava di ossa di antichi romani dell’età imperiale.
g) Giancarlo Capaldo e la “trattativa segreta” con il Vaticano
Nel novembre 2018 il giornalista Gianluigi Nuzzi avvia un altro filone sensazionalistico, sostenendo che tra il 2011 e il 2012 si sarebbe svolta una trattativa segreta tra il Vaticano e il magistrato Giancarlo Capaldo per trasferire la tomba di De Pedis dalla cripta della basilica di Sant’Apollinare al cimitero Verano. Si suggerisce anche un collegamento del caso con l’Opus Dei (come poteva mancare?!).
Nel 2021 fu lo stesso Capaldo, in occasione della presentazione del suo romanzo “La ragazza scomparsa”, inspirato al caso Orlandi, a far emergere questo episodio, meglio chiarito durante la trasmissione Atlantide del 12 dicembre 2021 di Andrea Purgatori, precipitatosi a ospitare il magistrato in televisione.
In quell’occasione, Capaldo ridimensionò i fatti parlando di una generica «disponibilità a collaborare», smentendo di fatto una fantomatica “trattativa” (nonostante l’insistenza di Purgatori su tale termine) e dicendosi disponibile a parlare solo se interrogato dai magistrati vaticani.
In un successivo articolo, Gianluigi Nuzzi moltiplicò gli emissari da due a «una lista di persone».
A seguito dell’istanza depositata in Vaticano dai legali della famiglia Orlandi perché fosse convocato urgentemente Capaldo, l’ex procuratore Giuseppe Pignatone è intervenuto con questa dichiarazione:
«Il dottor Capaldo non ha mai detto nulla, come invece avrebbe dovuto, delle sue asserite interlocuzioni con “emissari” del Vaticano alle colleghe titolari, insieme a lui, del procedimento. Nulla in proposito egli ha mai detto neanche a me, che pure, dopo aver assunto l’incarico di Procuratore della Repubblica (19 marzo 2012), gli avevo chiesto di essere informato dettagliatamente del “caso Orlandi”. Dopo il mio arrivo a Roma il dottor Capaldo ha continuato per oltre tre anni a dirigere le indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi […]. Solo dopo essere andato in pensione (23 marzo 2017), il dottor Capaldo ha riferito in libri ed interviste delle sue asserite interlocuzioni con emissari del Vaticano. Aggiungo infine un ultimo particolare: la circostanza della sepoltura di De Pedis nella basilica non fu scoperta nel 2012 grazie ad un anonimo, come si afferma nell’articolo così da ricollegare temporalmente le asserite “trattative”. Essa, infatti, era nota fin dal 1997 ed era stata oggetto di articoli di stampa e polemiche».
Lo scontro tra Pignatone e Capaldo iniziò nel 2012 quando quest’ultimo dichiarò che in Vaticano «ci sarebbero personaggi ancora in vita che conoscono i misteri della ragazza» e che sarebbe certo «un ruolo alcuni esponenti della banda della Magliana». Il procuratore capo Giuseppe Pignatone rispose che tali «indiscrezioni non esprimono» la posizione della Procura, annunciando di assumere la direzione delle indagini.
Secondo qualche complottista, Pignatone avrebbe difeso il Vaticano e sarebbe stato premiato con la nomina, dopo il suo pensionamento dalla magistratura italiana, a presidente del Tribunale della Città del Vaticano. A parte il fatto che tale nomina avvenne ben 7 anni dopo i fatti (nel 2019), l’intervento di Pignatone fu giustificato in quanto Capaldo, dopo oltre dieci anni, non ha mai prodotto alcuna prova concreta di tali dichiarazioni e delle sue convinzioni (quindi come minimo fu un’uscita imprudente).
Il giornalista Pino Nicotri ha elencato diversi motivi di inattendibilità delle dichiarazioni di Capaldo, tra cui la confusione dell’esposizione, l’anonimato, il moltiplicarsi di testimoni e, per ultimo, il fatto che «né il Vaticano/Vicariato né il magistrato Capaldo avevano titoli per decidere alcunché sulla salma di De Pedis, di proprietà privata dei due fratelli e della vedova di De Pedis».
Ascoltato presso la Procura di Roma, Capaldo riferì che i due emissari sarebbero stati l’allora capo della Gendarmeria vaticana, Domenico Giani, e il suo vice Costanzo Alessandrini. Ai colloqui avrebbe partecipato anche la pm Simona Maisto (morta nel 2022) ma non ci sarebbe stata registrazione dei colloqui.
I pm Stefano Luciani e Maria Teresa Gerace avrebbero quindi rimproverato a Capaldo l’essere rimasto volutamente evasivo sull’esistenza di una registrazione durante l’intervista concessa alla trasmissione Atlantide allo scopo di vendere più copie del suo romanzo.
Il giornalista Fabrizio Peronaci ha definito «un bluff» le rivelazioni di Capaldo, il quale «per promuovere un libro, ha consentito che in tv si parlasse di un suo presunto incontro con “alti prelati”, salvo poi smentire con nettezza qualsiasi trattativa e avallare le indiscrezioni sul fatto che i “due prelati” incontrati siano stati in realtà semplici investigatori della Città del Vaticano (il capo della Gendarmeria e il suo vice, che non è poi tanto strano siano coinvolti in un’indagine)».
Di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta, nel luglio 2024, Giancarlo Capaldo ha confermato l’incontro con i vertici della Gendarmeria vaticana nel 2012, Domenico Giani e Costanzo Alessandrini, alla presenza anche di Simona Maisto, contitolare con Capaldo del procedimento sulla Orlandi, morta nel 2022.
La novità emersa è che i due gendarmi sarebbero stati incaricati di colloquiare con Capaldo da mons. Georg Gänswein, segretario di Ratzinger, a causa della campagna mediatica contro il Vaticano sul caso Orlandi. Giani chiese a Capaldo di aprire la tomba di De Pedis presso la cripta della Basilica di Santa Apollinare, l’ex magistrato ritenne che il motivo fosse per «essere più facile traslarla. Il Vaticano non voleva sostanzialmente la responsabilità di adottare di autorità un provvedimento di traslazione».
Quella che fu annunciata dai media come una “trattativa segreta” (cit. Andrea Purgatori) per «far ritrovare il corpo della Orlandi» tra fantomatici alti prelati del Vaticano e Giancarlo Capaldo, si è rivelata essere una semplice «richiesta di collaborazione», ha precisato l’ex procuratore in un secondo colloquio. Questo titolo dell’Huffington Post è esemplificativo.
«La segreteria di Stato che voleva l’eliminazione di Renatino De Pedis dalla tomba»ha affermato Capaldo, così da mettere fine alle continue illazioni della stampa.
La deposizione di Capaldo oltretutto smentisce la ricostruzione della vicenda fornita da Pietro Orlandi: quest’ultimo infatti riferì alla stessa Commissione che Giani e Alessandrini sarebbero ritornati dall’ex magistrato e «e, alla richiesta di Capaldo di avere almeno i resti di Emanuela la risposta è stata: va bene, però a patto che la Procura imbastisca una storia verosimile, che allontani qualunque tipo di dubbio nei confronti del Vaticano».
Pochi giorni dopo, padre Federico Lombardi, ex direttore della sala stampa vaticana nell’era di Benedetto XVI, audito sempre dalla Commissione, oltre a riferire di non essere stato a conoscenza di un contatto tra il Vaticano e la Procura, ha commentato le parole di Capaldo smentendo a sua volta l’idea di uan trattativa:
«Semplicemente il dire che noi non avevamo nessun problema a che si procedesse, non avevamo nulla da nascondere […]. Il ragionamento che si faceva era che bisognava vedere che cosa ci fosse nella tomba di De Pedis. Chi la deve aprire? Era più opportuno lo facesse chi stava facendo le indagini, la magistratura italiana, altrimenti avrebbero detto che sarebbe stata manipolata. Era più sicuro e oggettivo che chi era responsabile delle indagini conducesse anche la traslazione e l’esame».
h) La tomba nel Cimitero teutonico
Tra il 2017 e il 2019, imbeccato dalle solite “fonti interne vaticane” (ovvero Francesca Immacolata Chaoqui e Angel Vallejo Balda), il solito Emiliano Fittipaldi ha aperto un’ennesima pista, quella della tomba anonima nel Cimitero teutonico interno alla Santa Sede dove la Orlandi sarebbe stata sepolta dopo il decesso.
Una tomba con un angelo, su cui si recherebbero a pregare alcuni prelati e dipendenti vaticani, tra cui un collaboratore stretto dello stesso Vallejo Balda, Nicola Maio.
Dopo la pubblicazione di Fittipaldi, a Pietro Orlandi giunse una lettera anonima che invitava a scavare «lì dove la statua dell’angelo guarda», conducendo allo stesso cimitero, in particolare a due tombe appartenenti alle spoglie delle principesse Sophie von Hohenlohe e Carlotta Federica di Meckelmburgo, morte da un paio di secoli186F. Peronaci, Indizi e depistaggi. Dall’ispezione delle tombe vuote ai dossier misteriosi, Corriere della Sera 10/01/2023.
Nel 2019 i promotori di giustizia vaticana hanno disposto la complessa apertura delle tombe ma nei loculi non è stato trovato alcun resto umano. E’ stato ipotizzato che i resti delle principesse fossero stati spostati negli ossari presenti all’interno del Cimitero Teutonico, perciò fu disposta l’apertura anche di essi di fronte ai periti incaricati dagli Orlandi.
Il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi, ha dichiarato che prima dell’apertura delle tombe sarebbe stato chiamato da Francesca Immacolata Chaouqui, la quale gli avrebbe preannunciato che non avrebbe trovato alcun resto di Emanuela e le tombe sarebbero state completamente vuote».
In ogni caso il caso fu archiviato in quanto gli esperti, alla presenza dei consulenti della famiglia Orlandi, hanno concluso che i frammenti rinvenuti erano databili ad oltre cento anni prima.
Gli Orlandi si sono opposti all’archiviazione sostenendo che le indagini non sarebbero state così approfondite da eliminare ogni minimo dubbio, tuttavia il provvedimento di archiviazione concedeva alla famiglia la possibilità di procedere, privatamente, ad ulteriori accertamenti sui frammenti. Gli Orlandi hanno rifiutato sostenendo che sarebbe stato troppo oneroso da parte loro.
Nessuno pare abbia ritenuto assurda l’idea che gli eventuali assassini di Emanuela Orlandi, piuttosto che liberarsi definitivamente del cadavere, avrebbero scelto di seppellirlo proprio in un cimitero all’interno del Vaticano e che la tomba sia divenuta meta di preghiere da parte di ecclesiastici e dipendenti del Vaticano.
Nel maggio 2024, sempre Fittipaldi sul Domani, fa emergere delle chat tra gli ex membri di Cosea Francesca Immacolata Chaouqui e monsignor Lucio Vallejo Balda, nei quali la donna afferma: «A settembre dobbiamo far sparire quella roba della Orlandi e pagare i tombaroli. Di questo devi parlare al papa».
Ed ecco un altro messaggio rivolto dalla Chaouqui a Vallejo Balda:
«Ascoltami bene adesso abbiamo perso la battaglia giornalisti, almeno non sono la soluzione. Adesso facciamo passare l’estate, io vado a Singapore e capirò di più. Quando torno pensiamo a cosa fare e anche il papa sarà più lucido. Buttare tutto per aria e distruggere il Vaticano non ha alcun senso. Vediamo se il papa chiuderà il Vam o che farà. Io ti voglio bene e veramente credo in te e in questa riforma ma così non andiamo lontano».
Il fratello Pietro ha consegnato il contenuto integrale dei messaggi (8 pagine) alla Commissione parlamentare d’inchiesta.
Pochi giorni dopo Francesca Immacolata Chaouqui ha scritto sui social che di non sapere nulla su Emanuela Orlandi e che «le chat non aggiungono niente di nuovo. Si parla dei fogli di Londra, che sono stati dichiarati falsi, si parla della tomba che è stata aperta senza che niente vi è stato trovato dentro. Cose note e già vagliate che alla verità non hanno aggiunto nulla se non ulteriore confusione, motivo per cui consigliavo che non emergessero. Come ho detto a Pietro Orlandi e al Suo avvocato, se fossi a conoscenza di un singolo dettaglio in più su Emanuela che avvicinasse alla verità non esisterebbe niente che potrebbe impedirmi di lottare per esso. Non è così purtroppo».
Nella sua audizione presso la Commissione parlamentare, il giornalista Fabrizio Peronaci ha manifestato delusione per queste notizie: «Se inseguiamo le chat finte, che si possono creare in cinque secondi, ma sappiamo anche che queste chat non hanno nessun legame con Emanuela Orlandi e con Mirella Gregori, bensì hanno legami con regolamenti di conti interni al Vaticano, che senso ha parlarne dentro un contesto nel quale si ricerca la verità?»187F. Peronaci, Commissione parlamentare, 16/05/2024, p. 84.
i) Le accuse di Marcello Neroni a Giovanni Paolo II
Il giornalista Alessandro Ambrosini ha reso nota la registrazione di una sua conversazione del 2009 con Marcello Neroni, criminale legato alla Banda della Magliana, nel corso della quale il criminale, riferendosi anche alla scomparsa della cittadina vaticana, aveva menzionato presunte abitudini sessuali di Papa Wojtyla.
Emanuela sarebbe stata rapita per coprire degli scandali sessuali legati alle gerarchie vaticane, e per farlo avrebbe chiesto l’aiuto di Enrico De Pedis.
L’11 aprile 2023, dopo essere stato ascoltato per 8 ore dal promotore vaticano Diddi, Pietro Orlandi si è recato alla trasmissione televisiva Di Martedì riportando voci provenienti dalla malavita romana sulle uscite notturne di Giovanni Paolo II in compagnia di alti prelati e «non certo per benedire case».
Parole dette (appositamente) mentre l’opinione pubblica ancora rifletteva sulle terribili accuse di Neroni a Wojtyla e che hanno scatenato come prevedibile una forte indignazione mediatica, culminata con un intervento di Papa Francesco a difesa del suo predecessore, «oggetto di illazioni offensive e infondate».
L’avvocata Laura Sgrò, legale degli Orlandi, ha riconosciuto che «quello scampolo di frase sciagurato è diventato per la stampa un’accusa di pedofilia da parte di Pietro nei confronti di Giovanni Paolo II»188L. Sgrò, Cercando Emanuela, Rizzoli 2023, pp. 21-30 e ha cercato di correre ai ripari.
«Pietro non ha mai detto che il papa santo fosse un pedofilo», ha scritto l’avvocata, «Ho sentito il papa sofferente e sono addolorata per lui, per la comunità dei credenti che è insorta, per la Chiesa […]. Provo dolore anche per me, perché non era questo quello che doveva succedere. Pietro non voleva infangare la memoria di Giovanni Paolo II, né mettere in alcun modo in discussione la santità»189L. Sgrò, Cercando Emanuela, Rizzoli 2023, pp. 21-30.
L’ex magistrato Otello Lupacchini, colui che ha smantellato la Banda della Magliana grazie a pentiti e arresti eccellenti, ha screditato in ogni caso l’attendibilità di Neroni, avendolo conosciuto come «un “souffleur”, una spia che giocava su più tavoli vicino a certi personaggi eminenti della polizia e dei servizi di cui si faceva scudo anche nel processo». Neroni avrebbe avuto necessità di eseguire quel depistaggio in quel momento, ha sostenuto Lupacchini, aggiungendo che durante le indagini nessuno dei pentiti ha mai nominato la vicenda Orlandi.
Nel luglio 2023 Marcello Neroni è stato ascoltato dal procuratore vaticano Alessandro Diddi.
2.1 Conclusioni sul ruolo del Vaticano
Le opinioni sulla collaborazione o meno del Vaticano alle indagini della magistratura italiana nel caso Orlandi sono varie e contrastanti tra loro.
Dall’accusa di scarsa o nulla collaborazione lamentata da alcuni magistrati e dai famigliari alla difesa delle autorità vaticane e all’attestazione di «collaborazione oltre il proprio dovere»190P. Nicotri, in Caso Orlandi, «la pista amical-parentale è la più credibile», La NBQ, 14/07/2023 sottolineata da Pino Nicotri.
Da quanto emerso si può riassumere così l’intervento del Vaticano:
- Proclamazione di otto appelli pubblici ai sequestratori da parte di Giovanni Paolo II per la liberazione di Emanuela (1983-1984);
- Concessione alle autorità e ai servizi segreti italiani di accedere liberamente al centralino e porre sotto controllo i telefoni di cittadini vaticani (1983-1984);
- Concessione alla creazione immediata di una linea diretta tra la Segreteria di Stato e i presunti sequestratori (1983);
- Risposta alle tre rogatorie italiane (1994 e 1995);
- Escussione di diversi cittadini vaticani su richiesta delle autorità italiane (Ercole Orlandi, Camillo Cibin, card. Agostino Casaroli, mons. Eduardo Martinez Somalo, mons. Giovanni Battista Re, mons. Dino Monduzzi, mons. Claudio Maria Celli) e relativo invio delle deposizioni alle autorità richiedenti;
- Indagine interna da parte di padre Federico Lombardi (2012);
- Creazione di un appunto sulla documentazione relativa alla Orlandi fatto realizzare da mons. Georg Gaenswein e consegnato a Benedetto XVI;
- Apertura di un’inchiesta ufficiale voluta da Papa Francesco e guidata dal promotore di giustizia Alessandro Diddi (2023);
Riteniamo che padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, abbia risposto in modo documentato, completo e credibile a tutti i sospetti sul ruolo del Vaticano in questo drammatico caso.
Sottolineiamo infine che Pino Nicotri, storico giornalista del caso Orlandi e autore di almeno 3 libri sulla scomparsa di Emanuela, si è convinto nel corso degli anni della non responsabilità del Vaticano. Replicando a coloro che accusano (senza prove) Giovanni Paolo II e Benedetto XVI di qualche responsabilità, ha affermato: «Io che sono sempre stato piuttosto anticlericale, o comunque un non filo clericale, a fronte di tante idiozie contro gli ultimi tre papi e il Vaticano in generale non vorrei dover diventare un filo clericale accanito»191P. Nicotri, Messaggio su Facebook, 02/08/2023.
Nel 2024 anche Patrizia De Benedetti, a lungo fidanzata (e per Accetti anche sua complice nel caso Orlandi) di Marco Accetti, dopo aver premesso la sua profonda irreligiosità e anticlericalità, ha scritto:
Il Vaticano è «VITTIMA: prima per via delle strumentalizzazioni iniziali che ha subìto negli anni ’80; e ora negli anni 2000 dagli strafalcioni che costantemente Pietro Orlandi gli getta addosso…io sono ATEA, agnostica, RAZIONALE, non credente e persino anticlericale per quanto riguarda le posizioni del Vaticano sullo Stato italiano, ma se si studia e si analizzano i fatti acriticamente in maniera neutrale, il fatto che il Vaticano come STATO non c’entri un picchio con la scomparsa della Orlandi, a me viene chiaro…tantomeno poi c’entra quel poraccio di Wojtyla! […]. Viene logico pensare che il responsabile di quella scomparsa NON fu “un’organizzazione che aveva PREMEDITATO il sequestro” ma bensì fu UN SINGOLO che riuscì a tenere per se quel fatto omicidiario. E’ proprio assurdo credere che possa esistere un “gruppo di omertosi” in Vaticano che si siano fatto scudo l’uno con l’altro per nascondere un omicidio, e tramandarsi poi questo segreto -neanche fosse il segreto della Madonna di Fatima- di papa in papa! Se Emanuela è scomparsa il movente fu perché era Emanuela, e NON perché guarda caso viveva in Vaticano!».
Il grande problema di fronte alle continue chiamate in causa del Vaticano, anche tramite accuse bislacche e falsi documenti, è che i giornalisti “alla Fittipaldi” e l’opinione pubblica in generale ci cascano costantemente perché viene loro detto quello che già credono di sapere e manifestano le loro idee preconcette, presi da questo vortice di pregiudizi manifesti ogni smentita diviene una conferma e l’interesse è solo quello di fornire uno scoop prima degli altri.
Per quanto riguarda Giovanni Paolo II, il giornalista Fabrizio Peronaci ha esposto alla Commissione parlamentare la sua convinzione che «Wojtyla è vittima in questa vicenda: non è né corresponsabile, né in qualche maniera sono accettabili operazioni che mettano in ombra il suo ruolo. Wojtyla è vittima»192F. Peronaci, Commissione parlamentare, 16/05/2024, p. 80.
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3. EMANUELA ORLANDI E LA PISTA SESSUALE
Nessuno ha mai sostenuto l’ipotesi di un rapimento violento di Emanuela e Mirella, soprattutto perché entrambe scomparvero in orario diurno e in zone molto trafficate (il bar dei De Vito, per Mirella, e la fermata dell’autobus, per Emanuela). Un sequestro contro la loro volontà avrebbe avuto quantomeno dei testimoni oculari.
L’ipotesi è che entrambe si sarebbero allontanate volontariamente per vari motivi e avrebbero trovato la morte dopo essere finite in giri pericolosi a sfondo sessuale. Successivamente, gli stessi criminali avrebbero usato la scomparsa per operare ricatti e perseguire altri tipi di obbiettivi.
Nel 2012 Nicotri riportò testimonianze (anonime) sulle frequentazioni di Emanuela e sul suo uso di droghe, all’interno di circuiti sessuali (la morte sarebbe causata da un’overdose all’interno di un festino). A parlare di “comitive di amici” frequentate con fin troppa libertà da Emanuela sarebbe stato anche l’avv. Gennaro Egidio, legale degli Orlandi, nelle telefonate con lui. Lo stesso sarebbe avvenuto a Mirella Gregori193P. Nicotri, Emanuela Orlandi: drogata e morta in mano a pedofili di rango molto alto?, BlitzQuotidiano, 14/06/2012.
Nel 2017 il giornalista sostenne che Emanuela potrebbe essere stata fermata per strada il giorno della sparizione da qualcuno che conosceva di vista, con la falsa promessa di un provino. Inoltre avvalorò le parole espresse da Silia Vetere, compagna di classe di Emanuela, nella deposizione ai carabinieri del 2008194P. Nicotri, Emanuela Orlandi, 34 anni fa, una pista affiora dalle carte giudiziarie ma ormai, BlitzQuotidiano, 22/06/2017.
La Vetere riferì infatti che Emanuela era svogliata e andava male a scuola (fu effettivamente rimandata in due materie, latino e francese), voleva trovarsi un lavoro.
L’ex compagna confermò così la sua testimonianza del 1983, ricordando che Emanuela saltava spesso scuola nel periodo precedente alla sparizione, firmando da sola le giustificazioni (la cicrostanza è stata smentita da Pietro Orlandi, per il quale Emanuela fece 13 assenze in tutto l’anno, giustificate dalla madre e non nell’ultimo periodo, quello prima della scomparsa195B. Dominic, Caso Orlandi, il fratello Pietro sul diario di Emanuela: “Storia vecchia e falsa”, FanPage 22/04/2024). Non ricordò però se le assenze si intensificarono nel periodo precedente alla sua scomparsa e disse comunque di non vederla mai truccata né noto alcun cambiamento negli ultimi anni196P. Nicotri, Emanuela Orlandi, 34 anni fa, una pista affiora dalle carte giudiziarie ma ormai, BlitzQuotidiano, 22/06/2017.
Nicotri si stupì che di questi comportamenti di Emanuela, testimoniati dalla compagna di classe, non abbiano mai parlato i famigliari, pur avendo sicuramente letto gli atti giudiziari.
Un altro elemento a supporto di questa pista è il documento del SISDE (servizi segreti) del luglio 1983 in cui si parlò dei fatti avvenuti nell’inverno del 1983, quando «Emanuela Orlandi e le sue più strette amiche del quartiere, a casa di una di loro e in almeno due occasioni, erano entrate in contatto con alcuni ragazzi più grandi in quel momento a Roma perché impegnati nel servizio di leva. Questi ventenni godevano però di cattiva reputazione in quanto dediti ad abbordare ragazze nella zona di piazza San Pietro, a consumare stupefacenti e, in almeno un caso, a prostituirsi»197citato in T. Nelli, Atto di dolore, 2016.
Nel 2012 l’esorcista padre Gabriele Amorth sostenne questa tesi, affermando:
«Come dichiarato anche da monsignor Simeone Duca, archivista vaticano, venivano organizzati festini nei quali era coinvolto come “reclutatore di ragazze” anche un gendarme della Santa Sede. Ritengo che Emanuela sia finita vittima di quel giro. Non ho mai creduto alla pista internazionale, ho motivo di credere che si sia trattato di un caso di sfruttamento sessuale con conseguente omicidio poco dopo la scomparsa e occultamento del cadavere. Nel giro era coinvolto anche personale diplomatico di un’ambasciata straniera presso la Santa Sede»198citato in G. Galeazzi, Padre Amorth: “Orlandi, fu un delitto a sfondo sessuale”, La Stampa, 22/05/2012.
La strumentalizzazione successiva potrebbe anche essere stata architettata da gruppi estranei al crimine sessuale che, una volta appresa la notizia della scomparsa, avrebbero deciso di innestarsi usandola per i propri interessi.
Schematizzando, l’ipotesi è la seguente:
- Emanuela e Mirella si sarebbero allontanate da casa per ingenuità e/o libertinismo, rimanendo poi coinvolte in un giro pericoloso (a), oppure si sarebbero fidate di persone sbagliate, legandosi ad esempio a strane amicizie (b);
- Indipendentemente da a) o b), dopo la morte/allontanamento gli stessi autori del crimine, o persone a loro contigue ma estranee all’uccisione si sarebbero inserite nella vicenda/e facendo credere di esserne i responsabili per perseguire loro interessi/ricatti;
3.1 La pista della RAI
All’interno della pista sessuale abbiamo inserito un filone di indagine ancora totalmente inesplorato dagli inquirenti che farebbe ricadere la responsabilità della scomparsa di Emanuela in qualcuno interno alla RAI, la televisione di Stato.
Questa ipotesi è stata teorizzata nel corso degli anni dallo storico giornalista Pino Nicotri.
La tesi della RAI nacque nel 2005 quando il programma Chi l’ha visto? recuperò la puntata di Tandem alla quale Emanuela Orlandi partecipò con la sua classe il 20/05/1983, un mese prima di scomparire. Si trattò di una trasmissione RAI andata in onda dal 1982 al 1985.
Nel video qui sotto alcune immagini della puntata di Tandem, l’unica volta in cui Emanuela compare in video
Come si vede, Emanuela è a fianco della presentatrice ed è una figura molto appariscente, inquadrata più volte dalle telecamere. Non risulta però che durante quella puntata abbia mai preso la parola, al contrario di alcuni suoi compagni.
Nicotri fece notare uno stano comportamento («una strada reticenza») da parte di famigliari in quanto non avrebbero mai fatto sapere ai magistrati dell’esistenza di quella puntata e relativa registrazione (della quale erano sempre stati a conoscenza, come si evince da questo fotogramma incorniciato), nella quale Emanuela potrebbe aver parlato e la sua voce avrebbe potuto essere confrontata con l’audio fatto ritrovare dall'”Amerikano”199P. Nicotri, Emanuela Orlandi, due misteri: lei a Tandem nel 1983 e la telefonata anonima, BlitzQuotidiano, 26/06/2015.
Nel 2023 lo stesso giornalista approfondì la tesi osservando nel video della puntata di Tandem «Emanuela viene ripresa e messa in risalto con maggiore evidenza rispetto agli altri studenti partecipanti. E si nota che Emanuela ne ha piacere, è molto a suo agio»200P. Nicotri, Emanuela Orlandi vittima di un uomo Rai? Nicotri: telefonò a Chi l’ha visto da un interno, voce da prova audio, BlitzQuotidiano, 02/07/2023.
Considerando il sogno della giovane a entrare nel mondo dello spettacolo, Nicotri ipotizzò che qualcuno della RAI, in occasione di Tandem, avrebbe potuto proporle un aiuto in tal senso. La stessa persona potrebbe averla fermata il giorno della scomparsa, un mese dopo la trasmissione, fuori dalla scuola201P. Nicotri, Emanuela Orlandi vittima di un uomo Rai? Nicotri: telefonò a Chi l’ha visto da un interno, voce da prova audio, BlitzQuotidiano, 02/07/2023.
Ad avvalorare i sospetti sulla RAI vi sarebbe anche il fatto che la famosa telefonata anonima trasmessa da “Chi l’ha visto?” nel settembre 2005, la quale invitava a cercare un legame con De Pedis, sepolto nella basilica di Sant’Apollinare, non sarebbe partita dall’esterno della Rai202P. Nicotri, Emanuela Orlandi vittima di un uomo Rai? Nicotri: telefonò a Chi l’ha visto da un interno, voce da prova audio, BlitzQuotidiano, 02/07/2023.
In realtà nella sentenza di archiviazione del 2005 si riferisce che la telefonata arrivò invece al centralino della trasmissione televisiva203G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 27.
Certamente la pista (inconcludente) su De Pedis e Sant’Apollinare apparve come un depistaggio, con il doppio risultato di aver regalato moltissima pubblicità alla trasmissione RAI.
Un secondo elemento sarebbero le telefonate anonime che il 7/09/1983 arrivarono all’avv. Egidio, intercettate dai carabinieri.
Nella prima telefonata una donna disse ad Egidio: «Faccia trovare Emanuela Castel Sant’Angelo, nel nome del Signore glielo chiedo». Poco dopo, la stessa donna richiamò: «Avvocato, ho l’impressione che non mi ha compreso, in Nome del Signore cercate Emanuela a Castel S. Angelo». Verso sera arrivò la terza telefonata, quella di un uomo che chiese di «cercare “la ragazza” a Castel S. Angelo, a destra, scendere tre scalini di legno,, c’è delle terra battuta, ancora avanti un altro gradino e si entra dentro un “tunnel”, lì si trova! Sotto di loro c’è un tubo di eternit. Sotto dov’è la ragazza…. “Loro” si trovano sopra”». L’avvocato chiese ”loro” chi?” Lo sconosciuto rispose: «Sono in quattro: la ragazza e tre. Sono in quattro e stanno li sotto; uno di colore, uno biondo e una ragazza con vestito lungo. Parlo in Nome del Signore»204P. Nicotri, Emanuela Orlandi e altri sepolti nei sotterranei di Castel Sant’Angelo? Il mistero di una telefonata da una utenza Rai, BlitzQuotidiano, 15/06/2023.
Si riuscì a risalire al numero solo di quest’ultima chiamata, proveniente dall’utenza n° 3611058 (RISERVATA = intestata a Rai via del Babuino 9)205Rapporto dei carabinieri, 07/09/1983.
La tesi di Castel Sant’Angelo sarebbe ulteriormente confermata dall’ex carabiniere Antonio Goglia, il quale darebbe ampio valore al forte interesse di Marco Accetti al film “Nell’anno del Signore” del regista Luigi Magni (1969)206testimonianza rilasciata a P. Nicotri, Emanuela Orlandi. Flauto di Marco Fassoni Accetti dai resti di studio cine Roma?, BlitzQuotidiano, 12/06/2014, il quale si svolge nel mausoleo circolare Adriano di Castel Sant’Angelo e inizia con molteplici fermo immagine sull’angelo che sormonta il mausoleo e che guarda verso il basso.
A questo farebbe riferimento una lettera ricevuta da Pietro Orlandi in cui si suggeriva di cercare Emanuela presso il Camposanto Teutonico,. «dove guarda l’angelo».
Si può infine ricordare l’incredibile, quanto sospetta, campagna di fango di Chi l’ha visto? contro Marco Accetti dopo la sua comparsa. L’uomo ha sostenuto che la violenta reazione della trasmissione RAI (con plateali accuse di pedofilia) avrebbe reso vano per sempre il suo tentativo di chiamare i suoi complici a costituirsi.
Analisi e verifiche della “pista della RAI”
Pur appoggiandosi ad alcune coincidenze non trascurabili, l’impianto della tesi non si basa su alcuna prova.
La responsabilità “della RAI” andrebbe ricondotta a quante persone? Certamente non un semplice operatore tecnico, per ricevere la fiducia di Emanuela, tanto da convincerla a seguirlo il giorno della scomparsa, sarebbe dovuto essere perlomeno un dirigente. Il quale avrebbe dovuto avere almeno una complice donna, cioè la voce della telefonista anonima che chiamò l’avv. Egidio indicando Castel Sant’Angelo.
L’aspetto più controverso sono proprio queste telefonate: non si capisce perché un mese dopo aver rapito e ucciso Emanuela per una mera “questione sessuale”, il dirigente RAI e la sua complice avrebbero dovuto telefonare al legale degli Orlandi, correndo il rischio di essere registrati (e quindi più facilmente smascherati) e facendo rintracciare il numero dell’azienda, portando l’attenzione più vicina a loro.
Così com’è esposta la pista non ha alcun senso logico. Quelle telefonate sembrano piuttosto un depistaggio.
3.2 La pista di Mario Meneguzzi
Lo zio di Emanuela, Mario Meneguzzi, fu colui che da subito e fino al 22 luglio 1983 interloquì con i tre telefonisti che chiamarono a casa Orlandi subito dopo la sparizione e come portavoce della famiglia. Era padre di Pietro, Giorgio e Monica Meneguzzi, cugino di Emanuela Orlandi.
La vicenda che lo coinvolge emerse pubblicamente nel luglio 2023 quando la procura del Vaticano, a seguito dell’inchiesta aperta proprio in quell’anno, trasmise alla procura di Roma un carteggio riguardante proprio Meneguzzi. Non è chiaro chi sia stato a consegnare la notizia alla stampa (in particolare a Enrico Mentana e al TG di LA7), secondo Pino Nicotri il caso è filtrato dai magistrati italiani.
Si tratta di due lettere datate settembre 1983, tre mesi dopo la scomparsa di Emanuela, tra l’allora Segretario di Stato vaticano Agostino Casaroli e il padre spirituale degli Orlandi, José Luis Serna Alzate, sacerdote colombiano, rientrato in patria nel 1978.
I magistrati che indagavano sulla scomparsa, chiesero infatti a Casaroli di verificare tramite il confessore di Natalina un’informazione già in possesso della procura di Roma, ovvero che Meneguzzi avrebbe molestato sua nipote Natalina Orlandi, sorella di Emanuela, prima della scomparsa di quest’ultima. L’ipotesi fu che l’uomo potesse aver riservato lo stesso trattamento a Emanuela.
Il padre colombiano rispose formalmente attraverso la posta diplomatica affermativamente: «Sì, è vero, Natalina è stata oggetto di attenzioni morbose da parte dello zio, me lo confidò terrorizzata: le era stato intimato di tacere oppure avrebbe perso il lavoro alla Camera dei Deputati dove Meneguzzi, che gestiva il bar, la aveva fatta assumere qualche tempo prima».
Il direttore della sala stampa del Vaticano, Matteo Bruni, ha comunicato che «in merito alle notizie che coinvolgono un parente di Emanuela, si rileva che la corrispondenza in questione indica espressamente che non vi è stata alcuna violazione del sigillo sacramentale della Confessione».
In una conferenza stampa nel 2023, Natalina Orlandi ha detto: «Lo sapevano tutti in Procura: lo sapeva il dottor Sica, lo sapeva l’avvocato Egidio, che all’epoca era il nostro avvocato, e abbiamo concordato di non dire nulla a papà, perché non ci sembrava di dargli dolore più dolore, per una cosa vecchia che era finita».
La vicenda delle molestie era infatti nota agli inquirenti dal 1983, e secondo un verbale il primo a riferire direttamente ai carabinieri e in via confidenziale le avances sarebbe stato il 30 agosto di quell’anno il fidanzato di Natalina, Andrea Ferraris, diventato in seguito suo marito. Ciò indusse gli inquirenti a chiedere conferma in Vaticano, con relativa chiamata in causa del consigliere spirituale degli Orlandi da parte del card. Casaroli.
Nella deposizione di Natalina del 20/08/1983 si leggono maggiori dettagli, come il fatto che lo zio, nonostante frequentasse casa Orlandi, le aveva rivelato di essersi innamorato di lei e che «mi diceva che se fossi stata sua mi avrebbe cambiato notevolmente la vita». Le attenzioni durarono a lungo e ne parlò al fidanzato Andrea Ferraris dopo 10 o 12 mesi207in A. Corica, Natalina: “lo zio Mario mi disse di essere innamorato di me”, Giallo, 02/08/23.
Secondo la deposizione di Natalina Orlandi di quel giorno al sostituto procuratore Domenico Sica, anche il potente capo di Meneguzzi, Mario Peruzy, avrebbe sottoposto la donna a pressanti attenzioni morbose, la quale per risolvere la faccenda chiese aiuto proprio a suo zio, Mario Meneguzzi.
Gli inquirenti sarebbero rimasti molto colpiti dal raffronto (qui sotto) tra il volto di Mario Meneguzzi e l’identikit tracciato dal vigile Sambuco quando riferì di aver visto, la sera della scomparsa, un uomo che parlava con Emanuela appena uscita dalla scuola di musica vicino al Senato.
Occorre tuttavia sottolineare che molto probabilmente in quel periodo il vigile Sambuco vide Meneguzzi in televisione e sui giornali come portavoce degli Orlandi, tuttavia mai lo indicò come l’uomo che disse di aver visto assieme a Emanuela e che descrisse nell’identikit (inoltre non disponeva di una Bmw).
Fu comunque organizzato un pedinamento di Meneguzzi (oltre ad accertamenti sul figlio Pietro, militante nella sinistra extraparlamentare con Autonomia Operaia208in A. Corica, Natalina: “lo zio Mario mi disse di essere innamorato di me”, Giallo, 02/08/23), il quale se ne accorse e avrebbe chiesto aiuto a Giulio Gangi, agente del Sisde che inizialmente si occupò della scomparsa di Emanuela. Lo 007 lo avrebbe avvertito che la targa di chi lo seguiva era riconducibile ad una macchina della squadra mobile.
Gangi, intervistato in merito, affermò: «Controllai e scoprii che si trattava di una targa fasulla, usata per le auto “coperte” della polizia. E feci la grande cazzata di dirlo a Meneguzzi. Ho così distrutto ogni possibilità di indagine seria su di lui. Ormai avvisato e in allarme, si sarà ovviamente comportato di conseguenza».
Il 31 ottobre 1985, tuttavia, Meneguzzi testimoniò che il 22 giugno 1983, data della scomparsa, si sarebbe trovato a Torano in compagnia della figlia Monica e della cognata Anna Orlandi, sorella di Ercole (e zia di Emanuela), che viveva in casa con gli Orlandi in Vaticano.
Nel luglio 2023 Natalina Orlandi in una conferenza stampa ha confermato: «I fatti risalgono al 1978. Mio zio fece avances verbali, un piccolo regalo, ma quando ha capito che non c’era possibilità, è finita lì. Io sono rimasta scossa, e ho parlato al mio fidanzato, mio attuale marito. L’unica persona con cui mi sono confidata è stato il nostro sacerdote, padre spirituale ed è finita lì».
La sorella di Emanuela ha anche rivelato che nel 2017 fu convocata in forma riservata in Vaticano dal card. Becciu, allora sostituto per gli Affari Generali della Segretaria di Stato vaticana, il quale si premurò di avvisarla che nel caso avessero dovuto trasmettere gli atti alla Procura di Roma avrebbero dovuto includere anche gli atti di questa vicenda molto personale.
