Il giudizio di Papa Francesco: «la famiglia è tra uomo e donna»

Papa francescoTornando in aereo dalla Giornata Mondiale della Gioventù in Brasile, papa Francesco ha esposto ai giornalisti quello che riporta da anni il Catechismo, ovvero che la Chiesa ha sempre condannato il peccato e non il peccatore. Il Pontefice ha spiegato: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla? Il catechismo della Chiesa cattolica dice che queste persone non devono essere discriminate ma accolte».

Se questa è la posizione della Chiesa rispetto ai fratelli omosessuali, il giudizio di Papa Bergoglio sul matrimonio e sulla famiglia è arrivato un mese dopo nel messaggio del Pontefice alla Settimana Sociale dei cattolici italiani: «La Chiesa offre una concezione della famiglia, che è quella del Libro della Genesi, dell’unità nella differenza tra uomo e donna, e della sua fecondità. In questa realtà riconosciamo un bene per tutti, la prima società naturale, come recepito anche nella Costituzione della Repubblica Italiana», ha spiegato Francesco. «Vogliamo riaffermare», ha proseguito il Pontefice, «che la famiglia così intesa rimane il primo e principale soggetto costruttore della società e di un’economia a misura d’uomo, e come tale merita di essere fattivamente sostenuta». Per sostenere tutto questo non occorre la fede: «Queste riflessioni non interessano solamente i credenti ma tutte le persone di buona volontà, tutti coloro che hanno a cuore il bene comune del Paese».

Come Benedetto XVI, anche Francesco ha puntato l’indice contro «le conseguenze, positive o negative, delle scelte di carattere culturale, anzitutto, e politico riguardanti la famiglia». Conseguenze che «toccano i diversi ambiti della vita di una società e di un Paese: dal problema demografico, che è grave per tutto il continente europeo e in modo particolare per l’Italia, alle altre questioni relative al lavoro e all’economia in generale, alla crescita dei figli, fino a quelle che riguardano la stessa visione antropologica che è alla base della nostra civiltà». Dobbiamo dare atto questa volta ai principali media di aver riportato la notizia senza le solite strumentalizzazioni o omissioni si veda ad esempio “Repubblica”.

Un altro giudizio interessante di Francesco è stato rivolto ai cattolici durante l’omelia nella domus di Santa Marta, invitandoli ad “immischiarsi in politica”: «Chi governa deve farlo con umiltà e amore, caratteristiche indispensabili. E i cittadini, soprattutto se cattolici, non possono disinteressarsi della politica». In particolare, ha proseguito Francesco, «un buon cattolico si immischia in politica, offrendo il meglio di sé, perché il governante possa governare». Ricordiamo che non è proprio una buona notizia per gli amici devoti al laicismo come il vaticanista Marco Politi, che infatti ancora una volta ha scelto di non commentare la notizia come invece avrebbe dovuto fare nel rispetto dei suoi lettori. Nemmeno Roberto Saviano ha commentato, lui che qualche mese fa invitava proprio i cattolici a non entrare in politica: «La Chiesa non ha alcun diritto di condizionare le leggi e le istituzioni dei paesi laici. I cattolici possono dire la loro, ma non influenzare o boicottare nuove leggi. Questo è profondamente ingiusto».

La redazione

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Chi colma il cuore della donna

Costanza MirianoQui sotto il testo preparato da Costanza Miriano per il Seminario dei 25 anni dell’enciclica Mulieris Dignitatem, organizzato dal Pontificio Consiglio per i laici.

 

di Costanza Miriano*
*scrittrice e giornalista

 
da Il blog di Costanza Miriano
 

Quando lessi la prima volta la Mulieris Dignitatem credo proprio che non ne capii praticamente nulla, nella sostanza: avevo diciassette anni, e idee tutte strampalate su come dovessero essere maschi e femmine, sul matrimonio, su una malintesa parità tra i sessi. Mi sembravano belle parole, ma destinate a rimanere su carta.

Dieci anni dopo l’enciclica mi sono sposata, e i successivi quindici li ho passati praticamente a cercare di comprenderla. Piano piano, con il tempo, le parole del Santo Padre si stanno traducendo in carne, si sono incarnate nella storia della nostra coppia, hanno dato un nome a ciò che vivevo e anche in parte soffrivo. Credo che in amore si soffra quando si dimentica che “C’è un paradosso nell’esperienza dell’amore: due bisogni infiniti di essere amati si incontrano con due fragili e limitate capacità di amare”. (R.M. Rilke) “Solo nell’orizzonte di un amore più grande è possibile non consumarsi nella pretesa reciproca e non rassegnarsi, ma camminare insieme verso un Destino di cui l’altro è segno”. (C.S. Lewis)

Uomo e donna sono due povertà che si incontrano e si donano. Quella che Lewis chiama pretesa reciproca è destinata a rimanere delusa a causa del nostro peccato, e a causa delle differenze tra l’uomo e la donna. Avere un’identità adulta a mio parere significa proprio accogliere questa verità: cioè che l’altro non potrà mai colmare tutte le attese, anche involontarie, o le pretese che noi riversiamo sulla persona che ci è a fianco. Avere un orizzonte più grande significa invece che le piccole mancanze e delusioni reciproche le possiamo vivere non come crepacci nei quali cercare di non cadere, né tanto meno come rivendicazioni, ma come “giogo soave”, un peso leggero che serve alla propria conversione, che è poi il fine della vita qui sulla terra.

Ogni attesa disattesa – perché l’amore non è quell’unione simbiotica spontanea, gratuita, facile, che prende il nome di amore, almeno nella cultura occidentale dal romanticismo in poi – ogni attesa disattesa, dicevo, dunque non è che lo scartavetramento della vita sul nostro ego, su quella parte di noi che è ferita dal peccato originale e che quindi non funziona, non ci permette di entrare in un rapporto vero e personale con Dio. Ogni uomo e ogni donna sono chiamati a essere sposi prima di tutto del Signore, sia che siano consacrati, e allora è direttamente lui lo sposo, sia che siano invece sposati, e quindi l’altro diventa la via privilegiata per amare e ricevere amore da Dio, che rimane sempre però il nostro sposo. Quello che guarisce i rapporti è ricordare che se il fine oggettivo del matrimonio è quello di generare figli, quello soggettivo è generare se stessi, quindi, poiché esattamente come per le persone consacrate, è il rapporto con Dio che ci definisce, lo sposo è la via per realizzare questa unione con Dio. Amando lo sposo, la sposa, si ama Dio, e questo ci permette innanzitutto di uscire dalla logica “del ragioniere” che sembra prevalere in tante coppie. E poi, ad un livello molto più profondo, l’uomo maschio e  femmina è a immagine di Dio, quindi necessariamente il rapporto con l’altro ci dice qualcosa di decisivo su noi stessi.

L’altro dunque, così diverso, che così spesso ci fa arrabbiare, venire i nervi, ci delude, ci ferisce, non è sbagliato, ma è semplicemente il “segnaposto del totalmente Altro”, come lo definisce il cardinal Angelo Scola, e ci costringe a una domanda sul senso, ci costringe alla conversione. Ci porta a una forma di amore preterintenzionale direi, che parte cioè dalla rinuncia a tutto o a molto di quanto si era atteso o proiettato sull’altro. Si abbraccia quasi la morte dell’amore come lo si era immaginato, e si accetta di perdere. Si ama non più con lo slancio dell’emozione ma con l’amore di un monaco che scolpisce una minuscola scultura sotto la volta di una cattedrale, qualcosa di piccolo e prezioso che non vedrà quasi nessuno, solo coloro che avranno la pazienza di alzare lo sguardo. Preparare un pasto o accogliere le critiche, accettare cambi di programma, silenzi quando si vorrebbe parlare e parole quando si vorrebbe dormire, allegria quando si vorrebbe piangere e riposo quando si vorrebbe proporre. Nella fedeltà al matrimonio partecipiamo dunque anche noi come parte della Chiesa a un’opera che ci trascende, il regno dei cieli, anche se a noi è stata affidata solo quella piccola scultura là in alto, che nessuno guarderà.

Quando manca questa dimensione c’è un amore solo emotivo e si soffre. E sono soprattutto le donne, per la mia esperienza e per quella di coloro con cui sono entrata in contatto dopo aver scritto i miei libri, in scambi anche profondi, a soffrire. Soffrono perché hanno perso il contatto con la loro identità profonda. Gli ultimi decenni per la donna sono stati davvero di grande cambiamento, e non è il tema del mio intervento quindi non mi attardo su questo. Mi limito solo a dire che se la donna ritrova il suo posto tutto si rimette in ordine. La donna soffre perché in lei c’è quella nostalgia del primo sguardo che si è posato su di lei. L’eccomi dell’uomo che risponde all’eccomi di Dio è essenzialmente femminino. Più interiorizzata – scrive Pavel Evdokimov ne La donna e la salvezza del mondo – più vicina alla radice, la donna si sente a proprio agio nei limiti del proprio essere e con la sua presenza riempie il mondo dall’interno. La donna possiede una complicità con il tempo, perché sa che il tempo è gestazione, è attesa per qualcosa, per qualcuno. È predisposta al dono di sé, e infatti si realizza quando può donarsi, che sia a dei figli di carne o no. Ha nostalgia dello sguardo che si è posato su di lei al momento della creazione, infatti desidera intimamente che qualcuno le dica che è bella, mentre l’uomo desidera sentirsi capace di portare a termine progetti, di risolvere problemi, di proiettarsi fuori di sé.

