Emanuela Orlandi, analisi di tutte le piste investigative

Emanuela Orlandi viva analisi di tutte le piste investigative

Emanuela Orlandi è viva? E’ stata rapita dalla Banda della Magliana? Il Vaticano sa qualcosa? La pista sessuale, Sabrina Minardi, De Pedis, Marco Accetti, i Lupi Grigi e Acga. Sulla sparizione della cittadina vaticana sono moltissime le piste investigative emerse negli anni, ognuna con i suoi punti forti e deboli. In questo dossier analizziamo tutte le ipotesi sul caso Orlandi, arrivando a indicare la più promettente a nostro avviso.

[Pagina aggiornata a agosto 2023].

 
 

Il caso di Emanuela Orlandi è uno dei più grandi misteri italiani.

La cittadina vaticana scomparve il 22 giugno 1983, una delle tante sparizioni che avvengono ogni anno, ma presto diventò l’unico caso caratterizzato da una fitta rete di rivendicazioni di presunti rapitori attraverso telefonate e comunicazioni anonime, ritrovamenti di oggetti ed effetti personali.

Eppure mai una prova certa e indubitabile della sua presenza in vita, soltanto minacce incrociate tra diversi autori delle missive, richieste assurde ma, allo stesso tempo, anche dettagli effettivamente precisi sulla ragazza. Il tutto in mezzo a chiari depistaggi, altre ragazze morte o scomparse in circostanze misteriose nello stesso arco temporale, sciacalli in cerca di vantaggi personali (visibilità mediatica, vendita libri ecc.) e fantomatici super testimoni.

Un “grande teatro” ai danni della famiglia che prosegue senza soluzione di continuità da oltre trent’anni e che ogni volta si dice sia “ad un passo dalla svolta”. Parallelo al caso Orlandi è da sempre inserita anche la sparizione di Mirella Gregori, un caso analogo svoltosi in territorio italiano.

Due volte archiviata dalla Procura (1997 e 2015), la vicenda è stata riaperta dai magistrati romani e vaticani nel 2023.

In questo dossier, continuamente aggiornato, analizziamo ogni pista investigativa e tutte ipotesi principali emerse finora, indagando per ognuna i punti forti e quelli deboli.

Daremo per assunta la cronologia della vicenda, chi volesse approfondire può leggere il nostro dossier precedente.

 

Indice

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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1. GLI ASPETTI CONTROVERSI DEL CASO ORLANDI.

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Come prima cosa è opportuno riportare integralmente il testo che il pubblico ministero, Giovanni Malerba, utilizzò nella sua requisitoria del 1997 per ricostruire il momento della scomparsa di Emanuela Orlandi:

«Alle ore 16,30 circa del giorno 22 giugno 1983 la quindicenne Orlandi Emanuela, cittadina dello Stato del Vaticano, figlia del commesso del palazzo apostolico Orlandi Ercole, usciva dalla sua abitazione sita in via di Sant’Egidio all’interno della città del Vaticano e si recava presso l’istituto “Ludovico Da Victoria”, ubicato in piazza Sant’Apollinare, ove frequentava un corso di flauto. Raggiungeva la scuola e dopo le lezioni se ne usciva verso le ore 19. Telefonando a casa riferiva alla sorella Federica di essere stata avvicinata da un uomo il quale le aveva proposto di partecipare al defilè che l’atelier Fontana avrebbe tenuto a Palazzo Borromini per ivi distribuire materiale propagandistico della ditta Avon dietro compenso di lire 375.000. La circostanza veniva poi confermata da Monti Raffaella, amica della Orlandi, che dichiarava di essersi brevemente intrattenuta con Emanuela all’uscita dalla scuola verso le ore 19,20, di avere appreso della proposta di lavoro ricevuta dall’amica e di aver salutato la stessa Emanuela alla fermata dell’autobus 70. Successivamente, alle ore 19,20 del 22 giugno, si perdeva ogni traccia della Orlandi che non faceva rientro nella propria abitazione e non forniva più alcuna notizia di sé»1citato in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 5 2sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 2,3.

 

 

1.1 Le amiche e compagne di Emanuela Orlandi

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Nelle vicende di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori compaiono varie amiche e amici sulle quali non si è mai riuscita a fare vera luce.

Nel 2013 Marco Accetti, reo-confesso di aver orchestrato la sparizione di Emanuela, disse a Pietro Orlandi: «Le amiche più coinvolte sono state almeno due, una compagna di scuola (non di classe) del Convitto nazionale e una di musica. Poi c’era una ragazza di una associazione cattolica, in Vaticano, che anche voi familiari conoscevate e noi usavamo come tramite»3in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 23.


 

Raffaella Monzi, Laura Casagrande e Maria Grazia Casini.

Dalla sentenza istruttoria del giudice Adele Rando del 12/12/1997, nella deposizione di Natalina Orlandi del 23/6/83 e dalla testimonianza di Raffaella Monzi, sappiamo che il 22/6/83 quest’ultima, finita la lezione di musica all’Istituto da Victoria, alle 19:20 è salita sull’autobus 70 vedendo Emanuela avvicinata da una ragazza dai capelli ricci, a lei sconosciuta4G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 2.

Raffaella Monzi, nell’interrogatorio del 9/07/83 affermò che Emanuela le disse che non poteva prendere l’autobus perché «ho un appuntamento per lavoro, devo incontrare una persona […] [E’] un lavoro da fare solo dalle 16 alle ore 18:30 e per una volta». A quel punto sarebbe sopraggiunta un’altra loro amica e compagna, Maria Grazia Casini, con la quale aveva preso l’autobus n° 70, salutando Emanuela.

Il 28/07/83 davanti al pubblico ministero Domenico Sica, la Monzi ha affermato di essere uscita dalla scuola assieme ad Emanuela:

«Ricordo che Emanuela corse per le scale mentre io mi trattenni a parlare con altre compagne. Ritrovai poi Emanuela e parlammo un po’. La ragazza mi disse (aveva visto giungere l’autobus 26): “che faccio, lo prendo o no?”. Ciò in riferimento al fatto che avrebbe dovuto percorrere solo una fermata, per andare a prendere l’autobus 64 diretto al Vaticano. Le risposi: “fai un po’ te!”. Allora Emanuela aggiunse: “Sai, perché ho trovato un lavoro”, e poi di seguito: “Si tratta di distribuire volantini dell’Avon (società di vendita di cosmetici) per due ore».

 

Raffaella Monzi aggiunse che a Emanuela «l’offerta di lavoro per la Avon le era stata fatta mentre era in compagnia di un’amica».

In un’intervista del 1993, dieci anni dopo, fornì questa versione:

«La lezione era finita, ci incamminammo in gruppo verso l’uscita della scuola. Per raggiungere la fermata dell’autobus si doveva fare un pezzetto a piedi. Non so come, quel tratto di strada mi ritrovai a percorrerlo assieme con Emanuela. Sono passati dieci anni e non so più bene di cosa parlammo lungo il cammino. Stranamente, rammento ancora perfettamente come era vestita Emanuela: una maglietta bianca, i jeans e sulle spalle aveva uno zaino di cuoio. Dentro c’era il flauto. Emanuela mentre aspettavamo il bus mi fece quello strano discorso su cui poi tanto ha insistito la polizia. Mi disse, cioè, che poche ore prima mentre veniva a scuola, era stata avvicinata da un tale, un uomo, il quale le aveva offerto un lavoro. Le avrebbero dato 375mila lire al mese, per distribuire volantini o qualcosa del genere. Insomma, mi chiedeva un consiglio. Non sapeva se accettare, era in dubbio […]. Dopo un po’, poiché l’autobus 70 non arrivava, Emanuela disse: “Che dici? Vado in largo Argentina a prendere il 64?” […]. Poi, il 70 è arrivò. Ma era strapieno. Salii sul predellino. Sentii Emanuela, dietro di me, dire: “Aspetto il prossimo”».

 

Qui sotto un’intervista a Raffaella Monzi risalente agli anni Novanta

 

Nel febbraio 2016 abbiamo intervistato Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, ecco cosa ci disse:

«Raffaella Monzi non fu sempre molto chiara. Alla Monzi, Emanuela disse che era indecisa se aspettare, non l’autobus, ma l’uomo dell’Avon per dargli una risposta visto che lui le aveva detto che l’avrebbe aspettata all’uscita per sapere quale era stata la risposta dei genitori nell’accettare o meno il lavoro. Emanuela arrivò alla fermata non per prendere l’autobus (quella è ormai una delle tante leggende un questa vicenda), ma perché lì avvenne l’incontro con l’uomo e lei tornò li perché, forse, non vedendolo fuori dalla scuola pensò di recarsi nel posto dove l’aveva incontrato».

 

Il 13/07/83 e il 28/07/83 ci furono due testimonianze di Maria Grazia Casini, un’altra studentessa della scuola, la quale (il 13/07) riferì la presenza di una ragazza bassina, con i capelli corti e ricci, vicino ad Emanuela alla fermata dell’autobus:

«L’ultima volta che ho visto Emanuela è stata il 22 giugno alle ore 19 all’uscita dalla scuola Ludovico da Victoria. Emanuela era ferma con una sua amica ad una fermata dell’autobus 70. Quando è arrivato il 70 io sono salita mentre Emanuela e l’amica sono rimaste ferme dove si trovavano […]. Sembrava che le due ragazze fossero in attesa di qualcuno, l’atteggiamento di Emanuela era molto teso»5M.G. Casini, testimonianza al Reparto operativo dei carabinieri di Roma, 13/07/1983.

 

L’amica anonima citata, dai capelli corti e ricci, non era certamente la Monzi perché le due si conoscevano.

Nell’interrogatorio del 28/07/83 la Casini riferì infatti di essere uscita dalla scuola assieme ai compagni Tina Vasaduro e Maurizio Cappellari, ai quali si aggiunse proprio Raffaella Monzi. Ai magistrati disse che di questa ragazza non ricordava il nome, ma che «frequentava la scuola di musica, ha circa quindici anni, è poco più bassa di Emanuela, con i capelli corti, ricci e di colore nero […]. Emanuela era impaziente, in attesa dell’arrivo di una persona o di un mezzo pubblico, tanto che rispose distrattamente al saluto»6M.G. Casini, testimonianza al Reparto operativo dei carabinieri di Roma, 13/07/1983.

La sera stessa della scomparsa, Federica Orlandi, sorella di Emanuela, parlò al telefono con Maria Grazia Casini, la quale le confermò che Emanuela era con una ragazza al momento in cui si erano salutate7testimonianza di Federica Orlandi al Reparto operativo dei carabinieri di Roma, 29/07/1983.

 

Sintetizziamo le testimonianze delle due amiche:

  • Raffaella Monzi saluta Emanuela alla fermata dell’autobus 708G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 2, vi sale assieme a Maria Grazia Casini9verbale del 09/07/83, vede Emanuela avvicinata da una ragazza sconosciuta dai capelli ricci10G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 2
  • Maria Grazia Casini vede Emanuela ferma alla fermata dell’autobus 70 insieme a un’amica11verbale del 13/07/83, che frequentava la scuola di musica12verbale del 28/07/83, bassa e con i capelli neri13verbale del 13/07/83 e ricci14verbale del 28/07/83.

 

Entrambe rilevano la presenza di una ragazza riccia vicino a Emanuela.

La notte della sparizione, suor Dolores, direttrice dell’istituto, venne avvisata da Ercole Orlandi e telefonò a tutte le allieve. La religiosa apprese la presenza di un’altra ragazza e la riconobbe in Laura Casagrande, la quale negò di essere stata presente.

La Casagrande e la Orlandi, nel pomeriggio della sparizione, si sarebbero tuttavia scambiate il numero di telefono perché il 29/6 avrebbero dovuto partecipare assieme ad un concerto. L’8/07/1983 i presunti rapitori di Emanuela telefoneranno a casa di Casagrande dicendo di aver avuto il numero da Emanuela. Né lei né Raffaella Monzi, dopo quel giorno, frequentarono più la scuola di musica.

Raffaella Monzi raccontò di aver ricevuto strani messaggi e telefonate minatorie: «Cominciarono le telefonate anonime. Ne arrivarono tante, tantissime, a casa. Ero terrorizzata. Più di una volta, un uomo al telefono disse: “Raffaella farà la fine di Emanuela, e anche una bella ragazza”».

Nel 2023 il giornalista Fabrizio Peronaci ha confermato che Raffella Monzi, 60enne, non si sarebbe più ripresa ed è in cura in una struttura psichiatrica a Subiaco (RM).

La madre di Raffaella Monzi ha dichiarato:

«Da quel giorno del 1983 la vita di Raffaella non è stata più la stessa. Eravamo tanto esasperati e spaventati che decidemmo di andare via da Roma e di trasferirci a Bolzano, ma c’erano persone che hanno continuato a controllarci. Raffaella fu seguita da un giovane biondino. Ogni volta ce lo trovavamo davanti e un giorno le disse: “Vieni via con me, lascia i tuoi genitori…”. Fu un episodio che ci colpì anche se decidemmo di non darci peso, pensando che fosse uno spasimante. Tornati a Roma, Raffaella mi raccontò che una persona la fotografava per strada. E un giorno ricevetti una telefonata: “Ho visto tua figlia sul treno: è bellissima. La voglio sposare”. Non ho mai saputo chi fosse e come avesse il nostro numero di telefono. Di certo era una persona che la controllava. Per mia figlia è stato un incubo dal quale non si è più ripresa».

 

Se il racconto della madre della Monzi è vero, la persona descritta ha alcuni punti in comune con Marco Accetti, l’uomo che si è accusato di aver orchestrato il sequestro Orlandi-Gregori. Di professione fotografo, gli Atti hanno rilevato l’abitudine a fermare e incontrare giovani adolescenti con lo scopo di fotografarle15G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 48. Lui stesso, inoltre, ha ricordato di essersi innamorato di una ragazza giovanissima (la figlia di Magdalene Chindris) e di aver desiderato sposarla. La stessa frase riportata dalla signora Monzi.

Pietro Orlandi rispose a queste dichiarazioni scrivendo che «la Monzi, poveraccia, vive con la madre, non sta in una clinica privata»16P. Orlandi, commento scritto su Facebook, 15/07/2023.


 

Sabrina Calitti e Silvia Vetere.