La donna lesse questo episodio come una forma di ricatto (per ottenere in cambio che cosa?), in realtà potrebbe essere stato un gesto di premura nei suoi confronti, anche perché effettivamente fu una notizia che è sempre rimasta riservata.
Il giornalista Pino Nicotri ha infatti osservato: «Il carteggio Sica/Casaroli/monsignor Serna Alzate/e ritorno NON risulta sia mai stato trasmesso da Domenico Sica ai suoi successori nell’inchiesta Orlandi, vale a dire ai magistrati Ilario Martella, Giovanni Malerba e Adele Rando. Sica dunque o lo ha fatto sparire o lo ha trattenuto. Perché? E’ evidente il desiderio del Vaticano di non alimentare le malelingue, in modo da proteggere l’immagine degli Orlandi e la loro pace familiare. Tale desiderio di massima discrezione può essere stato recepito da Sica».
Secondo Nicotri, il Vaticano non sarebbe stato responsabile nemmeno della rivelazione pubblica del carteggio nel 2023 ma, scrive, «a quanto mi risulta, è stato fatto filtrare da Piazzale Clodio», cioè dai magistrati italiani. Il portavoce vaticano Matteo Bruni ha infatti respinto ogni accusa agli inquirenti vaticani di aver fatto trapelare il documento.
C’è chi ha fatto notare che Mario Meneguzzi fu l’artefice delle prime decisioni senza aver messo al corrente gli inquirenti: l’affissione dei manifesti con il numero di casa, il lancio dell’agenzia Ansa a 48 ore dalla sparizione in cui si ventilava l’ipotesi del rapimento (mentre l’ipotesi allora era di un allontanamento volontario), gli annunci sui quotidiani e i dialoghi telefonici con i presunti rapitori.
Nel primo rapporto di polizia giudiziaria, predisposto dal dirigente della Squadra Mobile della Questura di Roma, Luigi De Sena, e destinato al magistrato titolare del procedimento penale sulla sparizione di Emanuela Orlandi, Margherita Gerunda, infatti non vi fu una sola riga sui contatti tra gli Orlandi, tramite Meneguzzi, e i telefonisti. Gli inquirenti furono tenuti all’oscuro di questo fino al 6 luglio 1983.
Il giornalista Pino Nicotri ha anche ricordato che in un articolo sul Corriere della Sera a firma di Andrea Purgatori comparvero alcune dichiarazioni di Meneguzzi alla stampa: «Sono stato io a nominare l’avvocato Egidio, perché lo ritengo più adatto a questo genere di cose del mio legale abituale, l’avvocato Gatti». Nicotri ha però sottolineato che Adolfo Gatti si era già occupato di casi importanti essendo stato l’avvocato della famiglia Agnelli in occasione del rapimento della suocera. Inoltre, si stupisce che Meneguzzi potesse avere come «avvocato usuale» uno dei migliori penalisti d’Italia.
La vicenda ha prevedibilmente generato una sorta di faida famigliare tra gli Orlandi e i Meneguzzi in quanto, la moglie di Mario e i figli, ritengono «falso, infondato e diffamatorio» quanto emerso, dando mandato di verificare eventuali profili di illecito per offesa alla memoria209in A. Corica, Natalina: “lo zio Mario mi disse di essere innamorato di me”, Giallo, 02/08/23.
Nel 2023 Pietro Meneguzzi ha dichiarato di aver saputo tutto ciò soltanto dalla conferenza stampa indetta da Natalina e Pietro Orlandi, aggiungendo: «La verità è unilaterale, è una cosa che dice lei»210P. Meneguzzi, intervista a Quarto Grado, Rete4, 14/07/2023.
Nel 2024 Pino Nicotri ha espresso in maniera piuttosto chiara la sua opinione nei confronti di Mario Meneguzzi: «Lo zio puzza. La Gerunda[Margherita Gerunda, primo magistrato che si occupò del caso, NDA] voleva incastrarlo, ma l’hanno fatta fuori. Anche Sica [Domenico Sica, sostituto procuratore nel 1983] voleva incastrarlo».
Analisi e verifiche sulla pista Meneguzzi
Al di là di un identikit vagamente somigliante non ci sono molti elementi per avvalorare una qualche responsabilità allo zio Mario Meneguzzi.
E’ vero che rimane controversa la vicenda di chi abbia introdotto l’avv. Egidio in casa Orlandi e che i primi passi di Meneguzzi furono avventati e non concordati con gli inquirenti, ma potrebbero più facilmente spiegarsi con gesti impulsivi dettati dall’apprensione del momento.
Nulla inoltre autorizza a pensare che le avances verbali verso la nipote Natalina avrebbero dovuto ripetersi anche per Emanuela, generando un sequestro o un omicidio.
Inoltre, a parte il fatto che non era in possesso di una BMW, se si vuole dare credito ai testimoni oculari (Sambuco e Bosco) sarebbe incomprensibile che avesse avvicinato la nipote in pieno centro a Roma mostrandole un oggetto (una borsa, un tascapane, una valigetta?) per poi farla sparire (o sequestrarla) dopo la lezione di musica. Come spiegare poi la gestione della comparsata dei vari telefonisti (per nulla mitomani, anzi in possesso di elementi attendibili) e tutta la trafila di comunicati che ne seguì?
La vicenda diventa più credibile se dovesse esserci stato il coinvolgimento di alti esponenti politici a cui Meneguzzi era legato. Ma non ci sono dati che portano verso questa direzione.
3.3 La pista della scuola di musica
Un’altra ipotetica pista nacque il 30/7/1983 da un’informativa firmata da Vincenzo Parisi, vicedirettore del SISDE, sul “bidello” della scuola di musica, Franco De Lellis, la cui figlia sarebbe «dedita alla prostituzione». L’uomo era sposato con Giuliana De Ioannon, impiegata anch’essa nella scuola come segreteria della direttrice suor Dolores, i quali avevano due figli maggiorenni, P. e M., entrambi frequentati la scuola di musica.
Proprio il giorno della scomparsa di Emanuela, i coniugi De Lellis festeggiavano l’anniversario di matrimonio e per questo la lezione di canto corale di mons. Miserachs terminò con un quarto d’ora prima (alle 18:45). di anticipo rispetto al normale orario (fissato alle ore 19).
Secondo un’inchiesta della cronista Rossella Pera211R. Pera, Caso Orlandi, il regista Bruno Mattei e quelle presenze aliene a Sant’Apollinare, La Giustizia 05/08/2023, la figlia 23 enne dei De Lellis catturò l’attenzione degli inquirenti per la sua personalità, la quale turbava anche i genitori. Dalle testimonianze dei genitori emerse che la figlia e suo marito erano dediti alla droga e alla produzione di film pornografici (l’uomo si occupava degli effetti sonori e si sarebbero conosciuti sul set), che nell’ottobre 1981 furono arrestati per alcune settimane per lo scippo di una catenina nel quartiere Parioli e che si separarono una volta usciti dal carcere.
La figlia intraprese un percorso di riabilitazione per tossicodipendenti presso la “Comunità Fratello Sole” fino al maggio 1983, mentre il marito rimase nel circolo della droga. Tra la famiglia De Lellis e il marito della figlia nacque un’ostilità in quanto i primi volevano che la figlia interrompesse la relazione.
Il padre Franco rivelò di aver fatto anch’egli la comparsa nel 1983 in alcune pellicole negli stabilimenti cinematografici De Paolis, assieme alla figlia infatti recitò nei film erotici diretti da Bruno Mattei. Mattei era noto per dirigere film di bassa fascia bassa (horror, nazi erotico, porno, splatter, ecc.), a volte anche legati morbosamente al mondo ecclesiastico (“tonaca movie”).
Nelle indagini del SISDE emerse l’attività di una società cinematografica di copertura, dietro la quale si sospettava celarsi un reclutamento di comparse per film porno. Un’inserzione di questo tipo comparve su Il Messaggero il 23/06/1983, il giorno dopo la sparizione di Emanuela Orlandi.
L’altro figlio dei De Lellis, a sua volta interrogato, affermò che sua sorella conosceva bene Emanuela, «poiché entrambe cantavano nel coro della scuola ed erano vicine di posto». Confermò che la sorella recitava in film per adulti (ma le sue parti non erano pornografiche) ma, aggiunse, «di questa sua attività, o di possibilità di lavoro in tal senso, non sono in grado di dire se ne avesse parlato alla Orlandi Emanuela». Riferì anche che, parlandone in famiglia, si ipotizzò che il marito della sorella potesse aver avuto un ruolo nella sua scomparsa, il quale, «oltre a fare uso di droga, ha una personalità imprevedibile».
Parlando invece del regista Bruno Mattei, il figlio del bidello della scuola di Emanuela disse che si trattava di un amico di famiglia e che possedeva una BMW verde metallizzato (stesso colore dell’auto appartenuta all’uomo dell’Avon, secondo le testimonianze di Alfredo Sambuco e Bruno Bosco).
Bruno Mattei (morto nel 2007) fu ascoltato il 2/08/1983, confessò di aver avuto una relazione clandestina con la figlia dei De Lellis e di essersi recato alla scuola di musica di piazza Sant’Apollinare almeno quattro volte per accompagnare la giovane. Quest’ultima, disse il regista, frequentava strani ambienti legati alla droga e che i coniugi De Lelli sarebbero preoccupati di un coinvolgimento della figlia e del marito nella sparizione della Orlandi e che «da qualche mese in coincidenza dei noti fatti non hanno più avuto notizia dei loro recapiti né di numeri telefonici per rintracciarli».
L’uomo aggiunge infine che la figlia dei De Lellis «oltre ad essere stata mia ospite, per qualche giorno ha alloggiato presso una amica nei pressi della Batteria Nomentana. Poi ha alloggiato in una pensione in via Palestro e prima ancora presso la custode dell’edificio ove è ubicata la scuola di canto».
Venne scoperto che all’interno di Sant’Apollinare venivano ospitate persone estranee alla scuola di musica, ma che gravitavano comunque in quell’ambiente in quanto parenti o amici di coloro che ci lavoravano.
Il 1/08/1983 Franco De Lellis, nuovamente interrogato, aggiunse che lo stesso Mattei più di una volta andò a far visita alla figlia «nella scuola di Sant’Apollinare, allorquando ivi si fece ospitare (pare per una sola volta) dalla custode dell’edificio ove è ubicata la scuola, signora Luigina Maggio. In quella occasione, mia figlia era in compagnia di altra ragazza dedita alla droga di Bolzano, già ricoverata nella Comunità di Santa Severa. Effettivamente il Mattei è venuto alla scuola di Sant’Apollinare nella decorsa primavera e quasi certamente durante il mese di maggio ‘83». Come già fatto dal figlio, anche Franco De Lellis confermò che il regista utilizzava anche per recarsi alla scuola di musica «una BMW a due porte di colore verde chiaro metallizzato».
Il 3/08/1983 gli inquirenti ascoltarono anche la figlia dei De Lellis la quale disse che il giorno della sparizione di Emanuela, dopo la lezione, partecipò alla messa per le nozze d’argento dei genitori per poi festeggiare con loro in un locale a Grottaferrata fino a mezzanotte. Circostanza confermata anche dal fratello e dai genitori.
In tutta questa vicenda c’è ancora un elemento sorprendente. Il regista Mattei era legato anche al collega Peter Skerl, padre di Catherine Skerl. La ragazza fu trovata misteriosamente assassinata il 21/01/1984 a poca distanza da casa. I due registi entrarono in contatto dal 1975 grazie ad amici in comune.
Analisi e verifiche sulla pista della scuola di musica
Questa pista ha degli elementi che la portano senz’altro a vantare più credibilità delle altre.
I vari personaggi che orbitavano attorno alla scuola di musica dove è scomparsa Emanuela destano quanto meno dei sospetti. Se dopo tutti questi interrogatori gli inquirenti non hanno però inteso proseguire questo filone dell’indagine evidentemente avranno avuto i loro motivi.
Il fatto che un regista di film pornografici, Bruno Mattei, avesse una relazione (prima sessuale, poi amicale) con una compagna di Emanuela, dedita alla droga e figlia del bidello della scuola, che fosse in possesso di una BMW verde metallizzato e che avesse pernottato nella scuola proprio il mese prima della scomparsa di Emanuela non può essere liquidato velocemente.
Fa inoltre pensare il fatto che il caso Orlandi è comunque sfiorato o toccato da registi dai contenuti scabrosi come lo stesso Mattei e Peter Skerl. Anche Marco Fassoni Accetti è autore di opere piuttosto ambigue da questo punto di vista e grazie al caso di Magdalena Chindris sappiamo quanto fosse morbosamente attratto dal mondo adolescenziale.
Occorre riportare anche il giudizio del giugno 2024 di Alessandra Cannata, allieva della scuola da Victoria e amica di Emanuela, la quale la riferito alla Commissione parlamentare che nella scuola «c’era un bel clima. Era una buona scuola».
3.4 La pista dell’allontanamento volontario
Un’altra variante possibile della pista sessuale è che Emanuela e Mirella, in maniera indipendente, si siano allontanate di casa volontariamente, per una storia d’amore o la ricerca di “maggiore libertà”. Tuttora sarebbero vive, oppure avrebbero trovato la morte per circostanze naturali.
Si tratterebbe di una versione alternativa alla pista sessuale, con l’unica variabile che l’allontanamento da casa sia stata un’iniziativa libera delle due giovani adolescenti.
Analisi e verifiche sull’allontanamento volontario
Ovviamente non è possibile sostenere che, dopo essersi allontanate volontariamente e spontaneamente, oggi siano ancora vive.
Bisognerebbe altrimenti sostenere che entrambe siano talmente ciniche da osservare indifferenti la sofferenza delle famiglie per tutti questi anni, ignorare gli innumerevoli e strazianti appelli, apprendere dai media la morte dei genitori (il padre di Emanuela e la madre di Mirella) senza mai dare una minima notizia.
Si sarebbero spaventate nel veder catapultata la loro “scappatella” in mondovisione? Può essere vero nel primo periodo, ma questo non giustifica la lunga lontananza. Non ci sono elementi per ritenere che Emanuela e Mirella fossero un mostro di insensibilità e nulla accadde all’interno delle loro famiglie per giustificare l’assenza trentennale.
L’unico modo per avvalorare questo filone è ipotizzare che sia loro accaduto qualcosa di tragico dopo l’allontanamento e i loro casi, prima quelli di Emanuela (cittadina vaticana) e poi quello di Mirella, siano stati strumentalizzati.
3.5 I punti forti della pista sessuale?
Analizziamo quali sono i punti forti della pista sessuale per il caso di emanuela Orlandi.
a) Tesi sostenuta dai primi esperti del caso
Verso la pista sessuale si sono orientate le prime persone che hanno indagato seriamente il caso.
Parliamo di Gennaro Egidio, avvocato degli Orlandi e dei Gregori, il magistrato Margherita Gerunda e il giornalista Pino Nicotri.
Nicotri è stato, fra tutti, il principale sostenitore di questo scenario. Nel 2013 scrisse: «L’unica pista che oggi è rimasta in piedi e che all’epoca era comunque la più ragionevole: la pista del sequestro a fini di libidine o vendetta personale […]. Decenni e decenni di cronaca nera dimostrano che la pista del sequestro a fini di libidine o di vendetta personale non ha molto a che fare con i “maniaci sessuali”, ma ha invece moltissimo a che fare con i vicini di casa, i parenti, gli amici dei parenti e quelli di famiglia».
Verso questa spiegazione è sembrato orientarsi anche l’avv. Egidio, legale degli Orlandi e dei Gregori, nelle telefonate (una e due) avute con lo stesso Nicotri.
Il primo legale degli Orlandi affermò addirittura: «Ma no, non è stato un rapimento. La verità è molto più semplice e banale, la fine di Emanuela è più banale. La ragazza godeva di molta più libertà di quanto è stato fatto credere». Nella prima telefonata con Nicotri, il giornalista sottolinea che gli Orlandi non conoscerebbero davvero la figlia, trovando il pieno consenso di Egidio.
Nella seconda telefonata, Nicotri sostenne che gli Orlandi non sapessero in realtà «chi era e che faceva la figlia», trovando pieno consenso nell’avv. Egidio:
«Sono pienamente d’accordo con lei. Io propendo più per cose semplici, normali […]. Quello che rimane forse potrebbe essere quello che appare così semplice, potrebbe essere la verità. E cioè un caso molto semplice che però strumentalizzato, adoperato dagli altri per altri motivi, successivamente […]. I genitori anche se a volte si trovano di fronte all’evidenza, sono capaci di andare oltre la realtà perché loro credono nei loro figli. O magari vi è un senso di ritegno. Ritengono di voler salvare la dignità e il nome della famiglia. Ma i figli, come lei ben diceva prima, ma chi li conosce? A quell’età poi…».
Per quanto riguarda Mirella Gregori, Gennaro Egidio sembrò considerare l’ipotesi della prostituzione, pur senza affermarlo direttamente. Lo avrebbe intuito dalla frase che la giovane disse alla madre poco prima della scomaprsa: «Mamma, tu dici che hai difficoltà, enormi difficoltà, che non si può acquistare una casa. Non ti preoccupare, ai soldi penso io».
L’avvocato Egidio disse di essere rimasto colpito dalla frase, esattamente come lo fu la madre:
«Penserei che il caso della Gregori potrebbe essere sempre un caso che rientra in quello che era magari un traffico…e allora quindi caduta nell’inganno e avrà ripetuto dentro di sé quello che le avevano promesso, per ingannarla. E quindi avrebbe avuto chi potesse magari un giorno avere denaro e aiutare quindi la mamma e la famiglia. E invece magari cadde in un inganno. Successivamente, cioè altri che avevano chissà quali altri interessi, per pressioni magari nelle sedi al di là del Tevere o anche qui in Italia […], quando vi è stato l’interesse per il caso Gregori, che fu poi collegato al caso Orlandi, […] questa gente quando hanno visto che appariva sui giornali a questo punto si sono innestati nella storia dicendo…».
Anche il primo magistrato che si occupò della vicenda, Margherita Gerunda, disse: «Mi feci subito l’idea, come del resto tutti gli investigatori, che la ragazza fosse stata attirata in un agguato, violentata e uccisa, comunque morta in seguito alle violenze».
Gerunda fu sostituita dopo poco da Domenico Sica, «interpretai il mio essere tolta dal caso Orlandi come la precisa volontà di assecondare i clamori e sposare in pieno la pista del rapimento politico per lo scambio con Agca».
Qui sotto le parole del magistrato Margherita Gerunda:
b) Nessuna prova certa della detenzione di Emanuela
La pista sessuale risolve agilmente il grande mistero per cui i sedicenti rapitori inseritisi successivamente non hanno mai saputo (o voluto) dare prova certa di avere Emanuela e Mirella.
Sarebbe bastata una foto con a fianco un quotidiano, come chiese la famiglia Orlandi. Si limitarono invece a fornire dettagli (pur abbastanza precisi) della biografia di Emanuela, fotocopie di alcuni suoi effetti personali e la registrazione di alcune sue parole ripetute più volte sul nastro. Piccole prove, mai davvero decisive o soddisfacenti.
Queste persone non potevano (o non volevano?) realmente dare prova di avere le ragazze perché, secondo la pista che stiamo indagando, erano già morte.
c) Scarso collegamento tra Emanuela e Mirella
Gli autori di un sequestro sessuale non sono interessati a cercare elementi in comune tra le loro vittime.
Effettivamente Emanuela e Mirella condividevano pochissimo, a parte la stessa età. A collegare i due casi non furono i primi telefonisti che chiamarono a casa Orlandi, né qualche investigatore o le rispettive famiglie.
Il primo collegamento avvenne soltanto due mesi dopo la sparizione di Emanuela, il 4/8/1983, quando il “Komunicato 1” del “Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh” citò Mirella chiedendo informazioni. Della giovane, tra l’altro, si parlò pochi giorni prima in un’inchiesta della rivista Panorama212P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 75.
Un altro piccolo collegamento tra le due scomparse è che Mirella lavorò per la Avon (confermato dalla sorella Antonietta Gregori) ed Emanuela sarebbe stata avvicinata da un uomo che le avrebbe parlato della Avon213deposizione dell’amica Raffaella Monzi. Non è però un elemento determinante, tantissime ragazze ebbero a che fare con la Avon.
d) Sentenza di archiviazione del 1997
Nella sentenza di archiviazione del giudice ispettore Adele Rando del 1997, si concluse rilevando effettivamente che quello della Orlandi non fu un rapimento ma una messa in scena depistatrice.
Inoltre, negli Atti si legge l’esistenza di una «strumentale connessione della scomparsa di Mirella con il caso di Emanuela, probabilmente allo scopo di accrescere la complessità del quadro investigativo di quest’ultima vicenda, rendendolo, se possibile, ancora più inestricabile».
e) Testimoni oculari
Il ruolo delle testimonianze del vigile Sambuco e del poliziotto Bosco le abbiamo analizzate in una sezione pecedente.
A poche ore dalla scomparsa di Emanuela, Alfredo Sambuco e Bruno Bosco in servizio davanti al Senato riferirono ai familiari di averla vista parlare con un uomo mentre le veniva mostravo del materiale. Uno scenario compatibile con il racconto che Emanuela fece alla sorella prima della scomparsa, telefonata di cui ancora nessuno era al corrente.
E’ molto difficile sostenere che si misero d’accordo tra loro, non si sarebbero altrimenti contraddetti su alcuni dettagli: la presenza di un BMW fu riferita solo da Sambuco, il quale parlò di un numero civico diverso da Bosco e accennò prima ad un catalogo “Avon”, poi smentì di averne parlato. Al contrario, Bosco citò un tascapane militare con la lettera “A”.
O testimoniarono una scena realmente osservata ma confondendo Emanuela con un’altra ragazza, oppure il loro racconto coincide con quello che disse Emanuela al telefono con la sorella poco prima di sparire.
Fu ingannata da quell’uomo e attratta in un pericoloso giro sessuale?
f) Il profilo inedito di Emanuela
Emanuela è sempre stata presentata dalla stampa e dai familiari come una ragazza modello (“casa e chiesa”).
Eppure la testimonianza della compagna di classe, Silvia Vetere, dell’amico Pierluigi Magnesio e l’informativa del SISDE mettono in crisi quest’immagine e rivelano aspetti inediti della giovane.
Tra i quali il fatto che avesse una certa malizia, saltasse scuola con una certa frequenza (autofirmandosi le giustificazioni), fu rimandata a settembre in due materie, latino e francese214F. Peronaci, Emanuela, la fascetta e l’appello di Wojtyla, Corriere della Sera 01/11/2018, e la frequentazione di amici più grandi poco raccomandabili, dediti a consumo di stupefacenti.
3.6 I punti deboli della pista sessuale
Analizziamo quali sono i punti deboli della pista sessuale per il caso di emanuela Orlandi.
a) Tesi sempre respinta dalla famiglia
Nonostante il legale degli Orlandi e dei Gregori sembrasse optare per la pista sessuale con l’iniziale complicità di Emanuela e Mirella, le famiglie l’hanno sempre radicalmente respinta.
Sono le persone che hanno cresciuto le due giovani e che le conoscono meglio di tutti, mentre i sostenitori di questa ipotesi non le hanno mai conosciute nella realtà.
«Mia sorella non si è allontanata spontaneamente, su questo non deve esistere il minimo dubbio. La sua scomparsa, direttamente o indirettamente, ha attivato forze occulte su scala internazionale e noi siamo capitati in mezzo a questo casino!», ha scritto Pietro Orlandi215P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 85.
Anche Nicola Cavaliere, della squadra mobile di Roma all’epoca dei fatti, ha affermato: «Non credo proprio che sia fuggita volontariamente e non esiste alcuna prova certa della sua esistenza in vita fin dal primo momento successivo alla scomparsa, così come, d’altra parte, non esiste alcuna prova certa della sua morte»216citato in R. di Giovacchino, Storie di alti prelati e gangster romani p 24.
b) Depistaggi ed enorme complessità
Pur essendo vero che nella maggior parte di questi casi il colpevole si nasconda nell’ambiente familiare e amicale della vittima, ciò non spiega tutto quanto è avvenuto in seguito.
In che modo un crimine così comune (purtroppo) avrebbe comportato oltre quarant’anni di depistaggi, l’intervento di veri e finti mitomani, e legami misteriosi e pur coincidenti tra realtà apparentemente coinvolte, tanto da far diventare quello della Orlandi uno dei casi più fitti e misteriosi del secolo scorso?
c) Le prove fornite dai telefonisti
Legato al punto b) è il dato che i depistaggi seguiti al presunto crimine sessuale non siano proprio campati per aria.
Una forte prova contro la tesi dell’allontanamento volontario e della pista sessuale sono i dettagli forniti dai telefonisti che chiamarono casa Orlandi nei giorni immediatamente successivi alla sparizione.
Nei “punti forti” abbiamo osservato che effettivamente non diedero mai una prova certa del loro coinvolgimento con il rapimento, tuttavia fornirono informazioni piuttosto precise e rivelatesi vere. Non possono essere liquidati come “colpi di fortuna”.
«Gli autori dei messaggi», ha dichiarato il magistrato Ferdinando Imposimato, «indicavano con la massima precisione caratteristiche fisiche della ragazza e inviavano messaggi scritti e fonici della ragazza, cioè registrazioni della sua voce. Li ho sentiti, li ho letti; ci sono copie dei verbali. Ma gli autori dei messaggi mandavano anche copia dei documenti di cui era in possesso Emanuela Orlandi al momento della sua scomparsa»217F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 9.
Dopo tre giorni dalla sparizione di Emanuela, infatti, quando ancora nessuno a parte la famiglia la stava cercando o parlava di rapimento, “Pierluigi” telefonò fornendo alcuni elementi riconosciuti come veri dalla famiglia218requisitoria del pm Malerba, 6/08/97 219P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 32.
Ecco sintetizzati i dettagli forniti da “Pierluigi”:
- Emanuela vendeva collane in piazza Campo de Fiori (attività svolta dalla giovane due estati prima a Torano);
- Aveva un flauto riposto in una custodia nera (non sappiamo se i giornali locali ne avessero parlato);
- Accennò alla marca “Ray Ban” (l’estate precedente Emanuela fu coinvolta in una discussione su questa marca di occhiali con la madre e un’amica);
- Emanuela era astigmatica ad un occhio;
- Accennò alla marca “Avon”;
- Il matrimonio della sorella era previsto per settembre;
- La sorella la maggiore portò gli occhiali per un certo periodo.
Quale testimone disinteressato avrebbe mai fornito questi dettagli? L’uomo volle evidentemente accreditarsi come persona informata dei fatti sostenendo, però, che si fosse trattata di una scappatella volontaria. Stesso copione per “Mario”, il secondo telefonista, il quale citerà molti di questi dettagli facendo intendere di avere un legame con “Pierluigi”.
Poi arrivò l’“Amerikano”, che fornì a sua volta altri elementi biografici:
- Il sacerdote che avrebbe celebrato il matrimonio della sorella era un amico di famiglia;
- Il cantante preferito da Emanuela era Claudio Baglioni;
- Emanuela era innamorata di Alberto, in quel periodo a militare;
Ma soprattutto, l’“Amerikano”, oltre a far ascoltare un audio di Emanuela mentre ripete più volte il nome della classe e della scuola frequentata, fece ritrovare:
- La fotocopia (con foto) della tessera d’iscrizione di Emanuela alla scuola di musica;
- La fotocopia della ricevuta del versamento della rata scolastica per la scuola di musica da 5000 lire, datata 6/5/83 (poche settimane prima della scomparsa);
- La fotocopia del retro della tessera della scuola di musica;
- La fotocopia del frontespizio di un album con gli spartiti per flauto del compositore Hugues, con scritti nomi e numeri di telefono di alcune compagne di corso, che Emanuela aveva con sé il giorno del rapimento.
Nell’immagine qui sotto la fotocopia degli spartiti fatta ritrovare dal telefonista:
Da dove recuperò tutti questi documenti? Molto probabilmente dalla borsa di Emanuela.
In caso contrario si dovrebbe sostenere che dopo la sparizione, qualcuno della scuola di musica (dirigenti? Compagni? Docenti?) avesse fornito a degli estranei gli elementi elencati. Potrebbero averli rubati dalla scuola? E nessuno se n’è accorto o ha mai verificato?
Sull’istituto Da Victoria caddero inevitabilmente molti sospetti, Pietro Orlandi ricordò però che sia polizia che i servizi segreti si presentarono dalla direttrice suor Dolores chiedendo la lista completa delle allieve, come la religiosa raccontò in questura220P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 94. Anche ammesso di sospettare di polizia o servizi segreti, come avrebbero fatto a sapere cosa aveva con sé Emanuela quel giorno, quali documenti e spartiti rubare?
Va inoltre considerato che gli spartiti di Hugues erano segnati da scritte di Emanuela, numeri di telefono e nomi delle sue amiche (usati dai telefonisti per chiamarle e dettare loro i comunicati). Era quindi un oggetto strettamente personale della giovane che non si trovava tra i documenti della scuola.
Nell’immagine qui sotto i vari testi di Emanuela fatti ritrovare in momenti diversi dall’“Amerikano”:
Il “Fronte Turkesh”, una delle sigle comparse dopo i telefonisti, rispose correttamente ad una domanda loro rivolta sul luogo della cena di Emanuela tre giorni prima della sparizione (risposta: con “parenti molto stretti”). Pietro Orlandi spiegò che tale dettaglio era noto solo in famiglia221P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 106.
Un telefonista anonimo chiamò anche al bar dei Gregori elencando nel dettaglio le marche dei vestiti che indossava Mirella il giorno della sparizione.
I telefonisti potrebbero aver carpito, tramite ricatti e minacce, le informazioni biografiche dalle amiche delle due scomparse? Effettivamente sia Raffaella Monzi che Sonia De Vito risultarono reticenti agli occhi degli inquirenti, la prima subì anche diverse minacce nel corso degli anni.
Se furono minacciate oltre 30 anni fa, difficile credere però lo siano ancora oggi e sarebbero sufficientemente protette se venissero allo scoperto, anche grazie al rilievo mediatico della vicenda. Inoltre, le amiche di Emanuela non avrebbero certo potuto consegnare le fotocopie di tessere, iscrizioni, ricevute e il frontespizio dell’album con gli spartiti presente nello zaino della giovane il giorno della sparizione.
Nelle conclusioni della Commissione parlamentare Mitrokhin si legge: «E’ certo che i telefonisti, gli autori dei messaggi o i loro ispiratori avessero, o avessero avuto, contatti con Emanuela, con la famiglia o con conoscenti di Emanuela o della famiglia».
Nella requisitoria del Procuratore generale della Corte di Appello, Giovanni Malerba, si legge:
«Né si dica che i primi “telefonisti” fossero persone non soltanto estranee al progetto criminoso, ma altresì all’oscuro di esso; nei successivi messaggi del gruppo che rivendicava il sequestro, più di una volta è dato rinvenire riferimenti ai “nostri elementi Pierluigi e Mario”; e per di più il Pierluigi, nei colloqui telefonici, si mostrava al corrente di particolari rivelatisi esatti (flauto, occhiali con montatura bianca non graditi alla giovane, astigmatismo ad un occhio, imminente matrimonio della sorella ecc.). Tutto questo dimostra lo stretto collegamento tra Pierluigi e Mario e coloro che rivendicavano il sequestro»222requisitoria del pm Malerba, 6/08/97.
L’ex magistrato Ferdinando Imposimato, giudice istruttore del processo per l’attentato a Giovanni Paolo II del 1981, avendo seguito il caso per conto dei familiari di Emanuela, riferì che «le lettere sono, almeno in parte, una prova dei collegamenti tra chi le scriveva e la ragazza scomparsa, come riconosciuto anche dai magistrati, che però non hanno ritenuto provato che costoro effettivamente avessero rapito la ragazza – e la tenessero segregata – al momento in cui recapitavano, per un ampio lasso di tempo, i messaggi».
Non si trattò di mitomani e non furono estranei ai fatti. O ebbero a che fare direttamente con Emanuela e Mirella, oppure ebbero contatti diretti con chi aveva avuto a che fare con loro.
Questo dimostra che il sequestro di Emanuela e Mirella (pur se convinte ad allontanarsi con l’inganno e la loro complicità) non fu finalizzato alla mera violenza sessuale, in quanto si può ipotizzare che fossero proprio le due ragazze (in particolare Emanuela) la fonte degli elementi biografici citati dai telefonisti.
d) Comunicati con elementi attendibili
Oltre agli elementi forniti dai telefonisti, bisogna porre attenzione anche ai comunicati apparentemente deliranti del “Fronte Turkesh”.
L’ex colonnello della Stasi, Gunther Bohnsack, riferì che furono loro gli autori dietro la sigla “Fronte Turkesh”223F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 17 di questi messaggi e di quelli firmati “Phoenix”: «Ci divertivamo a scriverli in un italiano molto scorretto. Cercavamo così di aiutare i bulgari assurdamente accusati per l’attentato di Agca». E ancora: «Si, li facevamo noi, insieme a colleghi dei servizi segreti bulgari che incontravamo qui a Berlino»224citato in P. Nicotri, Emanuela Orlandi: la verità, p. 109.
Abbiamo già spiegato i motivi per cui le affermazioni di Bohsack non risultano convincenti, tanto che il Procuratore generale Giovanni Malerba ricordò che «alcuni dei comunicati del Fronte Turkesh evidenziano rilevanti connotazioni di autenticità e genuinità in quanto accompagnati da prove foniche e documentali riferibili a Emanuela Orlandi»225requisitoria del pm Malerba, 6/08/97.
In uno dei komunicati, ad esempio, fu scritto che «Emanuela formulò una frase che rese di ghiaccio suo padre»226Komunicato 22/11/83, episodio -pur abbastanza vago- confermato dal padre Ercole: «Si, mia figlia reagì in modo inconsueto, con una frase pesante nei miei riguardi poco prima della scomparsa».
Nel comunicato di “Phoenix” del 13/11/83 si fece rinvenire la fotocopia della tessera scolastica con la foto di Emanuela e la ricevuta di versamento. E’ vero che furono già stati fatti ritrovare il 6/7/83 dall'”Amerikano, ma non era certo materiale reso pubblico e disponibile dalla polizia italiana.
e) Scuse complesse e non necessarie
I sostenitori dell’ipotesi di una strumentalizzazione secondaria preceduta da un allontanamento volontario (pur sotto inganno) dovrebbero anche spiegare perché Emanuela Orlandi telefonò alla sorella prima di sparire raccontando la complessa storia del lavoro offertole a 375mila lire.
Pino Nicotri, sostenitore di questa pista, la ritiene una «scusa ingenua di una ragazzina che vuole poter stare fuori casa per un po’ per i fatti suoi»227P. Nicotri, Triplo inganno, p. 53.
Riteniamo più che opportuna la risposta di Marco Accetti:
«Quindi una quindicenne per restare un po’ fuori casa, non solo inventa che un uomo l’ha fermata e le ha proposto un lavoro, ma specializza la bugia coinvolgendo la maison delle sorelle Fontana, ed elaborando ulteriormente ambienta il luogo dove si terrà la sfilata, nella sala Borromini. Addirittura stabilisce la cifra esatta pattuita. Ed una scusa del genere tanto sofisticata, il giornalista la definisce “ingenua”, attribuendola oltretutto ad una semplice quindicenne. Se così fosse questa ragazzina sarebbe più che smaliziata, quasi diabolica».
Anche ammettendo l’estrema ingenuità della 15enne Emanuela, possibile che un predatore sessuale abbia bisogno di ingannare una ragazza tramite un complesso e assurdo racconto (375mila lire erano un’esagerazione per chiunque), con il rischio di venire scoperto dopo un’eventuale telefonata della giovane alla famiglia?
La storia raccontata da Emanuela motiva contro l’idea di un suo allontanamento ingenuo per finire nella trappola di uno stupratore.
f) Requisitoria di Giovanni Malerba
La sentenza di archiviazione di Adele Rando del 1997 respinse l’idea di un rapimento parlando di «una messa in scena depistatrice».
Essa tuttavia contrastò con la requisitoria del procuratore Giovanni Malerba del 5/8/1997:
«Pur in assenza di prove sicure della vita o della morte, non vi è motivo di revocare in dubbio che le stesse siano state realmente private della libertà personale; la prolungata assenza, ormai protraentesi da oltre quattordici anni, valutata unitamente ai messaggi scritti e telefonici pervenuti ed alle prove foniche e documentali concernenti Emanuela Orlandi, rendono più che evidente che le due giovani, pur inizialmente seguendo spontaneamente i sequestratori in quanto verosimilmente tratte in inganno (un duplice sequestro attuato in pieno giorno sulla pubblica via con violenza o minaccia sarebbe stato in ogni caso notato e riferito da più persone), siano state in seguito trattenute contro la loro volontà».
Commentando le conclusioni di Malerba, il magistrato Ferdinando Imposimato elogiò l’acume del procuratore in quanto «in poche pagine egli indica tutta una serie di ragioni obiettive per ritenere che la tesi, secondo la quale si siano inseriti personaggi esterni in questa vicenda per strumentalizzarla senza poter essere parti di questo complotto, è una tesi che non sta né in cielo, né in terra perché così non è»228F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 9.
g) Altre cittadine vaticane pedinate
Nella sezione precedente abbiamo già osservato la deposizione rilasciata ai carabinieri nel luglio 1984 di Raffaella Gugel, figlia dell’aiutante di camera del Papa, Angelo Gugel.
La giovane riferì che subito dopo l’attentato al Papa, nel maggio 1981, suo padre la avvisò di voci giunte in Vaticano su possibili sequestri di cittadine.
La Gugel raccontò anche di aver subito un perdimento per due settimane da parte di un uomo di nazionalità turca e, a seguito delle indagini di polizia, si scoprì che altre cittadine vaticane erano state seguite, in particolare la sorella Flaviana e la figlia di Camillo Cibin, capo della sicurezza del Vaticano229F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 6.
Questi elementi chiaramente giocano a sfavore dell’idea di una pista sessuale.
h) Clima positivo in Vaticano
Chi sospettasse che all’interno del Vaticano vi fosse un clima sessualmente morboso dovrebbe fare i conti con il silenzio da parte della famiglia di tutto questo.
Oltre al fatto che il fratello Pietro, apertamente anticlericale, non ha mai fatto cenno di tale evenienza, il cugino Pietro Meneguzzi ha al contrario riferito che «i pomeriggi più belli» della loro infanzia «li passavano in Vaticano»230P. Meneguzzi, intervista a Quarto Grado, Rete4, 14/07/2023.
Anche Alessandra Cannata, allieva della scuola da Victoria e amica di Emanuela, ha riferito di essere stata invitata a pranzo da Emnauela in Vaticano, aggiungendo:
«Si sentiva molto a proprio agio stando lì. Ricordo che salutava le persone lungo il percorso, perché c’era un pezzo di strada da fare prima di arrivare a casa sua dentro il Vaticano. Lei era molto a suo agio, mentre io mi sentivo un po’ in imbarazzo. Invece lei era molto tranquilla, molto disinvolta. Mi piacque molto l’ambiente dove viveva, perché era un ambiente sereno. Non so nulla, però, del suo stato d’animo rispetto al vivere lì, ma non mi pare di aver percepito che ci fossero problemi».