Per mezzo della donna l’umanità è invitata a trovare la sua vocazione sponsale con il Signore. È sempre una vocazione in cui la Sposa risponde con il suo amore a quello dello Sposo, dice la Mulieris Dignitatem, lo sposo con la S maiuscola, il Signore. Per questo, scrive il catechismo della Chiesa cattolica, la dimensione mariana, la vocazione prima di tutto sponsale dell’umanità, precede quella petrina. San Paolo nella lettera agli Efesini parla del matrimonio tra un uomo e una donna come di un mistero grande. Accostarsi al mistero del maschile e del femminile ci introduce al mistero di Dio, che ci ha creati maschio e femmina, a sua immagine. La tensione tra maschile e femminile rimanda alla tensione amorosa fra le tre persone della Trinità, solo che noi uomini siamo feriti dal peccato originale. In Efesini 5 sono individuati i punti cruciali, i nodi di peccato dell’uomo e della donna. La donna è invitata a essere sottomessa allo sposo, l’uomo a dare la vita per la sposa, in modo che replichino nel matrimonio la dinamica tra Cristo e la Chiesa, quindi senza dominio o sopraffazione, ma in un dono reciproco.

La donna è invitata a essere sottomessa perché al contrario la sua costante tentazione è quella del controllo, di cercare di plasmare, di formattare coloro che le sono affidati. I figli ma anche lo sposo, spesso. In realtà queste sono qualità di cui l’ha dotata la Provvidenza perché la donna è chiamata a formare, a educare, come diceva anche Benedetto XVI: la donna conserva la consapevolezza che il meglio della sua vocazione è nell’aiutare la vita nel suo formarsi. Che sia sposa o che sia nubile la donna è chiamata a preservare e a fecondare la vita, a orientarla verso la luce. È chiamata a essere promemoria per l’umanità tutta. Come dice ancora Evdokimov c’è una particolare connivenza tra la donna, essere naturalmente religioso, messa di fronte ai misteri più gravi della vita, e lo Spirito datore di vita e consolatore. Lotta per l’uomo, per la sua salvezza. In questa vocazione lavora come sempre il peccato, e così la capacità di orientare al bene rischia continuamente di trasformarsi in tentazione di volere che le cose nel mondo vadano come vogliamo noi. Prendiamo un uomo che mediamente ci può andare, e lo vogliamo migliorare, così rischiamo di non permettere all’altro di essere. Finiamo per correggere, riprendere, per non lasciar emergere gli altri con le loro vere qualità.

La donna invece  è chiamata proprio a questo, a fare da specchio all’uomo, a rimandargli un’immagine positiva di sé, a mettere il lievito dell’amore nel rapporto. Serve una donna che sappia fare spazio, che non abbia paura di perdere posizioni, che parta da un pregiudizio positivo sull’uomo, che prenda l’impegno di fidarsi di lui e del suo sguardo sul mondo, lealmente decisa a  riconoscere di non essere l’unica depositaria del bene e del male – Eva! –   non perché debole ma proprio perché solida, resistente, accogliente. Questo atteggiamento, quando è onesto, limpido, non manipolatorio è un lievito potentissimo perché l’uomo non resiste a una sposa che gli sta lealmente accanto, sottomessa nel senso che rinuncia a imporre sempre il suo punto di vista e comincia a fidarsi, a valorizzare ciò che vede di bello nell’uomo. E così l’uomo comincia a sentire il desiderio di dare la vita come Cristo per la Chiesa. Non una semplice cooperazione di sforzi, ma la creazione di una realtà assolutamente nuova del maschile e del femminile che vanno a formare il corpo del sacerdozio regale. Gloria dell’uomo, come dice san Paolo, la donna è come uno specchio che riflette il volto dell’uomo, glielo rivela e così lo corregge. E così l’uomo si sente spinto a uscire fuori e dominare la terra, e a farlo non per sé ma per coloro che gli sono affidati, per i quali diventa pronto a prendere su di se i colpi della vita.

Il nodo di peccato dell’uomo, infatti, quello per cui san Paolo lo invita a essere pronto a morire per la sposa, è l’egoismo. Il desiderio di tenere qualcosa per sé. Di coinvolgersi ma risparmiando qualcosa, di mettere da parte, di rifugiarsi ogni tanto nel suo spazio privato, senza interferenze. Per l’uomo è faticoso tenere lo sguardo sempre rivolto alla donna, al rapporto, alla casa. L’uomo infatti ha una diversa accentuazione esistenziale: va al di là del proprio essere, ha un carisma di espansione, aspira alla crescita di tutte le sue energie che lo prolungano del mondo, ha un diverso rapporto con il potere. Sto facendo, è appena il caso di puntualizzarlo, un discorso non sociologico, ma spirituale: non sto dicendo che sia solo l’uomo chiamato a uscire fuori di casa e a dare il suo contributo per migliorare il mondo. Non stiamo parlando del mondo del lavoro né del potere. Non è un discorso su chi abbia più o meno dignità, è ovvio che siamo su un altro piano, e che diamo per assodato che l’unica dignità che conti nella Chiesa non può essere altro che l’acquisizione dello Spirito, e in questo la donna è privilegiata.

Sul piano dunque spirituale l’uomo esce la donna accoglie, l’uomo si tende verso l’esterno la donna verso l’interno, l’uomo è il muro, il senso della realtà, la donna l’accoglienza, e questo lo si vede sul piano educativo, nel rapporto con i figli, la donna ha il genio della relazione, tesse trame, spesso l’uomo è più bravo nel potare i rami secchi. Per concludere vorrei ricordare quello che Karol Wojtyla, da vescovo, diceva alle coppie di fidanzati: non dire “ti amo” ma “partecipo con te dell’amore di Dio”. Questo, credo, sia avere un’identità davvero matura

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Il divorzio riesce a sciogliere la promessa “per tutta la vita”?

Valentina Sciubba
 
di Valentina Sciubba*
*psicologa e psicoterapeuta

 

Nelle società occidentali separazioni e divorzi sono aumentati negli ultimi 40 – 50 anni. In Italia “i tassi di separazione e di divorzio totale sono in continua crescita. Nel 1995 per ogni 1.000 matrimoni si contavano 158 separazioni e 80 divorzi, nel 2011 si arriva a 311 separazioni e 182 divorzi”.

Se ci sono persone che, una volta sciolto il vincolo matrimoniale, riescono a trovare una situazione di stabilità e di equilibrio grazie ad un più confacente legame sentimentale, ce ne sono molte altre che non ci riescono e che spesso vanno incontro a convivenze non durature o che comunque non si trasformano in legami sanciti da norme civili o religiose. Vale la pena domandarsi in questi casi perché ciò avvenga e se la prima separazione sia stata veramente un atto ponderato.

Sorge il dubbio che molte coppie di fronte alle prime difficoltà di una certa entità, scelgano la strada per certi versi più semplice ed immediata della separazione piuttosto che intraprendere un percorso più impegnativo di crescita personale, di modificazione di atteggiamenti e comportamenti che potrebbe preservare la loro unione. Ritengo che la legge dovrebbe prevedere obbligatoriamente per ogni coppia che intende separarsi, non solo il tentativo di conciliazione del giudice, ma anche almeno 2-3 colloqui con uno psicoterapeuta di coppia. Ciò non deve sembrare strano se si pensa alle numerose visite psicologiche a cui sono chiamati coloro che intendono adottare un bambino; in molte coppie che si separano non ci sono forse dei minori che vanno salvaguardati? E la salute degli stessi membri della coppia non potrebbe essere a rischio? Le ricerche epidemiologiche ci dicono chiaramente che i coniugati godono di migliore salute rispetto ai separati e ai divorziati.

Che cosa rende “costitutivo” il matrimonio? Sia nel rito civile che in quello religioso è essenziale la presenza dei membri della coppia, di due testimoni e dell’incaricato dallo Stato o dalla Chiesa di accettare e iscrivere nella società civile o religiosa la nuova unione. I principali soggetti “attivi” del rito sono comunque i membri della coppia; sono essi che manifestano una volontà congiunta di assumere degli impegni di non poco conto. Nel rito civile viene chiesto agli sposi di manifestare la loro chiara volontà, che si suppone libera e consapevole, in merito all’assunzione dei diritti e doveri che la condizione matrimoniale comporta nell’ordinamento dello Stato. In particolare gli sposi assumono impegni di fedeltà, assistenza, convivenza, collaborazione. Nel rito religioso la necessità di una volontà libera e consapevole è esplicitata da apposita domanda del celebrante agli sposi. I diritti e i doveri derivanti dal matrimonio sono riassunti in una formula con cui gli sposi si impegnano alla fedeltà e ad amarsi e onorarsi “per tutta la vita”. Nel matrimonio religioso tali promesse vengono formulate nella “cornice” della religione cristiana. Si tralascia, per brevità, di menzionare i doveri derivanti dall’acquisizione di prole.