Le indagini di polizia all’epoca individuarono anche Sabrina Calitti, alla quale Emanuela disse dell’offerta lavorativa ricevuta17R. Pera, Emanuela Orlandi – E questo è solo l’inizio, Giustizia, 18/07/23 e di voler uscire prima da lezione, avvenuta infatti alle ore 1818G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3.

Un altro compagno di classe di Emanuela, M.D.L. sostenne invece che quel giorno le lezioni terminarono per tutti in anticipo di 15 minuti, alle 18.45 circa, questo «perché il maestro, che è un sacerdote, Mons. Valentino Miserachs, doveva celebrare la messa, all’interno della scuola, per le nozze d’argento dei miei genitori»19citato in R. Pera, Emanuela Orlandi – E questo è solo l’inizio, Giustizia, 18/07/23.

Le lezioni terminarono alle 18 o alle 18.45? Nemmeno su questo si è giunti a una certezza storica.

Un’altra compagna che ha testimoniato è Silvia Vetere, in classe con Emanuela al liceo scientifico del Convitto nazionale: «Emanuela aveva intenzione di trovarsi un lavoro. Non aveva voglia di studiare e faceva sega a scuola»20verbale di Silvia Vetere del 22/07/1983 21verbale di Silvia Vetere del 11/11/2008. Nel 1983 la Vetere riferì che Emanuela si sarebbe confidata con lei pochi giorni pima della sparizione dicendole: «Non mi vedrete per un po’».

In una deposizione del 2008, Vetere riferì confermò la testimonianza del 1983, sostenendo che Emanuela era svogliata e andava male a scuola (fu effettivamente rimandata in due materie, latino e francese), voleva trovarsi un lavoro. L’ex compagna ricordò che Emanuela saltava spesso scuola, firmando da sola le giustificazioni ma non rammentò se le assenze si intensificarono nel periodo precedente alla sua scomparsa. Disse comunque di non vederla mai truccata, né noto alcun cambiamento negli ultimi anni22P. Nicotri, Emanuela Orlandi, 34 anni fa, una pista affiora dalle carte giudiziarie ma ormai, BlitzQuotidiano, 22/06/2017.

Nel 2014 la donna fu cercata dal giornalista Tommaso Nelli: «Fra il maggio e l’ottobre 2014 avevo cercato Silvia Vetere. Prima all’abitazione del 1983 e poi tramite la sorella, che però mi spiegò come fosse impossibilitata a parlare, perché affetta da seri problemi di salute»23T. Nelli, Atto di dolore,‎ 2016.

Nel 2023 Massimo Festa, cugino di Silvia Vetere, ha dichiarato:

«Silvia è stata vittima di un ulteriore sequestro, è stata portata in strutture psichiatriche per impedirle di ripetere quel che sapeva su Emanuela Orlandi. Quel che le era stato confidato era scomodo. Per questo è stata prelevata a più riprese, bombardata di farmaci, narcotizzata, annichilita nel corpo e nella psiche, in una struttura per tossicodipendenti, nella fascia a nord di Roma, e in centri specializzati per pazienti psichiatrici. Quel 13 luglio 1983, tramite l’articolo su L’Unità, cominciò a emergere che era in possesso di informazioni delicate, e successivamente, negli interrogatori, potrebbe essere stata intimidita. Fatto è che non si è mai più ripresa. Anche grazie al ruolo avuto da una nostra parente, non ho più avuto modo di incontrare Silvia da molti anni. Ora potrebbe anche essere morta».

 

A tale dichiarazione ha risposto Pietro Orlandi, scrivendo all’intervistatore di Festa, Fabrizio Peronaci, che non sarebbe vero nulla:

«Fatti dire dalle compagne di classe chi era la Vetere. In Procura hanno capito la personalità e l’hanno lasciata perdere per le falsità dette. Mi hanno già scritto alcune compagne di classe che conoscevano Emanuela e la Vetere, dicendomi: “La Vetere? In classe la conoscevamo tutti che soggetto era“. Il trattamento farmacologico, ma per altri motivi, lo faceva già prima della scomparsa di Emanuela. Le compagne e i compagni di Emanuela quando ci parlai mi assicurarono che la Vetere e Emanuela non le hanno mai viste parlare, né si sono frequentate e a malapena si conoscevano»24P. Orlandi, commento scritto su Facebook, 15/07/2023


 

Pierluigi Magnesio.

Un altro compagno di Emanuela era Pierluigi Magnesio, allora cittadino vaticano e figlio di un elettricista in servizio presso la Santa Sede. Il nome “Pierluigi” è lo stesso del primo telefonista che chiamò a casa Orlandi tre giorni dopo la sparizione.

Il 12/08/1983 nel verbale dell’interrogatorio di Pierluigi Magnesio presso la Procura di Roma si legge: «In merito alla giornata del 22 giugno (giorno della scomparsa) dichiara di aver visto Emanuela “nel primo pomeriggio del 22 giugno. Veniva da casa per recarsi alla scuola di S.Apollinare. Parlò per qualche minuto con me e con gli amici miei e decidemmo di rivederci dopo la scuola, alle ore 19,30, dietro la mola Adriana”».

Nell’agosto 1987 il sostituto procuratore generale Giovanni Malerba chiuse la prima inchiesta scrivendo: «Non sembra azzardata l’ipotesi che il ‘Pierluigi’ delle prime tre telefonate possa identificarsi nel predetto Magnesio Pierluigi; l’età del giovane al momento del fatto induce senz’altro a escludere il suo consapevole e volontario coinvolgimento nel sequestro; e tuttavia, ove il ‘telefonista’ Pierluigi si identificasse nel Magnesio, dovrebbe inferirsi che questi fosse stato contattato dai sequestratori e indotto, verosimilmente con minacce, a effettuare le prime telefonate in funzione di depistaggio. Ove così fosse, ancora oggi il Magnesio potrebbe fornire utilissimi elementi per l’identificazione dei sequestratori. Appare pertanto utile, se non necessario, approfondire l’indagine sul punto».

Il 27 ottobre 1987 la trasmissione Telefono giallo si occupò del caso Orlandi e ricevette questa telefonata: «Buona sera, sono Pierluigi. Se parlo, mi ammazzano». Secondo i successivi approfondimenti della Procura di Roma si sarebbe trattato proprio di Pierluigi Magnesio, il quale si sarebbe trasferito all’estero in un paese non rivelato.


 

Fabiana Valsecchi.

Il giudice Fernando Imposimato, da sempre convinto che il doppio rapimento fosse opera premeditata della Stasi, sostenne che una ragazza coinvolta sarebbe stata Fabiana Valsecchi: «Ho svolto indagini serie, che lasciano pochi margini di dubbio»25F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 111.

Il giornalista Fabrizio Peronaci ha riferito il nome della Valsecchi a Marco Accetti, mentre quest’ultimo raccontava lo svolgimento dei fatti di fronte al Senato. L’uomo, colto di sorpresa, avrebbe risposto: «Da chi l’hai saputo? Chi te l’ha detto?»26F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 111.

Nell’atto di opposizione all’archiviazione del 2015, la famiglia Orlandi chiese inutilmente al pubblico ministero di effettuare un’audizione a Fabiana Valsecchi «sui suoi rapporti con Emanuela Orlandi»27G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 57.

 

 

1.2 Le amiche di Mirella Gregori

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Anche nel caso di Mirella Gregori vi è almeno un’amica il cui profilo è sempre stato piuttosto controverso.


 

Sonia De Vito.

Al centro della sparizione di Mirella c’è Sonia De Vito, vicina di casa e figlia dei proprietari del bar sotto casa dei Gregori.

Proprio il 7 maggio 1983, giorno della sparizione, Mirella fu vista nel locale dei De Vito dove si chiuse in bagno assieme a Sonia per almeno un quarto d’ora. Interrogata dagli inquirenti, disse che Mirella era andata con degli amici a suonare la chitarra a Villa Torlonia.

 

Nel seguente video, la ricostruzione dei primi momenti dopo la sparizione e la reticenza di Sonia De Vito:

 

Quattro mesi dopo, nel settembre 1983, i sedicenti sequestratori telefonarono al bar del padre di Mirella descrivendo minuziosamente gli indumenti che la ragazza indossava il giorno della sparizione, compresa la marca della biancheria intima.

L’avvocato degli Orlandi (ed in seguito dei Gregori), Gennaro Egidio (morto nel 2005), era convinto della reticenza di Sonia De Vito:

«Sapeva molto bene quello che aveva indosso la Mirella. Perché in effetti le scarpe sapeva che le aveva comprate lei in quel negozio, il maglione glielo aveva prestato lei. La Sonia è stata sempre un elemento molto difficile, i carabinieri ci hanno provato in tutti i modi, la polizia anche. L’hanno interrogata, stra-interrogata fino al punto che diviene poi maggiorenne, non c’era più nulla da fare. La Sonia era quella che le cose… la confidente della Mirella. Ed è strano che la Sonia… Ecco, la Sonia ha avuto sempre paura di parlare».

 

In molti sospettarono che Mirella, nel bagno con lei, le avesse rivelato dove si stava effettivamente recando (sempre che Sonia non ne fosse già a conoscenza). Sonia De Vito venne inizialmente accusata di falsa testimonianza e reticenza, accusa poi archiviata.

Maria Antonietta Gregori, sorella di Mirella ha affermato a proposito di Sonia De Vito: «Da quel maledetto giorno non si è mai più fatta viva con noi, proprio lei che mia madre trattava come un’altra figlia. Mai una telefonata, una visita. E per la mia famiglia è stato un grande dolore: lei e Mirella erano sempre insieme. Questo comportamento ci è sempre sembrato strano».

Il giornalista Fabrizio Peronaci ha scritto che il fatto che «Sonia De Vito abbia tenuto per sé molti segreti è una possibilità concreta: fu indagata a lungo e minaccia da sempre denunce contro chi tenti di avvicinarla»28F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

Nell’atto di opposizione all’archiviazione del 2015, la famiglia Orlandi chiese al pubblico ministero di effettuare un’audizione a Sonia De Vito «sulla provenienza delle ingenti risorse di cui disponeva la sua famiglia»29G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 57.

 

Nel seguente video (2013), il reo-confesso Marco Accetti segnala la complicità al finto sequestro di un’altra amica di Mirella:

 

 

1.3 I testimoni oculari

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Se Emanuela fosse stata davvero rapita è difficile pensare che sia stata fatta salire a forza su un’auto davanti a Palazzo Madama, una scena simile non sarebbe passata inosservata.

Uscita da scuola, la giovane aveva appuntamento con la sorella Cristina vicino alla sede del Tribunale della Cassazione (7 minuti a piedi da piazza Sant’Apollinare) la quale, però, non l’ha mai vista arrivare.

Le ultime ad averla vista sono le sue amiche e compagne alla fermata dell’autobus e certamente ha telefonato a casa dicendo di aver incontrato qualcuno che le avrebbe proposto di promuovere prodotti cosmetici Avon, per una somma (spropositata) di 350.00 lire, durante una sfilata di moda nell’atelier delle Sorelle Fontana (lo stesso ha testimoniato l’amica Monzi).

Le Sorelle Fontana hanno smentito la notizia della sfilata di moda riferendo però a Giulio Gangi, il primo a intraprendere le indagini, che «altre ragazze si erano rivolte a loro perché un uomo sulla trentina le aveva fermate per strada con una proposta simile a quella usata per adescare la Orlandi».

Esistono però due presunti testimoni oculari di quanto sarebbe accaduto prima dell’entrata nella scuola di musica, i quali riferiscono un incontro tra Emanuela e un uomo che guidava una BMW (sembra di colore verde), il quale le avrebbe mostrato qualcosa (sembra dei cosmetici) da qualche contenitore (una borsa, un cofanetto o un tascapane militare) con sopra una scritta (“Avon” o solo la lettera iniziale).


 

Il vigile Alfredo Sambuco.

Il primo di essi è stato il vigile Alfredo Sambuco, deceduto dopo il 2002, in servizio in Piazza Madama con turno 14-2130G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3.

Poche ore dopo la sparizione di Emanuela, il vigile venne interrogato da Pietro Orlandi a cui riferì per la prima volta che la giovane sarebbe stata avvicinata da un uomo con una Bmw.

La testimonianza di Sambuco è importante in quanto conferma in maniera indipendente il racconto che Emanuela fece al telefono con la sorella Federica (era stata avvicinata da un uomo), prima ne parlasse qualunque organo di informazione e prima che la polizia indagasse.

Ancora oggi Pietro Orlandi avvalora tali informazioni: «Reputo attendibile e genuino quello che mi disse il vigile per il semplice fatto che ci descrisse le cose che effettivamente aveva detto Emanuela al telefono. Se lui ci avesse raccontato una storia diversa diversa non gli avrei creduto visto che sarebbe stata poi smentita da quanto detto da Emanuela».

Il 25/06/1983 il vigile Sambuco fu interrogato anche da Giulio Gangi, amico di famiglia degli Orlandi nonché agente del SISDE, al quale disse (con davanti la foto di Emanuela) di averla vista attorno alle 17 parlare con un uomo sui 40-45 anni, carnagione scura, capelli castani e radi nella parte anteriore del capo, in prossimità di una Bmw vecchio tipo di colore verde.

L’uomo le aveva mostrato una borsa con la scritta “Avon” contenente cosmetici. All’invito del vigile a spostare l’auto, l’uomo avrebbe risposto “Vado via subito”. Dopo un’ora uno sconosciuto avrebbe domandato al vigile dove si trovasse la Sala Borromini, ma Sambuco non ricordava se si trattava dello stesso uomo della Bmw31dialoghi riportati nella sentenza istruttoria del giudice Adele Rando, 19/12/97 32dialoghi riportati G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3.

Nella deposizione ufficiale di Sambuco, datata 02/07/1983, la scena si sarebbe svolta davanti al civico 57, la Orlandi andava in direzione opposta rispetto alla scuola e interloquiva con un uomo sceso da una Bmw verde metallizzato attorno alle 17.

 

Qui sotto il confronto tra l’identikit fornito da Alfredo Sambuco e Enrico De Pedis:

 

Il 27/07/1983 il vigile Sambuco fu convocato dal sostituto procuratore Domenico Sica ma non si presentò.