3.7 Conclusioni sulla pista sessuale
L’ipotesi della pista sessuale con una successiva strumentalizzazione del caso non regge all’analisi degli elementi conosciuti. Gli argomenti contrari, soprattutto quelli riguardanti i telefonisti, i comunicati e le voci su sequestri di cittadine vaticane prima della scomparsa di Emanuela, sembrano decisivi.
Ci sarebbe anche da considerare il riconoscimento di alcuni uomini legati alla malavita romana da parte di alcuni amici di Emanuela che avrebbero pedinato la giovane nei giorni antecedenti alla sparizione (ne parleremo più sotto).
Se è da escludere che l’obbiettivo dei sequestratori fu il mero scopo libidinoso, conclusosi con la morte delle giovani, è invece verosimile che Emanuela e Mirella si possano essere allontanate volontariamente, tramite l’inganno o sotto ricatto/minaccia. Non è da escludere che gli autori del sequestro abusarono sessualmente delle giovani ma lo scopo delle loro azioni non fu soltanto questo.
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4. EMANUELA ORLANDI E LA PISTA INTERNAZIONALE
La pista internazionale è quella più accreditata sui media, sempre a caccia di scandali politici.
La tesi più classica è che il rapimento sarebbe servito per allontanare i sospetti dell’attentato a Giovanni Paolo II dai “Lupi Grigi” e da i bulgari, chiamati in causa da Alì Agca.
I rapitori delle ragazze, infatti, attraverso la loro azione avrebbero cercato di ricattare e/o condizionare il terrorista turco portandolo a ritrattare le sue accuse e a interrompere la collaborazione con gli inquirenti.
Per dirla con le parole del magistrato Ferdinando Imposimato, principale sostenitore di questa tesi, Orlandi e Gregori furono vittime del terrorismo di Stato, prede dei terroristi turchi al servizio dei bulgari, della STASI e del KGB, vittime del complotto ideato da Mosca fin dall’ottobre 1978, sfociato nell’attentato al Papa e proseguito nel sequestro di due ignare e sfortunate fanciulle.
Tutti i comunicati relativi alla sorte delle ragazze sarebbero stati ideati dai Servizi segreti di Berlino Est per aiutare i bulgari, ormai in affanno processuale, perché tutta l’opinione pubblica italiana e mondiale era convinta che con quelle prove il bulgaro Serghei Antonov (morto nel 2007) sarebbe stato condannato231F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 18.
Una variante della tesi è che i sequestratori avrebbero invece cercato di ricattare direttamente i capi di Stato vaticano e italiano inducendo il primo, Giovanni Paolo II, a “perdonare” Agca e il secondo, Sandro Pertini, a concedergli la grazia presidenziale. E’ quello che vollero (almeno apparentemente) anche i telefonisti e le varie sigle comparse dopo la sparizione.
E’ stata l’ipotesi più valutata dalla prima indagine sul caso, che si è conclusa con l’archiviazione del 1997. La tesi è sostenuta ancora oggi da tanti autorevoli protagonisti della vicenda ma osteggiata da diversi altri.
4.1 I punti forti della pista internazionale
Analizziamo quali sono i punti forti della pista internazionale per il caso di emanuela Orlandi.
a) Il comportamento di Alì Agca
Il principale argomento a sostegno della pista internazionale è l’effettivo e sorprendente comportamento del terrorista turco Alì Agca, autore dell’attentato a Papa Giovanni Paolo II nel 1981.
Le cronache dell’epoca riportano che dal dicembre 1981 fino al 22 giugno 1983, data della sparizione di Emanuela, l’idealista turco collaborò attivamente con il giudice istruttore, Ilario Martella, indicando come mandante dell’attentato la famosa “pista bulgara” su ordini del KGB. Agca sostenne la corresponsabilità del bulgaro Sergei Antonov, il quale gli avrebbe fornito l’arma, e dei servizi segreti bulgari.
Il 28/06/1983, sei giorni dopo la sparizione di Emanuela Orlandi, Agca modificò radicalmente il suo atteggiamento e, fingendo di impazzire, rovinerà il processo. Disse di non aver mai visto l’abitazione di Antonov, di non aver mai conosciuto la moglie Rosizca, di non aver saputo (prima del riconoscimento fotografico) dell’attività di Antonov come caposcalo della Balkan Air, di non essere mai stato nemmeno nella sede della compagnia aerea. Tutte informazioni, queste, fornite in precedenza con dovizia di particolari.
Il pm Antonio Marini spiegò a chiare lettere che il fallimento del processo fu determinato «dal comportamento di Agca, che ha inventato questa follia simulata, veramente devastante per il processo»232A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 31/05/2005, p. 7.
Nel giugno 1984, Antonio Albano, pm dell’inchiesta sull’attentato al Papa, completò la requisitoria contro Agca ed Antonov e, citando l’interrogatorio ad Agca del 28 giugno, scrisse: «A coincidenza vuole che proprio in quei giorni scompare la giovane Emanuela Orlandi».
Lo stesso Agca, riporta l’Unità del 05/07/1983, Agca affermò che appena seppe della sparizione della Orlandi interpretò il fatto come un segnale dei suoi complici: «Ho pensato, la potrebbero uccidere, appesantirebbero la mia posizione, c’è una posizione morale, mi spiace se la uccidono».
Una nota di attenzione: Agca parlerà sempre e solo di Emanuela Orlandi, mai di Mirella Gregori.
Nel 1985 Agca tornò ad accusare i bulgari dicendo di essere stato condizionato dal caso Orlandi: «Ho dato tante versioni contraddittorie, ho parlato di Pazienza che non c’entra, perché “Lupi grigi” e bulgari hanno rapito la ragazza, perché io ritrattassi e confondessi e screditassi la stampa che aveva parlato di Urss e Bulgaria. Ho visto dai giornali gli ultimi messaggi dei rapitori di Emanuela Orlandi e ho riconosciuto la calligrafia di Oral Celik».
Nel luglio 1993, in un’intervista con Antonio Fortichiari del settimanale Gente, Agca accusò Celik anche di complicità nell’attentato al Papa233Diario di una storia vera, Blog di Emanuela Orlandi, 31/12/1993.
Nel 1997 l’attentatore turco modificò la versione sostenendo che alla base delle sue ritrattazioni vi sarebbero state le minacce ricevute il 28/06/83 dai magistrati bulgari Ormankov e Pertkov (funzionari dei servizi segreti) in visita a Rebibbia, approfittando dell’assenza del giudice Ilario Martella234Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 15/03/2006, p. 262, Agca disse al giudice Priore che tale minaccia consisteva nell’uccisione della Orlandi se non avesse ritrattato le accuse ai bulgari235R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 28/09/2005, p. 6.
In un’altra occasione dirà di essere stato minacciato dai servizi occidentali che lo avevano visitato in prigione, in particolare Francesco Pazienza e Aldrich Ames. Il primo lo ha querelato, il secondo si è appurato che non si trovasse in Italia in quel periodo, «né che si sia mai incontrato con Agca».
I giudici verificarono che non vi fu alcuna minaccia da parte di Servizi italiani e di Pazienza nei confronti di Agca236A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 31/05/2005, p. 11. Tuttavia il giudice Rosario Priore ha rivelato che in molti Paesi d’Europa c’erano Servizi che offrivano denaro ad Agca perché sostenesse la pista bulgara, «lo hanno fatto i tedeschi, lo hanno fatto gli svizzeri»237R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 28/09/2005, p. 12.
Il giudice istruttore Ilario Martella ha ricordato che Agca, tre giorni dopo la condanna, rinunciò formalmente a proporre appello:
«Un fatto incredibile: una persona che è stata condannata all’ergastolo rinuncia all’appello, e non perché ha fatto scadere i termini per la sua presentazione ma per sua espressa decisione. Gli chiesi quale ne era il motivo e mi rispose che era sicuro di essere liberato con una azione di forza o eventualmente con un sequestro di persona. Mi ha raccontato questo molto prima del sequestro della Orlandi. Non si è mai pensato, neanche per un solo momento, che Agca fosse un cretino autolesionista. Se una persona rinuncia all’appello, significa che deve nutrire una fiducia illimitata sul fatto che prima o poi qualcuno lo libererà, o che comunque esiste la possibilità di avviare un negozio con lo Stato per arrivare ad una soluzione»238I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 18.
Stupore condiviso anche dal pm Antonio Marini, il quale dopo aver ricordato che Agca era già stato fatto fuggire dal carcere di Kartal Maltepe dopo aver ucciso un noto giornalista turco e mentre stava per fare rivelazioni importanti, ha dichiarato:
«Si pensava che aspettasse che qualcuno lo facesse fuggire, per cui doveva avere un interlocutore, a parte il mandante o i mandanti. Doveva per forza avere un interlocutore, tanto è vero che interpretavamo le sue elucubrazioni, per capire se fossero o meno messaggi. C’è stato il processo relativo ad Emanuela Orlandi. Si era anche detto che il sequestro della giovane poteva in qualche modo avere a che fare con l’attentato al Papa, perché era stata promessa ad Agca la fuga attraverso il rapimento di una persona del Vaticano. Di tutto si è parlato»239A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 14/06/2005, p. 32.
Al di là delle vere motivazioni, l’unico dato oggettivo è che Alì Agca decise improvvisamente di rendersi totalmente e per sempre inaffidabile esattamente 6 giorni dopo la sparizione della Orlandi (e il giorno dopo le presunte minacce ricevute dai bulgari).
b) Tesi sostenuta da persone autorevoli
La tesi internazionale è stata sostenuta da diversi inquirenti e magistrati e questo non è un dato da trascurare.
Uno dei sostenitori è l’ex magistrato Ilario Martella, giudice istruttore dell’inchiesta sull’attentato a Giovanni Paolo II, il quale ha affermato:
«Mi sono occupato della scomparsa delle ragazze [Emanuela e Mirella] nella fase iniziale. Ritengo si possa con certezza affermare che ambedue i delitti siano stati ideati da una ben ramificata organizzazione criminale, che più volte ha dato notizia di sé con messaggi e comunicati volti a richiedere in ogni sede (tra cui Vaticano e presidenza della Repubblica italiana) lo scambio della libertà di Emanuela con quella di Agca e talora dei suoi amici Bagci e Celebi […]. Mi giunsero messaggi di intimidazione che minacciavano me e i miei familiari della stessa sorte di Emanuela. Chiusa l’istruttoria, a fine 1984, cessarono […]. Agca aveva dietro di sé una organizzazione potentissima che forse va al di là dell’attentato al Papa. E` una ipotesi che chiama in causa anche la scomparsa di Emanuela Orlandi. Basti pensare che, all’epoca della scomparsa della giovane, i suoi rapitori provocatoriamente lasciavano i messaggi nei posti dove facevo i sopralluoghi. Lo hanno fatto più volte e, purtroppo, gli autori non sono mai stati individuati»240I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 18.
Il 20/10/1983, ad esempio, Martella, allora responsabile dell’inchiesta sull’attentato a Giovanni Paolo II, ordinò riscontri sul racconto fattogli da Alì Agca in due punti precisi di Roma, l’ambasciata canadese di via della Conciliazione 30 e un bar vicino in via Traspontina 9. Qualche ora dopo, proprio nelle stesse vie, verranno fatti trovare due messaggi riguardanti il rapimento di Emanuela Orlandi, in cui si chiedeva la liberazione di Agca in cambio della ragazza.
Inoltre, aggiunse Martella, pur non avendo elementi concreti per stabilire un legame, riferì che «Emanuela Orlandi viene rapita proprio nel periodo più caldo della mia istruttoria. Anzi, ricordo che all’epoca mi trovavo in Bulgaria. Per quanto si sia cercato di trovare soluzioni diverse da queste, devo dire che non sono state trovate»241I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 19.
Nel 2024, interrogato dalla Comissione parlamentare d’Inchiesta sul caso Orlandi, l’ex giudice Martella ha collegato il rapimento di Emanuela e Mirella all’attentato al Papa del 1981, definendola «un’operazione di distrazione di massa ideata e compiuta dalla Stasi (i servizi segreti dell’allora Germania est, ndr), per evitare che la Bulgaria e tutto il mondo dell’Est venissero coinvolte nell’attentato al Papa, dopo che Ali Agca, interrogato da me, aveva iniziato ad accusare tre funzionari bulgari»242F. Peronaci, Caso Orlandi-Gregori, il giudice Ilario Martella: «Le ragazze rapite e uccise dai servizi segreti dell’Est, in nome della ragione di Stato», Corriere della Sera, 27/06/2024.
L’ex giudice istruttore ha portato queste prove a suo sostegno243F. Peronaci, Caso Orlandi-Gregori, il giudice Ilario Martella: «Le ragazze rapite e uccise dai servizi segreti dell’Est, in nome della ragione di Stato», Corriere della Sera, 27/06/2024:
- Grazie alla collaborazione di Agca, trovò riscontri sulla complicità di tre cittadini bulgari, tra cui Antonov
- Gli alibi dei tre bulgari erano disastrosi
- La coincidenza temporale di un Tir bulgaro in arrivo a Roma il 9 maggio, proprio alla vigilia dell’attentato del 13 maggio 1981
- Il 10/7/1983 fu lasciato un messaggio di rivendicazione del rapimento delle ragazze a Fiumicino, nelle ore in cui Martella stava partendo, dallo stesso aeroporto, per una rogatoria in Bulgaria. Ciò dimostrerebbe il suo essere pedinato
- Quando organizzò un sopralluogo per verificare le dichiarazioni di Agca sui suoi movimenti in zona San Pietro prima dell’attentato, proprio nel bar di via Traspontina che il turco aveva indicato come quello dove aveva preso un caffè fu fatto recapitare un messaggio fortemente intimidatorio, che chiedeva la scarcerazione dell’attentatore in cambio della liberazione delle due ragazze
- Dopo l’assoluzione di Antonov e degli altri nel 1983 i rapitori non si fecero più sentire, «fu un segnale chiarissimo. Come dire: la nostra azione è andata a buon fine, abbiamo sventato il pericolo, quindi la distrazione di massa non serve più», ha detto Martella
In conclusione, l’ex giudice istruttore Ilario Martella ha dichiarato:
«Le due ragazze furono sacrificate a qualcosa di incredibile, che si può definire ragione di Stato. Ci si trova innanzi, come ebbe a dire Giovanni Paolo II quando andò a casa Orlandi in occasione del Natale 1983, a un intrigo internazionale […]. Prima provarono con Mirella, ma siccome, come scrissero in un comunicato, le richieste avanzate sottotraccia non erano state “riferite alle gerarchie”, decisero di salire di livello […]. Un’operazione del genere non è roba da banda della Magliana. Serve un’alta capacità criminale, come quella della Stasi […]. Credo siano state sacrificate, uccise non subito, ma magari dopo un po’. Tenerle in vita sarebbe stato pericoloso perché avrebbero potuto essere dei testimoni fondamentali»244F. Peronaci, Caso Orlandi-Gregori, il giudice Ilario Martella: «Le ragazze rapite e uccise dai servizi segreti dell’Est, in nome della ragione di Stato», Corriere della Sera, 27/06/2024.
Anche il secondo legale degli Orlandi, Massimo Krogh, ha affermato: «Noi come difesa abbiamo sempre pensato che fosse stata rapita per uno scambio con Agca».
A sostegno della pista internazionale, come già detto, è stato Ferdinando Imposimato, giudice istruttore del caso dell’attentato al Papa, istruttore del processo alla Banda della Magliana e poi legale della famiglia Orlandi.
Imposimato scrisse che il rapimento di Emanuela Orlandi (e di Mirella Gregori) fu l’epilogo di un vasto complotto tra servizi segreti di vari Paesi, definito “Operation Papstâ” dalla Stasi ed elaborato prima del 13 maggio 1981, giorno dell’attentato a Giovanni Paolo II. Fallito l’attentato seguì il modus operandi della lotta politica del Kgb e dei bulgari: sequestrare cittadini vaticani in età adolescenziale facendo passare il messaggio che «quegli ostaggi erano vittime innocenti della sua politica temeraria verso i paesi socialisti».
Per Imposimato, lo scopo del sequestro della Orlandi fu duplice: colpire il Papa e conquistare la fiducia di Ali Agca, inducendolo a rovinare il processo contro i bulgari ed i lupi grigi in cambio della sua liberazione. Sarebbe avvenuto grazie ad agenti infiltrati, come il monaco benedettino Eugen Brammertz (agente della Stasi), il capitano delle guardie svizzere Alois Estermann (presunto agente della Stasi e uno dei tre morti in un misterioso omicidio avvenuto in Vaticano il 4/5/1998), due agenti del Kgb infiltrati nell’entourage del cardinale Agostino Casaroli (il nipote Marco Torretta e la moglie Irene Trollerova, di origine ceca, entrambi denunziati dai servizi cechi dopo la caduta del muro di Berlino), e due giornalisti dell’Osservatore Romano appartenenti anch’essi alla Stasi245F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 12.
Il giudice Imposimato aggiunse che anche Markus Wolf, capo della Stasi, sostenne che il monaco Brammertz e la guardia svizzera Estermann fossero al servizio di Berlino Est, ma nel 2005 Wolf negò l’arruolamento di Estermann246P. Brogi, Basta illazioni su Estermann, non era una spia della Stasi, Corriere della Sera, 09/05/1998.
Infine, Imposimato si convinse di poter «trarre conclusioni incontestabili sulla matrice delle due scomparse, che furono manifestazioni del terrorismo di Stato. In esse una funzione centrale venne svolta da agenti segreti della Bulgaria, della STASI e del KGB con l’appoggio di terroristi mediorientali, il tutto con una formidabile azione di disinformazione diretta a seminare tracce di reato su Servizi segreti e gruppi eversivi ricollegabili ai nazifascisti»247F. Imposimato, Vaticano, un affare di Stato, Koiné 2022, p. 14.
Seppur la ricostruzione di Imposimato appaia verosimile e offra un racconto organico e piuttosto esplicativo, manca totalmente di dimostrazioni oggettive e corroborazioni. Inoltre, soffre di diversi punti deboli che analizziamo più in basso. Ricordiamo che l’attendibilità dell’ex giudice Imposimato è apparsa inficiata quando ha sostenuto che Emanuela si sarebbe convertita all’islam e integrata in una comunità musulmana248citato in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 24.
Anche il Vaticano e Giovanni Paolo II ricondussero sempre la vicenda ad un “complotto internazionale”.
Papa Wojtyla, dopo un silenzio di 25 anni, prima di morire si confidò con Vittorio Messori dicendo che gli autori dell’attentato nei suoi confronti e del sequestro delle due ragazze erano i sovietici e il KGB249citato in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 19 250citato in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 9. Il magistrato Imposimato ha riferito di aver incontrato più volte il Papa polacco, il quale condivise le sue tesi251F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 20.
Nel 2012 padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, effettuò un’indagine interna al Vaticano concludendo che si ritenne «che il sequestro fosse utilizzato da una oscura organizzazione criminale» che voleva fare pressioni in favore di Alì Agca, e «non si ebbe alcun motivo per pensare ad altri possibili moventi del sequestro».
c) Tecnologia utilizzata
Un altro argomento a favore è l’alta tecnologia che si sospetta utilizzarono i telefonisti per evitare di essere rintracciati dagli inquirenti.
Il padre di Emanuela, Ercole Orlandi, ricordò che l’”Amerikano” gli disse che era inutile tentare di registrare le telefonate perché poteva farle partire da quindici posti diversi.
Effettivamente una cabina della stazione Termini venne messa sotto controllo scoprendo che, mentre le chiamate risultavano in partenza dall’apparecchio pubblico della stazione, dentro la cabina non c’era nessuno. Gli inquirenti conclusero che il telefonista si serviva di un apparecchio per la triangolazione delle telefonate: un piccolo gioiello dell’elettronica capace di far rimbalzare su un’altra utenza la chiamata iniziale proteggendo il numero di partenza.
Ammesso che venisse realmente utilizzato era uno strumento difficilmente alla portata di criminali locali e sembra confermare l’interessamento dei servizi segreti.
d) Il contesto temporale
Non si può ignorare che la sparizione delle due ragazze avvenga esattamente due anni dopo l’attentato a Giovanni Paolo II da parte di Alì Agca, il finanziamento a Solidarnosc (il sindacato cattolico polacco e anticomunista), un anno dopo il fallimento del Banco Ambrosiano (da cui probabilmente partirono alcuni dei finanziamenti vaticani verso Solidarnosc) e l’omicidio-suicidio del suo presidente, Roberto Calvi.
E’ anche innegabile che la sparizione di Emanuela avvenne nel giorno in cui Giovanni Paolo II si trovava a visitare proprio la Polonia.
Schematizziamo quanto avvenne prima della sparizione della cittadina vaticana:
- 13/05/1981 attentato a Giovanni Paolo II da parte di Alì Agca;
- 18/06/1982 omicidio-suicidio di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano;
- 06/08/1982 liquidazione del Banco Ambrosiano;
- 23/06/1983 sparizione di Emanuela Orlandi;
- 25/06/1983 Alì Agca smette di collaborare con gli inquirenti e ritira le accuse verso i servizi segreti bulgari;
Nel video qui sotto, il giudice Rosario Priore spiegò i motivi della sua convinzione verso questa pista:
Il contesto temporale è un forte argomento a favore di molteplici interessi a livello internazionale.
e) Interesse reale dei presunti sequestratori all’inchiesta su Agca
Gli autori dei vari comunicati apparsi dopo la sparizione di Emanuela erano effettivamente interessati alle indagini su Alì Agca.
Lo dimostrerebbe un episodio accaduto il 20 ottobre 1983: il giudice Ilario Martella, responsabile dell’inchiesta sull’attentato a Giovanni Paolo II, ordinò riscontri sul racconto fattogli da Alì Agca in due punti precisi di Roma, l’ambasciata canadese di via della Conciliazione 30 e un bar vicino in via Traspontina 9. Qualche ora dopo, proprio nelle stesse vie, verranno fatti trovare due messaggi riguardanti il rapimento di Emanuela Orlandi, in cui si chiedeva la liberazione di Agca in cambio della ragazza.
«Singolare coincidenza!», disse Martella nel 2011, «me ne accorsi quando mi venne affidata anche l’indagine sulla Orlandi. C’è quell’ispezione, alla presenza di magistrati italiani e bulgari, della polizia e dello stesso Agca e poco dopo, negli stessi luoghi, si trovano volantini sul caso Orlandi…»252Il Corriere della Sera, 14/05/2011.
Un secondo esempio: il 12/06/84 all’ANSA arrivò una lettera da Francoforte con scritto: «Non avete adempiuto alla nostra richiesta di liberare subito Agca, Celebi e gli altri nostri amici. Emanuela Orlandi non è tornata». Pochi giornali ripresero la notizia, nessuno citò la parte finale, dove i misteriosi mittenti minacciarono i familiari del giudice Ilario Martella, al quale spettò la decisione di liberare o meno il bulgaro Serghej Antonov.
La cosa singolare è che la moglie ed i figli del magistrato erano rientrati a Roma proprio in quei giorni, pur vivendo abitualmente all’estero. Chi ha scritto la lettera sapeva anche questo?
Rispetto a questo specifico messaggio di minacce a Martella, il magistrato Ferdinando Imposimato si recò a interrogare Gunther Bohnsack, funzionario della Stasi, il quale ne attribuì la paternità al suo gruppo. «Gunther Bohnsack ha fatto questa dichiarazione alla quale si può credere o no», ha affermato Imposimato, «io ho ritenuto di poterla acquisire»253F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 19.
Sempre relativamente a Bohnsack, prendendo sul serio le sue dichiarazioni pur con tutte le riserve già esposte in precedenza, c’è una lettera datata 26/08/1982 inviata da Jurj Andropov, segretario generale dell’URSS al Ministro dell’interno della Germania Est, Erich Mielke, legata all’operazione “Papst” (“Papa”). Tale operazione, spiegò Bohnsack a Imposimato, sarebbe nata la sera dell’attentato al Papa quando da Mosca arrivò una telefonata alla Stasi in cui si avvertiva che bisognava compiere ogni tipo di azione per contrastare un’eventuale inchiesta che potesse accusare l’Unione Sovietica o dei Paesi dell’Est.
Andropov chiedeva di fare «tutto ciò che è necessario per dimostrare lo zampino della CIA e per distruggere le prove. Tutti i mezzi sono consentiti. Bisogna seminare tracce contro la CIA con disinformazione, aggressione, terrore, sequestri, omicidi»254Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 3.
Il magistrato Imposimato sottolineò comunque che «non ci sono riscontri obiettivi. Ecco perché ho alcuni dubbi in merito»255F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 28.
Questa versione è stata smentita da Markus Wolf, capo della Stasi, quando spiegò che nei loro interessi non rientrava Alì Agca, «in quel momento avevamo altri interessi, la Nato, la Germania Ovest, non il Papa». L’unica attività in Vaticano fu capire gli orientamenti della Curia, «ma più in là non andammo».
Questo effettivo interesse a Ilario Martella e al processo sull’attentato al Papa è ravvisabile anche nel comportamento di Marco Accetti, auto-accusatosi di essere stato il regista dell’allontanamento di Emanuela e Mirella, nonché uno dei telefonisti principali.
Oltre ad aver avvalorato la pista internazionale, sostenendo che l’intento era (anche) indurre Agca a ritrattare le accuse ai bulgari, ha lasciato emergere un pregresso rancore nei confronti dell’ex magistrato Ilario Martella, istruttore del processo sull’attentato di Giovanni Paolo II.
Lo si nota durante un confronto televisivo tra i due256Dopo 30 anni vicini alla svolta, Metropolis 19/06/2013 ed in un post nel suo blog, nei quali accusa con veemenza l’ex magistrato di aver “sequestrato” il bulgaro Antonov (cioè tenuto in carcere), accusato da Ali Agca di aver organizzato l’attentato a Giovanni Paolo II.
Accetti ha anche più volte ricordato che il telefonista l'”Amerikano” (cioè lui stesso, secondo le sue rivelazioni) il 20/07/1983 telefonò al priore della chiesa di Santa Francesca Romana dicendo: «Il governo della Repubblica italiana, con il placito dello Stato Vaticano, intende non venire meno al possesso di uno strumento di propaganda quale il detenuto Alì Agca. Pervenendo alla soppressione del 20 luglio, non perdiamo speranza nella volontà di quanti possono adoperare un gesto ultimo e risolutore».
La scelta di quella chiesa, ha spiegato l’uomo, sarebbe stato un riferimento al nome composto in maniera simile della nipote di Ilario Martella (Francesca Maria), giudice istruttore sull’attentato di Alì Agca.
Nel seguente video il confronto tra il giudice Ilario Martella e Marco Accetti (2013):
Occorre però ricordare che l’attenzione sul nome della nipote di Martella era contenuta anche in minacce precedenti al caso Orlandi, scritte in tedesco e provenienti dalla Germania. Nelle missive si leggeva il nome della nipote Francesca chiamata con il nome anagrafico completo Francesca Maria.
Nel 2005 Martella spiegò di non poter dire «che siano stati i bulgari a mandarle. Erano minacce anonime. E’ anche possibile che provenissero dai turchi. Arrivavano da Francoforte».
Le ritenne minacce inquietanti, rivelando: «Tra i miei parenti nessuno sa che mia nipote si chiama Francesca Maria», risultava soltanto al Comune257I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, pp. 14, 15, 17.
h) Avvertimento del Sdece
Dopo l’attentato a Giovanni Paolo II (13/05/81), alla segreteria di Stato Vaticano arrivò un’informativa da parte del direttore dei Servizi segreti francesi (Sdece), il marchese Alexander De Marenches, avvertendo del progetto del Kgb di un possibile sequestro di una cittadina vaticana in cambio della liberazione dell’attentatore Alì Agca.
g) Il monaco della Stasi all’Osservatore Romano
Il magistrato Ferdinando Imposimato, a lungo studioso del caso Orlandi e uno dei principali sostenitori della pista internazionale, ha riflettuto sul fatto che di fronte all’edificio degli Orlandi, in Vaticano, era presente lo stabile dell’Osservatore Romano.
Nell’edificio avrebbe lavorato il monaco benedettino Eugen Brammertz e Imposimato avrebbe verificato che «l’unico punto di osservazione per vedere le persone che entravano e uscivano da casa Orlandi era la finestra dell’ufficio di questo monaco», entrato in Vaticano nel 1977 e morto nel 1987.
Il magistrato era convinto che fosse un agente della Stasi, lo avrebbero riferito gli agenti Markus Wolf e Gunther Bohnsack. Inoltre, lo avrebbe appreso anche da alcuni sacerdoti presso la basilica di Sant’Anselmo i quali, dopo la morte di Brammertz avrebbero trovato documenti comprovanti.
«Egli fu probabilmente uno dei basisti dei rapitori», sostenne Imposimato.
Pur non essendoci prove di questo, non abbiamo motivi per dubitare delle parole e delle verifiche effettuate da Ferdinando Imposimato.
Tutto questo è stato confermato all’apertura degli archivi della Stasi, quando si scoprì la presenza di due spie della Germania Ovest in Vaticano con i nomi “IM Lichtblick” e “IM Antonius”. Dietro al primo c’era il benedettino Eugen Brammertz, mentre il secondo era Alfons Waschbusch, corrispondente del Katholische Nachrichten-Agentur (KNA) a Roma.
Nel suo libro sulle spie in Vaticano, anche John Koehler, ex agente segreto dell’esercito americano e consigliere del presidente Ronald Reagan, fece i nomi di Brammertz e Waschbusch, spiegando che il primo forniva notizie sulla “ostpolitik” di Casaroli e sulla la crescente influenza del clero polacco e dell’Opus Dei dopo l’elezione di Wojtyla.
Sempre negli archivi della Stasi furono anche ritrovate 550 pagine di materiali riguardanti il Vaticano, compresi i verbali riservati dei colloqui tra Papa Paolo VI e politici occidentali, ma anche resoconti dettagliati sulle vicende ecclesiali interne durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Una delle spie, si sostiene, sarebbe stato un religioso polacco la cui identità non è stata ancora chiarita.
Il fatto che i servizi segreti riuscirono a monitorare anche lo Stato del Vaticano, come ogni Stato è sempre stato vittima di spionaggio da parte di servizi esteri, non significa automaticamente che questi ambienti c’entrino con la scomparsa di Emanuela Orlandi (e Mirella Gregori??). Tuttavia, gli elementi citati da Imposimato sono effettivamente un punto a favore della pista internazionale.
4.2 I punti deboli della pista internazionale
Analizziamo quali sono i punti deboli della pista sessuale per il caso di Emanuela Orlandi.
a) Archiviazione del 1997 e del 2015
La pista internazionale venne ampiamente indagata nella prima parte della lunga inchiesta sul caso Orlandi.
Il 19/12/1997, tuttavia, il giudice ispettore Adele Rando concluse le indagini e archiviò il caso mettendo per iscritto che quello della Orlandi non sarebbe stato un rapimento ma una messa in scena depistatrice, evidenziando che il movente politico-terroristico risultò essere privo di fondamento.
Nella seconda sentenza di archiviazione (2015), la Procura scrisse:
«Né la documentazione allegata, né quella acquisita dalla Procura (reperita dalla sentenza n.2675 del 21/03/98 relativa al proscioglimento dei presunti complici di Ali Agca nell’attentato al Papa), né la documentazione dei lavori svolti dalla Commissione Parlamentare Mithrokin, apportavano quegli elementi di novità necessari per far luogo alla riapertura delle indagini rispetto alla matrice terroristica del sequestro»258G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015.
Si fece anche accenno alle conclusioni a cui si pervenne nel 1997, ovvero che il movente politico-terroristico fu «un’abile operazione di dissimulazione dell’effettivo movente del rapimento di Emanuela Orlandi, destinato probabilmente a rimanere sconosciuto». Si concluse, quindi, anche nel 2015 per «l’inesistenza del fine terroristico»259G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015.
b) Il molteplice fallimento degli obbiettivi
Chi sostiene l’ipotesi della pista internazionale dovrebbe spiegare perché tutti i presunti ricatti e/o depistaggi messi in piedi con tanta astuzia, fallirono su tutta la linea.
E’ vero che Ali Agca, cinque giorni dopo la sparizione di Emanuela e un giorno dopo essere stato minacciato in carcere, ritrattò improvvisamente le accuse verso i bulgari, inficiando la sua attendibilità e rovinando il processo. Ma pochi anni dopo tornò ad accusare i servizi segreti bulgari di complicità. Antonov fu assolto dalle accuse soltanto nel 1986.
Un altro obbiettivo sarebbe stato influire sul comportamento del Vaticano verso i paesi dell’Est, ma Giovanni Paolo II non mutò mai la sua dura politica nei confronti del comunismo, nemmeno dopo la sparizione di Emanuela.
Il terzo obbiettivo di cui qualcuno parla è il tentativo di recuperare i soldi che sarebbero stati prestati da oscuri ambienti (mafia? Licio Gelli?) al Banco Ambrosiano (il cui crack avvenne nel 1981 e fu liquidato il 06/08/1982) anche per il finanziamento di Solidarnosc. Non risulta che qualcuno abbia mai recuperato questi ipotetici denari dopo la sparizione della Orlandi.
c) Mai una prova dell’ostaggio in vita
Se i telefonisti e le varie sigle (“Phoenix”, “Turkesh”, “Nomlac”, “Tukum” ecc.) che rivendicarono il rapimento di Emanuela avessero davvero voluto ottenere il ritiro delle accuse di Agca verso i paesi dell’Est, la sua liberazione e il recupero dei soldi spariti con il crack del Banco Ambrosiano, perché non dimostrarono in maniera certa di aver sequestrato la Orlandi?
Certo, come abbiamo visto si sforzarono di produrre dettagli biografici piuttosto precisi di Emanuela, come diverse fotocopie di tessere e iscrizioni alla scuola di musica e una fotocopia del frontespizio di un album con gli spartiti alla giovane.
Molto più semplicemente sarebbe bastata una fotografia di Emanuela con a fianco un quotidiano che mostrasse la data, il classico metodo utilizzato da tutti i gruppi terroristici per stabilire una prova di vita degli ostaggi e negoziare con le autorità per le loro richieste.
I casi sono tre:
1) I presunti sequestratori (telefonisti e autori dei comunicati) avevano solo carpito in qualche modo oggetti e informazioni dettagliate sulla Orlandi senza aver nulla a che vedere con la sua sparizione;
2) I presunti sequestratori (telefonisti e autori dei comunicati) erano entrati in contatto con chi aveva sequestrato Emanuela Orlandi per motivi estranei al ricatto internazionale (nella sentenza di proscioglimento del 1997 si sospettò infatti che ci potesse essere stato «un contatto con il gruppo che per primo aveva ottenuto e utilizzato le informazioni su Emanuela, per appropriarsene e riciclarle a sua volta»260G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 5);
3) I presunti sequestratori (telefonisti e autori dei comunicati) effettivamente erano tali ma non avevano interesse ad un ricatto pubblico con i loro interlocutori e usarono i media soltanto per lanciare allusioni ricattatorie (messaggi, codici ecc.), mentre la vera trattativa sarebbe avvenuta sotto traccia. D’altra parte Agca ritirò le sue accuse due giorni dopo la sparizione della Orlandi, leggendovi un messaggio nei suoi confronti per motivi inspiegabili all’opinione pubblica ma nonostante ciò la Orlandi non fu rilasciata e pochi anni dopo il turco tornò ad accusare i servizi bulgari.
L’ex procuratore Giancarlo Capaldo ha giustamente osservato che «normalmente, i rapitori devono colloquiare con coloro dai quali vogliono ottenere qualcosa e per farlo devono avere la prova del sequestrato in vita. In tutta la vicenda Orlandi i presunti sequestratori, che hanno cercato di intavolare in vario modo trattative con il Vaticano, non hanno mai dato prova di averla in mano».
La non chiarezza di questo aspetto la consideriamo tuttavia un punto di debolezza dell’ipotesi della pista internazionale.
d) Non spiega alcuni elementi chiave
La pista internazionale risulta convincente in molti aspetti, dando una spiegazione verosimile di quanto accadde in quegli anni.
Eppure alcuni elementi chiave del caso Orlandi non vengono affatto chiariti.
Innanzitutto tale ipotesi può spiegare perché il caso Orlandi sia così complesso e intricato, coinvolgendo lo Stato italiano, lo Stato vaticano, servizi segreti italiani ed esteri, gruppi terroristici, mafiosi e malavitosi locali. E’ stato inoltre collegato a diverse altre scomparse/uccisioni misteriose avvenute in quegli anni (Alessia Rosati, Katy Skerl, Jeanette de Rothschild ecc.).
Ma la pista internazionale svelerebbe solo che al caso della sparizione della Orlandi si siano interessati successivamente numerosi ambienti e personaggi, desiderosi di approfittare della situazione per perseguire i loro interessi economici-politici. Non dimostra che Emanuela sia stata rapita proprio da chi operò le presunte trattative ricattatorie..
E che dire della sparizione di Mirella Gregori? La giovane non fu più ritrovata il 7/05/83 e il collegamento con il caso Orlandi avvenne ufficialmente tre mesi dopo tramite il “Komunicato 1” da uno dei principali gruppi di presunti sequestratori, il Fronte Turkesh261P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 75. In che modo tale pista legata all’attentato al Papa e ai soldi del Banco Ambrosiano spiegherebbe la sparizione di una cittadina italiana?
Un altro aspetto inverosimile è come potesse il sequestro di una figlia di un semplice dipendente del Vaticano (Emanuela) e di una semplice cittadina italiana (Mirella) avere la forza di influire sull’atteggiamento del Vaticano verso il comunismo sovietico, condizionare il processo su Alì Agca o addirittura ottenerne la liberazione (era incarcerato in Italia, non in Vaticano) e recuperare i soldi persi nel fallimento del Banco Ambrosiano.
Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che la sparizione di giovani donne poteva venire usata come ricatto per atti di pedofilia verso il mondo ecclesiastico. Eppure, non solo Emanuela non rientrò mai a casa, ma non risulta che vi siano stati religiosi direttamente legati all’allora capo dello Ior, Paul Marcinkus, che vennero macchiati da accuse mediatiche di pedofilia.
Un altro elemento chiave privo di spiegazione è in quale modo il sequestro di alcune adolescenti (come Orlandi e Mirella) avrebbe potuto intenerire il terrorista turco Agca tanto da spingerlo a rovinare completamente la sua reputazione e le accuse ai suoi mandanti? Nel 1997 rivelò di aver distrutto il processo sull’attentato al Papa dopo che ricevette minacce in carcere dagli agenti-magistrati bulgari Petkov e Ormankov, i quali lo intimarono a tacere altrimenti «il cadavere di Emanuela verrà gettato in Piazza San Pietro e poi tu sarai ammazzato»262Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 11.
Perché il killer Alì Agca, già autore dell’omicidio del giornalista Abdi Ipekci e attentatore di Papa Wojtyla, avrebbe dovuto preoccuparsi per il cadavere della Orlandi?
A questo ha risposto Marco Accetti, colui che si è accusato di aver organizzato la sparizione della Orlandi e della Gregori per ottenere proprio la ritrattazione delle accuse di Agca verso i bulgari: «La rappresaglia annunciatagli in carcere dai giudici bulgari in realtà riguardava sua sorella: era Fatma che gli dissero di voler ammazzare e Agca, per tutelarla, nella lettera a Martella parlò non di lei, ma della Orlandi. D’altra parte, minacciarlo attraverso ritorsioni su Emanuela, persona a lui sconosciuta, non aveva senso. Figurarsi al signor Agca, turco e islamico, cosa gliene importava della figlia di un dipendente vaticano»263in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 157.