In ambedue i riti è indispensabile una chiara, libera e consapevole manifestazione di volontà degli sposi a contrarre matrimonio che appare come l’elemento principale che rende il matrimonio stesso effettivo e valido. In tal senso la libera volontà, ai fini della validità del matrimonio, è probabilmente molto più importante e necessaria di una travolgente passione.
Nel matrimonio civile nulla si dice in merito alla durata dell’impegno, in quello religioso gli sposi promettono di amarsi ed onorarsi per tutta la vita. Se la volontà è il principale elemento costitutivo del matrimonio, logica vuole che una volontà simile e contraria debba essere necessaria per il suo scioglimento, ma come sciogliere una libera promessa, davanti a testimoni, che si è fatta “per tutta la vita”?

Un detto recita che “ogni promessa è debito” e i ripetuti fallimenti di molti separati nel ricostituire un legame stabile sembrano testimoniare proprio una impossibilità a sciogliere una tale promessa. Si prescinde qui da ogni considerazione a carattere religioso; piuttosto, in quanto psicologa, prendo atto di una sorta di anello di congiunzione che su questo punto sembra intersecare psicologia e religione. Avviene così che quella di due soggetti liberamente sposati con rito religioso e successivamente separati diviene, a mio avviso, una “storia non chiusa” e che “non si può chiudere”. Quel vincolo che si vorrebbe sciogliere in realtà non è eliminabile e storie successive non possono avere pari valore e significato, né profondità di impegno personale.

Come in tutte le storie “non chiuse” il vincolo precedente, in questo caso il matrimonio religioso, diventa un ostacolo al ritrovamento di un legame sentimentale di pari profondità e impegno. Le storie successive alla separazione possono essere solo delle “convivenze”. Queste mie riflessioni si collegano ad un mio precedente articolo dove parlo della non rara eventualità di restare ancorati a storie sentimentali di forte impatto emotivo e che si sono interrotte senza sufficienti chiarimenti Le-storie-sentimentali-non-chiuse. Anche in quei casi la “volontà” mi risulta essere il principale e necessario elemento in grado di costituire e interrompere un legame, volontà che però nel matrimonio religioso, per i motivi già detti, mi appare incancellabile. Sono fatti salvi ovviamente tutti quei casi in cui i vizi della stessa volontà rendono nullo il matrimonio ed è mio parere anzi che dovrebbe essere reso più facile da parte della Chiesa Cattolica l’accertamento di tali condizioni, demandandolo anche a rappresentanti locali.

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L’amore puro tra fidanzati, una rivoluzione possibile

Giovani fidanzati 
 
di Carlo Principe
 
da Notizie Pro Vita, settembre 2013
 
 

I freddi numeri delle statistiche in Italia rivelano un mondo giovanile allo sbando: i giovanissimi acquistano metà delle 400 mila confezioni di pillole  Norlevo vendute ogni anno, aumentano gli aborti delle adolescenti (+ 112% dal ‘95 al 2010) e le baby-mamme (+0,5% e quasi 10 mila l’anno). Una realtà confermata anche da un’indagine condotta dal Centro di Aiuto alla Vita (CAV) di Benevento nei licei sanniti, in cui si è rilevato che oltre la metà dei ragazzi e circa un terzo delle ragazze “fa sesso” prima dei 17 anni.

Una tale emergenza sociale richiederebbe azioni educative decise, ma spesso la famiglia è assente o incapace, mentre la cultura libertaria dominante propone solo l’introduzione di corsi di “educazione sessuale” nelle scuole che, di fatto sono corsi di contraccezione, con l’implicito messaggio “divertiti, ma stai attento alle conseguenze…”, e perciò falliscono miseramente (come accade anche in Francia o Inghilterra).

In realtà occorre “offrire soprattutto agli adolescenti e ai giovani l’autentica educazione alla sessualità e all’amore, un’educazione implicante la formazione alla castità, quale virtù che favorisce la maturità della persona e la rende capace di rispettare il significato «sponsale» del corpo”, come ha scritto Giovanni Paolo II nell’Evangelium Vitae. Da qui trae spunto il lavoro del CAV che promuove nelle scuole incontri con gli studenti sul tema della sessualità e dell’affettività. Le conferenze sono state precedute da un’indagine statistica dalla quale, oltre alle non poche ombre, emergono anche luci e  segni di speranza.

Se è vero, infatti, che i giovani tendono a porre al centro della relazione affettiva la dimensione genitale, è altrettanto vero che essi fanno trapelare una profonda aspirazione a un amore autentico e fedele. Solo il 30% di essi, infatti, ritiene che il problema delle gravidanze e degli aborti tra le giovanissime si risolva con la contraccezione, mentre molto più alta, il 78%, è la percentuale dei maschi convinta che sia un problema di autocontrollo (per il 60% di loro le ragazze si concedono troppo facilmente) e di rispetto del proprio corpo (il 18% vede nella purezza la condizione del vero amore). Le ragazze hanno rapporti sessuali nel 37% (circa il 10% tra le cattoliche praticanti) dei casi rispetto al 51% dei ragazzi, ma esse dichiarano che lo fanno per amore (il 41% rispetto al 15% dei ragazzi) e solo col fidanzato (il 98% rispetto al 59% dei ragazzi ), ossia con la persona con cui intessono un rapporto stabile.

Motivo di speranza è inoltre il fatto che la maggioranza dei giovani, anche qui con netta prevalenza femminile – il 76,3% rispetto al 53,8% degli uomini – è convinta che un amore autentico tra fidanzati possa fare a meno del sesso. Insomma, se da un lato i maschi sono convinti che le ragazze si “concedono” troppo facilmente, dall’altro l’indagine rivela una donna più propensa alla castità. Se “cede” lo fa per amore e solo con la persona che  ama. Le ragazze, dunque, possono essere protagoniste di un cambiamento culturale, di una vera rivoluzione. Saranno esse a chiedere al proprio fidanzato la “prova di amore” – quella vera – dell’attesa che, se da un lato esige un sacrificio, dall’altro è premessa  per un rapporto d’amore felice e stabile. E preferiscono perdere chi cerca solo il loro corpo e non il loro cuore.

Possiamo, dunque, riporre nei giovani una grande fiducia. A patto però che le famiglie, parrocchie e scuole, raccolgano la sfida e promuovano questo percorso educativo.

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Convivenza, matrimonio, castità: ragioni di una scelta

FidanzatiIn un articolo pubblicato a giugno sul sito americano Crisis magazine, l’autore Ryan Topping affronta con toni molto simpatici alcuni fra i temi più delicati della nostra epoca: la convivenza, la castità ed il matrimonio.

L’autore si sofferma solo brevemente sulle implicazioni logistiche dei preparativi al matrimonio (lista di nozze, elenco degli invitati, organizzazione della cerimonia, ecc.), per passare subito ad una serie di domande e risposte da lui raccolte negli anni in cui, insieme alla moglie, ha preparato molte coppie alle nozze. Proprio la convivenza è il tema centrale della prima domanda: “Giacché molte coppie sembrino essere felici di vivere insieme, cosa aggiungerebbe il matrimonio ad una gioia già condivisa?” A questo punto l’autore elenca una serie di statistiche (le fonti sull’articolo originale) che suggeriscono gli evidenti vantaggi del matrimonio.

Le donne sposate, innanzitutto, riferirebbero con maggiore probabilità di essere felici più di quanto non lo siano quelle divorziate o single. Secondo un recente studio, infatti, il 50% delle mogli descrive il proprio status emotivo come “molto buono o eccellente”; lo stesso dato si riscontra solo nel 27% delle donne single. Il matrimonio, inoltre, diminuirebbe la probabilità per una donna di subire abusi domestici: solo il 5 % delle donne sposate, infatti, segnala episodi di violenza rispetto al 14 % di quelle che convivono.

Un numero sempre maggiore di persone crede, tuttavia, che la convivenza abbia anche un vantaggio economico. A questo riguardo non è un caso se, negli Stati Uniti, dal 1970 ad oggi il numero dei conviventi sia salito da mezzo milione a 5 milioni di americani. Spiega l’autore: “Lungi dal rafforzare il vostro rapporto, se si va a convivere prima del matrimonio si avranno più probabilità di rompere la relazione. Una coppia di conviventi ha, infatti, il doppio delle possibilità di separarsi rispetto ad una sposata. Uno studio recente ha inoltre rivelato che il 50% dei figli con genitori conviventi ha visto la fine della relazione tra i due partner rispetto al 15% dei bambini nati da una coppia di coniugi. La verità è semplice: vivere insieme è difficile, soprattutto durante i primi anni. Senza un impegno preso in pubblico, permanente ed esclusivo, si hanno meno probabilità di farcela”.