 

Nel seguente video, un’intervista al vigile Alfredo Sambuco risalente agli anni Novanta:

 

Nel dicembre 1993, intervistato da Telefono Giallo, il vigile disse che la scena si svolse alle 19 (salvo correggersi pochi giorni dopo in un’intervista su L’Indipendente) e che si avvicinò all’uomo poiché l’auto era in divieto di sosta, venendo rassicurato che l’avrebbe spostata subito. In quel momento la ragazza gli avrebbe domandato dove fosse la sala Borromini. Una versione diversa da quella rilasciata dieci anni prima.

Nel 2002, una volta in pensione, intervistato dal giornalista Pino Nicotri, Alfredo Sambuco aggiunse che Emanuela «la vedevo passare tutti i giorni», una volta la avrebbe anche accompagnata alla Tappezzeria del Moro per far riparare la custodia del flauto. Aggiunse inoltre: «Io non ho mai parlato di “Avon” o di scritte “Avon”, né di borse con la scritta “Avon”…forse da qualche parte ho ancora la copia del verbale della mia dichiarazione ai carabinieri di via Selci, ma mi ricordo benissimo che non ho mai parlato di “Avon” né con loro né con il magistrato Domenico Sica quando mi ha interrogato»33citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, pp. 23, 29.

Il padre di Emanuela, Ercole Orlandi, smentì le parole di Sambuco dicendo che Emanuela si recava alla scuola di musica solo tre giorni a settimana: «Se Sambuco dice che conosceva Emanuela, o mente o dice una cosa nuova. La faccenda della riparazione del flauto è un’invenzione: ce l’abbiamo portata noi»34citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 31. Di fronte a queste diverse versioni, il vigile Sambuco dirà in seguito: «Sa, quella gente era così giù di corda che non me la sono sentita di non dargli nessuna speranza»35citato in P. Nicotri, Emanuela Orlandi, la verità, Baldini Castoldi Dalai 2008, pp. 38, 39.

Gli inquirenti verificarono anche che la presenza di una BMW color blu nei pressi della scuola di Piazza Sant’Apollinare non aveva nulla a che vedere con la vicenda36G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3.

Due responsabili della Avon di Roma precisarono che le rappresentati erano soltanto donne e nessuna con BMW o borse recanti il marchio37G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3. Inoltre, all’agente Gangi dichiararono che non avevano rapporti con l’atelier delle Sorelle Fontana. Le telecamere del Senato invece non erano in funzione38Rapporto di polizia, luglio 1983, allegato agli atti d’inchiesta del giudice Rando.

Nel 2008 il giornalista Max Parisi si recò in Procura per segnalare la presenza in un parcheggio sotterraneo di Villa Borghese di una BMW intestata a Flavio Carboni, faccendiere di molti misteri italiani. Interrogato dai magistrati nel 2010, Carboni non fornì alcun elemento utile: ne confermò la proprietà ma disse di non averla più utilizzata dal 1982, quando fu arrestato. Secondo il gestore del garage l’auto sarebbe stata parcheggiata nel 1995 o 199639G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 53.

Nel 2023 Marco Accetti ha sostenuto che l’identikit e la descrizione effettuata dai due testimoni oculari ritraggono un soggetto con il viso allungato e leggera stempiatura: «Tutto ciò corrisponde alla mia persona e faccio presente di aver chiesto più volte un confronto con il testimone Bosco, il funzionario di polizia che mi vide al Senato. Ma i magistrati non lo hanno concesso»40M. Accetti, Dichairazione su Facebook, 13/07/2023.

Tornando alla testimonianza del vigile Sambuco, a nostro avviso rimane da considerare attendibile soltanto la prima versione, quella rilasciata ai famigliari poche ore dopo la scomparsa. Tutto il resto sembra contraddittorio e inficiato nella sua attendibilità.


 

Il poliziotto Bruno Bosco.

Un secondo testimone oculare sarebbe stato il poliziotto Bruno Bosco, anch’egli in servizio davanti al Senato il giorno della sparizione di Emanuela.

Il 25/6/83, interrogato da Giulio Gangi, affermò di aver visto Emanuela assieme ad un uomo, ricordando anche la scritta a grandi caratteri sul cofanetto mostrato dall’uomo alla giovane, con solo la lettera “A”41R. di Giovacchino, Storie di alti prelati e gangster romani, p. 21.

Il 28/6/83 mise a verbale il suo racconto: l’uomo era alto 1,80mt., capelli castano chiari, corti, camicia e pantaloni chiari, mostrava un tascapane di colore militare con la scritta “Avon”, la scena avveniva davanti al civico n° 3 di piazza Madama, la ragazza aveva uno zainetto sulle spalle.

Rispetto allo zainetto, il fratello Pietro riferisce che Emanuela indossava «una cartelletta con gli spartiti» e «il flauto traverso nello zainetto»42P. Orlandi Mia sorella Emanuela, pp. 13 e 45.

Nel 2002 lo scrittore Pino Nicotri cercò di intervistare Bruno ma, alla sola evocazione del cognome Orlandi, l’uomo avrebbe reagito minacciando querele43P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 30.


 

Conclusioni sulle testimonianze oculari.

Le versioni dei due presunti testimoni oculari, Sambuco e Bosco, collimano in alcune parti mentre si contraddicono in altre.

Questo porta necessariamente alla conclusione che entrambi videro effettivamente Emanuela Orlandi, pur contraddicendosi su elementi secondari. Ciò è motivato da tre argomenti:

  1. Se avessero inventato la scena non avrebbero potuto fornire elementi in comune così specifici;
  2. Se si fossero accordati tra loro non avrebbero prodotto due versioni in contraddizione su alcuni elementi, pur secondari;
  3. La descrizione coincide, a loro insaputa, con il racconto telefonico fatto da Emanuela stessa alla sorella Federica;

 

Sintetizzando le due testimonianze, emerge tale scenario: davanti a una abitazione in piazza Madama (civico 57 per Sambuco, civico 3 per Bosco) un uomo è assieme Emanuela e le mostra un oggetto (una borsa con cosmetici per Sambuco, un tascapane di color militare per Bosco) con scritto “Avon” (nel 2022 Sambuco dirà di non aver mai parlato né di borse, né di scritte).

Nel 2013, Margherita Gerunda, il pm che indagò nelle prime ore che seguirono la sparizione, sorprendentemente negò l’attendibilità dei testimoni:

«Non credo che quel giorno Emanuela Orlandi sia andata alla scuola di musica passando per corso del Rinascimento, dove si usa credere che sia stata vista da un vigile e da un poliziotto. Ho maturato la convinzione che i testimoni si siano prestati a dire o a confermare cose che permettevano loro di andare sui giornali, dare interviste, insomma avere il loro piccolo momento di fama se non di gloria. Per uscire almeno una volta nella vita dall’anonimato e sentirsi protagonisti, alla ribalta, partecipi di una storia che interessa molta gente».

 

Quelle di Gerunda sono affermazioni controverse e prive di logica, desta stupore che tale persona avesse la responsabilità delle indagini allora. Com’è possibile sostenere che entrambi i pubblici ufficiali, per “fame di notorietà” possano aver creato una testimonianza indipendente ma sostanzialmente simile a poche ore dalla sparizione, quando di questa oltretutto non se ne stava ancora occupando nessuno, né la polizia, né i media?

Nel 2014 Marco Accetti, reo-confesso di aver inscenato la sparizione, rispose opportunamente agli scettici sull’attendibilità dei due testimoni:

«Un vigile urbano ed un poliziotto riprenderebbero la bugia della Orlandi e la farebbero propria? Quindi due pubblici ufficiali mentono agli investigatori ed ai giudici senza nulla averne in cambio. Se tra l’altro riferiscono più o meno la stessa circostanza, se ne deduce che si saranno concordati su quanto falsamente raccontare. Per cui ben due pubblici ufficiali si accordano tra loro per mentire riguardo alla grave scomparsa di una minorenne, rischiando di avere conseguenze giudiziarie e di essere espulsi dai rispettivi corpi, perdendo il lavoro. Tutto questo lo avrebbero fatto solo per apparire, senza neanche dover scrivere tre libri sul caso». Eppure, dalle deposizioni, sappiamo che «non vi è stato accordo tra loro, altrimenti avrebbero prodotto versioni omologhe», tuttavia vi è una somiglianza «con gli aspetti fondamentali di quel che si racconta. Infatti ambedue testimoniano che un uomo mostrava del materiale ad una ragazza, la quale corrispondeva alle fattezze dell’Emanuela».

 

Concordiamo pienamente con questa osservazione e riteniamo attendibili, in linea generale, le prime testimonianze dei due agenti.

Riportiamo infine una riflessione altrettanto opportuna di Giulio Gangi: «Tutto fa pensare che l’uomo della BMW voleva essere notato: dal colore squillante della sua auto al fatto che avesse parcheggiato la vettura in direzione contraria al senso di marcia, al posto prescelto, cioè proprio di fronte all’ingresso del Senato»44citato in R. di Giovacchino, Storie di alti prelati e gangster romani, p. 22.

 

1.4 Il ruolo di Giulio Gangi e del SISDE

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Abbiamo già citato Giulio Gangi, l’amico di famiglia arrivato a casa Orlandi il giorno dopo la scomparsa di Emanuela, il 24/6/83. Era un agente del SISDE.

Affermò di essersi interessato «inizialmente a titolo personale e in quanto legato da un pregresso rapporto di amicizia con Monica Meneguzzi, cugina di Emanuela»45sentenza istruttoria Adele Rando, p. 82, dicendo di avere il sospetto di sequestro per prostituzione.

Gangi ha sostenuto di aver conosciuto gli Orlandi a Torano dove lui e la famiglia di Emanuela si recavano in villeggiatura (luogo confermato da Pietro Orlandi46P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 59. Ercole Orlandi, padre di Emanuela, tuttavia ha sempre sostenuto che Gangi era per lui uno sconosciuto, anzi venne colpito dal fatto che a un certo punto disse che usava trascorrere le vacanze estive a Torano, proprio dove si recavano gli Orlandi.

Gangi era o non era un estraneo? Aveva o no conosciuto gli Orlandi in vacanza? Pino Nicotri ha rivolto queste domande a Ercole Orlandi e sostiene di averlo messo in imbarazzo: il papà di Emanuela rispose di aver capito che Gangi e Meneguzzi si conoscevano da come si erano salutati47P. Nicotri, Emanuela Orlandi, la verità, p. 52.

La vicenda rimane controversa e non è secondario identificare bene i rapporti tra Gangi e gli Orlandi in quanto le prime indagini, le più importanti, vennero svolte proprio dall’agente del Sisde.

Un altro particolare strano è che la magistratura venne a conoscenza dell’esistenza e del ruolo di Ganci soltanto nel 1993-1994, dieci anni dopo la sparizione48Il Corriere della Sera, 08/02/1994. La famiglia non disse mai nulla delle prime ricerche svolte da lui?

Nell’autunno 2005, Giulio Gangi, chiarì più dettagliatamente il suo ruolo:

«Bisogna che io sfati una leggenda inventata da voi giornalisti. Cominciamo col dire che io conoscevo gli Orlandi da prima della scomparsa di Emanuela: ero giovane, avevo poco più di vent’anni. Mario Meneguzzi, lo zio della Orlandi, aveva una figlia e proprio di questa ragazza mi innamorai. Mi piaceva tantissimo, era riservata, educata, elegante nel comportamento. Una brava ragazza che conobbi perché l’estate dell’82 andai con un amico a fare una gita fuori porta nel paesino dove gli Orlandi avevano una casetta di villeggiatura (Torano). Fu così che la vidi per la prima volta. Quindi non è vero che il Sisde mi ordinò di infiltrarmi nella famiglia Orlandi per chissà quale scopo. Ad ogni modo, non mi fidanzai mai con la ragazza in questione, ci conoscemmo e diventammo amici. Ci frequentammo tra il 1982 e il 1983 perché le facevo la corte. La sera che scomparve Emanuela lei mi telefonò e mi diede la notizia. Poi mi richiamò due giorni dopo -il 25 giugno 1983- e mi chiese se potevo dare una mano a cercarla perché le avevo detto che ero della polizia, non del Sisde. La sera del 25 andai a casa Orlandi, in Vaticano. Mi accompagnò il collega amico col quale quella volta andai a fare la gita, lui rimase in strada io salii a casa loro e parli coi genitori e lo zio. In quel momento al Sisde non importava un accidenti di Emanuela Orlandi»49citato in O. Lupacchini, M. Parisi, Dodici donne un solo assassino?, Koiné 2006, pp. 184, 185.

 

Il 01/11/2008 Giuglio Gangi precisò ancora una volta: «Fu una mia iniziativa perché ero molto amico dei cugini, conoscevo anche il fratello. Fui io a presentarmi a casa degli Orlandi, la sera dopo, insieme ad un amico comune, Marino Vulpiani, che è medico e dunque fa tutt’altro mestiere. Anche lui era preoccupatissimo perché viveva a Torano, lo stesso paese della famiglia. L’unico agente del SISDE a occuparsi della vicenda, fin dai primi giorni, sono stato io»50R. di Giovacchino, Storie di alti prelati e gangster romani, p. 23.

Pietro Orlandi ha riferito che quando iniziarono a comparire i primi comunicati, fu Giulio Gangi a comunicargli che dietro a “Phoenix”, una delle sigle di presunti rapitori comparse dopo la sparizione di Emanuela, ci sarebbero stati proprio i servizi segreti italiani51P. Orlandi, Mia sorella Emanuela.

Il 30/05/2013, Pino Nicotri ha scritto di aver ricevuto questa risposta da Giulio Gangi in merito alla rivelazione fatta da Pietro Orlandi: «Mi sono limitato a dire: “Boh, forse sono i nostri che cercano di muovere le acque” quando si seppe della prima lettera firmata Phoenix. Oltretutto, io al Sisde ero già stato allontanato dalle ricerche riguardanti Emanuela».

Il 14/11/2013 anche Marco Accetti ha ricondotto “Phoenix” ad alcuni membri del Servizio di Informazioni della Sicurezza Democratica (Sisde).