Un altro elemento inspiegato: se la ritrattazione improvvisa di Agca subito dopo la sparizione della Orlandi è effettivamente un punto a favore, perché il turco tornò presto ad accusare i bulgari per l’attentato al Papa e per averlo minacciato in carcere, comportandosi così in modo opposto al volere degli autori dei comunicati?
Non si capisce inoltre perché l’attentatore turco abbia continuato a farsi passare come pazzo anche a distanza di anni dalla fine del processo, fin dopo la sua scarcerazione. Nel corso del primo dibattimento sull’attentato al Papa la difesa contò 107 versioni diverse e contraddizioni nelle sue dichiarazioni.
Agca ha proseguito fino ai giorni attuali ad affermare che Emanuela sarebbe viva, collocandola in diverse località, accusando la Cia, il Vaticano e altre istituzioni, scrivendo alla famiglia e facendo viaggiare il fratello Pietro per raccontargli fatti rivelatisi bugie. Perché proseguire nel (presunto) depistaggio anche senza interessi personali da ottenere? Oscure ragioni? E’ realmente pazzo? Obbedisce ad una regia nascosta? Ha ancora paura?
Il suo comportamento non è mai sembrato in linea con le ragioni di chi sostiene la “pista internazionale”.
e) I primi telefonisti non erano interessati a Alì Agca
I primi due telefonisti, “Pierluigi” e “Mario”, hanno dimostrato di conoscere particolari inediti su Emanuela a poche ore dalla sua scomparsa. Secondo gli inquirenti ebbero quasi certamente a che fare con la sua sparizione.
La tesi della pista internazionale si scontra però con il fatto che i due anonimi personaggi non erano affatto interessati al processo su Alì Agca o all’attentato del Papa. Vollero invece far passare la vicenda come una semplice scappatella.
La connessione tra Emanuela e la liberazione di Agca verrà fatta per la prima volta nella prima telefonata dell'”Amerikano“, avvenuta il 05/7/1983.
Se erano membri di un unico piano (come è quasi certo che fosse così), come spiegare l’atteggiamento dei primi due telefonisti?
Nessun telefonista o komunicato inoltre si riferì mai, neanche velatamente, alla restituzione di denaro, al Banco Ambrosiano o a Roberto Calvi.
Questo avvalora che la negoziazione avrebbe voluto almeno nelle intenzioni agire sotto traccia? La non chiarezza su questo aspetto lo riteniamo un punto debole della pista internazionale.
L’ex procuratore Giancarlo Capaldo ha osservato poi che «lo scambio tra Emanuela Orlandi e Ali Agca era del tutto incongruo. Agca era un condannato definitivo all’ergastolo e il ricatto avrebbe dovuto essere effettuato nei confronti dello Stato italiano più che del Vaticano. E poi era incomprensibile la scelta dell’oggetto del ricatto: normalmente si sceglie una persona molto legata a chi dovrebbe cedere al ricatto, non una persona genericamente gravitante nell’ambiente».
f) I comunicati ottennero un effetto controproducente
I “Komunicati” delle varie sigle di presunti sequestratori che comparvero dopo la sparizione di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori ebbero in comune il voler passare per amici e solidali di Alì Agca, tentando di portare l’attenzione sugli idealisti turchi e sui Lupi Grigi.
Un’operazione plateale fin dai nomi che si diedero: “Nuova organizzazione musulmana per la lotta anticristiana” e “Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh”, un evidente richiamo al colonnello nazionalista turco Arsaplan Turkesh, l’ideologo dei “Lupi Grigi” e di Alì Agca.
Un’idea assolutamente (o volutamente?) controproducente, realmente pensavano di poter essere creduti?
A parte il primo periodo, inoltre, gli autori dei comunicati apparvero in contrasto con il comportamento dello stesso Agca il quale, come è stato rilevato, produsse infinite dichiarazioni deliranti «con l’effetto chiaro di inficiare le acquisizioni sul “livello” turco delle indagini».
Il “Fronte Turkesh” voleva portare l’attenzione sui turchi e Alì Agca voleva toglierla. Un mese dopo la sparizione della Orlandi il turco, affermò: «Non accetterò nessuno scambio con la ragazza». Disse di non capire l’interesse di queste persone con lui e aggiunse: «Rifiuto ogni scambio con qualcuno, sto bene nelle carceri italiane»264citato in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 91.
Il “Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh” voleva risultare appositamente controproducente? Ma anche questo tentativo appare ovvio, banale e quindi controproducente allo stesso modo. Se non fosse stato per i dettagli biografici e le fotocopie dei documenti che fornirono riguardanti Emanuela e le telefonate ad amiche e compagne per dettare i loro messaggi, nessuno semplicemente li avrebbe mai presi sul serio.
Non si può escludere che l’interesse fosse solo depistare gli inquirenti e la stampa, usandoli per tenere il caso sotto i riflettori e inviando a presunti interlocutori messaggi o codici da interpretare e decifrare. Le minacce del gruppo Phoenix ad altre sigle e ai primi telefonisti sembra dimostrare l’inserimento nel caso di gruppi con obbiettivi opposti o l’azione dei servizi segreti italiani.
Ancora una volta, riteniamo che la non chiarezza su questo aspetto indebolisca la tesi della pista internazionale.
4.3 Conclusioni sulla pista internazionale
L’ipotesi della pista internazionale, sostenuta da autorevoli personalità, effettivamente contestualizza tramite una descrizione piuttosto organica la vicenda Orlandi nello scenario internazionale che in quegli anni vedeva gli Stati dell’est e i loro servizi segreti molto sensibili alle posizioni politiche del Vaticano, così come offre una chiave di lettura all’improvvisa ritrattazione dell’attentatore turco, Ali Agca, pochi giorni dopo la sparizione di Emanuela Orlandi.
E’ impensabile che fossero così ingenui da ritenere di poter essere creduti senza offrire una prova certa della detenzione della ragazza, allo stesso modo è difficile credere che puntassero realmente alla liberazione di Agca tramite comunicati farneticanti e, come abbiamo visto, controproducenti.
Se davvero furono personaggi talmente abili da tenere sotto scacco per anni la stampa e gli inquirenti, sicuramente sapevano che il Vaticano nulla può su una condanna della magistratura italiana, il cui Stato non avrebbe mai rilasciato l’attentatore del Papa in cambio di una adolescente (con tutto il rispetto per la sacralità della sua vita) che, oltretutto, non avevano mai dimostrato di aver rapito.
Lo stesso giudice Ilario Martella, alla domanda di esplicitare concretamente un collegamento fra il sequestro Orlandi e il tentativo di utilizzarlo come
merce di scambio per Agca, rispose: «Non posso dire che esistono elementi concreti, ma solo ipotesi plausibili»265I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 19.
E’ più sostenibile che volessero più semplicemente indurre Agca a ritrattare le accuse ai bulgari? Ciò di fatto avvenne temporaneamente solo pochi giorni dopo la scomparsa di Emanuela (ma non di Mirella).
Dalle sue dichiarazioni, gli avrebbero detto in turco (il bulgaro Petkov parlava perfettamente turco266I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 10): «Il KGB ti comunica che ci saranno altri tentativi per la tua liberazione come il caso Orlandi; devi tacere, altrimenti il cadavere di Emanuela verrà gettato in Piazza San Pietro e poi tu sarai ammazzato»267Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 11.
Al di là dell’attendibilità di Agca, suona strano che si fidarono così tanto dell'”umanità” di un terrorista. Solo un mese dopo, Agca dimostrò di non capire cosa volessero da lui i “sequestratori”.
A tal proposito, occorre precisare la perplessità del giudice Ilario Martella, presente in quei giorni assieme ai due giudici bulgari, di aver saputo di queste minacce soltanto 13 anni dopo (nel 1997): «Può darsi che la minaccia sia stata fatta nei momenti in cui Ormankov ed io andavamo a prendere un caffè, ma non potevo minimamente pensare che un magistrato minacciasse l’imputato. Ove l’avesse fatto, perché Agca non me ne ha parlato allora?»268I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 10.
Inoltre, cosa c’entrava in tutto questo il sequestro di Mirella Gregori, rivendicato dal “Fronte Turkesh”? Forse per indurre il presidente Pertini alla grazia presidenziale? E perché i primi telefonisti non furono interessati né ad Agca, né alla cittadina italiana?
Alla luce di questa analisi riteniamo che i punti di debolezza ridimensionino la credibilità della pista internazionale.
Non a caso gli inquirenti nel 1997, dopo oltre dieci anni di studio di questa ipotesi, hanno concluso sostenendo che non si trattò di rapimento ma soltanto di un depistaggio il quale, semmai, potrebbe avvalorare l’interesse di Stati esteri e servizi segreti internazionali ad Alì Agca e alle sue deposizioni, non certo dimostrare che i rapitori della Orlandi fossero gli stessi autori dei comunicati. Nell’archiviazione del 2015 si parlò chiaramente di «inesistenza del fine terroristico».
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5. EMANUELA ORLANDI E LA BANDA DELLA MAGLIANA
Secondo i sostenitori di questa pista investigativa, la Banda della Magliana, guidata da Enrico De Pedis (detto Renatino), avrebbe rapito Emanuela Orlandi nel tentativo di ricattare il Vaticano per ottenere la restituzione dei soldi che, assieme alla mafia siciliana facente capo Pippo Calò, avrebbe investito (e poi perso con il fallimento) nel Banco Ambrosiano269G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 11.
Una seconda versione ritiene questa pista collegata alla “pista internazionale”, sostenendo che esponenti della Magliana avrebbero avuto soltanto un ruolo di “manovalanza”. Il giudice Rosario Priore ha spiegato che «in Italia abbiamo individuato tante agenzie di servizi, a partire dalla banda della Magliana. Eessi fanno servizi per chiunque glieli chieda»270R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 12.
La pista della Banda della Magliana si è aperta ufficialmente l’11/07/2005 con una telefonata anonima alla trasmissione Chi l’ha visto?:
«Riguardo al fatto di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso, andate a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant’Apollinare, e del favore che Renatino fece al cardinal Poletti, all’epoca, e chiedete al barista di via Montebello, che pure la figlia stava con lei..l’altra Emanuela….e i genitori di Emanuela sanno tutto. Però siccome siete omertosi, non direte un cazzo come al solito!».
L’anonimo telefonista con “l’altra Emanuela” si riferì chiaramente Mirella Gregori. Alla telefonata facevano seguito un fax e alcune lettere anonime pervenute alla trasmissione televisita e presso l’abitazione degli Orlandi271G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 11.
Nonostante la telefonata del 2005 a Chi l’ha visto?, gli inquirenti erano già a conoscenza della salma di De Pedis nei sotterranei della Basilica di Sant’Apollinare. Il 12/12/1995, dieci anni prima, infatti, interrogarono in merito mons. Pietro Vergari, allora rettore della Basilica, il quale confermò la sua amicizia con De Pedis da prima del 1993, quando era cappellano del carcere di Regina Coeli.
Il prelato attestò quanto già contenuto nei documenti di sepoltura, ovvero che De Pedis fu molto generoso con i poveri della parrocchia (più sotto un approfondimento). La moglie dell’uomo, Carla Di Giovanni, chiese la tumulazione nei sotterranei dopo aver finanziato i lavori di risanamento della cripta. Ascoltata in Procura il 9/06/1995, la donna spiegò di aver sostenuto le spese assieme a Marco De Pedis, il fratello di Enrico, per un totale di 37 milioni di lire.
Gli inquirenti accertarono le dichiarazioni, osservando dai documenti del Comune di Roma che la sepoltura avvenne il 24/04/1990 e rilevando il nulla osta alla sepoltura rilasciato dal Vicario di Roma, Ugo Poletti, datato 10/03/1990.
Nonostante la spropositata campagna mediatica sul caso da parte di Chi l’ha visto, altrettanto veementemente osteggiata da Pino Nicotri e dalla vedova di De Pedis, la vicenda della sepoltura di De Pedis si chiuse alla fine del 2012 con l’infruttuosa perquisizione della tomba e dell’intera basilica di Santa Apollinare, nonché il proscioglimento di mons. Vergari.
La Santa Sede in merito manifestò più volte la completa disponibilità all’ispezione della Basilica di Sant’Apollinare, nel 2012 padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, confermò: «Si ribadisce che da parte ecclesiastica non si frappone nessun ostacolo a che la tomba sia ispezionata e che la salma sia tumulata altrove, perché si ristabilisca la giusta serenità, rispondente alla natura di un ambiente sacro».
Prima di soppesare le argomentazioni favorevoli e contrarie alla pista della Banda della Magliana, riteniamo utile analizzare l’effettivo coinvolgimento di alcuni personaggi che sono stati collegati alla vicenda:
5.1 Sabrina Minardi
Sabrina Minardi entrò nel caso Orlandi il 15 marzo 2008, anno in cui si presentò in Procura con la sua testimonianza.
Il 4 giugno 2008 la donna disse agli inquirenti di essere stata l’amante di De Pedis dal 1982 al 1984 il quale, in una sera imprecisata e con l’aiuto di Sergio Virtù, le avrebbe messo in macchina una ragazza, da lei riconosciuta essere Emanuela Orlandi, che consegnò ad un uomo vestito da prete a bordo di un’auto targata Città del Vaticano, alla fine di via delle Mura Aurelie.
Nel video qui sotto la testimonianza di Sabrina Minardi:
Il pubblico ministero la ritenne una lunga e confusa deposizione, rilevando inoltre che la donna in quel periodo era in cura poiché tossicodipendente272G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 12.
In successive interrogazioni (28/10/2008, 18/11/2009, 18/03/2010 e 27/05/2010) raccontò che prima di tale episodio, Emanuela sarebbe stata sequestrata da tre uomini della Magliana (ricordando solo Angelo Cassani), portata all’EUR e consegnata a De Pedis. In un’altra occasione racconterà che venne invece consegnata a Renatino da due donne.
La Orlandi sarebbe stata quindi segregata, prima in una casa appartenente alla stessa Minardi a Torvajanica, poi al n° 13 di via Antonio Pignatelli in un appartamento di Daniela Mobili e con la complicità di Danilo Abbrucciati. La carceriera sarebbe stata la badante.
Nel 1993, disse ancora la Minardi, avrebbe visto De Pedis e Sergio Virtù buttare due sacchi dentro una betoniera in un cantiere, capendo che in uno ci sarebbe stata la Orlandi. Glielo avrebbe poi riferito anche De Pedis, aggiungendo che nell’altro sacco ci sarebbe stato il piccolo Domenico Nicitra. La mattina dopo De Pedis avrebbe negato la presenza della Orlandi nel sacco.
Il 5/11/2008 la Minardi ha invece sostenuto che la ragazza sarebbe stata portata in un paese arabo, mentre nell’ultima audizione del 18/03/2010 ha sostenuto che il corpo sarebbe stato gettato in mare da De Pedis e Virtù.
Al di là delle continue contraddizioni, la Minardi sicuramente dice il falso riguardo il piccolo Nicitra, figlio di un ex boss della Magliana, il quale morì il 21/06/1993, dieci anni dopo il rapimento Orlandi e tre anni dopo la morte di De Pedis. Oltretutto, la donna non è mai riuscita ad indicare il luogo esatto del cantiere.
Quasi nulla delle dichiarazioni della Minardi trovò infatti conferma.
Rispetto all’appartamento-prigione di Emanuela di via Pignatelli, Abbrucciati morì prima della sparizione di Emanuela, mentre la Mobili rispose agli inquirenti che dal 1982 al 1984 si trovava in carcere e non aveva una domestica fissa.
Il 18/01/2010 in un’informativa della polizia, si segnalò che la Minardi stava cercando di ottenere a tutti costi un guadagno dalle sue dichiarazioni mediatiche sia per l’ottenimento di una casa dal Comune di Roma che per pubblicità al suo libro sul caso Orlandi273G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 37.
Nel 2015 la Procura concluse ritenendo la Minardi «un testimone difficile a causa della sua tossicodipendenza e delle pessime condizioni di salute, fisiche e mentali. Le sue dichiarazioni appaiono e sono del tutto inverosimili, oltre che contraddittorie nelle versioni succedutesi nel tempo». Così, «le incongruenze evidenziate sono talmente numerose e macroscopiche da compromettere in toto la credibilità della dichiarante, senza che sia ravvisabile una plausibile spiegazione delle molteplici incoerenze e dei vari contrasti con dati certi»274G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 32, 37.
Inoltre, gli inquirenti rilevarono da un’informativa del 2010 che la Minardi cercava in tutti i modi un guadagno dalle sue dichiarazioni, in particolare pubblicità per il suo libro275G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 20.
C’è un piccolo dettaglio che merita tuttavia attenzione, non tenuto in considerazione nell’istruttoria di archiviazione del 2015.
Il 17/10/1983 in un comunicato legato al caso Orlandi e firmato “Dragan”, si invitò ad indagare su un giocatore della Lazio, Arcadio Spinozzi (si certificò in seguito la sua estraneità). Al termine del messaggio venne disegnato il nome “Sergio”, seguito dalla parola “morte”.
Sabrina Minardi è stata la ex moglie proprio di un giocatore della Lazio, Bruno Giordano ed è lei ad aver accusato Sergio Virtù di aver ucciso, assieme a De Pedis, Emanuela Orlandi. Solo una coincidenza?
La credibilità di Sabrina Minardi è stata avvalorata in parte da Marco Accetti, reo-confesso di aver architettato il finto sequestro di Mirella e Emanuela. Quest’ultima sarebbe stata ospitata in due appartamenti della Magliana nel quartiere Monteverde e nella cittadina di Torvajanica, due luoghi citati anche nella telefonata di “Mario” pochi giorni dopo la scomparsa della Orlandi. «Non si può immaginare che la Minardi possa aver avuto accesso a tali verbali secretati», ha sostenuto Accetti nel 2013, ritenendo la telefonata di “Mario” ancora in parte secretata276M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.
L’uomo ha quindi concluso: «Né si può ritenere che tra tanti quartieri di Roma e tante località marittime possa essersi verificata una mera, fortuita coincidenza nell’essere citati da entrambi i personaggi, “Mario” e la Minardi»277M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.
Un’opinione simile a quella di Accetti è quella espressa nel 2019 dal magistrato Giancarlo Capaldo, ex titolare delle indagini sul caso Orlandi. Riferendosi al ruolo della Banda della Magliana, Capaldo ha sostenuto che alcuni membri «sanno cosa è accaduto».
In particolare, ha aggiunto il magistrato, «ritengo che le dichiarazioni di Minardi che chiamano in causa la Banda della Magliana per il caso Orlandi abbiano un cuore di verità, quindi che vi sia stata una partecipazione di De Pedis e di alcuni altri personaggi indicati dalla Minardi nella vicenda Orlandi. Questa è la mia valutazione che però non è stata seguita ufficialmente dalla Procura di Roma che ha archiviato il caso».
Di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta, nel luglio 2024, Giancarlo Capaldo ha confermato di ritenere la Minardi «non attendibile in tutto, ma la ritengo attendibile su alcuni dati principali», in particolare «l’incontro improvviso con quella che poi ha capito essere Emanuela Orlandi quando de Pedis le ha dato appuntamento al Gianicolo, per consegnarla a un personaggio lungo le mura aureliane. Questa circostanza è importante perché del tutto inaspettata».
Circostanza che sarebbe confermata, ha proseguito Capaldo, dall’intercettazione a Sergio Virtù, autista personale di De Pedis.
5.2 Marco Sarnataro, Carlo Alberto e Giuseppe De Tomasi
Tra il 2008 e il 2009 Salvatore Sarnataro, padre di Marco Sarnataro (deceduto nel 2007), dichiarò che il figlio gli avrebbe rivelato di aver prima pedinato Emanuela Orlandi per le vie di Roma assieme a «uno fra “Gigetto” e “Ciletto”, oppure anche tutti e tre», e poi l’avrebbero sequestrata su ordine di De Pedis. Dopo averla fatta salire su una BMW berlina in una fermata dell’autobus di piazza Risorgimento, senza alcuna resistenza da parte della ragazza, l’avrebbero condotta al laghetto dell’Eur e consegnata a “Sergio” (Sergio Virtù?), autista di De Pedis. Non sarebbe stato a conoscenza della sua morte278G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 20.
La Procura espresse dubbi dovuti alla pessima condizione di salute di Salvatore Sarnataro e al fatto che rilasciò informazioni di seconda mano (ricevute dal figlio), contenenti alcune contraddizioni. Tuttavia, scrissero gli inquirenti, «non si ravvisano motivi per i quali costui avrebbe dovuto attribuire al figlio una così grave condotta»279G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 38 e lo ritenne «certamente attendibile»280G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 41 nell’aver ricevuto queste confidenze dal figlio.
Le contraddizioni di Salvatore Sarnataro riguardarono in particolare la confusa collocazione temporale di quando apprese queste informazioni dal figlio. Non c’è mai stato riscontro sufficiente alle sue dichiarazioni281G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 38, 41.
Va ricordato, pur sempre considerando il notevole lasso di tempo, che Marco Sarnataro sarebbe stato riconosciuto con alta probabilità da due amici di Emanuela, Angelo Rotatori e Paola Giordani, come uno dei giovani che avrebbero pedinato loro e la Orlandi nei giorni antecedenti al sequestro. Altri amici della ragazza avrebbero individuato soltanto Sergio Virtù (Gabriella Giordani) o nessuna delle fotografie mostrate.
Gli inquirenti hanno rilevato tuttavia contraddizioni anche nei racconti dei vari amici di Emanuela, creando dei «limiti di attendibilità derivanti innanzitutto dal considerevole lasso di tempo tra il momento dell’osservazione e quello che in cui l’indagine è stata effettuata (oltre 20 anni)». Senza contare, oltretutto, il possibile condizionamento sui ricordi a causa dell’elevata esposizione mediatica del caso.
Qui sotto il confronto tra l’identikit fatto da Angelo Rotatori e Marco Sarnataro:
Le contraddizioni degli amici di Emanuela rispetto al riconoscimento degli uomini che li avrebbero pedinati nei giorni precedenti la scomparsa della ragazza sono state dettagliatamente sottolineate dal giornalista Tommaso Nelli.
Per quanto riguarda Carlo Alberto De Tomasi e il figlio Giuseppe, abbiamo accennato alla telefonata anonima del 2005 a Chi l’ha visto? che aprì le indagini sui legami tra la Banda della Magliana e il caso Orlandi.
Nel luglio 2008 e nel dicembre 2008 due analisi disposte dalla Procura ravvisarono una similitudine con la voce di Carlo Alberto De Tomasi e quella del telefonista anonimo che chiamò la trasmissione Chi l’ha visto? nel 2005282G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 27.
Una terza consulenza (dicembre 2008) indicò un’elevata corrispondenza con il telefonista “Mario” per Giuseppe De Tomasi (detto Sergione)283G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 26, 27.
Ascoltati in procura nel 2010, padre e figlio hanno negato di essere gli autori della telefonata284G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 27.
Una sentenza del 1994 stabiliva oltretutto che Giuseppe De Tomasi (detto Sergione) fu arrestato il 21/06/1983, giorno prima della sparizione di Emanuela, per riciclaggio di denaro. Dunque non ha potuto essere il telefonista “Mario”.
5.3 Sergio Virtù, Angelo Cassani e Gianfranco Cerboni
Sulla scia delle dichiarazione di Sabrina Minardi, la Procura ha intercettato a lungo i telefoni di Sergio Virtù, Angelo Cassani e Gianfranco Cerboni, senza rintracciare elementi di rilevanza. Almeno per quanto riguarda gli ultimi due.
a) Sergio Virtù ed Emanuela Orlandi
Rispetto a Sergio Virtù, vi fu una intercettazione telefonica del 20/12/2009 tra lui e l’amante Maria Lldiko Kiss, durante la quale la donna gli chiese se la polizia aveva elementi su di lui relativi alla Orlandi. «Orlandi, Orlandi, Orlandi, Orlandi…», rispose l’uomo, «io me le volevo scordà queste cose dopo 23 anni».
Dopo aver sostenuto di volerne parlare di persona e di temere che le indagini possano portare a lui, per questo cambierebbe spesso numero di telefono, aggiunse: «Purtroppo quando ero giovane…stavo in un ambiente un po’ particolare, eravamo tutti scapestrati…però mica me pento di quello che ho fatto, l’ho fatto per i soldi e non me ne frega niente di quello che ho fatto…me interessa andamme a prendere dei permessi lontano, magari ce potrei avè dei problemi che me se ripercuotono contro…»285G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 24.
A questo link è possibile visionare l’intera intercettazione telefonica di Sergio Virtù.
Secondo la Procura, Virtù «è certamente a conoscenza di particolari compromettenti della vicenda»286G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 40, 41, come provato da questa intercettazione e dalla rivelazione di dover cambiare spesso utenze telefoniche perché «ti perseguitano tutta la vita questi».
L’uomo ha negato di aver avuto questa conversazione telefonica mentre la donna ammise di aver affrontato il discorso con lui287G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 24.
Nonostante ciò, gli inquirenti conclusero che «il quadro probatorio rimane insufficiente e troppo incerto per sostenere l’accusa in giudizio nei confronti di Virtù»288G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 41. L’intercettazione accerterebbe al massimo la conoscenza di particolari compromettenti, non certificando però la sua colpevolezza nell’evento.
Mentre le accuse della Minardi sono risultate inattendibili, il riconoscimento fotografico di Sergio Virtù da parte di un’amica di Emanuela (Gabriella Giordani) sugli uomini che li avrebbero pedinati prima della scomparsa ha una «minima attendibilità» secondo gli inquirenti289G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 42 (è stato definito come “vagamente somigliante” dopo un periodo di vent’anni dai fatti, mentre altri amici non hanno identificato lui come uno dei pedinatori).
Nel 2010 un’allieva della scuola di musica di Emanuela, Marta Szepesvari, le sembrò di riconoscere proprio in Sergio Virtù nel giovane che, il giorno prima della scomparsa di Emanuela, fissava l’ingresso della scuola come se attendesse qualcuno290G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 18.
Ricordiamo anche che il nome “Sergio”, come abbiamo già visto, fu disegnato a fiancola parola “morte” nel comunicato firmato “Dragan” del 17/10/83, dove si invitava ad indagare in merito alla Orlandi su un giocatore della Lazio, Arcadio Spinozzi. Sabrina Minardi è stata ex moglie di un giocatore della Lazio, Bruno Giordano e nel 2008 ha accusato Sergio Virtù di aver ucciso, assieme a De Pedis, Emanuela Orlandi.
Infine, nella sua deposizione su quanto gli avrebbe raccontato il figlio Marco, Salvatore Sarnataro indicò il nome “Sergio”, autista di De Pedis, come l’uomo a cui il figlio avrebbe consegnato Emanuela Orlandi dopo il sequestro.
Di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta, nel luglio 2024, Giancarlo Capaldo ha ritenuto importante il riscontro su Sergio Virtù, il cui ruolo sarebbe confermato anche dalla Minardi.
b) Gianfranco Cerboni, Angelo Cassani ed Emanuela Orlandi
Per quanto riguarda Gianfranco Cerboni e Angelo Cassani, chiamati in causa da Sabrina Minardi e Salvatore Sarnataro, la Procura ha più volte certificato i loro stretti legami d’amicizia almeno fino al 1984291G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 24.
Cassani e Cerboni negarono di conoscere Sergio Virtù, non riuscendo nemmeno a riconoscerlo fotograficamente. Tuttavia, in un’intercettazione telefonica dell’11/03/10, parlarono di lui in modo molto amichevole, dimostrando invece di conoscerlo bene: «Pensa a Sergio, poveretto, quello lo hanno bevuto!»292G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 25.
Anche Maurizio Abbatino, collaboratore di giustizia e accusatore della Magliana, ha rilevato nel 2009 alcune confidenze raccolte fra i membri sul coinvolgimento di De Pedis, Angelo Cassani (detto “Ciletto”), Libero Angelico (detto “Rufetto”) e Gianfranco Cerboni (detto “Gigetto”) nel sequestro e nell’uccisione della Orlandi.
Nel video qui sotto, Angelo Cassani rigetta le accuse:
Marco Accetti, reo-confesso di essere stato il regista del sequestro, ha dichiarato di aver coinvolto De Pedis nel caso Orlandi e che alcuni dei suoi uomini di De Pedis, in particolare “Ciletto” (Angelo Cassani) e “Giggetto” (Gianfranco Cerboni), si sarebbero recati nel bar dei Gregori proprio il giorno prima della sparizione di Mirella, quando fu inaugurato il locale.
Il 21/10/1986, su indicazione del cameriere Giuseppe Calì, venne eseguito un identikit del volto di una persona vista dal teste nel bar dei Gregori una settimana prima della scomparsa di Mirella, il quale assomiglia notevolmente al volto di Angelo Cassani.
Nel 2024, Accetti sostenne di essersi presentato in Procura nel 2013 in quanto vi sarebbero state due persone indagate in quel momento che avrebbero potuto fare il suo nome, volle così anticipare gli eventi. Inoltre, sostenne di voler “salvare” una delle due spostando l’attenzione dalla Magliana al Vaticano. Proprio in quel periodo sotto indagine vi erano Sergio Virtù, Angelo Cassani e Gianfranco Cerboni. Tutti assolti nel 2015 (assieme allo stesso Accetti).
Come già detto, Angelo Cassani fu riconosciuto con vari gradi di probabilità da due amici di Emanuela (Gaetano Palese e Angelo Rotatori) come uno dei giovani che li pedinarono prima dela scomparsa della giovane293G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 20.
Qui sotto il confronto tra l’identikit fatto da Angelo Rotatori e Angelo Cassani:
b) Antonio Mancini, Maurizio Abbatino, Maurizio Giorgetti ed Emanuela Orlandi
Nel 2015, la Procura di Roma ha constatato che tra i componenti della Banda della Magliana interrogati dagli inquirenti, a coinvolgere De Pedis con il caso Orlandi sono stati solo i pentiti Antonio Mancini e Maurizio Abbatino.
Sia Mancini che Abbatino hanno dichiarato di aver appreso del coinvolgimento di De Pedis da altri componenti della Banda, senza fare nomi e fornendo agli inquirenti indicazioni generiche294G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 12.
Antonio Mancini, detto “Accattone”, coinvolse De Pedis sostenendo ai magistrati che in carcere, all’epoca della scomparsa di Emanuela, «si diceva che la ragazza era robba nostra (della banda, ndr), l’aveva presa uno dei nostri».
Maurizio Abbatino, collaboratore di giustizia e accusatore della Magliana, nel 2009 rivelò alcune confidenze raccolte fra i membri sul coinvolgimento di De Pedis, Angelo Cassani, Libero Angelico (detto “Rufetto”) e Gianfranco Cerboni (detto “Gigetto”) nel sequestro e nell’uccisione della Orlandi.
Per entrambi la Procura concluse che le informazioni prodotte erano «notizie de relato, non direttamente riscontrabili e comunque relative alla sola posizione del De Pedis»295G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 42.
Maurizio Giorgetti intervenne nel caso Orlandi nel 2010 sostenendo che in epoca precedente alla scomparsa di Emanuela si sarebbe recato in un ristorante in gestione a Giuseppe De Tomasi e avrebbe ascoltato un dialogo tra lo stesso De Tomasi, Ciletto (cioè Angelo Cassani) e Manlio Vitali che parlavano di un prelievo di una ragazzina a scopo ricattatorio per recuperare delle somme di denaro ed esercitare pressioni.
Dopo le verifiche della Procura è stata verificata la totale inaffidabilità di Giorgetti e l’infondatezza delle sue rivelazioni296G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 54.
5.5 Don Piero Vergari, la Basilica di Sant’Apollinare ed Emanuela Orlandi
Dopo la famosa telefonata anonima del 2015 a Chi l’ha Visto?, la Basilica di Sant’Apollinare e il rettore don Piero Vergari sono stati per molto tempo al centro del collegamento tra la Magliana e la Orlandi.
Nel 2015 gli inquirenti hanno tuttavia concluso che dalla perquisizione della basilica, compresi gli accertamenti tecnici nella cripta in cui era sepolto De Pedis e lo studio delle ossa prelevate dagli ambienti circostanti, non si sono ricavati indizi utili297G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 31, 32, 42. Questo «ha escluso il coinvolgimento di mons. Vergari nella vicenda, ipotizzato in considerazione dell’amicizia con De Pedis»298G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 42.
Nessun teste, d’altra parte, ha mai accusato l’allora rettore e, anche se nelle sue dichiarazioni si rilevarono piccole incongruenze rispetto a quelle riferite da Carla Di Giovanni, moglie di De Pedis, queste non determinarono alcuna significativa valenza agli occhi dei magistrati.
Lo stesso don Piero Vergari ha precisato di aver accolto la richiesta della moglie di De Pedis di seppellirlo nei sotterranei di S. Apollinare, chiesa nella quale aveva celebrato il loro matrimonio. La salma, al contrario di quanto riferito dall’opinione pubblica, venne posta nei sotterranei della basilica dove non sono sepolti né Papi né cardinali, in un corridoio abbandonato da oltre un secolo e non situato in terra consacrata.
Nel 2005 don Piero Vergari scrisse questo testo in merito ai fatti:
«Nel carcere mai ho domandato a nessuno perché De Pedis era là o che cosa aveva fatto. Tra le centinaia di persone incontrate dei più diversi stati sociali, parlavamo di cose religiose o di attualità; Enrico De Pedis veniva come tutti gli altri, e fuori dal carcere, ci siamo visti più volte: normalmente nella chiesa di cui ero rettore, sapendo i miei orari e altre volte fuori, per caso. Mai ho veduto o saputo nulla dei suoi rapporti con gli altri, tranne la conoscenza dei suoi familiari. Aveva il passaporto per poter andare liberamente all’estero. Mi ha aiutato molto per preparare le mense che organizzavo per i poveri. Quando seppi dalla televisione della sua morte in Via del Pellegrino, ne restai meravigliato e dispiacente. Qualche tempo dopo la sua morte i familiari mi chiesero, per ritrovare un po’ di serenità, poiché la stampa aveva parlato del caso e da vivo aveva espresso loro il desiderio di essere un giorno sepolto in una delle antiche camere mortuarie, abbandonate da oltre cento anni, nei sotterranei di S. Apollinare, di realizzare questo suo desiderio. Furono chiesti i dovuti permessi religiosi e civili, fu restaurata una delle camere e vi fu deposto. Anche in questa circostanza doveva essere valido come sempre il solenne principio dei Romani “Parce sepulto”: perdona se c’è da perdonare a chi è morto e sepolto. Restammo d’accordo con i familiari che la visita alla cappella funeraria era riservata ai più stretti congiunti. Questo fu osservato scrupolosamente per tutto il tempo in cui sono rimasto rettore, fino al 1991».
Le autorità hanno infine stabilito che la documentazione della sepoltura era completa e trasparente, già nota agli inquirenti anche prima della famosa telefonata del 2015 a Chi l’ha visto?. La moglie di De Pedis si occupò a sue spese di risanamento dei locali della cripta a causa dello stato di abbandono in cui versavano299G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 29.
5.6 Enrico De Pedis ed Emanuela Orlandi
Coloro che hanno coinvolto Enrico De Pedis nel caso Orlandi sono stati Sabrina Minardi, Maurizio Abbatino, Antonio Mancini e Salvatore Sarnataro.
Mentre la Minardi è stata giudicata inattendibile dagli inquirenti, gli altri tre hanno riportato notizie di seconda mano, non verificabili.
Non essendoci nulla di rilevante nella sua sepoltura nei sotterranei della Basilica Sant’Apollinare e non essendo emerso nulla dalle perquisizioni, al di là del clamore mediatico non ci sono motivi concreti e consistenti per accusarlo di aver avuto un ruolo nella vicenda Orlandi e/o Gregori.
Più volte Pino Nicotri, in solitaria rispetto al “martellamento” giornalistico sulla vicenda De Pedis, ha osservato che “Renatino” morì con la fedina penale pulita, dotato di regolare patente, carta di identità valida e passaporto valido per viaggiare all’estero.
L’avvocato della famiglia De Pedis affermò nel 2015: «Sul certificato penale di Renatino vi è solo un episodio di rapina, risalente al 1974, e per cui è stata scontata interamente la pena. Enrico De Pedis non ha mai subito condanne per il reato di associazione a delinquere o per concorso nell’omicidio di alcuno. Inoltre si fa presente che nel processo principale che ha riguardato la cosiddetta Banda della Magliana, la Cassazione ha escluso che questa fosse una organizzazione di tipo mafioso».
I quotidiani dell’epoca confermano che De Pedis «uscì “pulito” dal carcere dopo che le inchieste giudiziarie che avevano portato al suo arresto e a quello di decine di malavitosi della banda della Magliana , erano state mano a mano smantellate dai processi»300L’Unità, 03/02/1990.
Tuttavia è storicamente accertato un suo ruolo da protagonista nella Banda della Magliana e anche le cronache di quegli anni lo definiscono uno dei capi storici della Banda della Magliana, in particolare l’ala della malavita di Testaccio che controllava interi quartieri, nonché uno dei principali “riciclatori” di denaro sporco.
Il dato più rilevante è che Enrico De Pedis fu sepolto nella cripta sotterranea della basilica di Sant’Apollinare, ma in territorio sconsacrato, in modo regolare e trasparente, come confermato dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, dal magistrato Andrea De Gasperis e dal ministro Cancellieri. Fu la famiglia a chiederlo e ottenne il permesso del Vaticano e il via libera dal Comune di Roma.
De Pedis è stato coinvolto nel caso Orlandi anche da Marco Accetti, reo-confesso di essere stato il regista del sequestro. L’uomo ha dichiarato di aver inserito De Pedis nelle operazioni ingannandolo sul fatto che il sequestro di due ragazzine fosse una strada efficace per convincere i vertici dell’istituto Ior a saldare il debito che avevano con la Magliana per i soldi persi nel crack dell’Ambrosiano301citato in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.
Il suo coinvolgimento sarebbe avvenuto alla morte di Roberto Calvi, in quanto «venne meno la compattezza di quell’insieme di persone che a lui prestava i soldi. L’interesse del signor De Pedis sarebbe stato quello di recuperare quanto prestato al dottor Calvi, ma a questa si sarebbe opposto monsignor Marcinkus. Questo si fece presente all’imprenditore: che era necessaria la rimozione del Monsignore o la sconfitta della sua linea politica»302in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 83.
La fazione di Accetti gli avrebbe fatto credere che il sequestro di due ragazzine sarebbe stata una strada efficace per convincere i vertici dell’istituto a saldare303in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 83.
Accetti ha infine riferito che alcuni uomini di De Pedis, in particolare “Ciletto” e “Giggetto”, si sarebbero recati nel bar dei Gregori proprio il giorno prima della sparizione di Mirella, quando fu inaugurato il locale.
Il 21/10/1986, su indicazione del cameriere Giuseppe Calì, venne eseguito un identikit del volto di una persona vista dal teste nel bar dei Gregori una settimana prima della scomparsa di Mirella, il quale assomiglia notevolmente al volto di Angelo Cassani, detto appunto “Ciletto”.
Come abbiamo già detto, il magistrato Giancarlo Capaldo, ex titolare delle indagini sul caso Orlandi, nel 2019 ha sostenuto che «le dichiarazioni di Minardi che chiamano in causa la Banda della Magliana per il caso Orlandi abbiano un cuore di verità, quindi che vi sia stata una partecipazione di De Pedis e di alcuni altri personaggi indicati dalla Minardi nella vicenda Orlandi. Questa è la mia valutazione che però non è stata seguita ufficialmente dalla Procura di Roma che ha archiviato il caso».