Quest’ultima affermazione ci rimanda ad un recente articolo apparso sul sito della Nuova Bussola Quotidiana. In poche righe l’autore orienta il nostro sguardo sulle fondamenta della società italiana, spiegando perché l’unica forma legittima di unione contemplata dalla Costituzione sia quella matrimoniale.  Ma perché la convivenza intaccherebbe il bene comune? Scrive Tommaso Scandroglio: “Prima di tutto perché la convivenza per sua natura è un legame precario: metà di loro finirà entro un anno dalla nascita (Demography, 2006). Ciò non deve stupire dato che le coppie di fatto fanno della “prova” il cuore pulsante della convivenza e infatti escludono l’indissolubilità e l’esclusività del rapporto, le due proprietà che invece appartengono all’istituto del matrimonio. Se non le escludessero si sposerebbero, pare cosa evidente. Quindi le convivenze instaurano relazioni precarie e da ciò consegue che tutti i rapporti sociali, giuridici ed economici che derivano dalla convivenza sono anch’essi a rischio: contratti di locazione, mutui a due, cointestazione conti correnti, etc. Pensiamo anche al caso di un convivente che abbandona la partner e quest’ultima dipendeva economicamente dal suo compagno (nel matrimonio ha rilievo giuridico l’ingiusto abbandono del tetto coniugale, cioè è un dovere la co-abitazione tra coniugi, non così per i conviventi): ciò provocherà danni sociali ed economici che si rifletteranno anche sulla collettività. Lo Stato esige solidità dei rapporti tra i consociati perché questa solidità si riverbera su tutto il consesso sociale: la convivenza non garantisce per nulla questa stabilità di rapporti ed è quindi da scoraggiare”.

Secondo l’autore, inoltre, la convivenza non offrirebbe alcuna garanzia sull’educazione degli eventuali figli nati in seno a tale rapporto: “Tre bambini su quattro sperimentano la rottura della relazione prima di arrivare ai 16 anni di età (National Marriage Project – Rutgers University, New Jersey). Lo studio inoltre ci informa che questi bambini soffrono di seri disordini psicologici: asocialità, depressione, ansia, difficoltà di concentrazione, meno bravi a scuola (abbandono scolastico, anni ripetuti), attività sessuale precoce. E tutto ciò non è un buon guadagno per la società, soprattutto quando questi ragazzi fragili diventeranno un giorno adulti fragili, cioè cittadini-professionisti fragili. Quindi è per questo motivo che il nostro diritto di famiglia – eccetto alcuni diritti a cui abbiamo fatto cenno – rimane matrimonio-centrico. Perché solo la relazione coniugale fa bene alla persona – coniugi e figli – e fa bene alla società. Il nostro ordinamento cioè spinge verso il matrimonio e scoraggia altri tipi di unioni perché perniciose per la società. Riconoscere, non diciamo le unioni di fatto, ma anche solo i diritti dei conviventi è già erroneo perché favorisce le unioni di fatto e quindi favorisce la precarietà sociale”.

Ritornando al primo articolo preso in esame, credo sia interessante soffermarsi su altre questioni (troppo spesso taciute) sollevate dall’autore. In un’altra domanda una coppia chiedeva: “In gioventù frequentavamo l’ambiente parrocchiale, ma negli anni dell’università non abbiamo più praticato. Ci chiediamo se da sposati dovremmo ricominciare a seguire le funzioni liturgiche”. Per rispondere viene citata un’indagine condotta in America nel biennio 2010-2011. Secondo lo studio le coppie sposate con figli in cui entrambi i genitori concordano sul fatto che Dio è al centro del loro matrimonio hanno almeno il 26% in più di probabilità di sperimentare un rapporto molto sereno rispetto alle coppie che non condividono questo valore.

E per quanto riguarda il divorzio, l’autore tiene a precisare che farlo “per il bene dei figli” non è altro che una sciocca scusa. Secondo un’indagine retrospettiva condotta da Scientific American, le persone i cui genitori si sono separati quando erano giovani hanno più difficoltà a formare e mantenere relazioni affettive, una maggiore insoddisfazione matrimoniale ed un tasso più elevato di divorzio. Un bambino cresciuto da una madre non sposata ha inoltre un rischio sette volte maggiore di essere povero: in altre parole i bambini che non hanno genitori coniugati rappresentano il 27% di tutti i bambini degli Stati Uniti ed il 62% di tutti i bambini in stato di povertà. Continua Topping: “I figli di una mamma single sono meno sicuri rispetto agli altri bambini: un bambino che vive solo con sua madre ha una probabilità 14 volte maggiore di subire abusi rispetto ad un bambino che vive con genitori sposati, mentre un bambino la cui madre convive con un uomo che non è il suo padre biologico ha un rischio 33 volte più alto di soffrire per gravi violenze fisiche”.

Un altro tema su cui l’autore si sofferma è quello della sessualità, in particolare il controllo delle nascite. Chiede una coppia: “Vorremmo aspettare uno o due anni prima di avere un figlio: sia la pillola che i metodi naturali hanno lo scopo di evitare una gravidanza, qual è, dunque, la  loro differenza?” Come spiega Ryan Topping, la questione non sta nel “fine” che si vuole raggiungere, ma nel “mezzo” utilizzato. Su questo sito abbiamo più volte espresso la posizione della Chiesa in termini di contraccezione. In un articolo di un anno fa, ad esempio, citavamo lo stralcio di un discorso tenuto da Giovanni Paolo II in occasione dell’Angelus domenicale. Il Papa ha spiegato che in tema di procreazione e sessualità il pensiero della Chiesa non è, come purtroppo si pensa sempre di più, l’invito ad una fecondità esagerata.

“Nella generazione della vita – ha spiegato Papa Wojtyla –gli sposi realizzano una delle dimensioni più alte della loro vocazione: sono collaboratori di Dio. Proprio per questo sono tenuti ad un atteggiamento estremamente responsabile. Nel prendere la decisione di generare o di non generare gli sposi devono lasciarsi ispirare non dall’egoismo né dalla leggerezza ma da una generosità prudente e consapevole, che valuta le possibilità e le circostanze, e soprattutto che sa porre al centro il bene stesso del nascituro. Quando dunque si ha motivo per non procreare [il Catechismo della Chiesa Cattolica parla di “validi motivi”, che non siano, quindi, frutto di egoismo, nda] questa scelta è lecita, e potrebbe persino essere doverosa. Resta però anche il dovere di realizzarla con criteri e metodi che rispettino la verità totale dell’incontro coniugale nella sua dimensione unitiva e procreativa, quale è sapientemente regolata dalla natura stessa nei suoi ritmi biologici. Essi possono essere assecondati e valorizzati, ma non violentati con artificiali interventi”Per un ulteriore approfondimento sulla reale posizione della Chiesa in tema di fecondità coniugale, rimando al sito della Confederazione Italiana dei centri per la Regolazione Naturale della Fertilità.

 Il matrimonio è certamente un balzo nel vuoto, l’atto coraggioso che scaturisce da una fede profonda. E benché nell’attuale contesto socio-economico anche le coppie cristiane si possano sentire scoraggiate nella certezza di un amore “per tutta la vita”, la Chiesa non ha mai smesso di proporre strumenti adeguati al discernimento delle anime. L’esempio peculiare è chiaramente quello della castità prematrimoniale, valore ormai dimenticato anche da molti cattolici.

Eppure l’esercizio della continenza è una virtù che porta molto frutto perché educa a considerare l’altro per quello che è, e non per quello che noi vorremmo che fosse. Lungi dal rivelarsi deludente, escludere il sesso da un rapporto di coppia sarebbe dunque una strategia imprescindibile per prepararsi al matrimonio. Interessante a questo riguardo un recente articolo pubblicato sul portale Zenit. Scrive l’autore: “Attualmente il “permissivismo” morale è enorme. L’“educazione sessuale” trasmessa dai mezzi di comunicazione di massa, ma anche dalla scuola, dice: “Fa’ ciò che vuoi, sia con preservativi sia senza, di nascosto, senza dire nulla ai tuoi genitori”. Per vincere questo ambiente così ostile e irresponsabile è necessaria una vera educazione alla castità, a protezione appunto dell’autentico amore. E il periodo di fidanzamento serve a questo: per far crescere la coppia nella reciproca conoscenza è indispensabile elaborare progetti comuni, al fine di raggiungere virtù indispensabili alla vita matrimoniale. Se la coppia vive bene questo periodo, senza giungere ad avere intimità tipiche della vita matrimoniale, si formerà nella scuola della fedeltà. In altre parole, si manterrà una maggiore fedeltà all’interno del matrimonio, se se si è conservata la purezza del legame durante il fidanzamento. […] Attualmente le persone “usano” il sesso come se fosse un gioco. E cosa succede? Ogni volta sempre meno persone riescono a raggiungere l’opportunità di scelte definitive e sempre meno persone si sposano. L’atto matrimoniale, al quale Dio volle unire anche un piacere sensibile, deve produrre un piacere superiore, di natura spirituale: la gioia, cioè, di sapersi uniti alla volontà di Dio”.

Filippo Chelli

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Le nozze gay sono anticostituzionali

Aldo Vitale 

di Aldo Vitale*
*ricercatore in filosofia e storia del diritto

 

Plutarco riteneva che non vi fosse nulla di più degno per la bellezza dell’indagine filosofica, del matrimonio. Allo stato attuale, però, lo stesso Plutarco, pur con tutta la sua profondità, si troverebbe in difficoltà posto che oggi è il concetto stesso di matrimonio ad essere stato sballottato dalle correnti ideologiche fuori dalla sua secolare e sicura rotta di navigazione, fin sulle aride secche dell’anti-giuridicità.

Il problema del matrimonio deve necessariamente essere collegato con quello della famiglia ed entrambi esaminati sotto la luce più opportuna, cioè quella biogiuridica, ovvero dalla disciplina che nasce dall’incontro del diritto, della morale e della filosofia, cioè dal triplice uso della ragione. Si potrebbe occupare un vero e proprio spazio enciclopedico per esaminare adeguatamente i suddetti problemi, tuttavia si possono effettuare delle brevi, ma non per questo meno incisive, considerazioni su di essi, incentrando l’attenzione soprattutto intorno all’articolo 29 della Costituzione italiana.