Oltre a avviare le prime indagini su Emanuela, intervistando i presunti testimoni Sambuco e Bosco, recandosi dalle Sorelle Fontana e contattando la Avon, Gangi cercò anche la BMW verde tundra52citato in F. Peronaci, Emanuela Orlandi, morto Giulio Gangi, l’agente Sisde che partecipò alle prime indagini (e fu poi epurato), Il Corriere della Sera 03/11/2022 descritta dal vigile Alfredo Sambuco trovandola in un’officina di Roma.

Era stata portata con un vetro rotto da una donna che alloggiava al residence Mallia. Gangi si recò ad incontrarla (ha smentito che fosse Sabrina Minardi) venendo accolto con arroganza. Una volta rientrato in ufficio, raccontò, venne sgridato dal suo capo: «La donna doveva avere contatti diretti: prese il numero di targa e in pochi minuti riuscì a farsi sentire. Pensai che fosse l’amante di qualche pezzo grosso, uno dei nostri papaveri».

 

Giulio Gangi ha chiarito più volte e in maniera coerente nel tempo il motivo per cui si trovò a casa Orlandi e come conobbe la famiglia. Rimane controverso il motivo per cui risultava un estraneo agli occhi di Ercole Orlandi. Nella requisitoria del 1997, il giudice Giovanni Malerba stigmatizzerà invece il «non lineare comportamento» di Gangi53citato in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, pp. 124, 143.

Ci sarebbe anche da chiarire il motivo per cui, rivelato sempre dal padre di Emanuela, il SISDE si sarebbe occupato di pagare le spese dell’avv. Egidio, da loro stessi suggerito, senza dire nulla alla famiglia54P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 69.

Un ulteriore punto di attenzione risale all’agosto 1983, quando la famiglia, su suggerimento degli agenti del SISDE, inviò una domanda al “Fronte Turkesh”, una delle sigle di presunti rapitori che inviarono messaggi sul caso Orlandi, per metterli alla prova sulla reale conoscenza dei fatti: dove cenò Emanuela il 20 giugno (3 giorni prima della sparizione)? La risposta fu corretta: con “parenti molto stretti”.

Pietro Orlandi ha spiegato che questo dettaglio era conosciuto soltanto in famiglia55P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 106, oltre chiaramente agli agenti del SISDE che suggerirono la domanda.

Nella sentenza di proscioglimento del 1997 si evidenziò che con la comparsa di varie sigle dopo il 20/07/83, tra cui il “Fronte Turkesh”, terminò il primo periodo di autenticità del caso (cioè quello dei tre telefonisti).

Giulio Gangi è morto il 02/11/2022 nella sua abitazione, probabilmente per ictus. Le sue ultime indagini erano orientate verso Marco Accetti56F. Peronaci, Caso Orlandi, la vita spericolata dell’ex agente Gangi e la sua ultima pista, Corriere della Sera, 04/09/2022.


 

Conclusioni su Giulio Gangi e il Sisde.

Se la posizione di Giulio Gangi nel caso Orlandi risulta chiarita, molto meno lo è quella del SISDE.

Perché fin dai primi mesi vollero intervenire i servizi segreti, quando già stava indagando il loro agente Gangi, pur in forma privata, e la polizia? All’epoca si pensava fosse un comune caso di allontanamento volontario o di un rapimento a scopo sessuale, i servizi non si occupavano di queste cose. Ebbero informazioni diverse? Che ruolo si ritagliarono nella vicenda e quali piste seguirono?

Difficile pensare che furono loro dietro al “Fronte Turkesh”, i cui membri oltre a comunicati deliranti fornirono anche riscontri concreti e attendibili, noti solo alla famiglia (lo vediamo più sotto). Ma gli stessi Orlandi non furono messi a conoscenza di ciò. Quindi il SISDE ingannò anche la famiglia e il loro agente Giulio Gangi? Oppure a operare furono soltanto alcuni membri deviati, come ritiene Marco Accetti?

 

 

1.5 L’avvocato Gennaro Egidio

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Un altro aspetto controverso della vicenda è come l’avv. Gennaro Egidio, morto nel 2005, sia arrivato a difendere legalmente la famiglia Orlandi. E’ un piccolo dettaglio che però sarebbe bene chiarire.

Il 22/07/1983 durante una conferenza stampa, Mario Meneguzzi, zio di Emanuela, annunciò la nomina di Egidio.

Il 12/7/1993 Ercole Orlandi, padre di Emanuela, sostenne che la scelta di questo legale era stata “suggerita” loro dal funzionario del Sisde Gianfranco Gramendola, il quale aveva provveduto anche a presentarglielo57P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 69. Gramendola tuttavia smentirà la circostanza.

Gramendola si recò anche lui a casa Orlandi, accompagnando Gangi e presentandosi come “Leone”. Giulio Gangi più avanti dirà che si trattava del suo capo sotto falso nome58citato in P. Nicotri, Emanuela Orlandi, la verità, p. 67 e sospetterà fortemente del suo operato domandandosi: «E se fosse stato un complice del rapimento?»59citato in O. Lupacchini, M. Parisi, Dodici donne un solo assassino?, Koiné 2006, p. 54.

Nel 2002 Ercole Orlandi affermò: «Noi a Egidio non abbiamo mai pagato neppure una lira, la questione economica era già stata sistemata prima che mi facessero firmare il documento preparato dal Sisde per la nomina del legale. Per giunta solo dopo vari anni mi hanno comunicato che con quella firma avevo nominato un altro avvocato, Massimo Krogh, come sostituto di Egidio in caso di suo impedimento»60citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 69.

Massimo Krogh è stato legale di Pietro Orlandi almeno fino al 2015.

Nel 2013 Pietro Orlandi ha confermato che «fu Gianfranco Gramendola, carabiniere del Sisde, nome in codice Leone a presentarcelo esclamando: “Tranquilli, quest’avvocato è la mano di Dio!”. Poi fu lo stesso Egidio a dirci che si era occupato dei Rothschild e, mi pare, del caso Calvi. Era sempre lui, l’avvocato, ad andare a parlare con il cardinal Giovanni Battista Re, allora assessore della Segreteria di Stato».

Infatti, l’avv. Egidio fu anche legale della famiglia della baronessa Jeanette de Rothschild, sparita a Sarnano (Marche) il 29/11/1980 e il cui scheletro (oltre a quello della sua segretaria Gabriella Guerin) fu ritrovato il 27/01/1982 sui monti del maceratese (a 15km di distanza). Un caso apparentemente legato alla Orlandi, ne parliamo più sotto.

Nel 2013 Marco Accetti inserì il caso della baronessa nell’ambito della guerra tra fazioni vaticane e riferì che nel “ganglio” opposto al suo ci sarebbero stati esponenti del Sisde: «Alcuni membri della parte a noi avversa credettero di ravvisare in noi i responsabili della morte della baronessa Rothschild, per cui nel 1983, dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, suggerirono alle famiglie delle ragazze la nomina legale dell’avvocato Gennaro Egidio, già legale della famiglia Rothschild in ordine alla scomparsa della baronessa».

In realtà per la famiglia Gregori sembra sia andata diversamente: il padre della ragazza dichiarò allora che soltanto a seguito del primo comunicato del gruppo “Turkesh”, in cui si fece il nome di Mirella per la prima volta, venne deciso di rivolgersi allo stesso avvocato della Orlandi.

 

Nel video qui sotto, Maria Antonietta Gregori riferisce una terza versione: fu l’avv. Egidio a proporsi alla famiglia Gregori dopo il primo comunicato del “Fronte Turkesh”

 

Nel gennaio 2016 abbiamo intervistato Marco Accetti, il quale ci ha detto:

«Il “Fronte Turkesh” era qualcuno dei servizi segreti, o l’altra parte o l’avv. Egidio, che poi è la stessa cosa. Egidio era un ruolo un po’ dell’altra parte, faceva capo ai vertici dello IOR per cui sapevamo che era persona dell’altra parte. Tutte le telefonate a lui non significavano nulla, era solo affinché le riferisse poi ai giornalisti. Non avevamo niente da chiedere all’avv. Egidio e lui niente da darci».

 

Un ultimo aspetto “controverso” sull’avv. Egidio fu la sua idea, esposta nel 2002 al giornalista Pino Nicotri, che la soluzione del caso Orlandi si trattasse di una spiegazione “più semplice”, una pista che portava a Torano, alla zia Anna Orlandi e al suo amante. Ne parliamo nella prossima sezione, dedicata proprio alla zia Anna.

Quelli dell’avv. Egidio (pagato dal Sisde) erano convinzioni e dubbi autentici oppure stava indirizzando un giornalista molto informato e attivo sul caso verso una pista falsa, lontana da quella reale? Ritorna poi il paese di Torano, luogo di incontro tra Giulio Gangi (Sisde) e la famiglia Orlandi.


 

Conclusioni sull’avv. Egidio.

Rimane misterioso il motivo per cui i servizi segreti consigliarono proprio l’avv. Gennaro Egidio e, soprattutto, perché lo pagarono loro.

Ci sono persone che potrebbero aiutare a fare luce su questo, ad esempio l’avv. Massimo Krogh, che venne nominato allora come sostituto (a insaputa della famiglia) e fino a qualche anno fa era difensore di Pietro Orlandi.

Non risulta infine che la famiglia Orlandi abbia mai commentato la convinzione del proprio legale, Gennaro Egidio, sul fatto che la sparizione di Emanuela fosse legata al paese di Torano e alla zia Anna Orlandi.

 

 

1.6 La zia Anna Orlandi

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La zia di Emanuela, Anna Orlandi, è stata coinvolta più volte nella vicenda.

Come già detto nella sezione precedente, il primo a parlarne fu l’avv. Gennaro Egidio, legale degli Orlandi e dei Gregori, nel maggio 2002, dialogando con Pino Nicotri.

Emanuela potrebbe essersi allontanata di sua iniziativa? «Tutto è possibile», rispose l’avvocato, collegando subito a questa risposta una vicenda inedita:

«C’è tutta la questione dove loro passavano le vacanze, nel paesino, lì a Torano. Tutta gente che era intorno alla zia dell’Emanuela, Anna mi pare che si chiami. Questa donna che veniva seguita addirittura e nonostante la sua età, e non vorrei aggiungere altro. Che è una santa donna, una bravissima donna. E perché c’era una persona che era diventato un amico addirittura dell’Anna e compagnia bella, e lei quindi parlava liberamente, perché parlava sempre molto bene, con orgoglio dei della nipote e degli altri. E quindi non si è mai capito questo tizio chi fosse, come mai poi dopo alla fine è scomparso proprio dopo che Emanuela era scomparsa […]. Lui dette un nome falso all’Anna. Questo è il punto. Questo tizio magari successivamente potrebbe avere a che fare, per l’amor del cielo […] Questo qui accompagnava e conosceva molto bene l’Anna, che l’aveva conosciuto se ricordo bene in via Cola di Rienzo, c’era quest’uomo, mentre lei era in un negozio, che poi lei conobbe. E poi questo cominciò a conoscerla, a seguirla, a frequentarla… e delle volte uscivano anche con l’Emanuela insieme […] Ci sono state tante di quelle persone che volevano seguire questa storia che veniva adoperata per altri fini, per altre questioni». Nicotri afferma: «E anche gli Orlandi credo non sapessero in realtà chi era e che faceva la figlia», risposta: «Sono pienamente d’accordo con lei».

 

La zia Anna, morta nel novembre 2011 all’età di 80 anni, ha sempre abitato in casa Orlandi, crescendo Pietro, Emanuela e gli altri figli assieme a Maria e Ercole Orlandi. Dopo la scomparsa di Emanuela, la donna smise di abitare in Vaticano per trasferirsi nel paesino di Torano.

E’ comprensibile a questo riguardo la perplessità di Pino Nicotri sul fatto che nessuno della famiglia abbia mai parlato di lei nelle varie interviste e libri (neanche in quello di Pietro Orlandi, Mia sorella Emanuela), tanto che ha scritto di averne «scoperto l’esistenza solo parlando con l’avvocato Egidio, nel corso di una telefonata. Secondo il cronista che vi scrive e segue il caso Orlandi da dieci anni, la rilettura di vecchi appunti in effetti fa apparire la zia Anna come un personaggio che potrebbe diventare centrale».

La vicenda della zia Anna Orlandi porta direttamente ad una delle piste minoritarie del caso, proposta dalla fotografa Roberta Hidalgo (ne parliamo più sotto). La Hidalgo, dopo essersi procurata del materiale biologico di vari esponenti della famiglia Orlandi, sostenne che Emanuela Orlandi sarebbe in realtà figlia di Anna Orlandi (cioè, quella che è la zia) e Paul Marcinkus, cardinale e allora capo dello Ior. Emanuela vivrebbe con il fratello Pietro a Roma, mentre la vera moglie di Pietro, Patrizia Marianucci, vivrebbe in campagna. Una tesi decisamente estrema, come vedremo.

Restando sulla zia Anna, Roberta Hidalgo sostenne anche che avrebbe avuto una relazione con un uomo sposato di nome Giuliani, il quale avrebbe abitato con la propria moglie nel paesino di Torano, dove gli Orlandi andavano a passare le vacanze. La relazione adulterina tra Anna e Giuliani sarebbe stata ben nota in paese.

Poco dopo la scomparsa di Emanuela, Anna Orlandi smise di abitare in casa dagli Orlandi per ritirarsi a Torano, dove avrebbe accolto in casa e curato Giuliani quando questi rimase paralizzato. L’uomo avrebbe vissuto con lei fino alla morte. Da allora Anna Orlandi si sarebbe fatta chiamare Giuliana Giuliani, cognome al quale avrebbe anche intestato il telefono di casa.

Soffermiamoci un attimo sul nome Giuliani.

Il telefonista “Pierluigi”, che chiamò casa Orlandi subito dopo la scomparsa di Emanuela, disse di averla vista (chiamandola “Barbarella”) mentre vendeva collanine in piazza Campo de Fiori e voleva degli occhiali Ray Ban. Ercole Orlandi ricordò che due estati prima, a Torano, Emanuela e alcune amiche avevano venduto ad un banchetto di strada delle collanine e ricordò un discorso proprio sui Ray Ban nell’estate precedente, sempre a Torano, tra la mamma di Emanuela, Emanuela e una sua amica, Ines Giuliani, «figlia non ricordo se di un vigile urbano o di un poliziotto che comunque si chiamava Nicola e abitava a Roma in via Portinari»61citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 33.