Di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta, nel luglio 2024, Giancarlo Capaldo ha sostenuto il coinvolgimento di De Pedis ma non la banda della Magliana. In particolare, ha detto, «è una vicenda personale di Enrico De Pedis che aveva una vicenda personale a sua volta con don Pietro Vergari, nata dalla carcerazione».
L’ex procuratore, inoltre, ha smentito un ricatto della Magliana verso il Papa e il Vaticano, ma fu «un altro genere di attività che viene messa in campo» da “Renatino”.
De Pedis, secondo Capaldo, avrebbe «avuto il ruolo di organizzare il prelevamento e il sequestro della ragazza e poi la restituzione della ragazza a una persona non identificata», tuttavia non avrebbe saputo «neppure perché Emanuela Orlandi era stata sequestrata, né ha partecipato alla gestione di eventuali trattative successive. È da vedere come colui che ha organizzato, sul piano materiale, un servizio di basso livello ma molto utile e particolare per qualcuno». Un riscontro sarebbe l’intercettazione al suo autista personale, Sergio Virtù.
5.7 I punti forti della pista della Magliana
Analizziamo quali sono i punti forti della pista della Banda della Magliana per il caso di Emanuela Orlandi.
a) Movente e contesto temporale
La tesi della Magliana vanta un movente abbastanza verosimile e un’opportuna collocazione temporale.
Una cittadina vaticana sparisce esattamente un anno dopo il fallimento del Banco Ambrosiano, rapita dalla Banda della Magliana nel tentativo di ricattare il Vaticano ed ottenere la restituzione dei soldi che, assieme alla mafia siciliana facente capo Pippo Calò, avrebbe perso.
b) L’intercettazione a Sergio Virtù
Al contrario della pista sessuale e internazionale, quella relativa alla Magliana ha una importante prova oggettiva riguardante Sergio Virtù.
Ci riferiamo all’intercettazione telefonica tra Sergio Virtù, faccendiere e autista di Enrico De Pedis, e l’amante Maria Lldiko Kiss. Come abbiamo già visto, l’uomo fa capire alla donna che il caso Orlandi appartiene al suo passato giovanile quando stava «in un ambiente un po’ particolare», pieno di «scapestrati», ma non se ne pente perché lo ha fatto per soldi.
Gli inquirenti che nel 2015 scelsero comunque di archiviare il caso per insufficienza del quadro probatorio, scrissero che Virtù «è certamente a conoscenza di particolari compromettenti della vicenda».
c) Identikit e riconoscimento facciale
A distanza di vent’anni dai fatti, diversi amici di Emanuela ricordarono diversi episodi di perdimento nei loro confronti prima della scomparsa.
Nel video qui sotto il racconto di Angelo Rotatori di uno dei pedinamenti subiti assieme a Emanuela:
In questa foto, invece, i due identikit prodotti dagli amici di Emanuela sui pedinatori
Lo stesso Angelo Rotatori, oltre ad un’amica di Emanuela, Paola Giordani, riconobbero Marco Sarnataro con “altissima probabilità” (Rotatori) e “molto somigliante” come uno dei giovani che li avrebbe pedinati nei giorni antecedenti alla sparizione di Emanuela, mentre erano in compagnia della ragazza304G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 19).
Angelo Rotatori riconobbe anche, con “alta probabilità”, Angelo Cassani305G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 19, mentre non riconosceva la foto di Sergio Virtù306G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 39.
Ecco il confronto fotografico tra l’identikit di Rotatori e le foto di Cassani e Sarnataro:
Gabriella Giordani individuò invece Sergio Virtù, mentre gli altri non riuscirono a ricordare307G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 19.
Un altro amico, Gaetano Palese, seppur “vagamente” riconobbe fotograficamente Angelo Cassani308G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 20.
Nel 2010, un’allieva della scuola di musica, Marta Szepesvari, riconobbe in Sergio Virtù l’uomo che il giorno prima della scomparsa di Emanuela nel 1983, fissava la scuola come se aspettasse qualcuno309G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 12.
Va sottolineato che il riconoscimento avvenne dopo un «notevolissimo lasso di tempo trascorso»310G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 39 dai fatti e dopo il notevole «inquinamento della genuinità delle ricostruzioni causato dall’enorme rilievo mediatico che ha suscitato il caso»311G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 39. Inoltre, soltanto alcuni degli amici riuscirono a riconoscere dei volti.
Per questo gli inquirenti hanno sottolineato i «limiti di attendibilità» di questi riconoscimenti312G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 40.
Gli amici di Emanuela (Rotatori, Giordani Paola e Gabriella, Cristina Orlandi) ricordarono anche un episodio in cui un’auto con a bordo due giovani si accostò al loro gruppo e toccando il braccio di Emanuela, l’autista disse: “Eccola”313G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 19.
Più rilevante è la forte somiglianza tra l’identikit di un uomo che venne visto nel bar dei Gregori il giorno prima della scomparsa di Mirella e Angelo Cassani, detto “Ciletto”. L’uomo, esponente della Banda della Magliana, è stato coinvolto nel caso Orlandi-Gregori da Sabrina Minardi, il pentito Maurizio Abbatino e Marco Accetti. Quest’ultimo ha collocato Cassani, assieme a “Giggetto”, proprio nel bar dei Gregori.
Qui sotto il confronto tra il volto di Angelo Cassani e l’identikit dell’uomo visto nel bar dei Gregori:
Infine, occorre sottolineare che i vari riconoscimenti fotografici degli amici di Emanuela verso alcuni uomini di De Pedis (in particolare Angelo Cassani, Marco Sarnataro e Sergio Virtù) coincidono perfettamente e in maniera indipendente con la testimonianza di Salvatore Sarnataro, padre di Marco, sul ruolo che quest’ultimo avrebbe avuto nel caso Orlandi (pedinamento + sequestro).
Marco Accetti, reo-confesso di essere stato il regista del sequestro, ha dichiarato di aver coinvolto De Pedis e alcuni suoi uomini nel caso Orlandi, in particolare “Ciletto” e “Giggetto” si sarebbero recati nel bar dei Gregori il giorno prima della sparizione di Mirella, quando fu inaugurato il locale.
Il 21/10/1986, su indicazione del cameriere Giuseppe Calì, fu eseguito un identikit del volto di un uomo visto dal teste nel bar dei Gregori una settimana prima della scomparsa di Mirella, il quale assomiglia notevolmente a Angelo Cassani, detto appunto “Ciletto”.
d) Comunicato sul giocatore della Lazio
Come abbiamo spiegato in precedenza, nell’istruttoria di archiviazione del 2015 non si tenne conto del comunicato firmato “Dragan” arrivato del 17/10/83 che invitava ad indagare, in merito alla Orlandi, su un giocatore della Lazio, Arcadio Spinozzi (si certificò in seguito la sua estraneità). Al termine venne disegnato il nome “Sergio” seguito dalla parola “morte”.
E’ l’unico dettaglio a favore del racconto totalmente contraddittorio fornito da Sabrina Minardi la quale, effettivamente, fu l’ex moglie proprio di un giocatore laziale, Bruno Giordano. Fu lei nel 2008 ad accusare per prima Sergio Virtù di aver ucciso, assieme a De Pedis, Emanuela Orlandi.
Una mera coincidenza? Un depistaggio? E’ probabile, tuttavia riteniamo di valutarlo come un aspetto che arreca credibilità alla pista della Banda della Magliana.
e) Il ristorante di “Pierluigi” e Campo De Fiori
Due dettagli piuttosto rilevanti sono legati ai primi due telefonisti che chiamarono casa Orlandi a poche ore dalla sparizione.
Il primo, “Pierluigi”, nella seconda telefonata disse di telefonare da un ristorante sul mare, con tanto di sottofondo di piatti. Il 19/09/83 in una lettera firmata dal “Gruppo Phoenix”, comparvero minacce proprio a “Pierluigi” avvertendolo: «E’ assai pericoloso stare in quella trattoria con le spalle verso la porta perché ci sono troppe “correnti d’aria”: un nostro vecchio “amico” ha fatto una brutta fine davanti ad un piatto di spaghetti».
Nel 2006, Antonio Mancini, uno dei boss della banda della Magliana e collaboratore di giustizia, affermò di aver riconosciuto nella voce di “Mario” uno dei killer della Magliana, col soprannome di Rufetto, ovvero Libero Angelico. Per Mancini costui era «alle dipendenze unicamente di De Pedis, era il suo sicario personale e già all’epoca possedeva un ristorante a Trastevere»314citato in O. Lupacchini, M. Parisi, Dodici donne un solo assassino?, Koiné 2006, pp. 48, 49. Il confronto della voce tra Mario e Libero Angelico, realizzato dalla polizia, diede però esito negativo.
Perché “Pierluigi” specificò di parlare da un ristorante? Marco Accetti nel suo Memoriale confermò il collegamento fatto da Antonio Mancini e scrisse: «Costui dice di chiamare da un ristorante (il noto ristorante di Torvaianica frequentato da vari protagonisti di questi fatti). Fui io personalmente a registrare il rumore di sottofondo al ristorante “Pippo l’Abruzzese” di Tor Vaianica […]. Nel caso la telefonata potesse essere registrata e sottoposta al giudizio di un esperto, le caratteristiche specifiche di alcuni rumori potevano far risalire proprio a quell’ambiente».
Un secondo dettaglio è contenuto anch’esso nelle parole del primo telefonista quando disse di aver visto Emanuela vendere collane in Campo de Fiori.
Tale piazza è nota sui quotidiani locali per essere stata il luogo degli usurai (detti “cravattari”), il cui commercio era alimentato dai denari provenienti da organizzazioni mafiose e sodalizi terroristici. In una stradina adiacente alla piazza aveva un negozio di elettrodomestici Domenico Balducci, dove intratteneva rapporti con la mafia siciliana, Tommaso Buscetta, Flavio Carboni (coinvolto nella morte di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano) e “Pippo” Calò.
A questo dettaglio ha fatto riferimento ancora una volta Marco Accetti, sottolineando che «”Pierluigi” parla anche della piazza Campo de Fiori, luogo in cui aveva il negozio Edoardo Balducci, esponente della Magliana, nel quale praticava l’usura per conto di Pippo Calò, noto durante la latitanza come Mario Aglialoro, lo stesso nome usato dal secondo telefonista, “Mario”».
5.8 I punti deboli della pista della Magliana
Analizziamo quali sono i punti deboli della pista della Banda della Magliana per il caso di Emanuela Orlandi.
a) L’archiviazione del 2015
Il principale punto debole dell’ipotesi che coinvolge la Banda della Magliana nel caso Orlandi è la decisione della Procura di Roma nel 2015 di archiviare il caso, non rilevando un quadro probatorio sufficiente a carico degli esponenti della malavita romana. Addirittura, si legge che «la pista principale della Banda della Magliana non ha rilevato alcun coinvolgimento degli appartenenti a tale organizzazione criminale con la scomparsa della ragazza»315G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 62
Più dettagliatamente, negli atti conclusivi si legge:
«In definitiva, alla stregua degli imponenti accertamenti investigativi attuati con straordinaria capillarità, gli elementi emersi in favore dell’ipotesi di un coinvolgimento della Banda della Magliana nella scomparsa di Emanuela Orlandi, di intensità e grado diversi nei confronti degli odierni indagati e di coloro che sono deceduti non possiedono senz’altro, per nessuno degli indagati iscritti quella consistenza tale da imporre l’esercizio dell’azione penale e giustificare, dunque, il vaglio dibattimentale»316G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 43, 44.
b) Un piano troppo sofisticato
La Banda della Magliana era costituita da killer professionisti, criminali legati alla droga, alla mafia calabrese. I loro atti criminali erano solitamente costituiti da attentati a freddo tramite colpi di pistola.
E’ inverosimile che dei feroci malavitosi romani abbiano potuto architettare un piano sofisticato e genialmente stratificato come il sequestro Orlandi-Gregori e la complessa opera di strumentalizzazione, formata da codici, allusioni e depistaggi.
Avrebbero dovuto distrarre la stampa e gli inquirenti con telefonate e comunicati riguardanti il giudice Ilario Martella, Alì Agca e la sua liberazione, mentre dall’altra avrebbero mantenuto una trattativa segreta con i loro interlocutori (lo Ior?) sui soldi investiti nel Banco Ambrosiano.
Tutto questo, oltretutto, fornendo dettagli biografici precisi sulle due ragazze (oltre a fotocopie di oggetti personali di Emanuela) ma senza esibire la prova decisiva della loro detenzione. Infine, probabilmente usarono una tecnologia d’avanguardia capace di impedire il rintracciamento delle telefonate, facendole rimbalzare in posti diversi.
Non è così che agivano De Pedis e gli esponenti della Magliana, un loro ruolo di primo piano va decisamente escluso.
c) Perché l’interesse per Agca e la sua liberazione?
Escluso il fatto che dei malavitosi romani come quelli della Magliana avessero potuto escogitare un piano così sofisticato da usare la liberazione di Agca come oggetto di distrazione per perseguire i loro veri interessi, a cosa poteva interessare a De Pedis e Sergio Virtù il fatto che il terrorista turco ritirasse le sue accuse verso i bulgari nell’ambito dell’attentato al Papa?
Il telefonista l'”Amerikano” e le sigle comparse successivamente (“Fronte Turkesh” ecc.) erano unicamente interessate ad Agca e alla sua liberazione. Lo stesso idealista turco, dopo aver collaborato per due anni con gli inquirenti, ritirò improvvisamente le sue accuse ai servizi segreti bulgari due giorni dopo la sparizione della Orlandi.
Questo è un altro aspetto totalmente incomprensibile se si vuole porre De Pedis e la Magliana come protagonisti del caso Orlandi-Gregori.
d) Nessun pentito ha mai parlato della vicenda Orlandi
L’ex magistrato Otello Lupacchini, titolare dell’Operazione Colosseo che ha smantellato la Banda della Magliana grazie a pentiti e arresti eccellenti, è intervenuto per screditare l’attendibilità di un ex membro della Banda, Marcello Neroni e le sue accuse a Papa Wojtyle di essere coinvolto con il caso Orlandi.
Il magistrato ha anche aggiunto che all’epoca delle indagini e dei pentiti che hanno ricostruito le vicende anche interne della Magliana, nessuno ha mai nominato la vicenda Orlandi, nonostante vennero fatti diversi nomi di uomini dello Stato e di piste più o meno fantasiose per risolvere i grandi misteri italiani in cui la Banda spunta sempre fuori.
5.9 Conclusioni sul coinvolgimento della pista della Magliana nel caso Orlandi
L’ipotesi del coinvolgimento della Magliana ha, come detto, un movente e un contesto temporale molto forti.
Inoltre, al contrario delle altre piste, può vantare due importanti riscontri oggettivi: l’intercettazione di Sergio Virtù, nel quale ammette la sua compromissione con il caso (oltre ad essere riconosciuto dall’amica di Emanuela, Gabriella Giordani, come uno dei pedinatori nei giorni prima della sparizione), e la forte somiglianza di Angelo Cassani all’identikit realizzato da un cameriere del bar dei Gregori sull’uomo che fu visto nel locale il giorno prima della sparizione di Mirella.
D’altra parte, il coinvolgimento della Magliana ha trovato qualche riscontro anche dagli inquirenti che, tuttavia nel 2015 archiviarono il caso non rilevando prove tanto consistenti a livello penale.
Altrettanto forti sono però i punti di debolezza, non è infatti possibile che dei killer rozzi e violenti come i testaccini abbiano ideato un piano così sofisticato da sopravvivere a due archiviazioni (1997 e 2015) e scervellare decine di giornalisti, magistrati e investigatori senza arrivare a una soluzione. Oltretutto portano un caso di malavita locale a sembrare un grande complotto internazionale.
Un’ipotesi, quella della Magliana, che ha avuto più valore di quanto ne meriti, colpa senz’altro dell’opinione pubblica e della trasmissione Chi l’ha visto?, che ha sposato univocamente tale pista divulgandola ossessivamente e crogiolandosi nella possibilità di coinvolgere fantomatici alti prelati e monsignori in traffici di sesso e denaro. Il tutto è terminato con un grande flop mediatico.
Lo scenario più verosimile è invece quello che vede esponenti della Magliana coinvolti in maniera marginale nel caso Orlandi, un ruolo di manovalanza, permettendo dunque un legame tra questa tesi e quella della “pista internazionale” e superando, così, i punti deboli che abbiamo sottolineato.
Tale ipotesi collima con la versione fornita dal reo-confesso Marco Accetti, il quale riferì di aver coinvolto De Pedis e alcuni suoi uomini in una «limitata partecipazione logistica e di copertura», in particolare per quanto riguarda i pedinamenti prima della scomparsa, il coinvolgimento di De Pedis il giorno del “finto” sequestro della Orlandi e la messa a disposizione di due loro appartenenti (quello di Monteverde e quello di Torvajanica). In cambio, ha sostenuto, «avrebbero ottenuto principalmente come interscambio alcune entrature all’interno della Città del Vaticano per alcune loro esigenze di investimento finanziario»317M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.
Una partecipazione isolata da parte del solo De Pedis è stata avvalorata anche dall’ex magistrato Giancarlo Capaldo. Il quale, tuttavia, ha dato troppo peso al racconto sconclusionato e poco credibile di Sabrina Minardi sull’auto targata Città del Vaticano e guidata da un «un prete vestito da prete con il cappello a falde larghe» (neanche in borghese!), che avrebbe prelevato Emanuela Orlandi da lei consegnata presso il benzinaio del Vaticano su indicazione di De Pedis.
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6. ROBERTA HIDALGO E EMANUELA ORLANDI
La tesi della fotografa Roberta Hidalgo è la più incredibile di tutte.
Emerse pubblicamente nel 2012 con l’uscita del suo libro L’affaire Emanuela Orlandi, anche se la Procura ha rilevato che già nel novembre 2002 una giornalista reporter si presentò presso gli uffici riferendo di aver visto e fotografato casualmente, mentre si trovava a Piazza San Pietro318G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 52.
La Hidalgo ha sostenuto di aver riconosciuto Emanuela Orlandi in una fotografia da lei scattata in Piazza San Pietro. Per coincidenza, la stessa donna sarebbe apparsa sullo sfondo anche di una seconda foto che la Hidlago scattò tempo dopo a sua figlia davanti ad un gelataio, sempre nei dintorni di piazza San Pietro. La Hidalgo avrebbe poi incrociato personalmente la donna in un supermercato della zona319R. Hidalgo, “L’affaire Emanuela Orlandi” (Edizioni Libreria Croce): intervista a Roberta Hidalgo, intervista a Radio Radicale, 24/04/2012.
In una delle aree più affollate d’Europa, Emanuela Orlandi gironzolerebbe in piazza San Pietro e sarebbe casualmente comparsa per due volte in due fotografie scattate in tempi diversi dalla stessa persona, la quale sempre per coincidenza l’avrebbe anche incontrata di persona in un’altra occasione. Senza che nessun’altro si sia accorto di lei.
La fotografa ha sostenuto inoltre di aver pedinato “Emanuela”, la quale sarebbe entrata nell’appartamento del fratello Pietro Orlandi.
Dopo numerosi appostamenti e indagini personali, iniziate nel 1999, la Hidalgo ha sostenuto che Anna Orlandi non sarebbe la vera zia di Emanuela, ma la madre e che Emanuela sarebbe nata dalla relazione con monsignor Paul Marcinkus. Inoltre, la stessa zia Anna non sarebbe di Pietro Orlandi, nonno di Emanuela, ma addirittura di papa Pio XII.
La Hidalgo sostenne di aver capito tutto questo confrontando le fotografie e grazie ai suoi studi di anatomia del volto.
La scomparsa di Emanuela, secondo la fotografa, sarebbe stata architettata dal capo dello Ior, Marcinkus (vero padre di Emanuela), così da spostare l’attenzione mediatica dal Banco Ambrosiano, dallo Ior, da Calvi ecc., dirottandola altrove.
Non è ancora finita: Emanuela Orlandi vivrebbe assieme al fratello Pietro e ai suoi figli, fingendo di essere sua moglie, mentre Patrizia Marianucci, vera moglie di Pietro, abiterebbe in una casa in campagna.
Questo elemento emergerebbe dal materiale biologico prelevato di nascosto dalla Hidalgo a vari esponenti della famiglia Orlandi, tesi che sarebbe confermata da una perizia del Dna firmata dal noto criminologo Francesco Bruno: «In sintesi», si legge, «si può dire che la donna che convive con Pietro Orlandi da almeno 10 anni non presenti molti elementi in comune con Patrizia Marinucci, ma che al contrario presenta numerose somiglianze con la sorella di Pietro, la scomparsa Emanuela».
Il Dna di “Emanuela Orlandi” sarebbe inoltre compatibile con quello di Anna Orlandi.
Un’altra prova fornita da Hidalgo è che Emanuela, cioè colei che vivrebbe a casa di Pietro Orlandi, verrebbe soprannominata “Mandi” dal fratello e dai figli, elemento scoperto grazie ad una cimice posizionata dalla Hidalgo in casa di Pietro Orlandi.
Sottolineiamo che una tesi quasi identica è stata pubblicata successivamente nel libro La Figlia del Papa dal portoghese Luis Miguele Rocha. In questo caso la Orlandi sarebbe però figlia di Giovanni Paolo II (e non di Marcinkus) e l’autore sostiene anche di averla incontrata personalmente.
Pietro Orlandi ha querelato la Hidalgo chiedendo anche il ritiro del libro ma il giudice senza successoha negato sia il sequestro del libro che l’azione legale risarcitoria.
Non volendo scartare a priori nessuna ipotesi, procediamo ad analizzare i punti di forza e di debolezza della tesi di Roberta Hidalgo.
6.1 I punti forti della pista di Roberta Hidalgo
Analizziamo quali sono i punti forti della pista Hidalgo per il caso di Emanuela Orlandi.
a) La perizia di Francesco Bruno
Al di là della comparazione di foto, l’unica “prova” fornita da Roberta Hidalgo è la perizia genetica firmata dal criminologo Francesco Bruno.
Essendo la vicenda talmente surreale, la perizia andrebbe però quantomeno replicata da altri professionisti, ancor meglio che non si siano mai occupati del caso Orlandi.
Sottolineiamo che Francesco Bruno, deceduto nel 2023, è stato docente di psicologia forense alla Sapienza di Roma e funzionario dal 1978 al 1987 della divisione tecnico-scientifica del SISDE, i servizi segreti italiani.
b) Mancanza di chiarimento degli Orlandi
E’ più che comprensibile che la famiglia Orlandi non abbia voluto replicare pubblicamente alla Hidalgo se non tramite una querela, è un’operazione offensiva e scandalistica nei loro confronti che espone al grande pubblico la loro intimità familiare. Inoltre, si capisce che non vogliano regalare pubblicità gratuita.
Agli occhi dei sostenitori di questa tesi, tuttavia, un mancato chiarimento da parte degli Orlandi viene letto come l’impossibilità imbarazzata di fornire una versione alternativa. Basterebbe procedere ad una seconda perizia genetica per liquidare definitivamente questa vicenda.
Occorre infatti considerare che perplessità sul comportamento della zia Anna Orlandi, indipendentemente dalla loro fondatezza o meno, sono state avanzate dai sostenitori della “pista sessuale”, come Pino Nicotri e l’avv. Gennaro Egidio, ex legale degli Orlandi.
6.2 I punti deboli della pista di Roberta Hidalgo
Analizziamo quali sono i punti deboli della pista Hidalgo per il caso di Emanuela Orlandi.
a) Mancanza di prove oggettive
Affermazioni sconvolgenti necessitano di prove sconvolgenti.
Il racconto di per sé assurdo fornito da Hidalgo si dipana in un infinito corollario di altrettante apocalittiche conseguenze, il tutto basato su qualche fotografia, qualche somiglianza, un soprannome (manca la prova audio che Pietro e i figli chiamerebbero “Mandy” la donna che vivrebbe con loro) e una perizia di un criminologo su un assorbente (che la Procura nemmeno ha voluto considerare dato che non se ne parla negli atti).
Non basta scrivere un libro per sostenere che Emanuela sia figlia di un cardinale e della zia, la quale sarebbe a sua volta figlia di un Pontefice e che Pietro Orlandi passi la vita con sua sorella, fingendo che sia la moglie e facendo crescere i figli lontani dalla vera madre.
Si aggiunga la necessità di credere che Emanuela girerebbe tranquillamente per piazza San Pietro nonostante sia ricercata da trent’anni, implicando così che tutta la famiglia Orlandi (i loro amici e i loro parenti) stia mentendo da decenni agli inquirenti e a tutto il mondo.
Chiamarla “pista” o “ipotesi” è fin troppo generoso, soprattutto per la totale mancanza di riscontri oggettivi.
b) Le fotografie dimostrano il contrario
La stessa Roberta Hidalgo ha ammesso che la presunta Emanuela da lei fotografata differisce dalla vera Emanuela in quanto mostra i lobi delle orecchie completamente diversi.
La fotografa tuttavia ha giustificando tale differenza con il fatto che «se li può essere tagliati!». Una risposta tanto incredibile da essere al livello della tesi sostenuta.
Se si osservano le fotografie di Patrizia Marinucci accanto alle figlie si percepisce chiaramente la netta somiglianza del viso e, in particolare, l’identica conformazione dei lobi delle orecchie. Molto diversa, al contrario, da quella di Emanuela Orlandi (immagine sulla destra)
c) L’archiviazione del 2015
Nell’archiviazione del caso Orlandi del 2015, la Procura di Roma ha affermato di aver acquisito le immagini fornite dalla Hidalgo e le fotografie meno recenti di Patrizia Marinucci al fine di compararle con quelle di Emanuela Orlandi.
La conclusione è stata il respingimento della tesi poiché «la comparazione ne escludeva l’identità»320G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 52.
d) Assenza del movente
Anche dando per vero il complesso racconto di Roberta Hidalgo, a che scopo Pietro Orlandi dovrebbe vivere e far vivere i suoi figli con Emanuela e non con sua moglie?
Se Paul Marcinkus avesse davvero ideato il sequestro per distrarre l’opinione pubblica dallo Ior e dal Banco Ambrosiano, perché avrebbe scelto di coinvolgere proprio sua figlia Emanuela e non un’altra adolescente, perché architettare tutto il complesso e stratificato scenario (telefonisti, sigle anticristiane, komunicati, appelli al Papa e al presidente della Repubblica, Mirella Gregori ecc.) che di fatto è il caso Orlandi?
Non ha alcun senso.
6.3 Conclusioni sulla pista di Roberta Hidalgo relativa ad Emanuela Orlandi
Abbiamo analizzato la tesi di Roberta Hidalgo soltanto perché anche la Procura della Repubblica ha scelto di dedicarvi del tempo.
Si tratta però di uno scenario apocalittico, privo di movente, di logica e di prove documentate, basato sulla perizia genetica di un assorbente (non consultabile) e sulla comparazione di foto che smentiscono la tesi stessa (per ammissione della stessa Hidalgo).
L’unico obiettivo era il successo editoriale, prontamente imitato dal portoghese Luis Miguele Rocha con il suo libro La figlia del Papa.
Due racconti fantasy, da scartare senza alcun dubbio.
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7. EMANUELA ORLANDI E IL RUOLO DI MARCO ACCETTI
Marco Fassoni Accetti è un fotografo e autore cinematografico, nato in Libia nel 1955 e arrivato (per la seconda volta) in Italia nel 1970 con la famiglia in qualità di profugo321G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.
Il 27/03/2013 si presenta in Procura per riaprire un caso giudiziario che lo ha riguardato in passato, l’omicidio di José Garramon322G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43.
Nel dicembre 1983, infatti, Accetti investì e uccise con il suo furgone il piccolo Josè Garramon, 12 anni, figlio di un funzionario uruguayano delle Nazioni Unite, nella pineta di Castel Fusano (Roma). Fu inizialmente processato per omicidio volontario e poi condannato solo per omicidio preterintenzionale, scontando 2 anni in carcere.
«Eravamo pochi laici che aiutavano pochi ecclesiastici», ha aggiunto il fotografo, invitando i suoi sodali «a presentarsi e contribuire con la testimonianza, coscienti che non si trattò di fatti ferali». Oltre a loro, l’appello fu rivolto ad alcune donne che avrebbero partecipato come complici.
Per quanto riguarda Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, si è accusato di aver architettato l’operazione e di essere stato il telefonista “Mario” e l'”Amerikano”. Sarebbero stati due allontanamenti volontari, anche se le ragazze furono da lui (e dal suo gruppo) indotte tramite l’inganno nell’ambito di uno scontro politico-ideologico tra due fazioni vaticane interessate a influire in modo occulto la politica estera ed economica della Santa Sede, in particolare nei suoi rapporti con i Paesi dell’Est.
Riteniamo Marco Accetti una persona realmente informata dei fatti, per questo prima di analizzare e valutare la sua complessa testimonianza (è stato ascoltato dagli inquirenti 11 volte, dall’aprile al luglio 2013) riassumiamo le principali sezioni del suo racconto, verificando fin dove è possibile gli elementi forniti.
a) Perché Marco Accetti si è presentato nel 2013?
In tutti questi anni, Marco Accetti ha elencato vari e numerosi motivi per cui decise di uscire alla scoperto e presentarsi in Procura dopo trent’anni.
L’uomo ha sostenuto inizialmente che all’epoca avrebbe patito accuse ingiuste e voleva «chiudere moralmente quel caso, che all’epoca non potevo delucidare pienamente in quanto avrei dovuto motivare la mia presenza in quell’area». Secondo Accetti, indagando nuovamente sul caso Garramon e identificando gli autori del messaggio a firma “Phoenix” del 19/09/83 si sarebbe potuto giungere a far luce anche sulla sparizione di Emanuela e Mirella.
Negli Atti del processo si legge323G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45 che Accetti più volte ha invitato la Procura a indagare al fine di identificare gli autori del messaggio di “Phoenix” nel quale verranno minacciati i primi due telefonisti, “Pierluigi” e “Mario”. In particolare, le parole rivolte al secondo citano la “pineta”, lo stesso luogo in cui Accetti investì e uccise Garramon: «Vogliamo generosamente ricordare a Mario che nella pineta c’è tanto posto per aumentare la vegetazione».
Accetti avrebbe deciso di presentarsi nel 2013 anche perché indotto dall’elezione di un Papa non curiale (Francesco divenne Papa il 13/3/2013) che avrebbe fatto venir meno coesioni interne alla Curia romana, aiutando all’emergere dei responsabili delle sparizioni324G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43.
Nel 2015 Accetti ha rivelato inoltre che avrebbe voluto comparire 10 anni prima, alla morte di Giovanni Paolo II, se non fosse stato eletto «un pontefice curiale». Aggiunse che «della mia intenzione resi partecipi in quel mese di Aprile del 2005, alcuni sodali con cui condivisi le responsabilità per i suddetti fatti degli anni 80. Seppi che alcuni di costoro, temevano io potessi fare i nomi dei responsabili dell’omicidio di Catherine Skerl». Il caso della Skerl è analizzato più sotto.
Nel 2024, Accetti aggiunse altro alla sua versione: «Il primo motivo per cui mi presentai nel 2013 è che dopo 30 anni era decaduta la possibilità di essere accusati di sequestro di persona, inoltre c’era un’inchiesta in corso e c’erano due persone che mi conoscevano e non potevo sapere l’esito dei loro interrogatori, se loro parlassero o meno. Se avessero parlato si sarebbero forse aperte le porte del carcere, quindi ho anticipato l’eventuale mossa presentandomi»325M. Accetti, Mostro di Firenze – Caso Orlandi – Ospite Marco Fassoni Accetti, intervista Youtube per il canale I MOSTRI DI FIRENZE, 29/11/2023.
Una di queste persone sotto indagine, ha aggiunto, «io la dovevo salvare, per cui ho portato la mia testimonianza deformandola, esagerandola, in modo da rovinare la situazione che era tutta spostata sulla cosiddetta Banda della Magliana e io l’ho ricondotta sulla città del Vaticano»326M. Accetti, Mostro di Firenze – Caso Orlandi – Ospite Marco Fassoni Accetti, intervista Youtube per il canale I MOSTRI DI FIRENZE, 29/11/2023.
Nel seguente video le parole di Accetti sulla persona “da salvare”:
Analisi e verifiche sui motivi per cui si è presentato nel 2013
Sintetizzando le varie motivazioni edotte negli anni, si può dire che Accetti si è presentato per questi motivi:
- Riaprire il caso Garramon e scoprirne i veri responsabili
- L’elezione di un Papa “non curiale” come Francesco che avrebbe fatto venir meno alcune coesioni interne al Vaticano
- Temeva che due persone indagate in quegli anni potessero fare il suo nome
- Intendeva salvare una di queste persone, lo avrebbe fatto spostando l’attenzione dalla Magliana al Vaticano
Il dato interessante è la volontà di salvare una persona indagata, poco prima di affermare di aver «esagerato» la sua testimonianza nel 2013 per spostare l’attenzione dalla Banda della Magliana.
Se ne deduce che tale persona fosse un esponente della criminalità romana e in quel periodo, sotto i riflettori degli inquirenti vi erano Sergio Virtù, Angelo Cassani (“Ciletto”) e Gianfranco Cerboni (“Giggetto”). Furono assolti nel 2015 assieme allo stesso Accetti (oltre a Pietro Vergari e Sabrina Minardi)327Caso Orlandi-Gregori, archiviata l’inchiesta sulla scomparsa delle due ragazze, Il Messaggero, 20/10/2015.
Nella sua deposizione, Accetti dirà di aver coinvolto proprio Cassani e Cerboni (oltre a De Pedis), si sarebbero infatti recati nel bar dei Gregori proprio il giorno prima della sparizione di Mirella, quando fu inaugurato il locale.
7.1 La biografia di Marco Accetti prima del caso Orlandi
Marco Accetti è nato a Tripoli (Libia) il 1955, figlio di Aldo Accetti e Silvana Fassoni, fratello di Laura Accetti.
Nel 1963 è in Italia e frequenta il collegio La Storta sulla via Cassia (l’attuale St. George), poi torna in Libia fino al 1970 quando rientra in Italia con la famiglia in qualità di profugo328G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.
Nel 1967 Accetti frequentò le scuole medie all’Istituto Giuseppe De Merode329M. Accetti, Memoriale, 16/06/2014, il cui direttore spirituale era don Pierluigi Celata, dopo poco diventato diplomatico in Vaticano.
Successivamente frequentò il liceo Giulio Cesare, dove conobbe e divenne amico Andrea Ghira, uno degli autori del “massacro del Circeo”, un tragico caso di rapimento, tortura e stupro di due giovani donne (una di esse morì) che avverrà nel settembre 1975. Nello stesso periodo conobbe anche Angelo Izzo, l’autore principale del massacro pur «senza mai sviluppare un’amicizia»330M. Accetti, Mostro di Firenze – Caso Orlandi – Ospite Marco Fassoni Accetti, intervista Youtube per il canale I MOSTRI DI FIRENZE, 29/11/2023.
Attraverso mons. Celata, Accetti avrebbe conosciuto ecclesiastici della Curia romana di origine lituana e francese, tra i quali mons. Audrys Juozas Backis, che nel 1973 divenne membro del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa. Accetti avrebbe quindi sposato la causa lituana331G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43
Agli Atti risulta che Marco Accetti frequentò cortei e manifestazioni con il partito di destra MSI per poi schierarsi con il partito radicale332G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.
Nel 1972, all’età di 17 anni, Accetti fu arrestato a seguito di un assalto fascista al liceo Tasso. Le cronache dell’epoca lo videro accusato di incendio doloso, danneggiamento aggravato e resistenza a pubblico ufficiale. L’uomo sostiene essere stato assolto al quel processo, non ha tuttavia prodotto la sentenza che lo dimostri.
Secondo il racconto fatto da un uomo di origine araba ma da tanto tempo in Italia, suo stretto conoscente di allora, fu in questo periodo che Accetti iniziò a frequentare gli stabilimenti De Laurentiis, affascinato dalla scenografia del film di Luigi Magni Nell’anno del Signore (1969). Avrebbe iniziato così a creare le sue installazioni artistiche333in P. Nicotri, Emanuela Orlandi. Flauto di Marco Fassoni Accetti dai resti di studio cine Roma?, BlitzQuotidiano, 12/06/14.
Attorno al 1976-1977 sarebbe stato invitato da un religioso diplomatico a fotografare e immortalare incontri tra ecclesiastici che avevano il “vezzo” di riferire notizie delle attività del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa a persone riferibili a certi circoli d’interesse “occidentale”, tra cui mons. Achille Silvestrini, segretario del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, spesso nei pressi del Club di Roma. Lo avrebbe fatto in cambio di attrezzatura cinematografica da usare per le sue attività334G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43.
Dal 1978, con l’elezione di Giovanni Paolo II, la sua fazione si sarebbe impegnata a neutralizzare le realtà diplomatiche e politiche vaticane che contrastavano il dialogo con i Paesi dell’Est (tra cui URSS, che inglobava la Lituania, Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria e Germania dell’Est), nonché azioni di propaganda contro tali nazioni.
Nel 1979, alla nomina di mons. Bakis a sottosegretario del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, sarebbe aumentato il monitoraggio dei suoi incontri (tramite microspia nella sua Fiat) e si sarebbe costituita una fazione (o ganglio) “progressista” per condizionare le scelte della Segreteria diretta da mons. Silvestrini, collaboratore del card. Casaroli e sostenitore della politica di apertura verso i regimi comunisti.
Nello stesso anno, Marco Accetti fu arrestato (e poi assolto) per un pestaggio ai danni di Mario Appignani (“Cavallo Pazzo”) in piazza Navona. Nel suo Memoriale ha scritto che la vittima sarebbe stata d’accordo e l’episodio sarebbe servito per dissimulare alcune attività in quel luogo legate alla sua fazione. Gli altri arrestati per il finto pestaggio (quindi anche loro appartenenti alla fazione “progressista”?) furono, Oriano Mondin (23 anni) e Gaetano De Janni (21 anni).
Nella sentenza del febbraio 1984 si parlò di “minacce” e di “sballottamento” nei confronti di Appignani (non di “pestaggio”) e si concluse con l’assoluzione di Accetti (di Mondin e di De Janni) perché «il fatto non sussiste». Inoltre, gli inquirenti denunciarono Appignani per «calunnia e simulazione di reato».
Qui sotto una foto di Marco Accetti travestito da prete in una una manifestazione anti-militarista alla fine degli anni Settanta.
Nel marzo 1982 Marco Accetti venne arrestato per detenzione d’arma da sparo335G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46, rimanendo in carcere meno di un mese, fino al 29/04/1982.
a) Marco Accetti e la morte del somalo Ali Giama
Nella notte del 22/05/1979, il somalo Ahmed Ali Giama, senza fissa dimora, morì bruciato sotto al colonnato del Tempietto della Pace. Alcuni testimoni videro allontanarsi dal luogo dell’omicidio quattro ragazzi, poi riconosciuti in Marco Rosci, Fabiana Campos, Roberto Golia e Marco Zuccheri.
Dopo la condanna, restarono in carcere fino al 17/07/1981 quando vennero assolti dalla seconda sezione della Corte di Appello di Roma, sentenza confermata nel 1985 dalla Suprema Corte.