Prima di esaminare il portato costituzionale, occorre fare mente locale e ricordare velocemente le due prospettive circa la famiglia e il matrimonio che, soprattutto negli ultimi due secoli, si sono fronteggiate, cioè da un lato l’idea che la famiglia sia un prodotto sociale, dall’altro, invece, la concezione della famiglia come società naturale intesa soprattutto come elemento costitutivo della socialità della società medesima in quanto essa stessa, la famiglia, ontologicamente sociale, relazionale. Come fondamento della prima prospettiva, cioè la famiglia come prodotto sociale, non può evitarsi la tradizione marxiana e marxista. Come è noto, infatti, per Marx il diritto, la morale, la religione sono delle sovrastrutture, degli orpelli dell’esistenza determinati sul piano storico-sociale soltanto dall’univa vera struttura, cioè i rapporti economici, ovvero il controllo dei fattori di produzione da parte di una classe sociale storicamente determinata.

Sull’esempio della dottrina marxiana, Alexandra Kollontaj, nota esponente del pensiero marxista novecentesco, scrive appunto che «la famiglia e il matrimonio sono categorie storiche, fenomeni che si sviluppano in parallelo con le relazioni economiche che esistono in un dato livello di produzione. La forma di matrimonio e di famiglia è determinata dal sistema economico di una data epoca, ed essa cambia come cambia la base economica della società. La famiglia come il governo, la religione, la scienza, la morale, la legge e i costumi, è parte della sovrastruttura che deriva dal sistema economico della società  ( Tesi sulla moralità comunista nella sfera delle relazioni matrimoniali, 1921 ). In quest’ottica, la famiglia e il matrimonio sono prodotti artificiali dipendenti dalla volontà del legislatore, legislatore che a sua volta traduce in forma legale le volontà, i sentimenti e i desideri della classe dominante, cioè, nella prospettiva marxista, ieri la borghesia, oggi il proletariato. Il matrimonio e la famiglia, dunque, sono soggetti al logorio del tempo, alla mutevolezza delle correnti della storia, ai capricci della classe dominante.

Nella prospettiva opposta, visione che del resto risale già al mondo classico e che si cristallizza con l’avvento dell’etica cristiana, la famiglia è una società naturale, fondamento costituivo per la società civile, per la polis, per lo Stato. Per Aristotele, infatti, «la comunità che si costituisce per la vita secondo natura è la famiglia». Occorre tuttavia intendere il senso di questa naturalità posto che proprio in natura, per esempio nelle altre specie, l’istituto familiare fondato sul matrimonio non esiste. L’antropologia filosofica in questo è stata di fondamentale importanza: gli studi di  Levi-Strauss, infatti, hanno constatato che l’istituto familiare rappresenta il punto d’incontro tra natura e cultura.

Un ulteriore sforzo filosofico, tuttavia, risulta indispensabile per comprendere in che senso la famiglia sia naturale: lo è in quanto in essa viene naturalmente in essere la socialità prima e fondante tipica dell’uomo. Essendo la famiglia fondata sul matrimonio un istituto aperto alla socialità mediante la procreazione, in essa prima e meglio che altrove viene ad essere sviluppata la natura dell’essere umano, cioè la sua relazionalità, quella caratteristica strutturale che contraddistingue maggiormente l’uomo dal resto del creato, quella che, per intendersi, Dante sintetizza nei nobili versi: «S’io m’intuassi, come tu t’inmii» ( Par. IX, vv. 81 ). Ecco allora in che senso leggere le disposizioni contenute nell’articolo 29 della Costituzione: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio».

Il portato del suddetto articolo costituzionale è abbastanza evidente: lo Stato, nel suo ordinamento repubblicano, riconosce l’istituto della famiglia come pre-esistente all’ordinamento positivo stesso, cioè come società naturale – non positiva dunque, cioè non posta, non creata dal legislatore – fondata sul matrimonio, e ciò nonostante, o forse sarebbe più opportuno dire proprio per questo, riconosce e tutela i diritti della famiglia. Da questo dato normativo discendono varie conseguenze.

In primo luogo: in modo non poco esplicito il costituente ha riconosciuto l’esistenza di un diritto naturale pre-esistente all’ordinamento statuale, poiché avendo riconosciuto la famiglia come società naturale è consequenziale che tale società, in ossequio al brocardo latino per cui ubi societas ibi ius, ubi ius ibi societas, sia in quanto tale, disciplinata dal diritto naturale, cioè dalla legge naturale (quindi inaccessibile alle alchimie legislative dell’uomo, cioè universale ed indisponibile), quella legge, insomma, che è universale poiché «guida l’uomo secondo precetti generali, comuni sia ai perfetti che ai meno perfetti» (  Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 91, a.5, pag. 56 ).

In secondo luogo: il costituente avendo espressamente riconosciuto la famiglia come società naturale non ha potuto fare a meno di riconoscere anche che la famiglia come società naturale è soltanto quella fondata sul matrimonio, in quanto il matrimonio è razionalmente l’espressione della socialità naturale della famiglia, poiché nel matrimonio e dal matrimonio si instaurano i processi di socialità, cioè di interazione interpersonale, che sono disciplinati dal diritto naturale, cioè quel diritto che nella dimensione familiare regola i rapporti secondo l’ordine della ragione, facendo sì che ognuno abbia un determinato ruolo derivante dalla sua precisa essenza: cioè il ruolo di coniuge, di genitore o di figlio. Questo comporta che soltanto il matrimonio sancisce l’unione della famiglia come società naturale e che la famiglia come società naturale non è pensabile senza l’istituto ( naturale e razionale ) del matrimonio.

In terzo luogo: a tutto ciò si aggiunga, a titolo di specificazione, che il costituente ha ribadito, per quanto non si sappia con che grado di consapevolezza, che soltanto l’unione di uomo è donna è pensabile all’interno di una prospettiva che delinei la famiglia come società naturale. Avendo il costituente, infatti, riconosciuto la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio ha posto l’accento su uno dei requisiti naturali, essenziali e logici della società naturale, cioè del matrimonio: ovvero l’unione di uomo e donna. E’ consequenziale, infatti, che in tanto si può concepire il matrimonio in quanto si può concepire la maternità ( ed ovviamente la paternità ); ma la maternità è concepibile soltanto in quanto esista un rapporto tra uomo e donna ( affermazioni senz’altro lapalissiane, ma che acquistano una singolare veste di novità in un periodo storico in cui tutto è dubbio, anche e soprattutto le verità più evidenti ).

E per quanto sia vero che storicamente «l’espressione matrimonio, pur usata in contesti culturali, sociali, giuridici notevolmente differenti, sembrava e sembra alludere ad una realtà da tutti immediatamente percepita nei tratti distintivi» ( Gaetano Lo Castro, Matrimonio, diritto e giustizia, Giuffrè, Milano, 2003 ), e per quanto sia altrettanto vero che non è lo stesso il matrimonio romano ed il matrimonio cristiano, v’è tuttavia una giuridicità intrinseca – o costitutiva – della famiglia e del matrimonio; una giuridicità che deriva in modo genetico ed istantaneo dal diritto naturale, palesemente esplicitante una serie di rapporti giuridici, cioè di diritti e di doveri reciproci all’interno della coppia, in primo luogo, e della famiglia in seconda battuta. E il primo dovere è quello ricadente in capo ai singoli, cioè l’unione tra uomo e donna.

La circostanza per cui solo la famiglia intesa come società naturale fondata sul matrimonio, implichi la necessità e la esclusività del rapporto tra uomo e donna, deriva proprio dalla logica del matrimonio, direttamente desumibile dalla sua etimologia come nota laicamente, cioè razionalmente, Karol Wojtyla: «La parola latina matrimonium mette l’accento sullo stato di madre, come se volesse sottolineare la responsabilità della maternità che pesa sulla donna che vive coniugalmente con un uomo. […] Si può facilmente arrivare a questa conclusione analizzando la parola matrimonium ( dal latino matris-munia, cioè doveri di madre )» ( Amore e responsabilità, Marietti, Milano, 1983 ). La naturalità della famiglia risiede, dunque, nella logica dei doveri più naturali e consequenziali, cioè quelli derivanti dal rapporto tra genitori e figli: e soltanto un tipo di unione fondata sul rapporto tra uomo e donna è definibile come unione naturale, poiché solo questa può condurre ad munia matris, cioè al matrimonio.

La crisi attuale è semmai riconducibile alla perdita di senso e alla rivolta contro la multisecolare tradizione giuridica e filosofica occidentale, a fronte di una crescente diffusione dell’idea per cui voluntas, non ratio facit legem. Ciò che semmai desta perplessità è la circostanza per cui coloro che reclamano la dilatazione del concetto e dell’istituto del matrimonio, sono gli stessi che discendono dalla cultura marxista, cioè quella cultura che tanto si è spesa in senso contrario nel corso del XX secolo, cioè per l’abolizione del matrimonio, interpretato quale ennesimo strumento di oppressione socio-politica.