E’ curioso che il cognome dell’amica di Emanuela fosse Giuliani, lo stesso che secondo Roberta Hidalgo sarebbe appartenuto all’uomo con cui la zia Anna Orlandi avrebbe avuto una relazione adulterina a Torano. Una coincidenza?. Da dove prese questo cognome la Hidalgo?

Intervistata da Pino Nicotri, la zia Anna Orlandi rispose confermando parte della storia, cioè che l’uomo le aveva dato un nome falso (confermato anche da Ercole Orlandi) e che quando lei scoprì che era sposato decise di non vederlo più. Lo stesso disse anche ai magistrati, che non riuscirono a rintracciare quest’uomo né ad interrogarlo.


 

Conclusioni sulla zia Anna Orlandi.

L’avv. Egidio, Roberta Hidalgo e la zia Anna Orlandi hanno confermato la presenza di un uomo nella vita di quest’ultima, che lei avrebbe conosciuto con un nome falso. L’avvocato di famiglia, Egidio, e Hidalgo sostengono anche una relazione (Egidio) adulterina (Hidalgo). Mentre Hidalgo localizza questa relazione a Torano, paese di villeggiatura degli Orlandi (chiamando l’uomo “Giuliani”), Egidio sembra localizzarla a Roma (in via Cola di Rienzo) anche se inizia il discorso fortemente allusivo con queste parole: «C’è tutta la questione dove loro passavano le vacanze, nel paesino, lì a Torano. Tutta gente che era intorno alla zia dell’Emanuela, Anna mi pare che si chiami».

Mentre Hidalgo è convinta che la zia Anna avesse anche avuto una relazione con mons. Marcinkus da cui sarebbe nata Emanuela, l’avv. Egidio sospettò un coinvolgimento di Emanuela nella relazione tra la zia Anna e l’uomo misterioso («e delle volte uscivano anche con l’Emanuela insieme»), elemento che alcune persone avrebbero voluto usare per «altri fini».

Non ci risulta che gli Orlandi abbiano mai chiarito definitivamente questa vicenda della zia, rispondendo ai dubbi dell’avv. Egidio o al libro della Hidalgo. La ritengono comprensibilmente una vicenda offensiva, che tocca vicende private di una loro intima parente, tuttavia mettere luce su tutto ciò aiuterebbe a togliere ogni minimo sospetto.

Anche la fotografa Hidalgo dovrebbe chiarire le fonti delle sue affermazioni e, soprattutto, da dove abbia reperito che il cognome dell’uomo che avrebbe avuto una relazione con Anna Orlandi fosse Giuliani.

 

 

1.7 I paesi di Torano e Bolzano

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Nella vicenda Orlandi compaiono frequentemente due paesi italiani, Torano e Bolzano.

Nel corso degli anni sono emersi più volte, intrecciati ad alcune piste investigative che non sembrano avere alcun collegamento tra loro.


 

Bolzano.

La prima volta che appare Bolzano, capoluogo di provincia del Trentino-Alto Adige, nel caso Orlandi è legato alla (controversa) compagna di Emanuela, Raffaella Monzi.

Come abbiamo visto in una sezione precedente, la Monzi fu una delle ultime persone a vederla prima della sparizione. Negli anni successivi raccontò di aver ricevuto tantissimi messaggi e telefonate minatorie che la costrinsero a trasferirsi a Bolzano, sua città d’origine.

La madre di Raffaella ha confermato che dal 1983 la vita di Raffaella cambiò radicalmente e «decidemmo di andare via da Roma e di trasferirci a Bolzano, ma c’erano persone che hanno continuato a controllarci. Raffaella fu seguita da un giovane biondino. Ogni volta ce lo trovavamo davanti e un giorno le disse: “Vieni via con me, lascia i tuoi genitori…”. Fu un episodio che ci colpì anche se decidemmo di non darci peso, pensando che fosse uno spasimante».

Un’altra vicenda che si svolge in quest’area geografia iniziò il 04/03/1985, quando Josephine Hofer Spitaler, abitante di Terlano (15 minuti da Bolzano), dichiarò ai carabinieri che il 15/8/83 vide arrivare presso la casa in cui abitava un’auto targata Roma, da cui scesero un uomo e una ragazza barcollante che riconobbe essere Emanuela Orlandi (avrebbe indossato un girocollo in materiale non metallico dai colori sbiaditi, mentre Emanuela indossava una fascetta gialla e rossa, come si vede nella famosa foto che fu appesa a Roma62P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 178).

L’appartamento in cui fu fatta entrare la ragazza era abitato da Kay Springorum e Francesca di Teuffenbach. Dopo tre giorni, il 19/8/83 sarebbero arrivati Rudolf di Teuffenbach, cognato di Kay Springorum, sua moglie e un’altra donna. La ragazza con la fascetta sarebbe stata portata in Germania63P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, pp. 179-191.

La Hofer confermò il racconto di fronte al giudice istruttore e ai sospettati i quali, però, si ritennero estranei ai fatti sostenendo di aver ospitato quel giorno altre persone64Atti del processo, 05/08/97. Il giudice Adele Rando verificò che Rudolf di Teuffenbach (l’uomo che avrebbe prelevato Emanuela da casa dei coniugi) appartenere al Sismi, con funzioni di capocentro della sede di Monaco di Baviera (la Hofer, pur non essendo a conoscenza di questo, riferì di aver sentito che la ragazza sarebbe stata portata in Germania)65A. Rando, Atti del 19/12/97, p. 28.

Il giornalista Tommaso Nelli ha rintracciato molteplici aspetti non chiari nella testimonianza della Hofer.

Oltre ad alcune contraddizioni nelle varie deposizioni e alla sorprendente decisione di presentarsi in caserma dopo così tanto tempo, nel 1985 il figlio Norbert Spitaler smentì che la donna avesse parlato in casa della vicenda, come invece da lei sostenuto. Josephine Hofer indicò inoltre altri colori (verde-grigio) relativi alla fascetta indossata dalla ragazza e emersero attriti tra lei e gli Springorum (l’avevano licenziata nell’ottobre 1983). Infine, non vi fu alcun riferimento a Emanuela Orlandi nelle telefonate degli Springorum e dei Teuffenbach, intercettate per tre mesi.

Nel 1997 la sentenza conclusiva assolse gli indiziati soprattutto perché si dimostrò con ragionevole certezza che, il 19/08/1983, Rudolf di Teuffenbach non era a Terlano bensì a Monaco di Baviera. Pietro Orlandi, per nulla soddisfatto, scrisse: «Le indagini in quella direzione si sono fermate proprio per la presenza di un funzionario dei nostri servizi segreti militari»66P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 186).

All’incirca nello stesso periodo di tempo in cui sarebbero avvenuti i fatti di Terlano raccontati da Josephine Hofer Spitaler, a pochi chilometri di distanza nella città di Bolzano, l’insegnante di musica Johanna Blum avrebbe ricevuto una telefonata tra la mezzanotte e l’una.

Recatasi ai carabinieri della città (in data non chiara), la Blum riferì che «tra fine di luglio e inizio agosto del 1983, in casa mia squillò il telefono. Risposi. Una giovane, parlando rapidamente, disse: “Sono Emanuela Orlandi, mi trovo a Bolzano, informi la polizia”. Poi attaccò». Subito dopo, avrebbe ricevuto «un’altra telefonata. Una voce maschile mi ordinò: “Dimentichi quello che ha sentito, capito?” Poi interruppe la comunicazione. Spaventata, chiamai il 113: mi dissero di chiudermi in casa»67citata in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 182.

La donna disse di essere stata più volte a Roma, di aver distribuito a colleghi o allievi i propri biglietti da visita e di conoscere la scuola di musica di Emanuela “per la sua notorietà” ma di non avere avuto contatti specifici68citata in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 182.

Rimane controverso il fatto che anche lei, come la Hofer, abbia denunciato i fatti a così tanto tempo di distanza e soltanto dopo la denunica di Josephina Hofer.


 

Torano.

Il paesino di Torano, al confine tra Lazio e Abruzzo, era il luogo di villeggiatura degli Orlandi.

Entrò nella vicenda con il primo telefonista che chiamò casa Orlandi dopo la sua sparizione: “Pierluigi” disse di aver visto Emanuela (chiamandola “Barbarella”) mentre vendeva collanine in piazza Campo de Fiori e voleva degli occhiali Ray Ban.

Il padre Ercole si ricordò che effettivamente due estati prima, proprio a Torano, Emanuela e alcune amiche avevano venduto ad un banchetto di strada delle collanine. Inoltre, durante l’estate precedente, sempre a Torano, si affrontò un discorso sui Ray Ban tra la mamma di Emanuela, Emanuela e una sua amica, Ines Giuliani, «figlia non ricordo se di un vigile urbano o di un poliziotto che comunque si chiamava Nicola e abitava a Roma in via Portinari»69citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 33.

Come abbiamo visto nella sezione a lui dedicata, l’agente del Sisde Giulio Gangi -che da subito aiutò la famiglia Orlandi nella ricerca di Emanuela- conobbe gli Orlandi diverso tempo prima del 1983. Si innamorò della cugina di Emanuela, figlia dello zio Mario Meneguzzi e fu lei a coinvolgerlo il giorno della sparizione70O. Lupacchini, M. Parisi, Dodici donne un solo assassino?, Koiné 2006, pp. 184, 185.

Infine, nella precedente sezione abbiamo indicato che sempre nel paesino di Torano si dipanerebbe il caso della zia Anna Orlandi.

L’avvocato di famiglia, Gennaro Egidio, e la fotografa Roberta Hidalgo, sostennero che la donna frequentasse un uomo conosciuto sotto falso nome. La zia Anna confermò di aver conosciuto un uomo sotto falso nome ma che si sarebbe allontanato appena saputo che era spostato.

Hidalgo parlò invece di una relazione adulterina che sarebbe divenuta stabile dopo la sparizione di Emanuela, quando Anna Orlandi si trasferì definitivamente a Torano. L’avv. Egidio legò la sparizione di Emanuela a una «questione dove loro passavano le vacanze, nel paesino, lì a Torano. Tutta gente che era intorno alla zia dell’Emanuela, Anna mi pare che si chiami». Aggiungendo che la zia e quest’uomo misterioso «delle volte uscivano anche con l’Emanuela insieme», elemento che alcune persone avrebbero voluto usare per «altri fini».


 

Conclusioni su Torano e Bolzano.

Dagli elementi emersi finora non sembra vi siano collegamenti importanti tra il caso Orlandi e questi Paesi.

E’ pur vero che vi sono coincidenze a dir poco singolari che si potrebbe ulteriormente verificare, come quelle esposte finora. Ma al momento sembrano per l’appunto soltanto mere casualità.

 

 

1.8 I telefonisti Mario, Pierluigi e l’Amerikano

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Con i telefonisti ci riferiamo a coloro che chiamarono casa Orlandi (e non solo) già pochi giorni dopo la sparizione di Emanuela: “Pierluigi” e “Mario” e, qualche giorno dopo, l’Amerikano.

Si citarono a vicenda e produssero elementi in comune, dimostrando un collegamento tra loro.

Mentre i primi due sostennero che Emanuela si fosse allontanata volontariamente, il terzo introdusse il tema della contrattazione tra Emanuela e la liberazione di Alì Agca.


 

Il telefonista “Pierluigi”.

Il nome “Pierluigi” compare più volte nel caso Orlandi.

Innanzitutto fu il primo telefonista che chiamerà a casa Orlandi il 25 giugno 1983, due giorni dopo la sparizione di Emanuela, senza che il telefono fosse ancora dotato di registratore71G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 3, 4.

“Pierluigi” disse di avere 17 anni e di essere stato spinto a chiamare dalla sua fidanzata. Quest’ultima avrebbe visto le foto di Emanuela sui giornali riconoscendo la ragazza che avrebbe incontrato il 23/06 (giorno della scomparsa) in Campo de Fiori mentre vendeva piccole mercanzie e prodotti della Avon72G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3. Disse che Emanuela portava capelli tagliati di recente a caschetto, diceva di chiamarsi Barbarella, era assieme ad un’amica più grande e aveva con sé un flauto riposto in una custodia nera73citato in P. Nicotri, Mistero Vaticano, pp. 31, 32.

Il telefonista aggiunse che Emanuela avrebbe rifiutato la proposta della sua ragazza di suonare il flauto in piazza Navona in quanto «per leggere avrebbe dovuto mettersi un paio di occhiali con la montatura bianca che la imbruttivano», preferendo la marca Ray Ban, la stessa che indossava la fidanzata di Pierluigi. L’uomo riferì inoltre che Emanuela soffriva di astigmatismo ad un occhio74G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 3 .

Il fatto sorprendente è che ancora nessuno aveva rivelato pubblicamente che Emanuela, prima di sparire, aveva telefonato a casa parlando proprio di un lavoro offerto per distribuire volantini per la Avon. Inoltre, come già osservato in una sezione precedente, il padre Ercole Orlandi ricordò che due estati prima, a Torano, Emanuela e alcune amiche avevano venduto ad un banchetto di strada delle collanine, nonché ricordò un dialogo sui Ray Ban, sempre a Torano, tra la mamma di Emanuela, Emanuela e una sua amica, Ines Giuliani75P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 33.

“Pierluigi” telefonò anche il giorno successivo (26/06/1983) dicendo di essere in un ristorante al mare con i genitori (con tanto di rumori di piatti in sottofondo). Aggiunse poi che Emanuela avrebbe dovuto suonare all’ormai prossimo matrimonio della sorella.

Nella sentenza del 2015 si confermò che i dettagli forniti dal telefonista corrispondevano tutti alla verità dei fatti e convinsero gli inquirenti all’autenticità del telefonista76G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3.

 

Qui sotto la ricostruzione della telefonata di “Pierluigi”:

 

Per quanto riguarda il ristorante in località marina citata da “Pierluigi”, ricordiamo che il 19/09/83 in una lettera firmata “Gruppo Phoenix”, una delle sigle che comparve dopo la sparizione di Emanuela, si minacciò il primo telefonista: «“Pierluigi” è assai pericoloso stare in quella trattoria con le spalle verso la porta perché ci sono troppe “correnti d’aria”: un nostro vecchio “amico” ha fatto una brutta fine davanti ad un piatto di spaghetti».