Come già visto nel paragrafo precedente, pochi giorni dopo l’omicidio del somalo, Marco Accetti fu arrestato per un presunto pestaggio in piazza Navona nei confronti di Mario Appignani (“Cavallo pazzo”), reo di aver rubato i soldi raccolti dagli abitanti del quartiere per pagare i funerali di Ahmed Ali Giama. L’uomo fu assolto e Appignani fu denunciato per “simulazione di reato”.
Nel suo Memoriale, Accetti fece riferimento a tale episodio sostenendo che proprio nell’estate 1979 avrebbe collaborato con Giama nel sorvegliare le uscite del Collegio Pangermanico su via Santa Maria dell’Anima e su piazza della Pace. Lo descrisse come un ingegnere somalo che aveva viaggiato in Unione Sovietica e avrebbe dovuto incontrarsi con lui il giorno seguente alla sua morte. L’uomo precisa però che la morte del somalo non sarebbe da ricondurre a tali attività.
Il fotografo romano riferì che la notte dell’omicidio del somalo si sarebbe recato sul luogo e avrebbe raccolto dei brandelli della giacca (nell’ipotesi che contenessero fogli sulle loro attività). Giorni dopo sarebbe stato contattato dal commissario Paul Nash, il quale gli avrebbe mostrato alcune fotografie che lo ritraevano mentre prelevava i brandelli. Sarebbero state scattate dal Collegio Pangermanico.
Per dissimulare i suoi reali interessi e giustificare la sua presenza in quell’area avrebbe quindi creato alcune coperture tramite la complicità di Mario Appignani, il cui esito (cioè l’arresto) sarebbe però andato oltre le aspettative.
Analisi e verifiche sul caso Giama
A meno di contattare Paul Nash (ammesso sia ancora vivo) o poter visionare le fotografie che avrebbero immortalato Accetti, non c’è modo di verificare l’autenticità di questo racconto.
Qualche sospetto che il somalo Giama non fosse un semplice clochard è riportato anche nelle cronache dell’epoca, dove fu citata l’ipotesi di una pista politica sostenuta da Nur Giama Nur, esule somalo e amico della vittima, a suo dire anch’egli funzionario del ministero degli esteri somalo. Questa ipotesi venne dibattuta in sede di processo e scartata.
C’è però un aspetto totalmente inedito (siamo i primi a svelarlo) che sembra collegare Accetti e i casi Giama e Orlandi.
Il secondo telefonista che chiamò a casa Orlandi poche ore dopo la sparizione di Emanuela, il cosiddetto “Mario”, sostenne di telefonare per scagionare un suo amico rappresentante della Avon, il quale abitava al quartiere Parione336Trascrizione della telefonata, p. 34. Poco prima di congedarsi, inoltre, aggiunse di aver lavorato come fornaro337Trascrizione della telefonata, p. 43.
Come emerge dai quotidiani dell’epoca, uno dei quattro ragazzi accusati di aver dato fuoco al somalo Giama, Marco Rosci, aveva lavorato come fornaio nel negozio del padre e abitava in via del Governo Vecchio, cioè proprio nel quartiere Parione.
Se non fosse una coincidenza, il telefonista “Mario” (cioè lo stesso Marco Accetti, secondo la sua auto-accusa) volle citare nella telefonata quello che riteneva essere uno degli autori dell’omicidio Giama, ucciso per le sue operazioni di contro-spionaggio in sodalizio con lo stesso Accetti?
Una tesi complicata per tre motivi: le indagini assolsero Marco Rosci (1), non è provato che Giama fosse in complicità con Accetti (2) e lo stesso reo-confesso ha escluso che la morte del somalo fosse riconducibile alle loro (presunte) attività (3).
7.2 Il teschio e le minacce “alle due belle more”
Il 21/12/2012 (tre mesi prima della presentazione di Accetti in Procura), vicino al colonnato di Piazza San Pietro fu ritrovata una busta con la scritta in inglese “non toccare”, in essa era presente un teschio con all’interno del materiale cartaceo, il cui contenuto sembrò analogo a quello allegato alle lettere che appariranno pochi mesi dopo338G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 48.
Verso fine marzo 2013, poco dopo la comparsa di Accetti e del presunto flauto di Emanuela, a casa di Raffaella Monzi (compagna di Emanuela, l’ultima persona ad averla vista) e di Antonietta Gregori, sorella di Mirella, arrivarono due lettere con queste parole: «Non cantino le due belle more per non apparire come la baronessa e come il ventuno di gennaio martirio di S. Agnese con biondi capelli nella vigna del Signore».
Oltre alla frase, presenti anche i numeri “193” e “103” e una foto del giuramento di una guardia svizzera sopra una didascalia in tedesco, la cui traduzione è: “Durante il giuramento ogni recluta si posiziona davanti alla bandiera della Guardia e promette di servire fedelmente, lealmente e onorevolmente il Pontefice e i suoi legittimi successori”. Accanto alla foto compariva la scritta a penna: ”4 – FIUME” (nella lettera arrivata alla Gregori invece c’è: “V – FIUME”).
Infine, sempre scritta a mano, erano visibili le parole “SILENTIUM”, “V. FRATTINA 103” e, sul retro, “MUSICO 26/OTT/1808 – 5/3/1913 – 2013”.
Qui sotto l’immagine della lettera di minacce alle “due belle more”
Oltre alla lettera, fu ritrovata una ciocca di capelli color cenere, un fiore colorato di merletto, del terriccio e un brandello di tessuto scuro. Allegati alla lettera anche tre negativi fotografici, il primo ritraeva l’attentato a Papa Wojtyla e l’altro un teschio umano con la scritta: “Eleonora De Bernardi, Morta in Campagna, Lì 23 agosto 1854″.
Solo nella lettera giunta alla sorella di Mirella compariva un riferimento al marito, Filippo Mercurio: «Mercurio vola in sella del suo ciclomotore dal caffè alla via Nomentana all’altro caffè».
Gli indizi contenuti nella lettera sarebbero questi:
- La frase “Non cantino le due belle more“ non si rifersce a Emanuela e Mirella, come avvalorato dai media, ma più verosimilmente sarebbe un messaggio diretto a due complici;
- La citazione della “baronessa” si riferisce alla morte della baronessa Jeanette de Rothschild, avvenuta il 29/11/11/1980 in circostanze misteriose e che Accetti collegherà al caso Orlandi, lo analizziamo più sotto;
- La citazione del “ventuno di gennaio“, “biondi capelli“ e “vigna del Signore“ si riferisce alla morte di Caterina (Katy) Skerl, altro caso che Accetti unirà alla Orlandi. La ragazza (bionda) fu trovata strangolata il 21/01/83 in una vigna a Grottaferrata (Roma);
- La citazione di “Eleonora De Bernardi” potrebbe riferirsi alla ex moglie di Marco Accetti, Eleonora Cecconi. L’uomo la indicherà come colei che spediva i comunicati da Boston;
- Il teschio del negativo fu fotografato nella cripta in Santa Maria dell’Orazione e Morte, in via Giulia, e la didascalia sulla fronte è la stessa riportata nella lettera (“Eleonora De Bernardi, Morta in Campagna, Lì 23 agosto 1854”). Accetti ci ha riferito che in via Giulia abitava proprio l’ex moglie Eleonora Cecconi, quindi «colui che ha fatto la foto del teschio nell’ipogeo della chiesa della Morte in via Giulia, sapeva quindi che Eleonora abitava in via Giulia. Perché tra i tanti teschi ha fotografato proprio quello»;
- Il riferimento a Filippo Mercurio, marito di Antonietta Gregori, si riferisce probabilmente al fatto che fu l’uomo a rispondere al telefonista anonimo che chiamò al bar dei Gregori dopo la scomparsa di Mirella, elencando le marche dei vestiti che la giovane indossava il giorno della sparizione;
- La frase “MUSICO 26/OTT/1808 – 5/3/1913 – 2013” si riferisce al musicista Luigi Hugues, morto il 5/3/1913 ma nato il 27/10/1836 (non il 26/10/1808), i cui spartiti erano nello zaino di Emanuela il giorno della sparizione e la fotocopia del frontespizio fu fatta ritrovare dall'”Amerikano” il 04/09/83;
- La parola “FIUME” potrebbe ricordare la Avon, ovvero “fiume” in lingua celtica, codice già usato da Marco Accetti;
E’ evidente che le lettere siano legate alla comparsa di Marco Accetti e citano molti elementi chiave del complesso raccontò che farà nel corso degli anni.
L’uomo ha negato di esserne l’autore, sospettando del tentativo «della parte avversa di inquinare la situazione». In particolare, sospetta che sia la stessa persona che lo avrebbe minacciato nel 1998, spingendolo a partecipare a una trasmissione televisiva come sosia di Benigni usando il nome di “Alì Estermann” per poi recarsi a New York. Sarebbe una persona «vicina agli ambienti di Monsignor Bruno della diocesi di New York», il quale avrebbe anche telefonato alla redazione di Chi l’ha visto? cercando di imitare la sua voce. Le lettere, invece, «riconducono ai codici da noi adottati negli anni ‘80 ed al mio stilema fotografico».
Analisi e verifiche sulle lettere di minaccia
Al momento non c’è modo di verificare se Marco Accetti fu o meno l’autore delle lettere.
Potrebbe aver pensato di idearle per preparare in qualche modo la strada alle rivelazioni che aveva intenzione di rendere note, ma è difficile pensare che non abbia messo in conto quanto potesse essere controproducente l’idea, abbastanza prevedibile, di essere accusato di esserne l’autore. O forse non aveva intenzione di rivelare tutti i dettagli che poi ha effettivamente fornito, venendo costretto a farlo accorgendosi di non essere creduto?
Le analisi scientifiche sul teschio ritrovato il 21/12/12, sulle due lettere, sui ritagli di giornale e sugli indirizzi sulle buste scritti con il normografo hanno evidenziato una riconducibilità ad uno stesso autore, senza che emergesse alcun elemento per rintracciarlo339G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 49.
Se tuttavia Accetti fosse l’autore delle lettere avrebbe corso un altro enorme rischio, così come lo corse se avesse presentato un flauto non autentico (ne parliamo subito sotto). Non poteva infatti prevedere che né le indagini sul flauto, né quelle sulle lettere non avrebbero dato alcun esito. Avrebbero potuto infatti rilevare sue impronte, smascherandolo platealmente, così come il flauto avrebbe potuto presentare frammenti genetici di persone estranee al caso.
A chi si riferisce Accetti quando parla di una persona “vicina agli ambienti di Monsignor Bruno della diocesi di New York”? E chi sarebbe questo monsignore (gli unici con questo cognome risultano il diacono G. Frank Bruno, di origini calabresi e morto nel 2010, e il fotografo della diocesi, Jeffrey Bruno).
7.3 Marco Accetti e il flauto di Emanuela Orlandi
Il 03/4/2013, dopo la sua prima deposizione in Procura, Accetti ha fatto ritrovare al giornalista Fiore De Rienzo della trasmissione Chi l’ha visto? il (presunto) flauto di Emanuela, posizionato sotto una formella della Via Crucis all’interno dell’ex studio cinematografico De Laurentis.
Il flauto era avvolto dentro una copia del giornale “Paese Sera” del 1985, contenente un’intervista al padre di Emanuela Orlandi340F. Peronaci, Commissione parlamentare, 16/05/2024, p. 68.
Ha dichiarato agli inquirenti che il flauto sarebbe stato nascosto nella chiesa di Santa Francesca Romana dopo la telefonata dell'”Amerikano” del 4/09/83, nella quale si diceva: «Mi hanno detto di riferirvi che nelle vicinanze della basilica di Santa Francesca Romana il pontefice celebra la Via crucis. La scelta della basilica è inerente il giorno della scadenza del 20 luglio».
Nel 1987, in occasione della trasmissione televisiva Telefono Giallo (durante la quale telefonò l’amico di Emanuela Orlandi, Pierluigi Magnesio, dicendo «se parlo, mi ammazzano»), una donna glielo avrebbe consegnato e lui lo avrebbe custodito nel luogo in cui lo ha fatto ritrovare341G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45.
Secondo Accetti, l’aver fatto ritrovare il flauto della Orlandi nel 2013 sarebbe stato un elemento importante per i suoi sodali, ai quali chiese di presentarsi in Procura. Queste persone infatti sarebbero state a conoscenza del fatto che la Orlandi avrebbe dormito nell’ex studio cinematografico De Laurentis la notte del 21/12/83. Tuttavia, la trasmissione Chi l’ha visto? non accennò al luogo del ritrovamento, vanificando la portata dell’appello342G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45.
Nel 2024 il giornalista Fabrizio Peronaci ha rivelato alla Commissione parlamentare di aver appreso che il flauto è stato distrutto dalla Procura di Roma343N. Orlandi, Commissione parlamentare, 16/05/2024, p. 67, 96 durante un accertamento tecnico
Analisi e verifiche sul flauto fatto ritrovare da Accetti
Dai rilievi scientifici sul flauto (atti a rilevare eventuali impronte, tracce di DNA, analisi pilifere) non si è riusciti a stabilire una corrispondenza con quello usato da Emanuela Orlandi 344G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 48, 49.
Nel seguente video, la presentazione di Marco Accetti in Procura nel 2013 e la reazione di Natalina Orlandi alla vista del flauto:
Il maestro di flauto di Emanuela, Loriano Berti, ha sostenuto che la ragazza avrebbe posseduto un flauto Yamaha, non un Rampone e Cazzani come quello fatto ritrovare da Accetti345P. Nicotri, Emanuela Orlandi. Loriano Berti, maestro flauto: “Yamaha nichelato, non Ramponi, BlitzQuotidiano 01/10/2014.
Pietro e Natalina Orlandi, tuttavia, appena lo videro conclusero immediatamente per la forte similitudine, se non la totale identità, a quello posseduto da Emanuela. Inoltre, confrontando lo strumento a quello visibile nelle foto di un saggio di Emanuela vi sono forti somiglianze con i segni di usura agli spigoli e il colore della foderatura346F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango libri 2014.
Ascoltata dalla Commissione parlamentare nel 2024, Natalina Orlandi confermò che il flauto era uguale in tutto e per tutto a quello che utilizzava Emanuela, aggiungendo però che flauti del genere se ne trovavano a Porta Portese in gran quantità347N. Orlandi, Commissione parlamentare, 16/05/2024, p. 77/mfn>.
Il produttore Rampone e Cazzani, inoltre, contattato da Pietro Orlandi tramite lo stesso negoziante del quartiere Prati dal quale suo padre lo acquistò, in base ai dati riportati e al numero di matricola confermò che lo strumento fatto ritrovare venne fabbricato prima del 1983348F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango libri 2014.
Nella memoria presentata da Pietro Orlandi contro la sentenza di archiviazione viene esplicitato che il flauto è stato riconosciuto dai familiari come autentico349G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 57.
Come già detto relativamente alle lettere di minacce emerse prima della sua comparsa pubblica, Accetti non poteva prevedere che le indagini genetiche sul flauto non avrebbero fornito una risposta. Nel caso avesse presentato un flauto “falso”, cioè non riconducibile a Emanuela, i rilievi scientifici avrebbero potuto rintracciare elementi genetici del vero possessore, smascherando così la frode di Accetti e relegandolo pubblicamente a un ruolo di millantatore.
Laura Accetti, la sorella, ha ricordato che mentre il fratello si trovava agli arresti domiciliari, vide un flauto azzurro di plastica e un orologetto che lui disse averli ricevuti dalla Orlandi. Leggendo queste dichiarazioni, Accetti ha scritto: «Ciò mi ha permesso di ricordare che nella borsa dell’Emanuela vi era presente un flauto dolce, di color azzurrino o bianco. E quanto dichiaro è verificabile, interrogando la famiglia e i docenti e compagni della scuola di musica della ragazza. Questa del flauto dolce è un’informazione mai emersa, minore. Che probabilmente familiari e compagni non rammentavano. Giornalisti ed inquirenti li contattino ed appurino»350M. Accetti, Flauto dolce, 21/05/2015.
Per questo motivo, e per il riconoscimento di autenticità da parte della famiglia, optiamo per il fatto che quello presentato da Marco Accetti sia il flauto realmente appartenuto a Emanuela Orlandi.
7.4 Le fazioni vaticane e i complici di Marco Accetti
Marco Accetti ha sempre dichiarato di non voler citare i sodali che avrebbero operato con lui per onorare la parola data, invitandoli a comparire spontaneamente per usufruire di un’agevolazione di una pena e in considerazione del fatto che non sarebbero stati compiuti atti gravi.
Inoltre, ha sottolineato l’inutilità di citare testimoni i quali avrebbero inevitabilmente negato, senza giungere comunque alla soluzione. E’ stato più volte criticato per questa reticenza.
Negli Atti del processo che lo riguarda, si legge che Accetti ha però più volte invitato la Procura a fare un appello alle ragazze e alle persone coinvolte perché si facciano avanti a confermare le sue dichiarazioni351G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45.
Nel luglio 2023 la Procura di Roma avrebbe individuato una donna, romana e di estrema sinistra, che ha ammesso di aver letto con un finto accento inglese uno dei comunicati sul caso Orlandi spediti da Boston. E’ la famosa “amerikana” di cui ci riferì l’uomo nel 2016.
Lo stesso Accetti lo ha confermato in un’intervista nel novembre 2023 (strong>guarda il video sul nostro canale YouTube). Nel maggio 2024 Fabrizio Peronaci ha rivelato le iniziali della donna: G.B..
Nel corso degli anni sono emersi numerosi nomi di persone che avrebbero operato al fianco di Accetti o sarebbero stati coinvolti in qualche modo.
Per quanto riguarda le “fazioni vaticane”, Accetti ha parlato di una lotta nella Curia romana fra due fazioni contrapposte sulle politiche della Segreteria di Stato e del Papa in materia economica e di rapporti con il blocco sovietico e con il sindacato Solidarnosc.
a) La fazione vaticana progressista
La fazione “progressista” di cui avrebbe fatto parte si sarebbe opposta alla politica papale di forte contrasto al comunismo352G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.
Avrebbero inoltre mirato a coinvolgere mons. Marcinkus, presidente dello IOR, in un discorso di finta pedofilia per minarne il potere, coinvolgendo a tal proposito inconsapevoli ragazze e ragazzi353G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43.
Tale fazione sarebbe stata formata da «pochi laici che aiutavano pochi ecclesiastici».
Qui sotto le parole di Marco Accetti sulla sua fazione:
Nel suo blog, Accetti ribadì lo stesso concetto: «Non si pensi che degli ecclesiastici possano compiere tali misfatti. Erano solo alcuni e pochi laici a loro contigui ad adoperarsi in tal senso, per interessi finanziari od altro. E quasi sempre gli ecclesiastici in oggetto erano assolutamente estranei ed inconsapevoli di quanto accadeva in pro o contro di loro»354M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.
I membri della fazione “progressista” vaticana in cui avrebbe operato sarebbero stati fedeli alla linea del segretario di Stato, card. Agostino Casaroli, cioè favorevoli al dialogo con il comunismo. Avrebbero inoltre avuto come riferimento mons. Audrys Juozas Backis, il card. Basil Hume e l’arcivescovo Bruno Heim, senza che essi ne fossero stati mai coinvolti.
Secondo i vari racconti di Marco Accetti, i membri operativi sarebbero invece stati:
- Religiosi lituani e francesi, consiglieri e segretari di nunziatura vicini al francese Jacques-Paul Martin, prefetto della casa pontificia e al polacco Andrzej Maria Deskur, dal 1973 presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali;
- Alcuni laici vicini al marchese Giulio Sacchetti del Palazzo del Governatorato;
- Due religiosi asiatici della Congregazione Propaganda Fide, uno dei quali avrebbe prestato servizio diplomatico in Brasile (e che avrebbero avuto relazioni con Alì Agca);
- Elementi vicini al card. Egidio Vagnozzi nella Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede e nell’ex- gendarmeria;
- Tre persone tedesche355in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 96, (due ragazze e un ragazzo), ben retribuite e collaboratrici della Stasi: il ragazzo, biondo, svizzero del cantone tedesco356in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 99, sarebbe stato presentato a Mirella per farla innamorare e giustificare l’allontanamento da casa, le due ragazze avrebbero invece avuto un falso passaporto americano357in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 135. Una di esse, sempre presente al fianco di Accetti fino al dicembre 1983, era una ragazza bionda358in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 101, dal nomignolo Ulrike, coetanea di Accetti359M. Accetti, Punti 6 e 7 (indizi e prove), 21/01/2014, conosciuta tramite un diplomatico e un religioso delle Amministrazioni Palatine (il nome in codice deriva da Ulrike Meinhof, la terrorista tedesca di estrema sinistra che fondò la Banda Baader-Meinhof). La donna avrebbe avuto come iniziali K.S. (le stesse di Katy Skerl?) e sarebbe stata eliminata per la sua collaborazione;
- L’ex Lupo grigio Musa Serdar Celebi, spesso coinvolto da Accetti nel caso Orlandi e che sostiene aver ospitato nella sua abitazione360F. Peronaci, Caso Orlandi, la difesa di Accetti: «Interrogate 2 arcivescovi e il turco Celebi», Corriere della Sera, 21/11/2013;
- Una ragazza cecoslovacca di nome Iva (ne ha fornito anche il cognome) che avrebbe nascosto il flauto di Emanuela e che lui avrebbe portato con sé in Egitto per una “missione” in ambienti della nunziatura;
- Oriano Mondin e Gaetano De Janni, entrambi arrestati (e assolti) assieme ad Accetti nel pestaggio di Mario Appignani, episodio che sarebbe stato architettato dalla sua fazione;
- Le coetanee di Emanuela e Mirella, le quali, secondo Accetti, ebbero una «complicità involontaria», contattate anche loro con la scusa della vendita di prodotti della Avon. Per ingannare Emanuela e farla salire in auto davanti al Senato avrebbero coinvolto tre coetanee: una compagna del Convitto nazionale, una della scuola di musica e un’amica. Due sarebbero state le ragazze coinvolte per Mirella: una compagna delle medie di via Montebello e un’amica361F. Peronaci, Cinque amiche coinvolte, due per Mirella, Il Corriere della Sera 29/06/2013.
- Due amiche della Gregori, una compagna delle medie di via Montebello e un’amica362F. Peronaci, Cinque amiche coinvolte, due per Mirella, Il Corriere della Sera 29/06/2013 e tre coeranee per la Orlandi, una compagna del Convitto nazionale, una della scuola di musica e un’amica. Tutte «complici involontarie»363F. Peronaci, Cinque amiche coinvolte, due per Mirella, Il Corriere della Sera 29/06/2013;
- L’ex moglie Eleonora Cecconi, alla quale Accetti avrebbe detto (mentendo) di aver ucciso Mirella Gregori e le avrebbe chiesto di aiutarlo a sbarazzarsi del corpo ai piedi di «una collina chiamata Empireo» a Monterotondo364in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 139. La stessa donna aveva un fratello a Boston e secondo l’uomo sarebbe stata lei a spedire da lì i telegrammi dopo la sparizione di Emanuela365G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47;
- L’ex fidanzata Patrizia De Benedetti (legame sentimentale durato dal 1979 al 1982 e poi ricominciato dopo l’estate del 1983366G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46), la quale secondo l’uomo avrebbe scritto alcuni comunicati e sarebbe stata informata dei fatti relativi alla Orlandi367M. Accetti, varie dichiarazioni su Facebook, 2015-2016;
Ecco le parole di Marco Accetti (aprile 2024) sulle sue complici e le amiche coinvolte: - L’ex compagna Ornella Carnazza, la quale sarebbe stata usata da Accetti come sosia della Orlandi in alcune fotografia e sarebbe testimone del fatto che Alessia Rosati avrebbe dormito nella loro abitazione in via Val Padana dopo la sparizione368F. Peronaci, “Sequestro fotocopia della Orlandi. Alessia dormì a casa mia, poi sparì”. Giallo Montesacro, nuove rivelazioni, Corriere della Sera, 08/11/2015;
- Alcuni elementi del SISE (Servizio di Informazioni della Sicurezza Democratica)369M. Accetti, Punto 4 (indizi e prove), 17/12/2013.
- Una ragazza romana di 19 anni, di estrema sinistra e che frequentava l’ISEF (l’ex facoltà di Scienze Motorie), amica di Accetti (strong>guarda il video sul nostro canale YouTube), le cui iniziali sarebbero G.B., e che lesse un comunicato con un finto accento inglese (individuata dalla Procura nel marzo 2023370F. Peronaci, Caso Orlandi: individuata una donna coinvolta nelle rivendicazioni, Corriere della Sera, 27/07/23).
- Esponenti della Banda della Magliana, tra cui Enrico De Pedis, Angelo Cassani (“Ciletto”) e Gianfranco Cerboni (“Giggetto”)
- Una menzione particolare per Dany Astro (Daniela Silvana, nata a Rio Tersero il 19/05/1982), compagna di Accetti dal 2001 (fino sicuramente al 2013).
Nel 2013 la donna ha riferito in Procura di aver riconosciuto Emanuela Orlandi a Parigi dove Accetti l’avrebbe mandata dopo la morte di Oscar Luigi Scalfaro (2012), a consegnare una lettera ad un arabo (o un orientale) della moschea centrale di Parigi371G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45. Dopo la consegna, avrebbe incontrato tre donne che avrebbe messo in contatto con Accetti e tra queste avrebbe riconosciuto la Orlandi372G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45.
Nel novembre 2013 l’allora legale di Marco Accetti, Maria Calisse, sollecitò (inutilmente) alla Procura l’audizione di una decina di testimoni: tra essi, mons. Pierluigi Celata e mons. Audrys Backis, l’ex Lupo grigio Musa Serdar Celebi, vicino ad Agca e capo dei turchi rifugiati in Germania, un poliziotto oggi in pensione a alcune amiche di Emanuela e Mirella che si sarebbero rese complici involontarie373F. Peronaci, Caso Orlandi, la difesa di Accetti: «Interrogate 2 arcivescovi e il turco Celebi», Corriere della Sera, 21/11/2013.
Analisi e verifiche sulla fazione progressista
Innanzitutto non si può più dire che Accetti non abbia, in qualche modo, chiamato in causa altri personaggi che ha accusato di essere responsabili o comunque informati dei fatti.
Non ci sono ancora evidenze certe che qualcuno, oltre a lui, possa aver avuto qualcosa a che vedere con il caso Orlandi. Tuttavia la sua biografia, effettivamente, lo colloca vicino a queste persone e diversi dettagli della biografia delle persone che indica sembrano effettivamente collimare con le deposizioni che l’uomo ha rilasciato.
L’ex moglie Eleonora Cecconi, ne parliamo in dettaglio più sotto, aveva effettivamente un fratello a Boston e vi si recava proprio nel periodo in cui da lì partivano i “comunicati” dei presunti rapitori della Orlandi. Inoltre alcune intercettazioni telefoniche fanno capire che la donna non fosse totalmente estranea al caso. Lo stesso si può ormai dire dell’ex fidanzata Patrizia De Benedetti, allora militante dell’estrema sinistra e profonda conoscitrice del caso Orlandi e uscita allo scoperto, inizialmente sotto pseudonimo, nel vigoroso (fin troppo sospetto) tentativo di screditare moralmente e pubblicamente Accetti proprio nel periodo della comparsa pubblica dell’uomo.
Secondo la giornalista Rossella Pera sarebbe riscontrato374Pera R., Marco Accetti e Musa Serdar Celebi, leader del Lupi Grigi: dammi solo un minuto, La Giustizia, 08/06/2024 che Musa Serdar Celebi si recò in Italia nel 1980 e incontrò (o fu ospitato da) Aldo Accetti, padre di Marco e controverso personaggio legato agli ambienti fascisti e della massoneria.
Come già detto, nel 2023 la Procura italiana avrebbe anche individuato una complice di Accetti, una sua amica che lesse un comunicato con un finto accento inglese (la cosiddetta Amerikana). La donna, romana, di estrema sinistra e frequentante l’ISEF, avrebbe ammesso il suo coinvolgimento375F. Peronaci, Caso Orlandi: individuata una donna coinvolta nelle rivendicazioni, Corriere della Sera, 27/07/23, così come confermato anche da Accetti stesso nel novembre 2023 (non si tratta né della Cecconi, né della De Benedetti) (guarda il video sul nostro canale YouTube).
b) La fazione vaticana anticomunista
La fazione opposta a quella di Accetti (deduttivamente “conservatrice”) sarebbe stata dalla parte di Papa Wojtyla, favorevole al pugno duro del Vaticano contro il comunismo.
Questa fazione avrebbe invece avuto come riferimenti:
- Il presidente dello Ior, Paul Marcinkus, il quale però sarebbe stato un semplice esecutore della politica filo-statunitense dell’avvocato Thomas Macioce e del card. John Joseph O’Connor;
- Alcuni uomini vicino all’avvocato Umberto Ortolani;
- Il generale Giuseppe Santovito, capo del SISMI (servizi segreti italiani);
- Alcuni elementi del SISDE (servizi segreti italiani);
- Il card. Giuseppe Caprio, presidente dell’APSA (organismo che cura il patrimonio economico del Vaticano), prelato effettivamente avverso al comunismo;
- Mons. Pavol Hnilica, presidente della “Pro Fratribus” con sede a Grottaferrata, accusato di aver versato a Flavio Carboni dai 3 ai 6 miliardi di lire per riavere documenti relativi allo lor contenuti nella borsa sottratta a Roberto Calvi prima della sua morte. Accetti ha detto che Hnilica «era la nostra bestia nera»376citato in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014;
- Alcuni membri dell’aeronautica militare italiana377M. Accetti, Memoriale 2014;
Analisi e verifiche sulla fazione opposta
I riscontri sulla fazione opposta sono decisamente minori rispetto, con l’eccezione di alcuni dettagli riguardanti Umberto Ortolani.
Ortolani è stato spesso citato da Accetti («i cui uomini erano la parte a noi opposta»378M. Accetti, Punti 6 e 7 (indizi e prove), 21/01/2014), sottolineando che la sua nazione feudo era l’Uruguay, proprio il Paese da cui proveniva José Garramon, ucciso in circostanze misteriose dallo stesso Accetti nel 1983.
Ricordiamo che la prima motivazione che diede Accetti per giustificare la sua comparsa nel 2013 fu quella di voler far chiarezza sui fatti riguardanti l’omicidio di Garramon, legati a suo dire anche con il caso Orlandi.
Nel 1969 Ortolani effettivamente divenne Ambasciatore dell’Ordine dei Cavalieri Ospitalieri di Malta a Montevideo, capitale uruguayana. Fu arrestato nel settembre 1983 e tra le sue proprietà comparivano trenta grandi fattorie in Uruguay379in Umberto Ortolani, Wikipedia.
Nel 1983 si scoprì che Ortolani era proprietario del Banco Financiero sudamericano (Bafisud), mentre in Italia fu coinvolto nello scandalo del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e per molte altre vicende legate alia P2.
Ortolani nel 1963 venne nominato “Cavaliere di Gran Croce” dal presidente della Repubblica Giovanni Leone380da Ortolani, un miliardario all’ombra di DC e Vaticano, l’Unità 22/04/1984 e gentiluomo pontificio da Paolo VI, titolo revocato nel 1983 da Giovanni Paolo II.
Massone, anticomunista e esponente di rilievo della P2 (tessera 1622381da Ortolani, un miliardario all’ombra di DC e Vaticano, l’Unità 22/04/1984), Umberto Ortolani era il braccio destro di Licio Gelli, venerabile maestro della stessa organizzazione. La collaborazione iniziò a partire dagli anni Sessanta quando esportarono in Sudamerica i capitali dei gerarchi fascisti e nazisti. I due erano legati anche a Michele Sindona.
A proposito della tessera di Ortolani della P2 (1622), Accetti ha riferito che la data scelta per la sparizione di Emanuela Orlandi (22/6/83) avrebbe dovuto ricordarla come codice (oltre alla sezione 22 della Stasi dedita all’antiterrorismo)382M. Accetti, Memoriale, 2014.
Per quanto riguarda Licio Gelli, Accetti non lo nomina tra gli esponenti della controparte. Nelle cronache dell’epoca si riportò che era orientato verso la destra americana, in linea con la visione politica di Ortolani.
Proprio tra il 1983 e il 1984, mentre Ortolani era ricercato per il crack del Banco Ambrosiano e per l’inchiesta sulla P2, l’Italia era in contrasto con l’Uruguay per l’archivio segreto di Gelli, custodito nella sua villa a Montevideo e fonte di uno dei più gravi scandali della storia italiana dal dopoguerra. La stessa villa in cui José Garramon giocava a fare il detective intrufolandosi nel giardino e dove, a pochi metri di distanza, abitava anche Umberto Ortolani.
In questo video vengono ricostruiti i legami tra il caso Garramon, Licio Gelli e Ortolani:
7.5 La baronessa Rothschild, Marco Accetti e il caso Orlandi
Secondo il racconto di Marco Accetti, la fazione “progressista” vaticana in cui disse di far parte ebbe come obbiettivo di frenare i finanziamenti al sindacato anticomunista di Solidarnosc (definito da Accetti la «cellula radicale polacca») e avrebbero cercato di delegittimare moralmente Paul Marcinkus tramite false testimonianze sul suo conto.
La scelta sarebbe caduta anche su donne altolocate come la baronessa Rothschild, Jeannette Bishop, la quale avrebbe frequentato gli stessi ambienti di studio di araldica di mons. Heim, riferimento della fazione accettiana. Le donne avrebbero dovuto sostenere che nella loro relazione con Marcinkus costui avrebbe fatto trapelare informazioni riservate riguardanti lo Ior.
Accetti ha però sostenuto che la baronessa non fu mai contattata e sparì improvvisamente per motivi estranei ai fatti. Le due fazioni vaticane sospettarono l’una dell’altra, il fotografo romano ha escluso che il suo ganglio abbia avuto a che fare con la morte di Jeannette May.
La scomparsa della baronessa e della sua amica, Gabriella Guerin, avvenne il 29/11/1980. Le donne furono viste in paese alle 17 e, nonostante un importante appuntamento, si sarebbero avventurate in montagna poco prima di una forte nevicata. Tracce della loro presenza furono trovate in una casa abbandonata di montagna a Fonte Trocca.
All’epoca un testimone disse di averle viste arrivare all’albergo in cui alloggiavano in auto con un uomo distinto e abbronzato, per poi ripartire. Un altro le vide il giorno dopo con due uomini su due grosse macchine dirette a Roma. Tuttavia la baronessa era da soli quattro giorni in Italia, troppo pochi per organizzare un rapimento.
I loro corpi furono ritrovati il 27/01/1982 tra i monti del Maceratese. L’autopsia stabilì che le donne morirono il giorno stesso della sparizione sul luogo del ritrovamento dei resti, causa assideramento. Le perizie successive non esclusero però il duplice omicidio ma, senza ulteriori elementi, il caso fu archiviato nel 1987.
In quale modo la morte della baronessa è collegata al caso Orlandi?
Ecco cosa ha riferito Marco Accetti:
«Mi venne raccontato che uno dei miei sodali aveva spedito dei telegrammi riportanti dei codici che già contemplavano la possibilità di scegliere una o due delle ragazze nella palazzina abitata dagli Orlandi: si citava il luogo 3, così indicando la palazzina degli Orlandi ma non ricordo il motivo per cui questa palazzina fosse associata al numero 3, e inoltre si citava l’anagramma parziale di Orlandi, “Roland“»383Accetti M., Memoriale, BlitzQuotidiano 08/12/22.
Analisi e verifiche su “Roland” (codice di “Orlandi”)
Il legame tra il caso Orlandi e quello della Rothschild sarebbe dunque l’anagramma Roland contenuto in un telegramma legato alla sparizione della baronessa (avvenuta tre anni prima di quella di Emanuela).
Le cronache dell’epoca riguardanti questi telegrammi si contraddissero fortemente sul loro contenuto, riportando varie versioni dello stesso testo. Abbiamo però rintracciato almeno due versioni (cioè quella riportata ne La Stampa del 14/03/1981 e ne Il Messaggero del 03/1983) in cui, effettivamente, comparve il nome Roland come firma.
Furono tre i telegrammi giunti poco dopo la scomparsa della baronessa: il primo (spedito 03/12/1980) alla casa d’aste Christie’s (svaligiata il giorno dopo della scomparsa), il secondo (spedito il 06/12/1980) all’hotel di Sarnano in cui alloggiava Jeannette, il terzo (spedito il 02/01/1981) a un imprenditore del marmo.
Il quotidiano l’Unità del 15/03/1981 riferì che alla casa d’aste Christie’s arrivò questo testo: «Se volete ritrovare la roba andate al 130 di via Tito Livio». Firmato: «Roderigo, via Po 45».
La Stampa del 24/08/1981, invece, riportò un testo diverso per lo stesso telegramma: «Se volete ritrovare la roba andate in via Tito Livio 130, interno 3». Lo stesso quotidiano, il 22/02/1981, riportò un’altra versione ancora: «Se vuoi la tua merce vai al 130 di via Tito Livio». Firmato: «Rodrigo». Versione confermata nella copia dell’11/12/1984.
Per quanto riguarda il secondo telegramma, inviato al residence da cui scomparve la baronessa, l’Unità del 15/03/1981 riferì questo testo: «Ti aspetto in via Tito Livio 130». Firmato: «Peppo, via Po 55».
La Stampa del 22/02/1981 riportò anche in questo caso una frase diversa: «Ti aspetto in via Tito Livio 130, interno 3». Firmato: «Peppo» (testo confermato anche nella copia del 24/08/1981 e in quella dell’11/12/1984).
Vi furono però altre versioni riportate sui quotidiani dell’epoca. Ad esempio, La Stampa del 14/03/1981 riferì che il mittente che inviò il telegramma all’albergo “Ai Pini” di Sarnano, dove scomparve la baronessa, si firmò effettivamente come “Roland”. Il testo riportato fu il seguente: «Attendoti Tito Livio 130, interno 3».
Questa esatta versione del testo, con la firma “Roland”, fu confermata anche dal Messaggero del marzo 1983.
I carabinieri si recarono all’appartamento di via Tito Livio 130, trovando solo degli extracomunitari e della cocaina.
Infine, per quanto riguarda il terzo telegramma, l’Unità del 15/03/1981 scrisse che qualche giorno dopo gli altri sarebbe arrivato a un anonimo imprenditore di Roma, indicante sempre “via Tito Livio”. Anche La Stampa del 24/08/1981 confermò che fu spedito «a un industriale del marmo di Roma». Il testo diceva: «Ti aspettiamo riunione di affari in via Tito Livio 130, int. 3».
Molto più preciso fu Il Messaggero del marzo 1983, dove si scrisse che il telegramma ai familiari di Valerio Ciocchetti, industriale del marmo, sequestrato una ventina di giorni prima (il 03/12/198, quattro giorno dopo la scomparsa della baronessa) da Laudavino De Sanctis e dalla cosiddetta “Banda delle Belve” e trovato morto il 27/02/1981, nonostante il riscatto pagato dalla famiglia.
E’ evidente che in quei giorni i mittenti dei telegrammi riguardanti la baronessa lessero sui giornali del sequestro di Ciocchetti e, per ignoti motivi (depistaggio?), inviarono ad un suo familiare lo stesso telegramma.