Nel furore dei desideri, forse, ci si è dimenticati, oltre che del diritto, anche della storia, nonostante sia stato Jacques Derrida a ricordarlo con estrema chiarezza appena qualche anno or sono: «Se fossi un legislatore, proporrei semplicemente l’abolizione della parola “matrimonio” e del suo concetto dal codice civile e laico. Il “matrimonio”, valore religioso, sacrale, eterosessuale con voto di procreazione, eterna ecc -, è una concessione dello Stato laico alla Chiesa cristiana, in particolare al suo monogamismo che non è né ebreo – è stato imposto agli ebrei dagli europei solo nel secolo scorso e non costituiva un obbligo nel Maghreb ebreo fino a qualche generazione fa -, né, come ben si sa, musulmano. Sopprimendo la parola e il concetto di “matrimonio”, questo equivoco o questa ipocrisia religiosa e sacrale, che non ha alcun posto in una costituzione laica, verrebbero sostituiti da una “unione civile” contrattuale, una specie di patto civile generalizzato, migliorato, raffinato, flessibile e concordato tra partner di sesso o numero non imposti» ( Sono in guerra con me stesso ).

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America e Inghilterra finalmente scaricano le femministe

Famiglia 3Mentre in Italia la tuttologa Chiara Lalli cerca ancora di convincere che a) abortire è bello, b) non esiste l’istinto materno, c) le mamme-nonne sono madri “più attente”, in America e Inghilterra sta avvenendo una nuova rivoluzione: le giovani donne (1994-1985) antepongono i figli e il matrimonio al lavoro e alla carriera.

Il fenomeno è ben descritto da “Repubblica”: «Le donne inglesi hanno passato gli ultimi cinquant’anni a rimboccarsi le maniche per riuscire a conciliare famiglia e professione, recuperando un punto percentuale alla volta il gap — in busta paga e in tasso di impiego — che le separava dagli uomini. E oggi che ce l’avevano quasi fatta, si trovano a fare i conti con un ostacolo del tutto inatteso: le loro figlie. Le ventenni britanniche hanno infatti rivisto le priorità: l’ufficio può attendere. I bambini crescono meglio con la mamma a casa». Lo ha dimostrato uno studio della London School of Economics.

Non è l’effetto della crisi, ma un vero e proprio mutamento culturale. «Queste cifre riflettono mutamenti culturali e sociali più profondi. In Gran Bretagna ma anche negli Stati Uniti», spiegano i ricercatori. Il fattore chiave è che per le ventenni di oggi i figli sono più importanti del lavoro. «Le donne di questa età, a ragione o torto, pensano che il ruolo di una madre non possa essere sostituito da palliativi come una baby sitter, un asilo nido o un padre più presente in casa», ha affermato Alan Manning, autore dello studio.

Secondo Raquel Fernandez, professoressa di Economia alla New York University, «Le ventenni di oggi sono meno impregnate dei valori ideali del femminismo». Finalmente! Basta imitare gli uomini per sentirsi più donne, il fallimento del femminismo è sotto gli occhi di tutti. Il femminismo è la repressione della femminilità: «Negarsi un figlio per la carriera, il piacere, un malinteso senso di libertà, è una specie di autoviolenza al cuore più segreto e potente della femminilità. Se è vero che donna non si nasce, ma la si diventa, l’essere madre fa diventare più donna di qualsiasi altra donna», ha scritto Annamaria Bernardini de Pace.

«Le radici del femminismo hanno sminuito il valore sociale della maternità», è il commento di Vittoria Maioli Sanese, psicologa della coppia e della famiglia. Dopo aver ingannato milioni di donne è tempo per le femministe di andare in estinzione, ora è tornato il tempo della donna . Quindi della madre.

Michela Marzio

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Il matrimonio deve “discriminare” le coppie omosessuali

Difesa matrimonio 
 
di Brendan O’Neill*
*editorialista di “Spiked” (marxista, libertario e non credente)

 
*discorso pronunciato alla House of Lords il 15/05/13

 

Penso che una delle parole più diffamate della lingua inglese sia “discriminazione”, in questo periodo storico usata prevalentemente in senso negativo. E’ principalmente utilizzata nel senso di realizzare dure e oppressive sentenze contro le persone in base al loro sesso, alla loro sessualità o alle loro origini etniche.

Il senso positivo – e in un certo senso più vero – del significato della parola “discriminare” si sta perdendo, cioè la capacità di percepire, cogliere e notare le differenze tra le cose. La discriminazione, in modo del tutto onorevole e anche intelligente, è un modo per esprimere giudizi sui diversi valori collegati a cose diverse, ma tale significato è sepolto sotto l’uso più comune della parola per descrivere ogni minima contrarietà verso individui o gruppi specifici.

Questo è un peccato, credo, perché abbiamo davvero bisogno di recuperare la capacità di discriminare. Più precisamente, abbiamo bisogno di recuperare il ruolo importante del dare giudizi e riconoscere le differenze che esistono nella nostra società e nelle esperienze di vita delle persone. Il motivo per cui abbiamo bisogno di questo è perché viviamo in un’epoca che potremmo chiamare dell'”uguaglianza fasulla”. Un’epoca in cui ciò che viene presentato come “uguaglianza” equivale a omogeneizzazione, imposizione di identità, una tirannia del relativismo, in ultima analisi, la negazione del diritto dei cittadini ad esercitare anche quella intelligente e colta discriminazione nel dare giudizi sui diversi modi in cui le persone vivono. In un tale clima di soffocante monotonia, è davvero importante che la gente prenda posizione e sia discriminante.

La questione del matrimonio gay cattura brillantemente l’idea di come sia degradato il concetto di uguaglianza. Se si ascoltano alcuni ministri del governo e gli attivisti dei diritti dei gay, si crederà che il matrimonio gay sia qualcosa di “uguagliante”, per avere pari diritti. E’ indicato in modo martellante come “matrimonio egualitario” (“equal marriage”), e naturalmente questo significa che chiunque critichi il matrimonio gay venga liquidato come un amico della disuguaglianza, e nessuno vorrebbe essere etichettato in questo modo. Ma quando alcuni ministri e gli attivisti omosessuali parlano dell’attuale esclusione al matrimonio di coppie dello stesso sesso come un problema di disuguaglianza, che cosa intendono? Ad esempio, è un crimine contro l’uguaglianza negare a me l’accesso al Royal College of Music? Che ne è del mio diritto ad essere trattato allo stesso modo di coloro che possono frequentarlo perché sanno suonare uno strumento e leggere la musica? Potrei non avere le credenziali e il talento per fare ciò per cui il Royal College of Music è stato istituito per fare, ma che ne sarebbe del mio uguale diritto a frequentare l’istituto ed utilizzare i suoi servizi?

La verità è che le istituzioni discriminano sempre e da sempre. Esse devono farlo perché se non lo facessero avrebbero perso la loro identità, il loro scopo, il loro vero significato. Se il Royal College of Music fosse costretto ad accettare anche chi è inetto musicalmente, cesserebbe di esistere entro un decennio crollando sotto il peso della pressione a non essere discriminante, a non dare giudizi sulla base dell’adeguatezza o dell’idoneità di una persona ad accedere ai suoi servizi. La buona e corretta discriminazione è al centro di ogni istituzione e organizzazione. La discriminazione è ciò che permette alle istituzioni di definire se stesse, cosa significa appartenervi e giudicare chi può essere membro e chi non può. Collegi, partiti politici, chiese, gli Women’s Institute, club sportivi, gruppi di uomini gay ecc…nessuna di queste istituzioni potrebbe continuare ad esistere se non fosse autorizzata ad esercitare la discriminazione, se non le fosse permesso di specificare ciò che è richiesto ai membri per appartenervi e rifiutare coloro che non possiedono tali requisiti.

Scrivendo nel 1950, la grande pensatrice liberale Hannah Arendt ha detto: «[Il] diritto alla libera associazione, e quindi alla discriminazione, ha maggiore validità rispetto al principio di uguaglianza». Quello che voleva dire è che, se la libertà e l’uguaglianza sono in conflitto, dovremmo tifare per la libertà piuttosto che per l’uguaglianza. Dovremmo cioè essere dalla parte della libertà di gruppi privati ​​o partiti politici o delle istituzioni che svolgono un ruolo sociale specifico per la libertà di discriminare come strumento per definire chi sono, per dire quale sia il loro scopo e chi può unirsi a loro. Naturalmente, nella sfera pubblica -nel diritto, nel mondo del lavoro, nell’interazione sociale pubblica- tutti devono essere trattati allo stesso modo, ma nella sfera privata, e anche -cosa molto importante-, nelle istituzioni che per anni hanno svolto un ruolo sociale molto specifico per gruppi specifici di persone, essere discriminatori è essenziale. Ciò è stato riconosciuto dai primi pensatori illuministi. John Locke, autore del grande “Lettera sulla tolleranza”, pubblicato nel 1689, ha detto che le istituzioni religiose, e anche altre istituzioni, sono effettivamente “società spontanee”. E quindi, «ne consegue necessariamente il diritto a realizzare leggi proprie su chi può ad esse appartenere, coloro che la società stessa di comune accordo ha autorizzato».