Chi era “Pierluigi”? Come poteva conoscere dettagli veri e così personali su Emanuela, quando ancora nessuno stava indagando sulla sua scomparsa?

Nel 2013, Marco Accetti, reo-confesso di aver orchestrato l’allontanamento di Emanuela, ha fornito la sua versione dicendo che scelsero il nome “Pierluigi” per alludere a mons. Pierluigi Celata, che affermò essere acerrimo nemico di Marcinkus, nonché riferimento della fazione di cui faceva parte (senza che il prelato fosse coinvolto con le loro attività). Mons. Celata sarebbe stato anche il suo confessore durante la frequentazione del collegio San Giuseppe De Merode.

Pietro Orlandi ha ricordato anche che l’arcivescovo Pierluigi Celata all’epoca della scomparsa di Emanuela era il segretario del Segretario di Stato, Agostino Casaroli, il quale avrebbe ricevuto le telefonate dell'”Amerikano” sulla linea codificata 158.

Per quanto riguarda il rumore di sottofondo di un ristorante, Accetti scrisse:

«Costui dice di chiamare da un ristorante (il noto ristorante di Torvaianica frequentato da vari protagonisti di questi fatti [gli uomini di De Pedis, NDA]). Fui io personalmente a registrare il rumore di sottofondo al ristorante “Pippo l’Abruzzese” di Tor Vaianica […]. Nel caso la telefonata potesse essere registrata e sottoposta al giudizio di un esperto, le caratteristiche specifiche di alcuni rumori potevano far risalire proprio a quell’ambiente»77M. Accetti,Memoriale, 16/04/2014.

 

Le altre indicazioni (o codici) presenti nella telefonata le descrisse così78M. Accetti,Memoriale, 16/04/2014:

  • “Pierluigi” dice che deve compiere 17 anni ➡ Codice delle apparizioni di Fatima, cioè 13-5-17 (da associare all’età di “Mario”, il secondo telefonista, che dirà di avere 35 anni79G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3);
  • Emanuela si fa chiamare Barbarella ➡ Codice di Chiesa Santa Barbara de’ Librari presso Campo de Fiori, piazza in cui aveva il negozio Domenico Balducci nel quale riciclava denaro di Pippo Calò (alias Mario Aglialoro) e che fu ucciso nel 1981 da De Pedis per aver trattenuto denaro di Calò;
  • Emanuela è in compagnia di un’altra ragazza ➡ Codice della compagna del Convitto, complice nel giorno della sparizione di Emanuela;
  • Emanuela deve suonare al matrimonio della sorella a settembre ➡ Codice che indicava che sarebbe rientrata entro settembre se si fosse accettata la trattativa;

 

Secondo la testimonianza dei familiari della Orlandi, la voce di “Pierluigi” risultò essere posata, senza inflessioni. Fu da loro ribattezzato per questo “il pariolino”.

Marco Accetti ha affermato invece che “Pierluigi” sarebbe stata una ragazza: «Pierluigi era una mia amica, certo: valutammo che la sua voce si avvicinasse di più a quella di un diciassettenne e funzionò»80citato in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014. Aggiunse: «Era una mia consuetudine, nei miei vari lavori cinematografici, usare delle ragazze per prestar la voce a personaggi di adolescenti maschili»81M. Accetti,Memoriale, 16/04/2014.

 

“Pierluigi” non è solo il nome del primo telefonista ma anche quello di un compagno di classe di Emanuela Orlandi, Pierluigi Magnesio. Anch’egli cittadino vaticano, figlio di un elettricista in servizio presso la Santa Sede. Fu la prima persona a cui pensarono gli investigatori dopo la comparsa del primo telefonista.

Il sostituto procuratore generale Giovanni Malerba, nella sua requisitoria dell’agosto 1997, ipotizzò addirittura che fosse stato proprio lui, sotto pressione o minaccia, a telefonare:

«Non sembra azzardata l’ipotesi che il ‘Pierluigi’ delle prime tre telefonate possa identificarsi nel predetto Magnesio Pierluigi; l’età del giovane al momento del fatto induce senz’altro a escludere il suo consapevole e volontario coinvolgimento nel sequestro; e tuttavia, ove il ‘telefonista’ Pierluigi si identificasse nel Magnesio, dovrebbe inferirsi che questi fosse stato contattato dai sequestratori e indotto, verosimilmente con minacce, a effettuare le prime telefonate in funzione di depistaggio. Ove così fosse, ancora oggi il Magnesio potrebbe fornire utilissimi elementi per l’identificazione dei sequestratori. Appare pertanto utile, se non necessario, approfondire l’indagine sul punto».

 

Il 27/10/1987 mentre la trasmissione Telefono Giallo si stava occupando del caso Orlandi, ricevettero questa telefonata in diretta: «Buonasera, sono Pierluigi. Se parlo, mi ammazzano». Secondo gli approfondimenti della Procura di Roma si trattò proprio di Magnesio, l’amico di Emanuela. Questa vicenda emerse per la prima volta nella richiesta di archiviazione del 2013.

Magnesio vivrebbe all’estero, in un Paese non rivelato.


 

Il telefonista “Mario”.

Il 28/06/83, a cinque giorni dalla scomparsa di Emanuela e dopo due giorni dall’ultima telefonata di “Pierluigi”, comparve “Mario”, il secondo telefonista.

La telefonata venne registrata ed è possibile ascoltarne una parte nell’audio qui sotto (qui la trascrizione integrale).

 

“Mario” disse di avere 35 anni e di voler scagionare un suo amico che lavora per la Avon, aggiungendo che con quest’ultimo lavorano solo due ragazze, di cui una si chiama “Barbarella” (lo stesso nome usato da “Pierluigi”), la quale sarebbe rientrata a casa a settembre per il matrimonio della sorella (altro indizio usato già dal primo telefonista)82G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 3.

Con spiccato accento romano, “Mario” disse che tale “Barbarella” avrebbe i capelli tagliati a caschetto (altro indizio fornito da “Pierluigi”) e verrebbe da Venezia. Si sarebbe allontanata da casa perché «c’ho ‘na vita piatta, una vita troppo comune».

Nella lunga e confusa telefonata, “Mario” descrisse così “Barbara”: «Capelli corti, scuri, alta, alta più de me perché so’ un po’ bassetto». Lo zio Meneguzzi domandò maggior precisione sull’altezza della ragazza e l’uomo rispose: «Un metro e cinquanta, sessanta?». Il telefonista apparve titubante, tanto che nell’audio si sente una seconda voce che gli suggerisce: «No de più, de più».

 

Qui sotto una parte della telefonata originale di “Mario”:

 

Il 19/09/83 nella già citata lettera del “Gruppo Phoenix”, oltre a “Pierluigi” si minacciò anche “Mario”: «Vogliamo generosamente ricordare a Mario che nella pineta c’è tanto posto per aumentare la vegetazione. La persona amica che ha tradito può assolvere le proprie colpe perché è meglio una confessione oggi che la morte domani, a tutti gli elementi implicati giova ricordare che sono ovunque raggiungibili. Order N.Y. A.D.C.».

Nel suo Memoriale, Marco Accetti diede la sua versione rispetto al secondo telefonista:

«In seguito chiamerà un certo “Mario” (sapevamo dell’esistenza di un latitante appartenente alla criminalità di origine mafiosa, e identificabile con lo pseudonimo di “Mario Aglialoro” [si riferisce a Pippo Calò, NDA]. Di costui si vociferava potesse essere il mandante dell’omicidio del presidente del Banco Ambrosiano, dottor Calvi. Questo riferimento avrebbe dovuto contribuire ulteriormente ad allarmare le persone vicine a monsignor Marcinkus. Essendo il riferimento, in senso lato, quello di un “malavitoso”, il parlare dovrà apparire ‘sporco’ e illetterato. Costui dichiara di essere proprietario di un bar, riferimento al bar Gregori, che colloca accanto a ponte Vittorio Emanuele II, nei cui pressi si trova il negozio del padre di Stefano Coccia. Per cui Mario, nella stessa telefonata, cita la Orlandi, la Gregori e Stefano. Dichiara altresì di avere 35 anni, e questa età posta assieme all’età dichiarata dal sedicente Pierluigi, ricompone ulteriormente la nota data di Fatima, 13-5-17».

 

Accetti si riferisce a Stefano Coccia, un giovane che fu da lui effettivamente fermato verso fine novembre 1983. Determinante sarebbe stato il numero civico del negozio del padre, 351, che avrebbe richiamato l’apparizione di Fatima. Coccia confermò che venne avvicinato da Accetti e da una donna nei pressi della gioielleria del padre con la scusa di una fotografia83G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 46, 48. Ne parliamo in una successiva sezione.

Ecco i codici schematizzati presenti nella telefonata di “Mario”, secondo il racconto di Accetti84M. Accetti, Memoriale, 2014:

  • Il nome “Mario” ➡ Codice di Mario Aglialoro, cioè Pippo Calò, mandante dell’omicidio Calvi;
  • Proprietario di un bar ➡ Codice di Mirella Gregori, i cui genitori possedevano un bar;
  • Un bar accanto a ponte Vittorio Emanuele II ➡ Codice del negozio del padre dove verrà fermato Stefano Coccia;
  • “Mario” ha 35 anni ➡ Codice delle apparizioni di Fatima (13-5-17), va unito ai 17 anni di “Pierluigi”;
  • “Mario” parla di una “ragazza francese”, amica di un qualcuno vicino piazza Navona ➡ Codice dei servizi segreti francesi in rapporto con Francesco Pazienza, abitante vicino a piazza Navona;
  • “Mario” cita il quartiere Monteverde ➡ Codice di Villa Stricht, residenza di molti prelati statunitensi tra cui mons. Bruno e mons. Marcinkus;
  • “Mario” accenna ad altre ragazze ➡ Codice, già usato da “Pierluigi”, per indicare le tesstimoni che confermeranno le “accuse” della Orlandi verso Marcinkus una volta rientrata a casa;

 

Nel febbraio 2006 Antonio Mancini, uno dei boss della banda della Magliana e collaboratore di giustizia, affermò di aver riconosciuto nella voce di “Mario” uno dei killer della Magliana, col soprannome di Rufetto, ovvero Libero Giulioli85G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 11. Per Mancini costui era «alle dipendenze unicamente di De Pedis, era il suo sicario personale e già all’epoca possedeva un ristorante a Trastevere»86citato in O. Lupacchini, M. Parisi, Dodici donne un solo assassino?, Koiné 2006, pp. 48, 49. Il confronto della voce tra Mario e Libero Giuliani, realizzato dalla polizia, diede esito negativo87G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 12.

Nel 2008 la voce di “Mario” risultò avere un “elevato grado di similitudine” con quella dell’uomo che telefonò a “Chi l’ha visto?” nel 2005, aprendo di fatto le indagini sul collegamento tra il caso Orlandi e la Banda della Magliana88G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 26.

Sempre nel 2008 i periti della Procura di Roma hanno ritenuto somigliante la voce di “Mario” a quella di Giuseppe De Tomasi, membro della Banda della Magliana. Un abbaglio in quanto la sentenza di ordinanza del giudice istruttore Otello Lupacchini, datata 13 agosto 1994, riferiva che De Tomasi era in carcere dal 21/06/83.

Nell’estate 2013, il giornalista Fabrizio Peronaci assistette all’imitazione di Marco Accetti della voce del telefonista “Mario”, descrivendola così:

«Quel giorno in terrazza, mi chiese di posare il telefonino a terra, per essere certo che non registrassi, tirò il fiato più volte, allargò il diaframma, si sfregò il naso soffiando, chiuse gli occhi per concentrarsi e cominciò a parlare velocemente. “Allora, signor Orlandi, me stai a sentì?… Tu fija ha detto che se chiama Barbarella, che è stufa de ’sta vita piatta, che vole annassene pe’ conto suo pe’ quarche tempo”. Impressionante. Stesso timbro. Identico intercalare del sedicente Mario, la cui voce registrata ho ascoltato più di una volta»89F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

 

Nel 2013 furono gli inquirenti a comparare la voce di Marco Accetti a quella di “Mario”, concludendo l’impossibilità ad «effettuare alcuna analisi di tipo strumentale» a causa della notevole distanza temporale, rilevando però similitudini soggettive tra le cadenze linguistiche tra Accetti, l'”Amerikano”, “Mario” e “Phoenix”90G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 49.

Nel gennaio 2016 abbiamo intervistato Marco Accetti, il quale ha confermato di essere stato il telefonista “Mario”, usando appositamente un accento romanesco: «L’ha capito anche Egidio che fece fare delle perizie assieme a Nicola Cavaliere, allora capo della Mobile, e hanno capito che era la stessa persona». Intendeva dire che l'”Amerikano” e “Mario” erano la stessa persona, cioè Accetti stesso.

 

Nel 2018 abbiamo realizzato una comparazione di voci tra Marco Accetti e il telefonista “Mario”, questo è il risultato:

 

Nelle conclusioni della Procura sull’attendibilità di Marco Accetti, i magistrati hanno usato proprio la telefonata di “Mario” come esempio per dimostrare che l’uomo conoscerebbe bene gli elementi oggetto dei vari processi ma risulterebbe vago e poco circostanziato sugli elementi mai pubblicati.

Ecco cosa scrissero gli inquirenti:

«Esemplificativa è stata l’analisi effettuata nel corso della deposizione del 18 aprile 2013 del testo della telefonata di “Mario” della quale sono stati riportati negli anni solo piccoli brani e che non è stata oggetto di stampa nemmeno processuale. Rispetto a tale telefonata, Accetti non conosce né durata, né contenuto, salvo poi darne un’interpretazione in chiave di “codici” presenti all’interno della stessa e dichiarare di essere stato presente quando venne effettuata escludendo tuttavia che si sia trattata di una telefonata unica»91G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 50, 51.


 

Il telefonista “l’Amerikano”.

L’entrata in scena del terzo telefonista, l'”Amerikano” (o “Amerikano”), il 5/7/83 (due giorni dopo il primo appello di Papa Wojtyla), segnerà la svolta nella vicenda. Fu soprannominato dall’avv. Egidio l'”Amerikano” perché perché parlava (o, meglio, simulava) un accento italo-americano.