Conclusioni sui legami tra la scomparsa della Baronessa e il caso Orlandi
Abbiamo visto che solo alcune fonti dell’epoca confermarono che il mittente dei telegrammi si fosse firmato come “Roland”.
Quali conclusioni trarne?
1) Marco Accetti ha mentito e si tratta di un errore di battitura di alcuni quotidiani (gli altri giornali dell’epoca riferirono i nomi “Rodrigo” e “Roderigo” per il telegramma alla casa d’aste Christie’s e “Peppo” per quello inviato all’albergo della baronessa)? Ipotesi da scartare, è impossibile la probabilità che Accetti si sia inventato il nome “Roland” e che, per fatale coincidenza, alcune cronache di allora confermino pur erroneamente lo stesso nome;
2) Marco Accetti ha inventato il legame tra “Roland” e “Orlandi” solo dopo aver letto quegli articoli? E’ possibile, tuttavia sarebbe stato rischioso: a parte alcuni quotidiani (ne abbiamo trovati due per ora), le altre cronache dell’epoca non parlarono di “Roland”;
3) Marco Accetti ha detto il vero e gli articoli dell’epoca sono una prova? E’ possibile, tuttavia andrebbe spiegato perché gli altri quotidiani riferiscano nomi diversi (“Rodrigo” e “Peppo”).
Una controprova che si potrebbe fare è verificare se la palazzina (o l’appartamento) degli Orlandi in Vaticano abbia qualcosa a che vedere con il numero 3 (o con il numero 130). Al momento il legame tra la baronessa Rotschild e il caso Orlandi rimane incerto, non smentito ma nemmeno confermato.
C’è un aspetto che però sembra contrastare con le dichiarazioni di Accetti.
Abbiamo già spiegato in una sezione precedente che voci di possibili sequestri di cittadine vaticane arrivarono effettivamente in Vaticano, come testimoniato Raffaella Gugel, figlia dell’aiutante di camera del Papa (e come hanno rilevato le indagini di polizia su alcuni pedinamenti) e abitante nello stesso edificio degli Orlandi384F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 7. Ma esse pervennero soltanto dopo l’attentato del Papa, avvenuto nel maggio 1981 e non all’inizio di quell’anno, cioè quando arrivarono i telegrammi subito dopo la sparizione della baronessa Rotschild (avvenuta il 29/11/1980).
Un altro elemento che contrasta fortemente con le dichiarazioni di Accetti sul legame tra il caso Orlandi e quello della baronessa è che lui stesso, molto prima collegare i due casi, ha riferito385Accetti M., Memoriale, BlitzQuotidiano 16/06/2014 che la ricerca di ragazzine vaticane da coinvolgere nacque nel 1981 per evitare la collaborazione tra Alì Agca e gli inquirenti.
Inizialmente si sarebbero orientati sulle figlie di Gugel, addetto all’anticamera papale e soltanto nel 1983, secondo il suo Memoriale386Accetti M., Memoriale, BlitzQuotidiano 16/06/2014, la scelta sarebbe caduta sulla famiglia Orlandi, in particolare su Cristina, sorella di Emanuela. L’idea fu però scartata per la giovane età e si sarebbe scelto Emanuela per la predisposizione caratteriale e in quanto frequentava la scuola di musica nel palazzo di Sant’Apollinare, che Accetti definisce «feudo storico del Card. Caprio, nostra controparte».
Le date, perciò, non coincidono. I telegrammi legati alla scomparsa della baronessa con il nome “Roland”, presunto anagramma di “Orlandi” (secondo Accetti), arrivarono nel 1980, un anno prima che la fazione accettiana avrebbe deciso di utilizzare la scomparsa di alcune cittadine vaticane e tre anni prima che la scelta cadde sulla famiglia Orlandi (oltretutto nel 1980 Emanuela avrebbe avuto la stessa età della sorella Cristina quando quest’ultima sarebbe stata “scartata” proprio per la giovane età).
7.6 Marco Accetti e l’attentato a Giovanni Paolo II
Si è sempre sospettato che al centro del caso Orlandi vi fosse anche l’attentato a Giovanni Paolo II, avvenuto il 13/05/1981 (anniversario della apparizioni di Fatima, 13/05/1967), un anno prima della scomparsa di Emanuela.
L’evento rientra anche nel racconto di Marco Accetti e delle fazioni che avrebbero operato nell’ombra del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa.
L’uomo ha infatti sostenuto che la sua fazione vaticana si sarebbe affiancata agli organizzatori di un possibile attentato al Papa al fine di limitarne gli effetti e cercando di trasformarlo in un gesto intimidatorio387G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.
a) La fazione di Accetti e le notizie sull’organizzazione dell’attentato
Nell’estate 1980, la fazione di Marco Accetti sarebbe venuta a conoscenza della preparazione di un attentato al Papa da parte di idealisti turchi di estrema destra (i “Lupi Grigi”), grazie ad agganci nel servizio diplomatico della Turchia, dove fu nunzio mons. Backis.
Analisi e verifiche sulle notizie giunte alla fazione di Accetti
Effettivamente in Vaticano arrivò nel 1979 un’informativa da parte del capo dei Servizi segreti francesi (SDECE), Alexandre de Marenches, di un possibile attentato al Papa.
Il giudice Rosario Priore, autore dell’inchiesta giudiziaria sull’attentato del 1985, ritenne che la fonte arrivasse dall’Est, più probabilmente dalla Polonia, escludendo però una connessione con l’attento del 1981 (si sarebbe trattato di un altro attentato). Al contrario, il marchese De Marenches creò un collegamento tra quelle notizie e quanto poi avvenne, attribuendo le responsabilità ai più alti vertici di Mosca388R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, p. 7, come scrisse lui stesso nel libro Dans le secrets des princes (1986).
Il 01/06/1979 De Marenches inviò due agenti a Roma, Valentin Cavenago e Maurice Beccuau, i quali si misero in contatto con l’ordine dei Premostratensi sull’Aventino, il cui l’abate generale era padre Norbert Calmel, con la Segreteria di Stato vaticana e quindi al Papa.
Perché i servizi francesi, per comunicare al Vaticano la minaccia di un attentato, passarono per i monaci Premostratensi dell’abate Calmels?
Marco Accetti ha risposto sostenendo che fu la sua fazione a controllare «l’iter di consegna dell’informativa presso la Città del Vaticano e facemmo in modo che a essere prescelto come terminale della stessa fonte fosse l’abate dei Premostratensi Calmels, persona molto vicina a monsignor Bačkis, sottosegretario al Consiglio per gli Affari pubblici della Chiesa, a cui la mia parte faceva riferimento diplomatico-politico, senza che egli ne fosse mai stato coinvolto»389F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 35.
Nel 2005 il giudice Priore ha sostenuto di aver indagato nell’archivio dei Premostratensi ma esso era già stato diviso e le carte di interesse politico erano state portate in Vaticano, prelevate da «un monsignore lituano che lavorava presso la Segreteria di Stato e che, al tempo in cui svolgevo era diventato nunzio fuori d’Europa»390R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, pp.6, 7.
In risposta alla rogatoria del 28/02/1994, i vertici vaticani negarono l’esistenza di un’informativa da parte dei Servizi francesi391p. 8, ma Priore non lo ritenne credibile in quanto oltre alla testimonianza di De Marenches, ricevette la conferma dei due agenti recatisi in Vaticano, e dei Premostratensi che li accompagnarono392R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, pp. 8, 9.
Secondo la deposizione fornita dal giudice Ilario Martella, il SDECE (servizi segreti francesi) avrebbe nuovamente informato le autorità vaticane nel febbraio 1981, almeno secondo la testimonianza del giornalista americano Arnaud De Borchgrave393F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 12.
Da questi elementi non si può appurare quanto riferisce Accetti, se non la coincidenza che sia lui che il giudice Priore riferiscono un coinvolgimento “lituano”.
La cronista Rossella Pera sostiene di aver trovato riscontro sul legame antecedente l’attentato al Papa tra la famiglia Accetti, Marco e suo padre Aldo, con l’estrema destra e Musa Serdar Celebi, l’allora capo del movimento ultranazionalista turco dei Lupi Grigi in Germania:
«Se un uomo della portata di Celebi, nel suo solo soggiorno italiano decide di doversi incontrare con l’Accetti, un motivo ci sarà, e anche di una certa importanza. Da parte sua, Accetti Jr., Marco, ha in più occasioni affermato di aver ospitato presso la sua abitazione Musar Celebi per alcuni giorni. Questa notizia cozza brutalmente con i fatti e gli elementi circostanziati in sede giudiziaria. Non è possibile dare una soluzione certa a questo enigma, posso però far notare che, nei possedimenti degli Accetti, troviamo un immobile composto da cinque ampi locali, sito in via Lago Tana, sempre affittato a turchi e società turche, tra cui ricordo a titolo esemplificativo la Teknoset srl»394Pera R., Marco Accetti e Musa Serdar Celebi, leader del Lupi Grigi: dammi solo un minuto, La Giustizia, 08/06/2024.
Musar Celebi fu arrestato a Francoforte e estradato in Italia dopo l’attentato del 13/05/1981 contro Papa Giovanni Paolo II, fu in quell’occasione che emerse che si era recato in Italia nel 1980, avendo incontri con figure di rilievo. L’attentatore del Papa, Agca, lo indicò come suo complice395L’Unità, 14/02/1983. Dopo che Agca rovinò il processo, smettendo di collaborare e fingendosi pazzo, Celebi e gli altri imputati furono assolti nel 1986 per mancanza di prove concrete.
b) Il primo contatto con i “Lupi Grigi”
Nel suo Memoriale, Marco Accetti ha aggiunto che dopo aver saputo dell’intenzione di un attentato al Papa, la sua fazione avrebbe contattato i “Lupi Grigi” turchi qualificandosi come appartenenti a un gruppo cultista sudamericano di destra (“Proprietà, Tradizione e Famiglia”), in polemica con il pontefice per il flebile sentimento anticomunista.
Analisi e verifiche sul primo contatto con i “Lupi Grigi”
E’ credibile che dei (finti) cattolici tradizionalisti potessero aver contattato degli estremisti islamici?
Il fatto che sull’attentato del Papa vi fosse stata una convergenza di interessi di gruppi eterogenei è effettivamente confermato dalla Corte di assise di primo grado e da quella di appello, le quali esclusero la tesi dell’atto individuale: «Il delitto fu il risultato di un complotto di alto livello: e cioè a monte dell’esecutore, anzi degli esecutori materiali vi furono organizzatori ed entità, con ogni probabilità, statuali»396citata in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 10.
La tesi fu confermata dal giudice Rosario Priore, titolare dell’inchiesta sull’attentato del 1985397Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, p. 12, convinto che dietro ad Agca ci fu sicuramente anche una parte dei “Lupi Grigi”, idealisti turchi di estrema destra, i quali, spiegò, «è pacifico che erano legati agli Stati Uniti [cioè la CIA, nda]. I Lupi Grigi erano una struttura che aveva compiti di difesa contro il comunismo» e «operano in un certo senso più dalla parte occidentale che dalla parte orientale»398Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, pp. 15, 27.
Ferdinando Imposimato e la Commissione parlamentare sul dossier “Mitrokhin” sostengono invece che, almeno inizialmente, Agca era un estremista di sinistra, amico del leninista rivoluzionario arabo Seddat Kaddem, addestratosi 40 giorni in un campo militare palestinese di Habbash399F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 15 400Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, Documento conclusivo 15/03/2006, p. 257.
Il giudice Rosario Priore, al contrario, faticò ad inquadrare Agca: si dice che furono «i Servizi occidentali ad avere rapporti con i Lupi Grigi, però altri sostengono che i Lupi Grigi fossero stati infiltrati dal KGB e che addirittura Agca fosse un infiltrato del KGB. Agca l’ho sentito molte volte: è furbo, astuto, intelligentissimo, però non lo ritengo in grado addirittura di percepire queste differenze. Se dovessi dare un giudizio su Agca, non lo definirei né di destra, né di sinistra, ma lo descriverei come un uomo aperto, rotto a tutto, come si diceva una volta»401R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 25.
La versione più sostenuta dagli inquirenti italiani sull’attentato al Papa è che il KGB e l’Unione Sovietica avrebbero dato mandato ai Servizi segreti bulgari di uccidere il Papa, i quali si sarebbero serviti della mafia turca, tramite Bekir Celenk, che a sua volta si avvalse dell’organizzazione terroristica dei Lupi grigi. Agca sarebbe stato l’ultimo anello della catena.
Per quanto riguarda l’eterogeneità degli interessi, anche il magistrato Carlo Palermo citò un rapporto di polizia giudiziaria in cui venivano collegati esponenti islamici, massonici (Thurn und Taxis e «il gruppo religioso cultista “Tradizione, famiglia e proprietà”, particolarmente forte e numeroso in America Latina»), ed il tradizionalismo ultracattolico (la famiglia portoghese Braganza e Juan Fernandez Krohn, attentatore del Papa nel 1982)402Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 06/07/2005, p. 12.
Così, proseguì il magistrato Palermo403p. 8, 9, «si hanno dei collegamenti tra componenti occulte occidentali, in particolare americane, ed elementi arabi o musulmani, che dovrebbero essere contrapposti, ma che tali non sono, ove si esaminino tutti gli aspetti affaristici che invece ne costituiscono il prodotto».
Il tutto ruotava attorno alle apparizioni di Fatima, quella che Palermo definì «esaltazione mistica dell’ispirazione alle apparizioni di Fatima e al terzo segreto di Fatima cui, da una parte Agca e dall’altra padre Krohn l’anno seguente, sia pur da contrapposte posizioni, si erano ispirati»404p. 7.
D’altra parte, proseguì il giudice Palermo, Alì Agca «ha una sorella che si chiama Fatma (lo scrive lui nel suo libro). E dato che non può parlare delle apparizioni di Fatima nel senso religioso nostro, visto che è musulmano, ma ha anche una sorella che si chiama così, lui può esprimere solo una rivendicazione propria nei confronti di quell’episodio, in attesa del premio, così come era stato per gli altri omicidi che aveva compiuto»405p. 16.
Ricordiamo infatti che Fatima era anche il nome della figlia prediletta di Maometto, come spiegò Carlo Palermo, «le apparizioni avvenute in Portogallo per i musulmani non sono altro che apparizioni della loro Fatima, alle quali viene ricondotto comunque un effetto salvifico, un fine salvifico» (p. 24).
Se il legame tra fondamentalisti cattolici e islamici ha dunque una conferma storica, rimane sempre possibile che Marco Accetti ne sia venuto a conoscenza soltanto in tempi recenti e l’abbia usato in maniera creativa per inserirlo nel grande filone del caso Orlandi.
Un elemento contrastante è invece la poca coerenza nel racconto di Accetti: perché la sua fazione avrebbe dovuto contattare i Lupi Grigi turchi spacciandosi per appartenenti a un gruppo cattolico tradizionalista del Sudamerica se, come sostiene Rossella Pera406Pera R., Marco Accetti e Musa Serdar Celebi, leader del Lupi Grigi: dammi solo un minuto, La Giustizia, 08/06/2024, la famiglia Accetti era già in contatto con Celebi, leader dei Lupi Grigi in Germania?
c) Il contatto con Alì Agca
Marco Accetti ha sostenuto407in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, pp. 56, 57 che a contattare Alì Agca sarebbero stati due religiosi asiatici con lineamenti orientali, membri di Propaganda Fide, uno dei quali avrebbe prestato servizio diplomatico in Brasile.
Avrebbe incontrato tre volte l’idealista turco, a Milano, a Perugia e a Roma in un appartamento in via Belsiana, di proprietà di una persona conosciuta da Accetti stesso al collegio San Giuseppe De Merode408in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, pp. 56, 57.
Analisi e verifiche sul sul contatto con Alì Agca
Non esistono riscontri specifici anche se c’è un elemento particolare riguardante l’albergo “Aosta” di Milano, nel quale Agca effettivamente alloggiò.
Il giudice Rosario Priore ha rivelato che i registri dell’albergo furono trovati bruciati da un incendio ma i Servizi segreti (il Sisde o il Sismi) conservarono copia delle pagine, sulle quali «c’erano degli sbianchettamenti sulla registrazione di un prelato che era stato in quell’albergo, quasi in coincidenza con Agca». Un dettaglio trascurabile, anche se «questa presenza aveva immediatamente richiamato l’attenzione dell’intelligence»409R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 14.
Non si capisce se la sbianchettatura la operarono i Servizi o il nome risultava già cancellato quando fotocopiarono le pagine del registro dell’albergo. A rigor di logica, se dedussero la presenza di un prelato è perché videro effettivamente il nome. Sarebbe utile indagare in tal senso.
d) La presenza di Alì Agca ad alcune udienze papali
La fazione di Accetti avrebbe anche introdotto Agca in alcune udienze papali prima dell’attentato, in veste di studente universitario in contatto con la Segreteria per i non cristiani.
Agca, disse Marco Accetti, «doveva essere presentato come uno studente indiano dell’università di Perugia e poi fotografato assieme a prelati, tra i quali alcuni membri della Congregazione per la dottrina della fede, che non sapevano chi fosse il giovanotto, certo, ma se le foto fossero arrivate a un giornale, dopo l’attentato, sarebbe stato comunque un problema serio, imbarazzante»410in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 148.
Agli idealisti, invece, sarebbe stato fatto credere che la presenza di Agca in queste occasioni ecclesiastiche «fosse per il fine di esercitare pressione su alcuni prelati attestati su posizioni vicine all’eurocomunismo»411in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 55.
Analisi e verifiche sulla presenza di Alì Agca alle udienze papali
Il primo a sostenere che Agca comparve in alcune cerimonie in presenza di Papa Wojtyla non è stato Accetti ma Oral Celik412R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 131, idealista turco accusato di essere uno dei cospiratori nell’attentato al Papa.
Fu dalle sue dichiarazioni che si visionarono le immagini della messa di Giovanni Paolo II celebrata il 10/05/81, tre giorni prima dell’attentato, presso la chiesa di S. Tommaso d’Aquino. Effettivamente il giudice Rosario Priore riconobbe una persona somigliantissima a Agca, totalmente sconosciuto ai parrocchiani del quartiere413R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, pp. 131, 132.
I tratti somatici erano identici, «se costui non è Agca, ne è di certo un perfetto sosia», scrisse Priore414R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 135. La forte somiglianza fu notata nei giorni dopo l’attentato anche dal parroco di S. Tommaso, dal fotografo pontificio, Arturo Mari, e da quelli dell’Osservatore Romano415R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 131.
Quest’uomo si trovava in una zona riservata a coloro che potevano ricevere la Comunione dalle mani del Papa, a cui si accedeva tramite invito da parte della parrocchia e della Prefettura della Casa Pontificia, il cui reggente era mons. Dino Monduzzi. L’indagine stabilì che gli inviti distribuiti dalla parrocchia erano solo per i parrocchiani, mentre quelli forniti dalla Casa pontificia erano una ventina, tra cui alcuni stranieri416R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, pp. 136, 137.
Il padre di Emanuela, Ercole Orlandi era uno degli incaricati alla distribuzione degli inviti e nel 1995 testimoniò che essi venivano consegnati a mano il giorno prima delle cerimonie ed escluse che tra essi vi fosse il nome di Agca. Ricordò però di aver inviato diversi biglietti all’albergo Isa di via Cicerone, dove effettivamente Agca alloggiò417R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, pp. 137, 138.
Il giudice Priore smentì che l’uomo potesse trattarsi di un addetto della scorta418R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 135.
Uno dei fotografi della parrocchia era Daniele Petrocelli, poche ore dopo l’attentato si sarebbe presentato a casa sua un uomo qualificatosi come appartenente alla Digos e gli avrebbe chiesto le foto dell’evento senza però redigere un verbale d’acquisizione. Qualche giorno dopo fu restituita una solo foto e gli fu detto che l’uomo sarebbe stato individuato come appartenente alla scorta del Papa419R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 132. Elemento
Tale evento fu l’unico in cui emerse la presenza di Agca a cerimonie religiose420R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 141.
Se è quindi possibile confermare la presenza di Agca vicino a Papa Wojtyla tre giorni prima dell’attentato, non ci sono prove che dimostrino il ruolo di Marco Accetti nell’averlo introdotto.
Certamente i vari viaggi e spostamenti di Agca prima dell’attentato sono sempre risultati inspiegabili, non fu il classico comportamento di un attentatore.
La spiegazione fornita da Accetti di un apposito intento da parte di Agca di farsi fotografare per produrre pressioni e ricatti successivamente all’attentato è un’ipotesi convincente, molto meno lo è pensare che organizzazioni criminali estere avessero riposto così tanta fiducia in Marco Accetti e al suo finto gruppo sudamericano tradizionalista, tanto da affidare a loro la logistica del più grande attentato del secolo. Con quali garanzie?
Certo, torna preponderante il presunto legame tra la famiglia Accetti e l’idealista turco Celebi già prima dell’attentato421Pera R., Marco Accetti e Musa Serdar Celebi, leader del Lupi Grigi: dammi solo un minuto, La Giustizia, 08/06/2024, quest’ultimo potrebbe aver fatto da garante?
Eppure della logistica di quei giorni avrebbero potuto interessarsene in maniera più autorevole e competente i servizi segreti di uno dei Paesi dell’Est interessati. Il giudice Rosario Priore ha infatti scritto che vi sono prove certe «che tale delitto fu il risultato di un complotto di alto livello, e cioè che a monte dell’esecutore, anzi degli esecutori materiali, vi furono organizzazioni e entità con ogni probabilità statuali»422R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 14.
L’organizzazione alle spalle di Agca (ingaggiata da entità statuali riferite da Priore) era talmente preparata che lo aveva fatto evadere dal carcere turco, gli aveva fornito rifugio, lo aveva rifornito di denaro, di documenti d’identità e di viaggio falsi, lo aveva fatto muovere attraverso varie frontiere, dall’Asia, all’Europa, all’Africa e infine lo aveva munito dell’arma423R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 14.
Non avevano bisogno di Marco Accetti e della sua fazione, certamente non come mente logistica. Forse, al massimo, come semplice manovalanza: ricordiamo, ad esempio, la telefonata di prenotazione dell’albergo “Isa” fatta da un italiano424Suor Letizia racconta: così trattenni Agca, La Stampa 15/10/1985 (ne parliamo qui sotto).
e) La prenotazione degli alberghi di Alì Agca
Pur precisando di non aver mai incontrato personalmente Alì Agca, Marco Accetti ha sostenuto di prenotato lui stesso a Roma l’albergo “Archimede” in via dei Mille, l’albergo “Ymca” di piazza Indipendenza e l'”Isa” di via Cicerone, da dove il terrorista uscì per compiere l’attentato.
«Venne deciso che fossi io a prenotare la stanza per il signor Agca per dare una certa impronta al cosiddetto attentato, far capire che l’azione nasceva da ambienti italiani, e per esteso vaticani»425citato in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, ha riferito Accetti.
Marco Accetti aggiunse inoltre che in quei giorni offrì anche la logistica per l’attentato ad un complice di Agca, Musa Serdar Celebi, «che una volta ospitai presso la mia abitazione»426citato in F. Peronaci, Caso Orlandi, la difesa di Accetti: «Interrogate 2 arcivescovi e il turco Celebi», Corriere della Sera, 21/11/2013.
Analisi e verifiche sulla prenotazione degli alberghi
Alì Agca, nell’interrogatorio del 21/02/1983, sostenne che nel gennaio 1981 non alloggiò solo all’albergo “Isa” ma anche all’albergo “Archimede”.
Gli inquirenti dell’epoca verificarono che all’hotel “Archimede”, Agca alloggiò nel novembre 1980, mentre all’“Ymca” si fermò la notte tra il 10 maggio e l’11 maggio 1981. All’albergo “Isa” arrivò invece la mattina del 12 maggio 1981.
«Se si vuole disporre un confronto con il titolare della pensione Isa sanno dove trovarmi», ha dichiarato Accetti427citato in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.
Un dettaglio rilevante riguarda effettivamente l’albergo “Isa”: Maurizio Paganelli, il titolare di allora, testimoniò428Suor Letizia racconta: così trattenni Agca, La Stampa 15/10/1985 che a prenotare la stanza per telefono fu una persona che parlava un italiano corretto, quindi non Agca in quanto lo parlava a malapena.
Il reo-confesso ha sostenuto anche che l’albergo “Isa” sarebbe stato scelto per la stretta vicinanza alla sede di Osservatorio Politico dell’avvocato Mino Pecorelli, il quale «era nei nostri interessi per il rapporto con monsignor Bruno, e come ulteriore codice per il nome dell’albergo “Isa”, che in lingua araba e turca significa “Gesù”».
Pecorelli venne assassinato nel 1979, due anni prima dell’attentato al Papa e l’Osservatore Politico aveva sede in via Tacito, effettivamente a 100mt. di distanza dall’albergo “Isa”.
L’elemento contraddittorio è quanto sottolineato dal giudice Rosario Priore, ovvero che Agca alloggiava «sempre in determinati alberghi». Inoltre, aggiunse, «i registri alberghieri sono una miniera di notizie, perché negli alberghi frequentati da Agca vi erano contemporaneamente un’infinità di turchi»429R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, pp. 14, 15 .
Dai registri dell’albergo “Isa” emerse infatti che il turco pernottò in quell’albergo anche nel gennaio 1981, nella stanza 18. Si trovava a Roma presumibilmente per compiere un attentato (poi fallito) a Lech Walesa, leader di Solidarnosc, in udienza papale il 15/01/81. In quest’albergo, spiegò Priore, «c’é stato ben tre volte»430R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 14.
Quando tornò nel maggio 1981, fu registrato il 13/05/1981 anche se era già lì dal 10/05/1981. Non gli venne però data la stanza 18, «come sempre era successo», ma gli assegnarono la stanza 31. Lo si apprese dai registri, dalla testimonianza del gestore Paganelli (diede 4 deposizioni) e da quella della sorella, «che riporta con attendibilità come sono andate le cose»431R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 14. E’ confermato il fatto che la prenotazione venne fatta da un uomo che parlava in italiano perfetto.
Un dettaglio: nella stanza 31 dell’albergo “Isa”, alloggiava un somalo e dopo l’attentato furono trovate due valige, sequestrate dagli inquirenti432R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 14.
Se Agca pernottava sempre negli stessi alberghi, se all'”Isa” alloggiò già altre tre volte, se vi era la presenza di altri turchi: perché Accetti riferisce di aver scelto lui quell’albergo il giorno prima dell’attentato per simboleggiare una relazione con Pecorelli e con il nome “Isa”?
Intende dire che la sua fazione aveva prenotato a nome di Agca nonostante il terrorista turco avesse prenotato e alloggiato negli stessi alberghi anche in passato? Non ha molto senso.
f) Il giorno dell’attentato al Papa
Secondo Accetti, i contatti con Agca sarebbero serviti ad indurre i turchi a semplici minacce o a spari in aria, cercando di convincerli che la morte del Pontefice sarebbe stata controproducente per gli interessi di tutti.
Gli accordi iniziali sarebbero stati di effettuare un solo colpo di arma da fuoco da esplodere per aria, simulando di aver mancato il bersaglio. La pistola di Agca, aggiunse il reo-confesso, disponeva di un caricatore con un limite-capienza di 14 cartucce, e una non fu inserita per timore di inceppamenti. Avrebbe dovuto quindi montare 13 proiettili e il colpo esploso doveva essere il tredicesimo, come la data del giorno da noi scelto, per l’appunto il 13 maggio, anniversario del fatto di Fatima433in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango libri 2014, pp. 61, 62.
Tuttavia, Agca sparò sul corpo del Papa.
«Abbiamo sempre pensato a due ipotesi», ha commentato Accetti, «la prima che vede gli idealisti venir meno autonomamente al patto. La seconda, che possa esserci stato il suggerimento da parte di interessi terzi»434M. Accetti, Memoriale, 2014.
Analisi e verifiche sul giorno dell’attentato al Papa
Per quanto riguarda il fatto che il turco sarebbe venuto meno agli accordi, Agca colpì Wojtyla a soli due centimetri sotto l’aorta, quindi l’intenzione fu quella di uccidere il Pontefice.
Rispetto a ciò, però, il giudice Rosario Priore ha dichiarato che «Agca era veramente un killer […] era abituato a uccidere persone ad una distanza di 50 metri anche in condizioni di scarsissima visibilità; in piazza San Pietro era a sette metri, in pieno giorno, con il sole»435R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 9.
Nel primo periodo del processo a suo carico (dal maggio 1982), quando si dimostrò collaborativo, Agca comunicò al giudice Ilario Martella che l’intenzione era uccidere il Papa, «questo era il mandato che mi era stato affidato, tant’è che ho sparato solo due colpi perché accanto a me c’era una suora [di nome Lucia, tra l’altro, NDA] che ad un certo momento mi ha preso il braccio destro, per cui non ho potuto continuare a sparare. Altrimenti io avrei ucciso il Papa»436citato in I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 8.
Per quanto riguarda il caricatore dell’arma di Agca, il pm Antonio Marino ha spiegato che nella pistola di Agca fu trovato un caricatore con dieci colpi e, poiché il caricatore ne poteva contenere dodici, si è sempre dedotto che fossero stati sparati due colpi437A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 31/05/2005, p. 12. Ciò risulta anche dagli atti della documentazione sonora438I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/04/2005, p. 12.
L’esplosione di due colpi fu confermata dal rapporto dell’Ufficio centrale di Vigilanza del Governatorato del 19/05/1981, dall’autista della papamobile, Franco Ghezzi, dal sovrastante Giusto Antoniazzi, dall’agente di Vigilanza Graziano Tommasini, dall’agente scelto Franco Chiei Gamacchio, dall’agente Antonio Mantovani e dal gendarme Ermenegildo Santarossa439R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, pp. 175-183.
Quanto riferisce Accetti, quindi, riguardo al caricamento di 13 proiettili (codice di Fatima), non corrisponde al vero. Sarebbe stato fisicamente impossibile per il tipo di caricatore trovato in possesso di Agca.
La diatriba fu piuttosto sul terzo colpo udito da alcuni presenti quel giorno 440I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/04/2005, pp. 11, 12, testimoniato anche da mons. Stanislao, che stava accanto al Papa. Il processo non ha mai stabilito che il terzo colpo sia stato esploso da un complice di Agca441A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 31/05/2005, p. 13.
g) Un complice di Agca in Piazza San Pietro
Il reo-confesso Marco Accetti ha riferito inoltre che in piazza San Pietro, assieme ad Agca, vi sarebbe stata «una persona accanto a lui che doveva coprirne la fuga accendendo un fumogeno»442in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango libri 2014, p. 61.
Non sappiamo a chi si riferisca, seppur in precedenza disse di aver gestito anche la presenza in quei giorni di Musa Serdar Celebi.
Analisi e verifiche sul complice di Agca
I magistrati che si sono occupati dell’attentato al Papa hanno smentito ufficialmente che Agca abbia agito da solo, parlando esplicitamente e documentando l’idea di un complotto internazionale443priore 444Imposimato, p.15, ordito da entità statali.
E’ infatti piuttosto certo445F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 15 446A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 14/06/2005, p. 25 che in piazza San Pietro vi furono altri elementi a sostegno di Agca.
Alcuni magistrati furono convinti che ci fosse Oral Celik447F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 15, addirittura con «prove schiaccianti»448A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 14/06/2005, pp. 25, 35, insieme ad Antonov449A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 14/06/2005, p. 25.
Altri inquirenti hanno negato, riconoscendo solo un uomo che fugge ripreso di spalle verso il colonnato in corrispondenza di Porta Angelica450R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 28/09/2005, p. 22. Il giornalista Lowell Newton riferì infatti agli inquirenti di aver visto un uomo diverso da Agca scappare con in mano una pistola e di essere riuscito a fotografarlo soltanto di spalle. Dall’immagine si vede la protuberanza della pistola nascosta sotto il giubbotto451I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/04/2005, p. 11.
Lo stesso Oral Celik, interrogato dal giudice Priore, ammise che c’era un’auto in attesa, non sotto l’ambasciata del Canada come si è sempre detto, ma in via di Borgo Angelico (la direzione in cui stava correndo l’uomo fotografato di spalle)452R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 28/09/2005, p. 22.
Nel 2006 una perizia della polizia scientifica su una fotografia scattata in Piazza San Pietro il giorno dell’attentato stabilì la presenza certa di Sergej Ivanov Antonov453Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, Documento conclusivo 15/03/2006, p. 264. Abbiamo mostrato la foto a Marco Accetti ma ci è stato risposto che non si trattava di Antonov.
Ferdinando Imposimato ha criticato tale perizia sostenendo che non vi sarebbe «alcun elemento che induca a ritenere che Antonov si trovasse in Piazza San Pietro. Sarebbe stato assurdo anche dal punto di vista logico, considerato che in quella piazza vengono fatte riprese e scattate fotografie»454F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 24.
Il giudice Rosario Priore fu più prudente affermando che «sappiamo chi era l’autore ma non sappiamo chi erano i coautori presenti a piazza San Pietro»455R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 28/09/2005, p. 18.
Una cosa simile a quella riferita da Accetti fu detta nel 1985 in uno degli interrogatori dallo stesso Agca, quando sostenne che Arslan Samet sarebbe dovuto intervenire, nel caso qualche membro fosse stato catturato, facendo esplodere delle bombe panico. Un anno più tardi ritrattò tutto456R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, pp. 20, 21.
h) Tentativi di condizionare Agca e l’idea del sequestro della Orlandi
Dopo l’arresto di Agca nel 1981 e per evitare la collaborazione con gli inquirenti, la fazione di Accetti avrebbe ideato di effettuare dei pedinamenti “appariscenti” per far credere al turco che si stava organizzando un sequestro di cittadini vaticani da contraccambiare con la sua scarcerazione457M. Accetti, Memoriale, 2014.
E’ con questa motivazione che Accetti spiega gli effettivi pedinamenti che le figlie di Gugel (aiutante Papa) e Cibin (sicurezza Papa) denunciarono dopo la scomparsa di Emanuela.
A pedinare Raffaella Gugel, disse Accetti, sarebbe stato «un membro dei Focolari Idealisti», mentre della figlia di Camillo Cibin si sarebbe occupato un membro della Stasi.. Il nome dell’idealista turco «è negli atti del processo per l’attentato. Non intendo fare chiamate di correità, ma gli organi inquirenti, volendo, arriverebbero a lui facilmente»458in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 72.
Nel marzo 1982, Marco Accetti venne arrestato per detenzione d’arma da sparo459G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46, ha sostenuto in merito che la sua fazione ebbe la notizia che l’attentatore turco intendesse collaborare con i giudici incolpando la delegazione bulgara, «cercammo di fargli credere, fittiziamente, che un servizio dell’Unione Sovietica stesse mandando un neofascista a compiere un omicidio nei suoi confronti. Agca sapeva essere prassi d’oltrecortina usare elementi di destra»460in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 75.
Lo stesso Accetti si sarebbe fatto arrestare «usando un’arma del padre di mia moglie, la quale me l’avrebbe consegnata senza conoscerne l’uso. Quindi il semplice reato era porto abusivo»461in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 75.
Si sarebbe così posizionato «nel giardinetto prospiciente» in piazza Sant’Emerenziana «cercando di far notare al vigilante privato, posizionato innanzi ad una banca, che recavo con me, sotto al giubbotto, una rivoltella», di tipo P38. Venne avvisata la polizia e Accetti finì a Rebibbia. «Nell’interrogatorio di rito simulai un trascorso nell’ambiente del neofascismo, citando fatti inesistenti e inserendo, all’interno degli essi, luoghi ecclesiastici a mo’ di codice»462in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 75.
La minaccia verso Agca sarebbe stata far girare la voce di un emissario del Kgb entrato nelle carceri incaricato di ucciderlo. Al terrorista turco, attraverso un agente corrotto dagli uomini di De Pedis, sarebbe stata fatta leggere una copia del verbale. Accetti fu scarcerato il 29/04/82 e un mese dopo, Agca iniziò a collaborare con gli inquirenti e l’8/11/82 accuserà di complicità i bulgari Antonov, Vassilev e Ayvazov463in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 76.
Analisi e verifiche sul condizionamento di Agca
- Un riscontro al fatto che a pedinare alcune adolescenti vaticane sarebbe stato un “idealista turco” è contenuto nella deposizione del 1984 di Raffaella Gugel, figlia di Angelo Gugel, aiutante di camera del Papa, la quale testimoniò di essere stata pedinata pochi giorni dopo l’attentato al Papa da un uomo «di carnagione scura, tipo nazionalità turca, capelli scuri ricci con occhi scuri»464citata in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 6.
- Lo stesso Agca nel 1990 dichiarò che prima della realizzazione dell’attentato il piano prevedeva il sequestro di diplomatici italiani nel caso un membro fosse stato arrestato e, continuò il turco, «qui è entrata in mezzo la storia di Emanuela e Mirella»465citato in R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 22.
- Non vi sono prove per sostenere che Accetti non abbia consultato gli atti delle deposizioni di Raffaella Gugel e degli interrogatori di Agca e abbia innestato queste informazioni nel suo racconto sul caso.
- Anche per quanto riguarda l’arresto di Accetti per detenzione d’arma da fuoco non è possibile né avvalorare, né smentire quanto riferito dal reo-confesso. La moglie di allora era Eleonora Cecconi, andrebbe indagato se il padre avesse a disposizione una pistola e l’avesse effettivamente prestata ad Accetti.
- In generale sottolineiamo la poca credibilità del racconto di Accetti quando prevede un’immolazione totale della sua persona per salvaguardare i bulgari dalle accuse di Agca (tentativo fallito, tra l’altro), tanto da macchiare (ulteriormente) appositamente la sua fedina penale e passare un mese in carcere. In cambio di cosa?
7.7 Marco Accetti e l’omicidio di José Garramon
Nel dicembre 1983, Marco Accetti fu arrestato e processato per l’omicidio di José Garramon, figlio dei coniugi Maria Laura Bulanti e Carlos Juan Garramòn, ingegnere specializzato in progetti agricoli per l’Ifad, agenzia delle Nazioni Unite. L’uomo fu condannato inizialmente per omicidio colposo e omissione di soccorso.
José era uruguayano, aveva 12 anni e quel giorno uscì da casa alle 17:30, sita in via dell’Aereonautica 99, per dirigersi a piedi dal barbiere, distante 1,5km. Vi arrivò per le 18:15 (ben 40 minuti dopo!). Fu visto l’ultima volta mentre lasciava il negozio sito in viale America 33 alle 18:45. Alle 20:30 il suo corpo esamine fu trovato da un autista di autobus a 20km di distanza in viale di Castel Porziano466G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.
La Corte di Assiste del 1985 stabilì che Marco Accetti nella notte fra il 20 e il 21 dicembre 1983 fu tratto in arresto per omicidio colposo e omissione di soccorso per aver investito Garramon mentre guidava il suo furgone Ford Transit su viale di Castel Porziano all’altezza della cascina nel Bosco, nascondendo il furgone in via Dobbiaco 59.
Qui sotto il furgone di Marco Accetti dopo l’incidente:
Dopo aver nascosto il furgone, Accetti prese un autobus per il centro (fu ritrovato il biglietto) e sarebbe passato da casa sua per telefonare all’amica ed ex fidanzata Patrizia De Benedetti. Con lei, a notte fonda, sarebbero tornati sul luogo per cercare il furgone e recuperare il materiale fotografico a bordo di una Fiat 127.