“Società spontanee”, gruppi religiosi, gruppi politici, alcune istituzioni con ruoli particolari devono essere almeno relativamente liberi di scrivere le proprie leggi e regole che disciplineranno coloro che hanno “comunemente accettato” di farvi parte. Eppure oggi, nella nostra epoca di uguaglianza fasulla, la capacità delle istituzioni a governare se stessi, a discriminare sulla base della credenza, o ideologia, o idoneità per l’attività, è stata demolita. Questo mette in discussione la possibilità stessa dell’esistenza di organizzazioni e istituzioni, in quanto la pressione ad abbracciare l’uguaglianza può significare dover fare a meno dei propri principi organizzativi e delle credenze specifiche condivise.

Alcuni sostenitori del matrimonio gay diranno che il matrimonio è solo amore e quindi se l’istituzione del matrimonio nega l’accesso a persone che si amano e sono dello stesso sesso, questo è senza dubbio opprimente, un chiaro esempio di pratica della disuguaglianza. Si dice che le persone omosessuali hanno tutto quello che è richiesto per contrarre un matrimonio -che è l’amore reciproco e consenziente– e quindi è sbagliato rifiutare loro l’accesso al matrimonio. Ma in realtà, l’amore non è affatto sufficiente per accedere all’istituto del matrimonio, il quale infatti discrimina già e anche contro le persone che si amano. Per esempio, un uomo può essere veramente e appassionatamente innamorato di sua sorella, e lei di lui, ma è assolutamente proibito a loro di sposarsi. Una donna potrebbe essere perdutamente innamorata di due uomini diversi, ma non c’è modo che possa sposare entrambi. Alcuni di noi si ricorderanno quando a 14 anni eravamo perdutamente innamorati di un/una coetanea, ma non avremmo potuto sposarci. Il matrimonio è un’istituzione discriminante, anche contro le persone che si amano. Chiaramente allora è necessario avere qualcosa di più per sposarsi, oltre ad essere innamorati. Chiaramente il matrimonio svolge un altro specifico ruolo sociale, che non è solo quello di permettere alle persone di esprimere il loro amore per un altro.

Spingendo verso l’idea di “equal marriage”, ovvero l’idea che sia sbagliato per l’istituzione del matrimonio operare una discriminazione, esso perderà il suo specifico ruolo sociale? Sarà minato il matrimonio inteso come l’unione di due persone con la possibilità di procreare e con la potenziale responsabilità di accogliere la futura generazione? Diverrà privo di senso il matrimonio come principale mezzo attraverso il quale gli adulti e la comunità si assumono la pubblica responsabilità verso le generazioni future? Si, penso che la risposta sia affermativa, proprio come è certo che il ruolo sociale del Royal College of Music sarebbe compromesso se dovesse accogliere chi non può o non è capace di suonare, come me. Il processo di omogeneizzazione vestito da “uguaglianza”, l’incapacità di distinguere tra diversi tipi di relazioni, svuota di significato il matrimonio, perché se tutto è un matrimonio, allora niente lo è. Se l’istituzione del matrimonio non può discriminare, allora non ha alcun senso o scopo strutturale.

E’ senza dubbio il caso di ricordare che per molti anni le persone omosessuali sono state trattate in modo diseguale, hanno sofferto l’oppressione. Per centinaia di anni l’attività omosessuale era punibile con la morte. Anche nel periodo più moderno, gli omosessuali sono stati condannati a pene detentive ai lavori forzati solo per aver avuto rapporti sessuali. Queste severe restrizioni sui diritti delle persone gay hanno anche inciso nel modo con cui sono stati trattati all’interno della società, considerati inferiori e anche malati. Per fortuna, questo è cambiato, il sesso omosessuale è stato depenalizzato, le leggi oppressive sono state abrogate e c’è stato un corrispondente cambiamento di atteggiamento sociale. Gli omosessuali sono ormai accettati come membri ordinari della società e vengono trattati allo stesso modo.

Ma perché allora la domanda della cosiddetta “uguaglianza del matrimonio”? Questo è davvero interessante perché se si guardano le argomentazioni principali addotte per la “parità di matrimonio” vedrete che spesso hanno una forte componente terapeutica. L’argomento è che vedendo rifiutato il diritto di sposarsi, i gay si sentono inutili, disprezzati dalla società. Gli attivisti spesso dicono cose come: «l’impossibilità di dire “io sono sposato” brucia e mi fa sentire come un cittadino di seconda classe». Potrebbero non essere cittadini di seconda classe, ma a volte si sentono come tali e il matrimonio gay aumenterà l’autostima e le persone si sentiranno meglio. Ma non è e non dovrebbe mai essere il ruolo del governo quello di fornire una terapia o far sentire meglio, in relazione alla parità di trattamento, il governo dovrebbe fare solo una cosa: offrire pari opportunità, cioè rimuovere eventuali ostacoli giuridici agli individui o gruppi che partecipano alla sfera pubblica. Ma non può fornire la parità dei risultati, assicurare a tutti la parità di esperienze nella vita, garantendo che tutti abbiano felici e appaganti esistenze, o la parità di appagamento emotivo assicurando che ognuno si senta valorizzato dalla società. Quelle sono cose che dobbiamo realizzare noi stessi, esercitando la nostra autonomia e la scelta del percorso di vita sentiamo più adatto per noi.

Invitare il governo a darci la parità delle esperienze di vita, dell’uguaglianza di emozioni è soltanto invitare un maggiore intervento dello Stato nella nostra vita, nella morale e anche nella nostra vita emotiva. In questo modo, possiamo vedere come l’uguaglianza fasulla di oggi non libera le persone, ma piuttosto le rende più dipendenti ai favori dello Stato, e non migliora il tessuto sociale ma piuttosto rende più difficile per gli abitanti e le istituzioni di una società avere ognuno una vita morale interna propria.

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Olanda: dopo le nozze gay legalizzata anche la poligamia

Poligamia“Noi ve lo avevamo detto…”, è antipatico da dirsi tuttavia non possiamo non ricordare che il 3/09/12 abbiamo chiesto: Perché accettare le nozze gay e non incesto e poligamia?, spiegando che se il matrimonio viene concepito erroneamente riducendolo come l’unione di persone legate da un sentimento, e pertanto aperto anche alle coppie omosessuale, allora non si può più sostenere il divieto al riconoscimento statale e all’equiparazione al matrimonio naturale anche per altre relazioni romantiche basate sul consenso reciproco, come incesto e poligamia (ma anche un intenso rapporto di amicizia, o di amore tra sorelle o fratelli ecc.). Il matrimonio si distrugge poiché ne vengono minate le fondamenta.

Il 22/04/13 abbiamo infatti fatto notare che le stesse richieste degli omosessuali circa il matrimonio sono avanzate -con le stesse parole- anche dai gruppi poligamici, come la Polyamory Action Lobby. Giancarlo Galan (PDL) ha aperto recentemente alle nozze gay affermando che «i colleghi cattolici non negheranno la felicità agli altri». Dato che Galan non ha approvato anche il matrimonio incestuoso e la poligamia, ci chiediamo coerentemente perché lui voglia negare la felicità agli incestuosi e ai poligamici. Tutto questo ovviamente per dire che l’errore è sul concetto sbagliato di matrimonio, che non necessità solo dell’amore reciproco e consenziente perché non è solo un contratto, ma è il legame istituzionale alla base di una famiglia, è l’istituzione nata per proteggere e garantire la filiazione, stabilita in modo da determinare i diritti e i doveri che passano fra le generazioni.

In Olanda, il primo Paese a legalizzare i matrimoni gay e tra i luoghi più gay-friendly al mondo, non potendo più frenare l’ipocrisia, si è dovuta legalizzare la poligamia come previsto, riconoscendo ufficialmente il primo caso di poligamia “legale” in Europa nel settembre del 2005. Victor de Brujin (46 anni) ha “sposato” sia Bianca (31 ani) che Mirjan (35 anni) in una cerimonia davanti a un notaio che ha registrato la loro unione civile. La notizia è stata rilanciata erroneamente un mese fa in Italia, squarciando in ogni caso il velo di ombra su tale notizia (almeno in Italia). I nostri sospetti erano dunque fondati e occorre soltanto attendere che i media comincino a ricattare emotivamente i loro lettori parlando di “poligami infelici” e inventandosi la “poligamofobia” e la realtà olandese si diffonderà in tutto l’Occidente, trasformando le nozze gay in cose da trogloditi conservatori.

Lo dice già oggi il filosofo di Princeton Peter Singer: nel momento in cui i politici discutono sulla definizione di matrimonio tra due persone, Singer sostiene che ogni tipo di comportamento sessuale “pienamente consensuale” è eticamente giusto, ed è indifferente che coinvolga due persone oppure duecento. Ad esempio, intervistato da Marvin Olasky (qui tradotto in italiano), ha approvato la necrofilia (due persone che si accordano sulla possibilità, concessa a chi dei due sopravvive all’altro, di avere rapporti sessuali con il cadavere del partner) perché «non c’è alcun problema morale al riguardo». Riguardo alla zoofilia (persone che fanno sesso con gli animali, considerati come partecipanti consenzienti) ha invece risposto: «ti chiederei che cosa ti trattiene dall’avere una relazione più appagante, ma di sicuro non è qualcosa di moralmente sbagliato».