Alle 12:50 telefonò prima alla Santa Sede e, dopo un’ora, a casa Orlandi.

Alla famiglia disse che “Pierluigi” e “Mario” erano membri dell’organizzazione, rivendicò di essere il rapitore e collegò il rapimento di Emanuela alla liberazione del terrorista turco Alì Agca, attentatore di Giovanni Paolo II in piazza San Pietro il 13 maggio 1981. Diede come codice per i successivi contatti il numero 158 e comunicò l’ultimatum per la liberazione di Agca il 20 luglio 198392G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 4.

 

Qui sotto la ricostruzione dell’entrata in scena dell'”Amerikano“:

 

Vi furono diversi contatti telefonici tra lui e l’avv. Gennaro Egidio, legale degli Orlandi, la maggior parte dei quali registrati.

C’è una prova indubitabile che “Mario” e l'”Amerikano” fossero in contatto tra loro (o addirittura la stessa persona?).

Nella trascrizione integrale della telefonata di “Mario”, infatti, emerge che nella prima parte il telefonista fece ascoltare una voce femminile registrata, presumibilmente di Emanuela Orlandi, la quale ripeteva: «Devo fare il terzo liceo st’altr’anno, scientifico….a gennaio saranno sedici….mi verranno ad accompagnà st’altr’anno….un paesino sperduto…per Santa Marinella…convitto nazionale»93Trascrizione della telefonata di “Mario”, pp. 2-5.

 

La stessa registrazione (una versione più breve) fu fatta ascoltare anche dall’“Amerikano”, qui sotto l’audio:

 

Vincenzo Parisi, direttore del Sisde, fece un’identikit dell'”Amerikano” (rimasto riservato fino al 1995), osservando che sarebbe stato un profondo conoscitore della lingua latina, addirittura uno straniero che avrebbe acquisito prima il latino dell’italiano. Lo giustificò dicendo che un italiano «non utilizzerebbe mai il verbo “translare” al posto di “trasferire”, “novello” al posto di “nuovo”».

Il 10/04/94 il padre di Emanuela, Ercole Orlandi, dichiarò: «Siamo vittime di un’oscura ragion di stato. […] Quel personaggio con l’accento americano, sapendo che il nostro apparecchio era sotto controllo, non faceva durare la telefonata più di sei minuti. Doveva avere un timer. Spaccava il secondo e agganciava».

Quanto alle telefonate, Ercole Orlandi ricordò anche che l’“Amerikano” gli aveva detto che era inutile tentare di registrarle perché avrebbe potuto far apparire le chiamate in quindici posti diversi.

Una volta gli investigatori riuscirono ad isolare le prime quattro cifre delle telefonate, che risultarono essere partite dall’Ambasciata Americana di via Veneto. La polizia scoprì in seguito che le telefonate partivano da una cabina della stazione Termini, ma una volta messa sotto controllo si scoprì che mentre le chiamate risultavano effettivamente in partenza dall’apparecchio pubblico, dentro la cabina non c’era nessuno94da L’ombra del Sisde nel rapimento, Il Corriere della Sera, 08/02/1994.

L’Amerikano aveva effettivamente un apparecchio per la triangolazione delle telefonate, capace di far rimbalzare su un’altra utenza la chiamata iniziale proteggendo il numero di partenza?

Nel 2013 Marco Accetti si è auto-accusato di aver ideato l’allontanamento di Emanuela e Mirella, dichiarando di essere stato anche il principale telefonista, cioè l'”Amerikano“, la cui voce doveva ispirarsi a Thomas Macioce95M. Accetti, Memoriale, 2014, a suo dire vero responsabile della politica dello Ior.

In una telefonata del 07/07/83, l’Amerikano affermò che Emanuela non era nata in Vaticano. Si è sempre ritenuto essere un errore, che avrebbe dimostrato che l’uomo non avesse avuto i dettagli della giovane da lei stessa. Tuttavia emerse che effettivamente Emanuela divenne cittadina vaticana solo nel 1981, come confermato dal fratello Pietro96P. Orlandi, commento su Facebook, 14/07/2023.

In una nostra intervista a Marco Accetti, l’uomo ha sostenuto che l'”Amerikano” sarebbe stato interpretato anche da una donna:

«Molte volte noi volevamo passare per balordi davanti all’opinione pubblica, le telefonate dell’Amerikano servivano solo per i giornali, per fare cassa di risonanza, pressione. Per esempio, c’è un nastro registrato in cui c’è anche l’Amerikana, non solo l’Amerikano. Ho detto a Capaldo: “Lei lo vuole il nome e cognome di questa ragazza? Lei la può chiamare e questa le conferma”. Mi ha risposto: “Ah no, non voglio sapere niente, per carità”. C’è una ragazza che ha fatto l’Amerikana: in questo nastro, in cui finge di essere americana, pronuncia male la parola “States” dicendo letteralmente “States”. Ma quando mai un’americana sbaglierebbe così? Io so chi è questa persona, una ragazza romana di estrema sinistra. Nessuno mi ha mai chiesto nulla».

 

Più volte Marco Accetti ha chiesto di confrontare la sua voce con quella del principale telefonista.

Un confronto venne fatto dalla Procura nel 2013, comparando la voce dell’“Amerikano” con quella di Marco Accetti, previa acquisizione di un saggio fonico, concludendo l’impossibilità ad «effettuare alcuna analisi di tipo strumentale» a causa della notevole distanza temporale, rilevando però similitudini soggettive tra le cadenze linguistiche tra Accetti, l'”Amerikano”, “Mario” e “Phoenix”97G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 49.

 

Nel 2018 abbiamo realizzato anche noi un confronto tra le voci di Accetti e l’Amerikano, qui sotto il risultato:

 

 

Nel 1983 l’agenzia Ansa rilevò un’assonanza tra il comunicato del 20/7/83 dell'”Amerikano” e il linguaggio dei brigatisti che sequestrarono Aldo Moro: «Il gerundio usato nella seconda parte del messaggio (“pervenendo alla soppressione del 20 luglio”) è significativo e ha un precedente nel comunicato n. 9 delle Brigate rosse (“eseguendo la sentenza”), diffuso durante il sequestro Moro»98F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, spunta il caso Moro: la nonna di Katy Skerl fu testimone in via Fani, Corriere della Sera, 03/07/2023.


 

Conclusioni sui telefonisti.

A prescindere dalle dichiarazioni di Accetti, il ruolo dei telefonisti rimane controverso: mitomani? Reali rapitori? Depistaggio? Ebbero a che fare con Emanuela? Perseguivano interessi loro approfittando della sparizione della ragazza?

Non si può negare che, seppur non diedero mai prova indubitabile di aver rapito Emanuela e di tenerla in ostaggio (sarebbe bastata una sua fotografia con un quotidiano a fianco, come fecero i rapitori di Aldo Moro), rivelarono particolari precisi della ragazza e fecero ritrovare (l’Amerikano) documenti da lei posseduti il giorno della sparizione (seppur in fotocopia), spartiti musicali con scritte di Emanuela, uno scritto della ragazza (riconosciuto dai familiari) nonché inviarono alcune sue parole registrate sulla scuola frequentata.

Rispetto alla voce di Emanuela in cui riferisce la scuola da lei frequentata, alcuni sostengono che poteva essere stata carpita prima della sparizione. Sarebbe strano che avesse rilasciato un’intervista senza dirlo alla famiglia, inoltre se venne fatta a scuola perché nessuno ne parlò quando emerse l’audio dopo la sua scomparsa? Avrebbe mai potuto essere fatta solo a lei e non agli altri compagni?

Si sostiene anche che i telefonisti avrebbero ottenuto i dati privati di Emanuela da amiche, compagne o familiari.

Non è un’obiezione pertinente: come possono delle amiche o dei familiari rivelare dettagli privati di Emanuela ad un estraneo, venire poi a conoscenza della sparizione di Emanuela e leggere quei particolari sui giornali, forniti come prove dai rapitori, senza collegare le cose? Avrebbero subito informato la polizia di aver riferito loro quei dettagli. A meno che fossero in complicità con i telefonisti.

O i telefonisti ebbero realmente a che fare direttamente con Emanuela, oppure hanno avuto a che fare con suoi amici e/o parenti, e questo comporta o la loro complicità (volontaria o involontaria) nella sparizione oppure l’aver subito delle minacce.

Nelle conclusioni della Commissione parlamentare Mitrokhin, si legge:

«E’ certo che i telefonisti, gli autori dei messaggi o i loro ispiratori avessero, o avessero avuto, contatti con Emanuela, con la famiglia o con conoscenti di Emanuela o della famiglia». Questo lo «conferma una valutazione in audizione del dottor Imposimato, che pure ha idee molto nette in proposito, avendo seguito il caso per conto dei familiari di Emanuela, allorché dichiara che “le lettere sono, almeno in parte, una prova dei collegamenti tra chi le scriveva e la ragazza scomparsa”, come riconosciuto anche dai magistrati, che però non hanno ritenuto provato che costoro effettivamente avessero rapito la ragazza – e la tenessero segregata – – al momento in cui recapitavano, per un ampio lasso di tempo, i messaggi».

 

Nella requisitoria del Procuratore generale della Corte di Appello, Giovanni Malerba, si legge invece:

«Né si dica che i primi “telefonisti” fossero persone non soltanto estranee al progetto criminoso, ma altresì all’oscuro di esso; nei successivi messaggi del gruppo che rivendicava il sequestro, più di una volta è dato rinvenire riferimenti ai “nostri elementi Pierluigi e Mario”; e per di più il Pierluigi, nei colloqui telefonici, si mostrava al corrente di particolari rivelatisi esatti (flauto, occhiali con montatura bianca non graditi alla giovane, astigmatismo ad un occhio, imminente matrimonio della sorella ecc.). Tutto questo dimostra lo stretto collegamento tra Pierluigi e Mario e coloro che rivendicavano il sequestro»99requisitoria del pm Malerba, 6/08/97.

 

Nella sentenza di archiviazione del 2015 firmata da Giovanni Giorgianni si riporta la ricostruzione eseguita dagli inquirenti nel 1997, concludendo che dopo i primi telefonisti, che apparvero «connotati di autenticità», il quadro si frantumò in una «pluralità spesso contraddittoria di voci riconducibili a gruppi eterogenei dai fini indecifrabili la cui connotazione comune è probabilmente costituita dall’uso strumentale delle notizie divulgate dagli organi di informazione»100G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 5.

 

 

1.9 I vari comunicati e le sigle (“Phoenix”, “Turkesh” ecc.)

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Dopo il 20/07/1983, scaduto l’ultimatum dato dall’“Amerikano” per la liberazione di Agca in cambio di Emanuela Orlandi, sulla scena comparvero una serie di sigle dai nomi più improbabili che a loro volta, spesso tramite sconclusionati comunicati, rivendicarono la responsabilità del sequestro.


 

“Fronte Turkesh”.

Il 4/08/83 la prima sigla a comparire fu il Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh, evidente richiamo al colonnello nazionalista turco Arsaplan Turkesh, l’ideologo dei “Lupi Grigi” e di Alì Agca.

Con i loro “Komunicati”, i componenti di tale sigla vollero accreditarsi come amici e solidali di Alì Agca, tentando di portare l’attenzione sugli idealisti turchi e sui “Lupi Grigi”. Diverse volte le loro lettere partivano da Ancona, si sospettò che a imbucarle sarebbe stato un marittimo turco.

Inoltre, nel loro primo komunicato, per la prima volta il caso di Mirella Gregori fu collegato a quello di Emanuela Orlandi («Mirella Gregori? Vogliamo informazioni»). Da quel momento infatti le due famiglie furono tutelate dallo stesso avvocato, Gennaro Egidio.

 

Qui sotto uno dei comuicati del “Fronte Turkesh“:

 

Ma davvero i membri del “Fronte Turkesh” pensavano di poter essere creduti? Già all’epoca si sottolineò che «è ben lungi dall’ideologia dei movimenti estremisti turchi denominarsi “anticristiani”». A nostro avviso fu un’operazione (volutamente?) controproducente.

Tra l’altro, gli autori dei comunicati apparvero in contrasto con il comportamento dello stesso Agca il quale dal giugno 1983 produsse infinite dichiarazioni deliranti per inficiare le acquisizioni sul “livello” turco delle indagini.

Il “Fronte Turkesh” voleva portare l’attenzione sui turchi e Alì Agca voleva toglierla.

Data l’assurdità di molti komunicati anche il tentativo di renderli appositamente controproducenti risuta piuttosto ovvio e banale. Se non fosse stato per i dettagli biografici e le fotocopie dei documenti che fornirono riguardanti Emanuela, oltre alle telefonate ad amiche e compagne per dettare i loro messaggi, nessuno li avrebbe mai presi sul serio.

Nell’agosto 1983, ad esempio, su suggerimento degli agenti del SISDE, la famiglia Orlandi inviò una domanda al “Fronte Turkesh”, mettendoli alla prova sulla reale conoscenza dei fatti. Chiesero dove cenò Emanuela il 20 giugno (3 giorni prima della sparizione) e la risposta fu con “parenti molto stretti”. Era vero.

Pietro Orlandi ha spiegato che questo dettaglio era conosciuto soltanto in famiglia101P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 106, oltre chiaramente agli agenti del SISDE che suggerirono la domanda.

In un altro caso, a distanza di mesi dissero che il 22/04/1983 Emanuela “era stata in Chiesa”. La famiglia inizialmente negò ma gli inquirenti riscontrarono effettivamente che la giovane partecipò nel coro a una commemorazione presso la chiesa di Sant’Apollinare per l’anniversario di morte di un cardinale.

Il 05/09/83 arrivò una telefonata dal “Turkesh” alla redazione dell’Ansa di Milano, l’interlocutore disse di chiamarsi “Aliz”.

Nel settembre 1983 l'”Amerikano” screditò l’attendibilità del “Fronte Turkesh”: dopo l’apparizione dei primi komunicati, infatti, il telefonista fece ritrovare un’audiocassetta (oltre alla fotocopia dello spartito di musica con autografi attribuiti a Emanuela) in cui escluse la validità dei comunicati pervenuti dopo il 20/7/83102G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 5 dicendo: «Turkesh non esiste, è un’invenzione degli italiani o del Vaticano per coprire la verità».