In via Francesco Cilea furono però fermati dai carabinieri per un controllo dei documenti, vennero sospettati di essere estremisti di sinistra, quali i due erano considerati allora, e portati in caserma467G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46 468P. Nicotri, Fassoni Accetti: tre errori nella sentenza di condanna per la morte di Garramòn, BlitzQuotidiano, 11/03/2014.
Interrogati a lungo in quanto sospettati di brigatismo rosso per la vicinanza di una scuola e dell’abitazione del magistrato Santiapichi, la De Benedetti -già segnalata alla DIGOS come militante dell’estrema sinistra- affermò ad un certo punto di essersi recati lì per aiutare a recuperare il furgone di Accetti. I carabinieri, già a conoscenza dell’omicidio di Garramon, si allertarono e ritrovarono il furgone il mattino seguente (21/12/1983) anche grazie all’ausilio di un elicottero. Accetti fu arrestato immediatamente.
Nel 1986, tre anni dopo, la Corte d’Assise assolse Marco Accetti dall’accusa di sequestro e omicidio nei confronti di Garramon, condannandolo a due anni e due mesi di reclusione per omicidio colposo e omissione di soccorso. Siccome la carcerazione era già stata superiore (oltre un anno in cella, altrettanto ai domiciliari), ne disporrà l’immediata liberazione469in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 152.
Nell’istruttoria non c’è traccia del fatto che Accetti, nelle settimane precedenti l’investimento, si sarebbe recato presso l’abitazione dei Garramon travestito da prete e poi come fotografo, come invece affermato dalla madre di Garramon e dalla sua domestica470M. Accetti, Le falsità della signora Garramòn, 06/08/2014.
Nel 2021 l’ex ispettore della Squadra Mobile di Roma, Pasquale Viglione (oggi in pensione), ha confermato i legami con il caso Orlandi, sostenendo che Peppe Scimone, uno degli uomini di De Pedis, «aveva inviato il suo factotum a procurargli un “ragazzo di vita” alla stazione Termini. È agli atti. Inoltre, aggiungo che la famiglia era proprietaria di una villa a Castel Porziano, che lui usava spessissimo. Questa villa, è distante circa 800 metri dal luogo ove fu investito il piccolo José Garramon, rapito mezz’ora prima all’Eur… Mi fermo qui…».
a) La versione di Marco Accetti sull’omicidio Garramon
Presentandosi in Procura nel 2013 per il caso Orlandi, Marco Accetti ha sostenuto che all’epoca del processo per il caso Garramon non poté rivelare i retroscena dell’episodio471G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43, che sarebbero legati al caso Orlandi.
Chiese pertanto agli inquirenti di fare luce sulla vera natura dell’incidente in quanto, a suo dire, la responsabilità dei fatti sarebbe stata della fazione vaticana a lui contrapposta472G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43.
Emanuela si sarebbe trovata in un camper proprio in quella pineta, custodita da altre ragazze, nei pressi della villa di Severino Santiapichi, presidente del primo processo ad Agca e nell’imminenza di presiedere la Corte d’Assise del secondo processo per l’attentato al Pontefice. «Alla Orlandi, senza spiegare il motivo, facemmo delle foto nelle quali si rendeva riconoscibile il luogo», ha dichiarato Accetti. «Più che Santiapichi, ci interessavano i familiari, in particolare la figlia Arianna, con la quale io stesso scambiai qualche parola, senza farle intendere nulla»473in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.
Il 20/12/1983, alla vigilia dell’uscita dal carcere di Antonov (evento ritenuto un successo per la fazione “progressista”) Accetti e la sua complice tedesca Ulrike si sarebbero recati al camper in quanto i vertici della sua fazione avrebbero deciso di far interrompere le pressioni in corso affinché la decisione non venisse revocata. Rientrando verso Ostia, in compagnia della ragazza tedesca vicina alla Stasi, avvenne l’incidente e Accetti investì José Garramon474G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43.
L’uomo ha sostenuto nel suo Memoriale che, dopo aver involontariamente investito Garramon, la sua preoccupazione fu di farsi arrestare prima che i testimoni oculari della fazione avversa lo denunciassero producendo indizi fasulli. Per questo avrebbe tenuto addosso il giubbotto macchiato di sangue e non avrebbe tolto i frammenti del parabrezza dalla ventola del furgone475in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 154.
La ragazza tedesca sua complice, Ulrike, sarebbe stata con lui al momento dell’investimento di José Garramon per poi dirigersi verso il camper in cui sarebbe stata tenuta Emanuela per spostarlo.
Nel seguente video la ricostruzione dell’omicidio e la tesi di Marco Accetti:
C’è un aspetto controverso nell’interrogatorio subito da Accetti e De Benedetti quella sera e riguarda la presenza o meno del giudice Domenico Sica. Stranamente non fu stato prodotto alcun verbale dell’interrogatorio, perciò non è possibile verificare chi lo firmò.
Nel 2013 Marco Accetti scrisse a un collaboratore di UCCR che «non vi fu alcuna presenza del giudice Sica» durante l’interrogatorio, mentre De Benedetti (scrivendo sotto il falso profilo “Filippo Picchetti”) dichiarò di esserne assolutamente certa.
A noi non sembra così rilevante, ma secondo Accetti «il fatto di Sica è assolutamente determinante. Significa che una testimone del processo [si riferisce a De Benedetti, NDA] ha falsificato la realtà per rendermi non credibile, nella paura che io la potessi coinvolgere». Abbiamo a tal proposito contattato l’ex tenente Roberto Petrecca, presente quella notte in caserma, ma non ricordava assolutamente chi fossero i presenti.
Analisi e verifiche sulla versione di Accetti sull’omicidio Garramon
- Nel febbraio 2016 abbiamo contattato Xavier Santiapichi, figlio del giudice Severino e fratello di Arianna, il quale ci ha riferito che «mia sorella non si è mai interessata di queste cose, fra l’altro aveva un fidanzatino in Sicilia e stava sempre in Sicilia con il suo fidanzatino». Circostanza che ci è stata confermata dallo stesso giudice Saviero Santiapichi in una telefonata del 27/02/16, alcuni mesi prima della sua scomparsa.
- Per quanto riguarda l’utilizzo del camper, vi è invece un possibile riscontro, rimandiamo il lettore alla sezione apposita in cui ne abbiamo parlato.
- Per quanto riguarda la pineta scelta da Accetti e la sua fazione per nascondere Emanuela e operare attività ricattatorie verso la loro controparte, sempre secondo il suo racconto, risulta significativa l’indagine svolta476P. Rossella, Caso Orlandi. La pineta con le radici nel sangue, La Giustizia, 27/06/2023 477Pera R., Caso Orlandi, le Gang del bosco, La Giustizia 16/05/2024 dalla giornalista Rossella Pera.
La pineta di Castel Porziano e la adiacente pineta di Castel Fusano, dove trovò la morte il piccolo Garramon, risultano essere state allora «un oscuro epicentro di attività illecite e sotterranee»478Pera R., Caso Orlandi, le Gang del bosco, La Giustizia 16/05/2024, tra cui spaccio di droghe da parte di bande della capitale e un alto numero di omicidi in gran parte irrisolti.
Le vittime proprio in quegli anni risultano essere state soprattutto giovani, spesso minorenni e prevalentemente di sesso femminile, non legate al mondo della malavita e spesso furono rinvenuti elementi legati a pratiche esoteriche, ai tempi molto diffuse in certi ambienti della destra eversiva. Un picco di scomparse nei pressi della pineta avvennero principalmente nei mesi di marzo, luglio, agosto e ottobre del 1982 e in quelli di maggio, giugno e luglio del 1983479Pera R., Caso Orlandi, le Gang del bosco, La Giustizia 16/05/2024.
Negli anni ’80, le molteplici attività criminali nella pineta di Ostia destarono l’interesse del SISDE (Servizi segreti civili italiani) che confermò proprio in un rapporto del settembre 1983, contestualmente alle indagini svolte dopo la scomparsa della Orlandi, la presenza di attività illecite della criminalità comune ma anche crimini ideologici attuati dall’estremismo di destra480Pera R., Caso Orlandi, le Gang del bosco, La Giustizia 16/05/2024.
Anche Accetti, effettivamente, riferisce che l’attività svolta dal suo “ganglio” nella pineta (pressioni, foto, pedinamenti, lettere di minaccia) sarebbe giunta a conoscenza di elementi del Sisde. Secondo l’uomo, vi sarebbero stati loro dietro al gruppo “Phoenix”, autori di un comunicato del 27/09/1983 (tre mesi prima dell’episodio riguardante Garramon) in cui minacciarono i telefonisti del caso Orlandi, parlando proprio di una “pineta” («Vogliamo generosamente ricordare a Mario che nella pineta c’è tanto posto per aumentare la vegetazione“»).
- La giornalista Rossella Pera ha fatto intendere di conoscere chi abitasse in via Dobbiaco 59, luogo in cui Accetti nascose il furgone subito dopo aver investito Garramon, avanzando il sospetto non fosse stato scelto quel luogo per caso.
- Il giornalista Pino Nicotri ha sostenuto che nella sentenza non è citato il fatto che l’arresto avvenne nei pressi dell’abitazione del giudice Severino Santiapichi, né che «a bloccare Fassoni Accetti sulla 127 fu la scorta di Santiapichi preoccupata per la vicinanza della casa del magistrato»481P. Nicotri, Fassoni Accetti: tre errori nella sentenza di condanna per la morte di Garramòn, BlitzQuotidiano, 11/03/2014.
Patrizia De Benedetti ha spiegato invece dettagliatamente come avvenne l’arresto suo e di Accetti quella notte:
«I carabinieri (che poi erano la scorta del giudice Santiapichi) ci hanno sorpresi nella zona dell’INFERNETTO mentre andavamo a passo d’uomo a bordo di una fiat 127, noi per cercare in mezzo alla boscaglia questo furgone “guasto” che l’Accetti non ritrovava più, e loro -i carabinieri- ci hanno visto invece gironzolare intorno alla villa di Santiapichi, ma che noi neanche immaginavamo che quella fosse la villa del giudice Santiapichi… e quindi ci hanno fermati, hanno controllato i nostri documenti e ci hanno portato in Caserma a Ostia per i controlli più appurati… i Carabinieri hanno chiamato il magistrato Sica, ci hanno perquisito e separati messi in due stanze diverse, e il “fermo” era POLITICO… audita da Sica tutte le sue domande furono incentrate sui brigatisti rossi e sulla mia militanza di estrema sinistra; quando poi cominciò a farmi capire che alludeva al fatto che io fossi andata lì a “spiare” il giudice Santiapichi (che in quel periodo si occupava di uno dei Processi MORO a dei fiancheggiatori), subito gli ho detto che NO, non ero andata lì a spiare i movimenti di Santiapichi per chissà quale “attentato”, ma semplicemente ero andata a recuperare un FURGONE GUASTO dell’Accetti che aveva lasciato in pineta, e in quel momento io ignoravo totalmente che la sera prima ci fosse stato questo INVESTIMENTO stradale pirata a ben 8km di distanza da dove eravamo stati fermati dalla scorta del giudice. Quando il tenente dei Carabinieri, che assisteva al mio “interrogatorio” sentì che io stavo parlando di un “furgone guasto”, si inserì e mi fece un sacco di domande su questo furgone, e io gli risposi tranquillamente su tutto ciò che sapevo. I carabinieri nella mattinata che arrivò riuscirono a localizzare il furgone con l’ELICOTTERO poiché l’Accetti lo aveva occultato talmente bene che neanche lui ricordava dove! E da lì i carabinieri collegarono il furgone all’investimento pirata del giorno precedente e ARRESTARONO seduta stante l’Accetti. Se io quella notte non avessi parlato con Sica di questo furgone, molto probabilmente l’Accetti l’avrebbe fatta franca, perché l’occultamento del furgone era perfetto»
Tuttavia la De Benedetti ha voluto anche categoricamente smentire che il giudice Santiapichi fosse a conoscenza dell’episodio: «Il giudice Santiapichi -e tutta la sua famiglia- nel 1983 NON erano assolutamente a conoscenza dell’incidente Garramon, un incidente che avvenne a 8 km di distanza da casa loro, tantomeno sapevano di questo FURGONE, ignoravano tutta la vicenda, e di certo alla famiglia Santiapichi NON gliene importava proprio niente se la sua scorta avesse fermato in una notte dei “sospetti brigatisti” che in meno di sei ore poi si era ben chiarito l’EQUIVOCO e che si trattava semplicemente di un investimento pirata».
Il fatto che l’omicidio Garramon si svolse effettivamente non lontano dalla villa del giudice Santiapichi è stato confermato sia dal figlio Xavier Santiapichi, da noi intervistato nel febbraio 2016, che dalle cronache dell’epoca.
Su L’Unità del 22/12/1983 si legge questa versione dell’arresto:
«A lui i carabinieri di Ostia sono giunti per un caso del tutto fortuito, a quanto sembra. Sarebbe stata la scorta del giudice Santiapichi, presidente della Corte d’Assise a far scattare l’operazione. Avendo notato infatti un “Ford Transit” simile a quello segnalato nei bollettini di ricerca per il “pirata” di Castelporziano, gli uomini della scorta hanno segnalato il numero di targa alla stazione dei CC di Ostia. Risaliti al proprietario del furgone, i militari hanno scoperto che effettivamente Marco Accetti aveva parcheggiato in garage il suo “Ford”, con un’ammaccatura sul muso anteriore. E mancava anche la targhetta ritrovata vicino al corpo del piccolo José. Per questo l’uomo fu fermato, ed accompagnato in carcere per essere interrogato dal magistrato»
Nella ricostruzione della Procura di Roma del 2015, si rilevò inoltre che Patrizia De Benedetti dichiarò che «lei e Accetti, dopo essere stati fermati e portati in caserma dai carabinieri, appresero solo il giorno successivo che i carabinieri che li avevano sottoposti a controllo appartenevano alla scorta del magistrato Santiapichi, che abitava in quei pressi»482G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 51.
La versione dell’arresto riportata da Fabrizio Peronaci nel suo libro collima con quella di De Benedetti: i carabinieri avrebbero fermato Accetti e De Benedetti alle ore 4 in via Francesco Cilea e, sospettando fossero brigatisti, li avrebbero portati in caserma. Nell’interrogatorio, la De Benedetti si sarebbe tradita citando il furgone, aprendo quindi il collegamento con Garramon e portando Accetti all’arresto483in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 154.
Pino Nicotri ha aggiunto che la De Benedetti sarebbe stata pressata da domande «per lei prive di senso da un magistrato – Domenico Sica – arrivato apposta da Roma perché la vicinanza dell’abitazione di Santiapichi, all’epoca impegnato in processi di grande importanza anche politica, faceva sospettare intenti terroristici»484P. Nicotri, Fassoni Accetti: tre errori nella sentenza di condanna per la morte di Garramòn, BlitzQuotidiano, 11/03/2014.
b) I legami biografici tra Marco Accetti e José Garramon
Considerando che Accetti fu accusato di omicidio colposo (non di rapimento), rimane un mistero come il piccolo José Garramon si fosse trovato a quell’ora su quella strada al buio, nonostante abitasse al’Eur, diversi chilometri di distanza. E’ possibile che l’omicidio non fu una casualità?
Secondo Marco Accetti qualcuno condusse lì Garramòn: «Non ho mai pensato che potessero essere stati i funzionari del Sisde a prelevare il ragazzo uruguyano, ma che gli stessi potessero aver detto a determinati personaggi a loro contigui [la malavita romana, nda], delle nostre attività nella suddetta pineta, e che queste persone, autonomamente, abbiano deciso di “usare” il Garramòn, e senza forse mettere al corrente le persone del predetto servizio dello Stato Italiano»485M. Accetti, Punti 6 e 7 (indizi e prove), 21/01/2014.
Accetti ha rintracciato alcuni elementi che lo collegherebbero al bambino486M. Accetti, Punti 6 e 7 (indizi e prove), 21/01/2014:
- Il primo indizio è oggettivo e non falsificabile: José frequentava lo stesso collegio elementare frequentato da Marco Accetti, la St. George School.
- José era uruguayano, «nazione feudo dell’avvocato Ortolani, i cui uomini erano nostra controparte»;
Analisi e verifiche: l’Uruguay poteva essere effettivamente essere definito il feudo del faccendierie Umberto Ortolani (oltre che di Gelli), esponente della P2, come abbiamo visto in un’altra sezione. La nonna di José Garramon abitava a pochi metri dalla villa di Ortolani (oltre che a quella di Gelli).
- Una certa contiguità tra la famiglia Garramon in Uruguay con Licio Gelli, capo della loggia massonica P2487in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 155;
Analisi e verifiche: questo sarebbe stato per Accetti l’elemento chiave, come disse nel 2013 a Radio Radicale: «Uscito dal carcere, ho conosciuto tutti i motivi che legano i Garramòn a una certa abitazione. Vada a vedere in Uruguay chi abita accanto a lui».Effettivamente la nonna di Garramon abitava a poche centinaia di metri dalla villa di Licio Gelli a Montevideo (oltre che a quella di Umberto Ortolani). La madre di José, Maria Laura, dichiarò a Chi l’ha visto? nel 2013 che «quando eravamo in Uruguay mio figlio andava spesso a giocare con un amichetto nel giardino della villa di Licio Gelli. Si divertivano a cercare l’archivio segreto» Due mesi prima dell’omicidio, José e un amico (o altri amici) entrarono nel giardino della casa di Gelli con una macchina fotografica, il giardiniere li cacciò e rientrarono a casa agitati. Alla domanda su cosa stessero cercando, José rispose che forse avrebbe potuto trovare i documenti che l’Italia stava cercando in Uruguay (nel video più sopra si possono ascoltare le parole della madre).
- José abitava in viale dell’Aeronautica all’Eur, nei pressi dell’abitazione di Enrico de Pedis;
Analisi e verifiche: sembra effettivamente riscontrato che a circa 950 mt. da casa di José vi era uno degli appartamenti che Enrico De Pedis ebbe da Giuseppe Scimone. - L’incidente si verificato vicino alla villa del giudice Santiapichi, presidente del primo processo ad Agca ed in predicato di presiedere la Corte d’Assise del secondo processo per l’attentato al Pontefice;
Analisi e verifiche: come già visto, nelle cronache dell’epoca si riferisce che effettivamente fu la scorta di Santiapichi ad allertare la polizia trovando il furgone di Accetti abbandonato sul ciglio della strada. Circostanza a noi confermata nel 2016 dal figlio, Xavier Santiapichi. - Esattamente un mese prima, verso fine novembre, Accetti e Ulrike fermarono in corso Vittorio Emanuele Stefano Coccia (12 anni), con l’intenzione di ottenere una sua falsa testimonianza contro un membro della curia. Coccia aveva la stessa età di Josè Garramòn;
Analisi e verifiche: circostanza verificata e riconosciuta dallo stesso Coccia, come vedremo nella sezione apposita. - Tre mesi prima, il 19/09/83, in una lettera del “Gruppo Phoenix” vi furono delle minacce al telefonista “Mario” parlando di “pineta”;
Analisi e verifiche: evento verificato, oltretutto legame piuttosto credibile: risulta effettivamente inusuale usare una “pineta” come luogo di minaccia, è fuori contesto soprattutto se tale riferimento non fu mai utilizzato nella telefonata di “Mario”. Accetti ha ragione quando afferma: «Se io devo fare una minaccia di morte posso dire: ti strozzo, ti accoltello, ti sparo, ti infilo in un pilone di cemento..ma nella pineta mai, non ci penso proprio!»488in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 156. Se si considera che la voce di Accetti risulta compatibile con quella di “Mario” (anche la Procura ha parlato di «similitudine»489G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 49), l’elemento della pineta rafforza la tesi di un legame non casuale tra Accetti e Garramon. - José Garramon viveva a pochissima distanza dalle proprietà di Marco Accetti;
Questo dettaglio non è stato citato da Accetti ma è stato parzialmente rivelato da Pino Nicotri490P. Nicotri, Marco Fassoni Accetti: José Garramon e il mistero della strada. BlitzQuotidiano, 12/10/2015. In viale Beethoven 30, ovvero a 750 mt. da casa Garramon e a 300 metri dal barbiere, c’era un locale (ufficio o sala riunioni) della cooperativa edilizia Nuova Oasi, di proprietà di Aldo Accetti, padre di Marco. Mentre a meno di 3km dalla casa dei Garramon e dal barbiere, in via Curzio Malaparte 33, si trovava una palazzina di proprietà della famiglia Accetti, nonché sede della Cooperativa Edilizia491Pera R., José Garramon. Domande ma non risposte, La Giustizia 30/03/2024.Dopo aver investito Garramon, Accetti venne fermato dai carabinieri in via Cilea, nella notte del 21/12/1983 e in compagnia di Patrizia De Benedetti, consegnò i propri documenti nei quali risultava492verbale dei carabinieri di Roma-Ostia, 21/12/1983 che l’indirizzo di residenza era proprio in via Curzio Malaparte, soltanto 3km circa di distanza dalla casa di José. Nonostante ciò, durante il processo verrà assunta come residenza di Accetti la casa di Sant’Emerenziana n.2493Pera R., José Garramon. Domande ma non risposte, La Giustizia 30/03/2024.
Secondo la cronista Rossella Pera, presso la residenza di via Curzio Malaparte soggiornava spesso l’allora fidanza Patrizia De Benedetti 494Pera R., José Garramon. Domande ma non risposte, La Giustizia 30/03/2024. La donna fin dal primo momento ha sempre sostenuto di trovarsi quella sera, fino alla mezzanotte, presso il Teatro San Paolo, indicando nomi e cognomi dei testimoni495verbale relativo all’arresto di Patrizia De Benedetti, 21/12/1983.
c) Conclusioni sul caso Garramon
Quali conclusioni trarre da tutti questi elementi? Ricapitoliamo brevemente le certezze a cui possiamo giungere, provate in maniera oggettiva.
Nel settembre 1983 in un comunicato del gruppo “Phoenix” sul caso Orlandi, si minacciò il telefonista “Mario” parlando, inspiegabilmente, di una “pineta” (elemento indeito che non emerse mai nelle telefonate di “Mario”).
Tre mesi dopo, il 20/12/1983 Marco Accetti investì e uccise José Garramon nella pineta di Castel Porziano non lontano dalla villa del giudice Severino Santiapichi, presidente del primo processo ad Agca e nell’imminenza di presiedere la Corte d’Assise del secondo processo per l’attentato al Pontefice.
E’ tuttora un mistero la dinamica dell’incidente in quanto Accetti non fu condannato per sequestro di persona né per omicidio preterintenzionale (ma per omicidio colposo gravato da omissione di soccorso), mantenendo irrisolta la spiegazione su cosa ci facesse un 12enne, di sera e al buio in una pineta romana, lontano diversi chilometri da casa sua.
La sentenza su Garramon chiarì che il bambino si trovava al centro della carreggiata «che in qualche modo stava per attraversare»496Sentenza Corte d’Assise, 1986, quindi Garramon non stava scappando dal furgone (perché altrimenti restare al centro della strada quando avrebbe potuto spostarsi a lato ed entrare nei campi e nella boscaglia?).
Inoltre, non sono state trovate sue impronte digitali sul veicolo di Accetti e la stessa sentenza, dopo un’indagine psichiatrica, escluse manifestazioni di pedofilia nell’uomo497Sentenza Corte d’Assise, 1986. D’altra parte non fu trovato alcun segno di violenza sessuale, né tracce e reperti sotto le unghie.
Garramon aveva effettivamente alcuni elementi di contatto con il caso Orlandi e, soprattutto, con Marco Accetti. Uno fra tutti il fatto che abitassero a pochi chilometri di distanza.
Nessun testimone osservò la scena di un rapimento o sentì grida d’aiuto. Cosa fece José tra l’uscita di casa e l’arrivo al barbiere? Una volta lasciato il negozio, salì volontariamente sull’auto che lo portò alla pineta? Quest’ultima ipotesi spiegherebbe le dichiarazioni della signora Garramon, sul comportamento strano ed inquieto del bambino nei giorni precedenti, riluttante ad andare a scuola, con tanto di crisi di pianto.
Se Garramon era autonomo nel girare per le trafficate strade di Roma, perché quella sera avrebbe attraversato una strada buia e deserta (tanto che il suo corpo rimase sul ciglio della strada diverso tempo) proprio nell’imminenza dell’arrivo di un furgone con i fari accesi, quindi visibile anche da lontano? Stava forse scappando da qualcuno che lo aveva condotto lì e nella concitazione non si accorse del furgone? Oppure fu in qualche modo indotto ad attraversare volontariamente, andando incontro alla sua morte?
La presenza di Garramon nella pineta può essere spiegata con le molteplici attività di gruppi criminali che si è riscontrato utilizzassero quel luogo per le loro attività illecite?498P. Rossella, Caso Orlandi. La pineta con le radici nel sangue, La Giustizia, 27/06/2023 499Pera R., Caso Orlandi, le Gang del bosco, La Giustizia 16/05/2024.
Nel 2024 Patrizia De Benedetti ha espresso il dubbio che i genitori di José Garramon sapessero molto più sul motivo per cui il figlio si trovasse in quella pineta, mostrandosi sospettosa sul loro comportamento durante il processo a Marco Accetti nel 1986:
«L’Accetti fu portato in processo con le accuse gravissime di “sequestro di minore per pedofilia con omicidio VOLONTARIO in morte di José Garramon”. In questo processo […] la MADRE di José NON si costituì Parte Civile e neanche era rappresentata da un avvocato, giuridicamente risultava ASSENTE. Si costituì Parte Civile solo per “proforma” il padre di José, eppure c’era da giudicare un ASSASSINO che “volutamente” aveva dato la morte a José […]. Durante il dibattimento in Aula, tutte le sorti dell’Accetti si rivoltano e gli vengono derubricati i reati, lo ASSOLVONO dalle accuse di “sequestro di minore causa pedofilia con omicidio volontario” e il Pubblico Ministero chiede alla Corte una condanna di CINQUE anni e qualche mese per “omicidio COLPOSO e omissione di soccorso per pirateria stradale”. La Parte Civile (il padre di José) chiede alla Corte come risarcimento UNA LIRA simbolica. La Corte si ritira e la Sentenza conferma le imputazioni di “omicidio COLPOSO con omissione di soccorso” e l’Accetti viene condannato a DUE anni e due mesi di pena. L’Accetti viene riconosciuto solo come INVESTITORE mortale pirata della strada. A questa sentenza i Garramon NON fanno ricorso in Appello, e neanche chiedono alla magistratura di riaprire eventuali indagini contro ignoti per “sequestro di minore”. Tutto si chiude così nel 1986, senza richiesta di Appello da parte dei Garramon, la sentenza va in Cassazione e viene confermata: José morì accidentalmente investito da un furgone e chi guidava NON si fermò a soccorrerlo e scappò via. L’assenza della madre che non si costituì parte civile contro l’Accetti, il padre che neanche proforma fa richiesta di ricorso in Appello per una pena più severa, fa venire da pensare che i Garramon sapessero bene il motivo e come José andò quella sera in pineta, e consideravano l’Accetti, già dall’inizio del processo, come il solo responsabile dell’investimento mortale… e di nient’altro».
Le sentenze hanno escluso l’ipotesi più verosimile, cioè la responsabilità di Marco Accetti nel prelievo dall’Eur di José Garramon. L’unico aspetto controverso è il fatto che Aldo Accetti, padre di Marco, avesse un’abitazione o un ufficio a poca distanza dall’abitazione del giovane. Andrebbe quantomeno chiarito.
Considerando gli elementi biografici che effettivamente accomunavano Garramon a Marco Accetti e alla complessa storia di fazioni vaticane di cui ha parlato a lungo (vicinanza della villa Santiapichi, contiguità con le abitazioni di Gelli e Ortolani, minaccia di “Phoneix” e la scuola frequentata) risulta verosimile che la presenza del giovane uruguayano e il suo omicidio involontario da parte del reo-confesso Accetti non fu affatto casuale.
d) Marco Accetti, Garramon e il caso del nomade
Legato al caso di José Garramon ci sarebbe un altro episodio svoltosi sempre nella pineta di Castel Porziano.
E’ un presunto episodio raccontato da Marco Accetti e, in maniera deformata, anche da Sabrina Minardi nel 2008.
Iniziamo dalla versione della Minardi, la quale riferì che tra l’83 e l’84 il suo amante De Pedis le avrebbe chiesto di tenere in braccio una zingarella di due anni mentre si sarebbero diretti proprio nella pineta di Castel Porziano, in direzione Ostia. Ad un certo punto avrebbe accostato e, assieme ad un complice sopraggiunto, si sarebbero inoltrati nella boscaglia e le avrebbero sparato.
Non vi è stato alcun riscontro su questo episodio, tuttavia Accetti sostenne che «la signora Minardi ha trasfigurato un reale episodio in cui ero presente», cioè una “simulazione” di omicidio di un nomade che la donna configura come un reale omicidio, «trasfigurando anche il sesso e l’età del giovane»500M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.
Il vero episodio, secondo Accetti, sarebbe avvenuto nell’autunno 1983 quando in un campo vicino alla pineta di Castel Porziano avrebbero pagato il padre di un nomade di 12 anni per avere l’autorizzazione a filmare suo figlio per «esigenze cinematografiche» nella stessa pineta. Al giovane sarebbe stata puntata una pistola 357 Magnum alla testa, e dopo il finto sparo si sarebbe gettato a terra, fingendosi morto. Nella scena sarebbe apparso anche un finto prete501M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.
Tale filmato sarebbe servito per fare pressioni su mons. Giovanni Cheli, un ostacolo per la fazione accettiana alla restituzione dei fondi che la Magliana aveva affidato al Banco Ambrosiano-Ior. Tale prelato «nel 1983 aveva dei rapporti presso la Pontificia Commissione per la Pastorale dei Migranti, che tra l’altro si occupava dei diritti dei nomadi»502M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.
Dopo aver investito Garramon il 20/12/83 e aver osservato il volto del giovane uruguayano, Accetti ha sostenuto di averne ravvisato «nei tratti la possibilità che questi fosse un giovane nomade, pensando conseguentemente che potesse trattarsi di una possibile vendetta per l’aver noi portato il giovane nomade di cui sopra nella stessa pineta, per le pressioni nei confronti di mons. Cheli»503M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.
Secondo Accetti, la Minardi userebbe la stessa tecnica di Agca nel raccontare parte della verità e al tempo stesso rendere la deposizione inverosimile, inutilizzabile a fini giudiziari, così da non coinvolgere altre parti in causa.
Un’altra prova di questo modus operandi sarebbe il racconto fornito dalla donna sull’uccisione del piccolo Domenico Nicitra (11 anni) da parte di De Pedis, sbagliando clamorosamente la collocazione temporale di dieci anni. Secondo Accetti, «pare che la Minardi lo coinvolga proprio per indicarne l’età, 11, come a rammentare sotto forma di codice l’età del reale minorenne nomade che fu da noi condotto in quella pineta, se non addirittura ricordando il giovane Garramòn, di 12 anni»504M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.
Ragionamento ribadito dall’uomo in un’altra occasione: «La Sabrina Minardi ambienta giustamente l’episodio, ma trasfigurandolo, modificandone la realtà per suoi motivi di cui non sono a conoscenza e rendendolo impropriamente un fatto omicidiario»505M. Accetti, Ultima e nuova considerazione sulla tv di Stato, 26/16/2013.
Infine, Accetti ha sostenuto che nel 1996 il suo ganglio sarebbe venuto a conoscenza della scomparsa di un altro nomade di 12 anni, Bruno Romano e, pur non avendo nulla a che vedere con tale sparizione, avrebbero nuovamente simulato che lo stesso ecclesiastico, membro della Pontificia Commissione per i Migranti e vicino a mons. Cheli (nel frattempo diventato pro-presidente della Commissione), potesse esserne ancora il responsabile506M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.
Avrebbero così inviato una missiva anonima agli inquirenti dalla quale sarebbe stata avviata un’indagine che incluse intercettazioni telefoniche anche all’utenza di Accetti. Fu in quell’occasione che nell’aprile 1997 gli inquirenti carpirono due conversazioni separate tra Accetti e l’ex compagna, Ornella Carnazza mentre quest’ultima lo minacciava di rendere noto alla polizia il suo coinvolgimento con il caso Orlandi.
Accetti venne denunciato da una fonte fiduciaria qualificata della polizia proprio per la sparizione del bambino rom Bruno Romano, avvenuta il 26/12/1995 con la complicità di Ornella Carnazza. Le indagini tuttavia smentirono la responsabilità dei due e non emerse alcun riscontro a quanto dichiarato dalla fonte fiduciaria507G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.
e) Conclusioni sul caso del nomade nella pineta
Non esistono al momento riscontri sulla verità del racconto di Accetti rispetto all’uso di un giovane nomade per creare filmati da usare come oggetti di pressione verso mons. Giovanni Cheli (deceduto nel febbraio 2013, un mese prima della comparsa di Marco Accetti in Procura).
Risulta poco credibile quel che dice Accetti rispetto a Sabrina Minardi, cioè che la donna abbia astutamente rivelato episodi realmente avvenuti e che videro protagonista lo stesso Accetti, pur trasfigurandoli completamente per non renderli utilizzabili a fini giudiziari. Anche la Minardi “giocherebbe” con i codici? A chi si starebbe rivolgendo?
Come abbiamo già visto, nelle intercettazioni telefoniche carpite dagli investigatori la Minardi apparve preoccupata solamente da un ritorno economico delle sue rivelazioni508G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 37 e gli stessi inquirenti sottolineraono le sue «pessime condizioni di salute, fisiche e mentali»509G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 32, 37.
Rispetto a Bruno Romano, appare controversa la versione di Accetti secondo cui lui o il suo ganglio avrebbe sfruttato la sua sparizione (di cui non ebbe responsabilità) inviando delle missive anonime agli inquirenti. Si sarebbe auto-lesionato quindi, in quanto le indagini caddero proprio sulla sua persona? Riemerge la poco credibile immolazione della sua persona.
Resta il fatto oggettivo che il reo-confesso venne denunciato da una fonte fiduciaria qualificata della polizia del rapimento del giovane Romano (poi fu assolto), rimarcando ancora una volta una certa contiguità di Accetti con il mondo adolescenziale.
7.8 Marco Accetti, la pedofilia e la sparizione di Magdalena Chindris
Fin dai primi mesi della comparsa di Marco Accetti in Procura, la trasmissione televisiva Chi l’ha visto?, condotta da Federica Sciarelli, avviò una dura campagna contro di lui accusandolo di pedofilia ma, allo stesso tempo, ritenendolo totalmente inattendibile sul caso Orlandi-Gregori.
Un comportamento, quello di Rai3 (televisione di Stato) dettato chiaramente dalla ricerca di audience tramite facile scandalismo. Nonostante nessun processo a carico di Accetti abbia mai accennato a sue perversioni sessuali verso minorenni, la trasmissione ha spesso manipolato i racconti sull’uomo adombrando sospetti più o meno palesi.
C’è però un caso oggettivo in cui Chi l’ha visto? ha prodotto un elemento interessante, ovvero quando si è occupata della sparizione di Magdalena Chindris. La donna scomparve nel nulla all’età di 46 anni, in data 31/05/1995. Lasciò la figlia Ester, allora ventiduenne e oggi ancora in ricerca della madre.
Madre e figlia abitavano a Roma e, negli anni ’80, Magdalena si innamorò di un fotografo di nome Gherardo Gherardi e iniziò a lavorare nel suo studio sito nel quartiere Africano-Trieste (a 5 minuti da casa di Marco Accetti, in piazza Sant’Ermeneziana).
Gherardi è il primo collegamento tra Magdalena Chindris e Marco Accetti, infatti l’uomo testimonierà al processo Garramon del 1984-85 sostenendo che Accetti dall’inizio degli anni ’80 frequentava il suo studio fotografico e, proprio il pomeriggio della scomparsa José, sarebbe passato dal suo negozio per ritirare del materiale. Gherardi dimostrò così che Accetti non avrebbe avuto il tempo per appostarsi e sequestrare il bambino uruguayano nel quartiere Eur.
Verso la fine degli anni ’80, Magdalena conobbe e si fidanzò con l’intellettuale Aldo Rosselli e si trasferì in via Torino, la casa in cui scomparve nel 1995. A detta della figlia, era una casa visitata spesso da intellettuali socialisti e persone famose.
Il 31/05/1995, rientrata a casa, la figlia Ester trovò una macchia di sangue in camera da letto («come se qualcuno ferito fosse scivolato a terra») e una scena che simulava un tentativo di suicidio: una scala al centro della stanza, il ventilatore da soffitto appoggiato al divano con attaccata una cravatta annodata e, accanto, un foulard annodato più volte come fosse un cappio. Il corpo non fu mai trovato.
Riteniamo che la soluzione possa inevitabilmente essere una di queste:
- 1) Magdalena ha tentato senza successo di suicidarsi, poi è uscita di casa ed è sparita;
- 2) Magdalena ha finto un suicidio, poi è uscita di casa ed è sparita;
- 3) Magdalena è stata uccisa fuori casa (altrimenti ci sarebbero stati maggiori segni di omicidio), qualcuno è entrato nell’appartamento e ha inscenato un suicidio;
- 4) Magdalena si è suicidata in casa o è stata indotta al suicidio, qualcuno poi ha fatto sparire il corpo;
Il portiere del palazzo, intervistato da Chi l’ha visto?, ha ricordato di averla vista uscire di casa quel giorno in tarda mattinata. Era serena, aveva due buste in mano (uno con delle bottiglie vuote), ha salutato e si è diretta verso la stazione Termini. Un taxista l’ha portata a piazza Farnese, si è ricordato della donna in quanto ne è nato un diverbio sul pagamento.
Qui sotto un video che ricostruisce la scomparsa di Magdalena Chindris:
Il caso di Magdalena Chindris è in qualche modo collegato con Marco Accetti in quanto sia l’ex fidanzato della donna, Gherardo Gheradi, che la stessa Magdalena, testimoniarono a favore di Accetti nel processo del piccolo Garramon del 1984-1986. Mentre Gherardi lo scagionò dal rapimento di Garramon, Chindris escluse che l’uomo fosse un pedofilo.
Secondo il verbale del 26/05/1986 relativo all’udienza della I Corte d’assise di Roma, presieduta da Umberto Feliciangeli, sul caso Garramon, Magdalena Chindris disse di aver conosciuto Accetti nel 1982 o 1983 grazie all’amico comune Gherardo Gherardi e di avervi stretto amicizia e di avergli affidato più volte sua figlia tredicenne, Ester Ceresa, la quale era contenta di passare del tempo con lui.
Fu la donna a proporre ad Accetti di fotografare Ester ma, secondo il racconto della figlia, l’uomo non gliele avrebbe fatte, lasciandola davanti alla TV a vedere i cartoni animati. Per questo Ester tornò imbronciata.
Ecco le parole conclusive della testimonianza di Magdalena Chindris:
«Finito l’episodio non l’ho più visto. Ho avuto contatti con lui solo dopo l’incidente, quando, diciamo, è stato agli arresti domiciliari. Sono ritornata con la bambina, anche se la bambina, io penso, non aveva grande confidenza come me, ammettiamolo, era restia nel ritornare in quella casa, anche se lui magari dimostrava qualcosa di morboso nei confronti della mia bambina, invece la bambina è ritornata tutta contenta da lui»510Testimonianza di Magdalena Chindris al processo Garramon, 1984-1985