Come ha spiegato il criminologo Alessandro Benedetti, il Consiglio d’Europa attraverso l’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, istituito all’interno del Dipartimento per le Pari Opportunità), nell’intento di combattere la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o l’identità di genere ha invitato gli Stati membri ad abrogare «qualsiasi legislazione discriminatoria ai sensi della quale sia considerato reato penale il rapporto sessuale tra adulti consenzienti dello stesso sesso, ivi comprese le disposizioni che stabiliscono una distinzione tra l’età del consenso per gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso e tra eterosessuali» (art. 18). Ecco dunque che anche la pedofilia (o comunque il rapporto sessuale con un minore consenziente) comincia a fare sempre più capolino nelle società gay-friendly, poiché -ha spiegato l’avvocato- «se il criterio per considerare lecito e normale – e pertanto generatore di diritti – qualsiasi tipo di unione sessuale ed affettiva è la libertà ed il libero consenso delle parti, dopo aver sdoganato penalmente e quindi culturalmente i rapporti tra maggiorenni e minori anche di anni 14, si passerà a sdoganare l’incesto (che già oggi è reato solo in caso di pubblico scandalo: art. 564 cod.pen.) e la poligamia ed a richiedere per entrambi il riconoscimento giuridico con relativi diritti».

Nel frattempo sono sempre più numerosi gli studiosi che chiedono proprio l’apertura all’incesto. Lo ha fatto il bioeticista della Harvard Law School, Glenn Cohen (e non un Odifreddi qualsiasi!), il quale vorrebbe abolire il concetto di «interesse superiore del bambino» quando si parla di fecondazione assistita: «Lo Stato non può giustificare i tentativi di intervenire sul se, come, quando e con chi un individuo si riproduce sulla base del danno che sarà arrecato al bambino, perché senza quell’intervento il bambino non esisterebbe». Secondo l’accademico, in questo senso, anche l’incesto non deve essere proibito perché i tentativi di «regolare la riproduzione» sulla base dell’interesse del bambino che nascerà «sono ingiustificati».

Arrivederci a fra pochi anni per il prossimo: “noi ve l’avevamo detto….”.

La redazione

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Violenza contro le donne: la famiglia non c’entra

Famiglia a tavolaSe si ritiene che la serietà, almeno quando si affrontano alcuni temi, sia un dovere, allora è bene agire di conseguenza evitando di tenere in vita stereotipi duri a morire ancorché totalmente infondati.

Secondo uno di questi la famiglia sarebbe l’ambiente più pericoloso per le donne e le mogli sarebbero dunque le donne col maggior pericolo di subire violenza. Tale credenza è rilanciata con insistenza da alcune fonti, come per esempio l’Osservatorio del Telefono Rosa. Ebbene, si tratta di affermazioni totalmente prive di fondamento giacché esiste una consolidata letteratura scientifica che certifica come le donne conviventi corrano lo stesso rischio, se non addirittura un rischio maggiore, di subire violenze rispetto alle donne sposate (cfr. “American Journal of Public Health 2013; “BMC Public Health”, 2011; “Bureau of Justice Statistics”, 2011), le quali però evidenziano, rispetto alle altre, tutta una serie di vantaggi per esempio nelle condizioni della gravidanza, esperienza che vivono con maggiore serenità nel matrimonio.

Il punto interessante e poco considerato è che questi riscontri emergono anche da rilevazioni effettuate in Italia e che dimostrano come la violenza domestica che taluni uomini esercitano sulle donne non abbia nulla a che vedere col fatto di essere mariti. «Sono più colpite da violenza domestica – osserva l’Istat – le donne il cui partner è violento anche all’esterno della famiglia». E’ dunque la violenza di alcuni uomini in quanto violenti, non già in quanto mariti, il problema su cui si dovrebbe ragionare, senza ricorrere a banalizzazioni volte solamente a gettare fango sulla famiglia e, nello specifico, sul matrimonio. Anche analizzando le molestie fisiche in senso lato subite dalle donne in Italia si riscontra come il fenomeno, nella maggior parte dei casi, non riguardi la famiglia. Osservano i ricercatori dell’Istat che «prendendo in considerazione le sole molestie fisiche, ovvero le situazioni in cui la donna è stata avvicinata, toccata o baciata contro la sua volontà, è possibile osservare che la maggior parte di esse sono perpetrate da estranei (59,4 per cento)». Quello del “marito mostro” – anche se ciò non toglie che molti mariti si siano resi e si rendano purtroppo autori di violenza nei confronti delle proprie mogli – è dunque uno stereotipo giacché le violenze fisiche per lo più risultano «perpetrate da estranei».

Non regge all’evidenza empirica neppure la tesi – anch’essa rilanciata con frequenza per diffamare la famiglia – secondo cui, tra le donne che subiscono violenza, quelle sposate o che comunque conoscono il proprio partner sarebbero meno inclini, rispetto le altre, a sporgere denuncia dal momento che, sempre l’Istat, ci informa che se il 93% delle donne che afferma di aver subito violenze dal coniuge ha dichiarato di non aver denunciato i fatti all’Autorità detta, la percentuale sale al 96% se l’autore della violenza non è il partner (cfr. Istat 2008, “La violenza contro le donne. Indagine multiscopo sulle famiglie. “Sicurezza delle donne” Anno 2006). Né va sottaciuto un altro aspetto: le violenze che si verificano fra coniugi sono per lo più legate al tramonto della vita coniugale, non già al fatto di viverla: altrimenti non si spiegherebbe come mai dal gennaio 1994 all’aprile 2003, per esempio, si siano verificati 854 omicidi maturati in seguito a divorzi, separazioni o cessazioni di convivenze e, su un campione di 46.096 casi di divorzi, separazioni e cessazioni di convivenza analizzati, 39.919 (l’86,6%) abbiano avuto implicazioni penali come calunnia, minacce, sottrazione di minore, percosse, maltrattamenti, lesioni, sequestro di persona, violenza privata, violenza sessuale (cfr. Dati Associazione Ex cit. in. Ludovici G.S. «IL TIMONE» n. 55 Anno VIII – Luglio/Agosto 2006, pp. 32 – 33).

Per non parlare dei danni che la fine del matrimonio arreca ai figli. Lo certifica in particolare un recente studio condotto sulla popolazione canadese ed effettuato confrontando dati raccolti nel 2005 con quelli rilevati dieci anni prima, nel 1995, che ha rilevato come – rispetto ad un tasso di abuso infantile medio pari al 3,4% –  il divorzio comporta, per i figli di genitori decisi a lasciarsi, una percentuale di abusi pari al 10,7%; questo significa che il divorzio, a suo tempo introdotto e salutato quale istituto moderno e filantropico triplica per questi la possibilità di rimanere vittime di violenze. Dicendo questo, lo ribadiamo, non s’intende in alcun modo negare che la famiglia possa purtroppo divenire luogo di violenza contro le donne, ma solo chiarire che il problema rimane la violenza e non il matrimonio, che in quanto tale non risulta affatto generatore di violenza. Tutt’altro. E questo vale – con buona pace del Corriere della Sera on line, che lo scorso agosto scrisse che «la famiglia uccide più dei criminali» – anche sul versante non solo intimo della coppia, ma pure sociale, come attestano per esempio studi che hanno riscontrato come il matrimonio risulti correlato ad una riduzione del crimine del 35% [10].

A quanti non fossero ancora persuasi dai dati sin qui ricordati e pensano che l’Italia non sia “un Paese per donne” ricordiamo che da noi, dove pure casi di violenza purtroppo non mancano, questi sono percentualmente inferiori rispetto a quelli accaduti in altri Paesi europei, solitamente dipinti come all’avanguardia rispetto alla “cattolica” e “patriarcale” Italia. A dirlo sono i numeri di donne vittime di omicidio: per gli anni 2008 e 2010 l’Italia, col suo 23,9% di vittime femminili di omicidi, si colloca in una posizione molto più favorevole rispetto a tanti Paesi quali la Svizzera (49,1%), il Belgio (41,5%), la Croazia (49%), ed in linea con gli Stati Uniti (22,5%). Sia chiaro: questo non ci autorizza ad abbassare minimamente la guardia e a giustificare i casi di violenza – neppure uno! – che si verificano nel nostro Paese. Tuttavia sapere che l’Italia non è, per le donne, quell’inferno che spesso i mass media denunciano, aiuta a comprendere la differenza fra la realtà di un fenomeno e la sua distorta rappresentazione.

Tornando a noi, ossia al legame – del tutto pretestuoso e smentito da riscontri che qui abbiamo citato solo in parte – fra violenza sulle donne e famiglia fondata sul matrimonio, ci permettiamo un ultimo pensiero, che poi è anche un invito: perché i mass media, anziché insistere con resoconti dettagliati e spesso macabri circa gli episodi che purtroppo vedono vittime delle donne, non riservano spazio anche alle storie di donne sposate e che, senza ipocrisie, si spendono assieme ai loro mariti per mandare avanti la famiglia e pagare gli studi ai figli? Perché l’eroismo silenzioso di tante mogli e madri deve passare sempre in secondo piano rispetto alle orrende violenze di cui si rendono autori alcuni uomini? Forse perché pubblicizzare il Male rende economicamente di più rispetto al racconto del Bene? E ancora: la censura sistematica nei confronti delle storie di queste mogli e madri – e delle loro famiglie – non è forse, per certi versi, l’ennesima forma di violenza e di attacco alla dignità della donna e del matrimonio?

Giuliano Guzzo

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