Secondo il reo-confesso Marco Accetti, auto-accusatosi di aver inscenato il finto sequestro della Orlandi e di essere stato i telefonisti “Mario” e l'”Amerikano”, dietro al gruppo “Turkesh” ci sarebbe stata la fazione vaticana opposta alla sua con l’aiuto del SISMI (servizi segreti italiani)103M. Accetti, Memoriale, 2014.

Nel 2016, da noi intervistato, Marco Accetti, ci ha confermato che «il “Fronte Turkesh” era qualcuno dei servizi segreti» o comunque qualcuno affiliato alla fazione vaticana avversa alla sua.

Riguardo al fatto che nel primo komunicato si parlò per la prima volta della Gregori, Accetti ha sostenuto che «la nostra controparte, che si era finta gruppo Turkesh ed era a conoscenza del prelevamento di Mirella, tirandola in ballo ci mandava a dire: smettetela con la Orlandi, che crea troppo subbuglio in Vaticano, ora parliamo dell’altra ragazza… Ci invitavano ad abbassare il livello di scontro»104in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 139.

Nel 2023 il giornalista Fabrizio Peronaci ha ricordato una vecchia pista d’indagine che ravvisava analogie tra i messaggi dell'”Amerikano”, del “Fronte Turkesh” e quelli dei brigatisti che rapirono Aldo Moro (1978). In particolare, un certo uso del gerundio, il ritmo sincopato, alcune locuzioni105F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, spunta il caso Moro: la nonna di Katy Skerl fu testimone in via Fani, Corriere della Sera, 03/07/2023.

Fu notato già nel 1983 dall’agenzia Ansa quando si rilevò l’utilizzo di una locuzione famosa ai tempi del sequestro Moro: «La nota personalità». Frase utilizzata anche nelle rivendicazioni firmate “Fronte Turkesh”106Komunicato XXX, 27/11/1985 107Messaggio del 3/12/1985.

Infine, ricordiamo che nel comunicato del 22/11/84 del “Fronte Turkesh” si inserì la frase “Via Frattina 1982”108P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, pp. 122, 123. Secondo Marco Accetti si tratterebbe di un riferimento alla camicetta bianca con cui fu vestita la salma di Katy Skerl (“Frattina 1982”).


 

“Phoenix”.

Il 22 settembre 1983 comparve anche una seconda sigla, il “Phoenix”.

Non è noto il motivo di questo nome, Phoenix è la capitale dello stato americano dell’Arizona ma anche il nome di un parco di Dublino (Irlanda) dove Giovanni Paolo II si recò in visita esattamente quattro anni prima.

La caratteristica peculiare di questa sigla furono le minacce rivolte ai sequestratori della Orlandi, quindi presumibilmente al “Fronte Turkesh” e ai tre telefonisti.

Il una lettera del 19/09/83 (documento fatto ritrovare però il 24/09/83) il “Phoenix” disse di aver individuato tramite loro “operatori” «cinque componenti tra cui “P e M”. Uno di loro ha commesso lo sbaglio di “vantarsi” di aver preso parte al prelevamento che è stato molto semplice e rapido con l’uso di una persona “amica”».

Rivolgendosi direttamente ai telefonisti, la sigla li minacciò. A “Pierluigi” fu detto: «E’ assai pericoloso stare in quella trattoria con le spalle verso la porta perché ci sono troppe “correnti d’aria”: un nostro vecchio “amico” ha fatto una brutta fine davanti ad un piatto di spaghetti», riferendosi al fatto che il telefonista disse di chiamare da un ristornate sul litorale romano.

Al secondo telefonista, invece, dissero: «Vogliamo generosamente ricordare a Mario che nella pineta c’è tanto posto per aumentare la vegetazione. La persona amica che ha tradito può assolvere le proprie colpe perché è meglio una confessione oggi che la morte domani, a tutti gli elementi implicati giova ricordare che sono ovunque raggiungibili. Order N.Y. A.D.C.».

In particolare il riferimento alla “pineta” appare piuttosto singolare e specifico come minaccia, un luogo mai citato da “Mario” nella sua telefonata (al contrario del “ristorante” citato da “Pierluigi”). Il reo-confesso Marco Accetti ha sostenuto: «Se io devo fare una minaccia di morte posso dire: ti strozzo, ti accoltello, ti sparo, ti infilo in un pilone di cemento..ma nella pineta mai, non ci penso proprio!»109in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 156.

Per questo l’uomo ritiene che la minaccia della “pineta” sarebbe legata all’omicidio di José Garramon avvenuto esattamente tre mesi dopo (20/09/83) proprio nella pineta di Castel Porziano, dove Accetti investì in circostanze misteriose il giovane.

Minacce al “Fronte Turkesh” comparvero nel messaggio del 27/09/83, quando scrissero di aver deciso di «porre termine, con i mezzi a nostra disposizione, a questa “bravata” farsa turca codice 158 durata troppo tempo». Fu concessa «agli elementi implicati nel prelevamento di Emanuela Orlandi la scelta della propria sorte, se risponderanno esattamente alla richiesta del 6-9-83». In caso contrario «la “sentenza” sarà irrevocabile».

Il 09/10/83, nel loro terzo comunicato il “Phoenix” minacciò nuovamente i sequestratori parlando di un «nostro personale avvertimento al diretti responsabili affinché riportino immediatamente le condizioni naturali di libertà della minore Emanuela Orlandi», altrimenti «estirperemo alla radice questa pseudo organizzazione che, oltre ad essere colpevole di altre situazioni, è causa di spiacevoli inconvenienti».

Pietro Orlandi ha riferito che quando iniziarono a comparire i primi comunicati, fu Giulio Gangi a comunicargli che dietro a “Phoenix”, una delle sigle di presunti rapitori comparse dopo la sparizione di Emanuela, ci sarebbero stati proprio i servizi segreti italiani110P. Orlandi, Mia sorella Emanuela.

Il 30/05/2013, Pino Nicotri ha scritto di aver ricevuto questa risposta da Giulio Gangi in merito alla rivelazione fatta da Pietro Orlandi: «Mi sono limitato a dire: “Boh, forse sono i nostri che cercano di muovere le acque” quando si seppe della prima lettera firmata Phoenix. Oltretutto, io al Sisde ero già stato allontanato dalle ricerche riguardanti Emanuela».

Il 14/11/2013 anche Marco Accetti ha ricondotto “Phoenix” ad alcuni membri del Servizio di Informazioni della Sicurezza Democratica (Sisde).

Non si può escludere che l’interesse fosse solo depistare gli inquirenti e la stampa, usandoli per tenere il caso sotto i riflettori e inviando a presunti interlocutori messaggi o codici da interpretare e decifrare. Le minacce del gruppo Phoenix ad altre sigle e ai primi telefonisti sembra dimostrare l’inserimento nel caso di gruppi con obbiettivi opposti o l’azione dei servizi segreti italiani.


 

“Nomlac”.

Il 03/09/84 apparve anche il Nomlac, cioè la “Nuova organizzazione musulmana per la lotta anticristiana”.

Gli autori della lettera ribadirono le condizioni per il rilascio di Alì Agca avanzate in una lettera giunta tredici giorni prima, sostenendo inoltre che Emanuela Orlandi «non è prigioniera del Fronte di liberazione turco anticristiano» (cioè il “Fronte Turkesh”) e che si troverebbe in Europa. Se le condizioni non saranno rispettate, aggiunsero, la giovane verrà uccisa e ci sarebbero anche stati attentati contro il Vaticano.

Gli autori chiesero in cambio anche una notevole somma di denaro.

Anche in questo caso, come per le precedenti sigle, nessuno credette all’autenticità delle rivendicazioni e l’avvocato degli Orlandi, Gennaro Egidio, replicò dicendo: «Finché non sarà fornita la certezza dell’esistenza in vita di Emanuela, messaggi come questi non dovrebbero meritare molta credibilità». Per il legale si sarebbe trattata della «stessa mente coordinatrice» degli altri comunicati.


 

Fu la Stasi a scrivere i comunicati?

L’ex colonnello della Stasi, Gunther Bohnsack, riferì che furono loro gli autori dietro la sigla “Fronte Turkesh”111F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 17 di questi messaggi e di quelli firmati “Phoenix”: «Ci divertivamo a scriverli in un italiano molto scorretto. Cercavamo così di aiutare i bulgari assurdamente accusati per l’attentato di Agca». E ancora: «Si, li facevamo noi, insieme a colleghi dei servizi segreti bulgari che incontravamo qui a Berlino»112citato in P. Nicotri, Emanuela Orlandi: la verità, p. 109.

Bohnsack confermò in un’altra intervista: «Chiedevamo la liberazione di Ali Agca, l’attentatore del Papa. E uno scambio con la ragazza. Volevamo far credere di essere dei nazionalisti turchi, interessati alla sorte del loro compagno. Ma lo scopo vero era naturalmente quello di stornare l’attenzione dalla Bulgaria». Avrebbero usato il “caso Orlandi” anche per minacciare il giudice Ilario Martella, allora istruttore sull’attentato a Wojtyla e sul rapimento della Orlandi113F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 19.

Secondo Bohnsack, a richiederlo sarebbero stati i servizi segreti bulgari nelle vesti di Jordan Ormankov e Markov Petkov114F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 19 e le lettere non sarebbero partite dalla Germania dell’Est ma da loro referenti di Francoforte e degli Stati Uniti, «il tedesco era scritto con errori per dare l’impressione che si trattasse dei Lupi Grigi»115citato da F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 19.

Le affermazioni di Bohnsack sembrano smentite direttamente da Markus Wolf, capo della Stasi, quando spiegò che nei loro interessi non rientrava Alì Agca, «in quel momento avevamo altri interessi, la Nato, la Germania Ovest, non il Papa». In Vaticano era difficile piazzare spie, un agente infiltrato era il benedettino Eugen Brammertz, utile «per sapere come intendesse muoversi la Curia. Ma più in là non andammo».

Wolf ha rivelato inoltre che nella Stasi c’era la XXesima divisione che lavorava sulla Chiesa, «ma poiché questo ufficio non dava i risultati sperati, lo chiudemmo».

Oltre a queste parole di Wolf, quanto disse Bohnsack è piuttosto controverse.

Al di là dell’italiano scorretto per simulare di essere nazionalisti turchi, perché rendere i comunicati così farneticanti?

Nessuno infatti li prese mai sul serio, né li attribuì ai nazionalisti turchi. Davvero la Stasi pensava di poter passare per fondamentalisti islamici usando il nome “Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh” e “Nuova organizzazione musulmana per la lotta anticristiana”? Davvero non capirono che era un’azione controproducente, che portava l’attenzione proprio laddove tale gruppo cercava di allontanarla, cioè sui bulgari e sull’Est?

La presunta strategia della Stasi, oltretutto, sarebbe stata in contrasto con il comportamento dello stesso Agca il quale, dal momento della scomparsa di Emanuela produsse infinite dichiarazioni deliranti «con l’effetto chiaro di inficiare le acquisizioni sul “livello” turco delle indagini»116richiesta di archiviazione, 2015.

Va considerato inoltre che tali comunicati erano sì sconclusionati, ma contenevano qualche informazione specifica che l’ex colonnello Bohnsack non ha mai spiegato come li avessero ottenuti.

In uno dei komunicati, ad esempio, fu scritto che «Emanuela formulò una frase che rese di ghiaccio suo padre»117Komunicato 22/11/83, episodio -pur abbastanza vago- confermato dal padre Ercole: «Si, mia figlia reagì in modo inconsueto, con una frase pesante nei miei riguardi poco prima della scomparsa».

Inoltre, in che modo i servizi segreti tedeschi sarebbero venuti in possesso della fotocopia della tessera scolastica con la foto di Emanuela e la ricevuta di versamento, allegati ad un comunicato di “Phoenix” del 13/11/83? E’ vero che furono già stati fatti ritrovare il 6/7/83 dall'”Amerikano, ma non era certo materiale reso pubblico e disponibile dalla polizia italiana.

Come mai i servizi segreti italiani (Sisde) non fecero mai riferimento all’inserimento della Stasi? Anzi, in una loro relazione scrissero che i «quattro comunicati del Turkesh e gli altrettanti di Phoenix, infatti, portano ad acclarare l’ipotesi che gli estensori siano a conoscenza di fatti inerenti a Emanuela Orlandi o relativi alla sua vicenda, sconosciuta sia agli organi di stampa che agli stessi presunti rapitori».

Nella requisitoria del Procuratore generale della Corte di Appello, Giovanni Malerba, si legge:

«Alcuni dei comunicati del Fronte Turkesh evidenziano rilevanti connotazioni di autenticità e genuinità in quanto accompagnati da prove foniche e documentali riferibili a Emanuela Orlandi -registrazione di frasi pronunciata dalla giovane, fotocopia di documenti quali la tessera scolastica di Emanuela e lo spartito di esercizi per il flauto, fotocopia di parole e frasi vergate di pugno della medesima ed altresì a Mirella- descrizione dell’abbigliamento anche intimo, della giovane, con dettagli estremamente precisi, noti solamente a chi avesse avuto contatto con costei. Questi i dati certi che andavano al di là della varietà delle sigle di rivendicazione, il cui unico scopo era di sviare le indagini sulla pista fascista e sulla CIA». E’ sorprendente che «le “prove documentali” della disponibilità dell’ostaggio (messaggi autografi, tessera di iscrizione scolastica) fossero in possesso non soltanto di taluno dei gruppi che ne rivendicavano il sequestro, ma anche del contrapposto gruppo Phoenix […]. Tuttavia, al di là delle incoerenze e dei contrasti apparenti, dall’analisi dei messaggi provenienti da coloro che fornivano le più convincenti prove, foniche e documentali, di effettiva disponibilità dell’ostaggio (segnatamente del messaggio recuperato in un furgone RAI in Castelgandolfo), con buona pace dei Lupi Grigi e affini, il contenuto di tali messaggi denota un livello di cultura, di conoscenze, di capacità valutativa di situazioni politiche, diplomatiche e giuridiche italiane e vaticane, per un verso decisamente fuori dalla portata intellettuale delle formazioni che pur si contendevano la rivendicazione dei sequestri e per l’altro riconducibile ad ambiente italiano, o meglio romano»118requisitoria del pm Malerba, 6/08/97.

 

Nel 2014 anche Marco Accetti commentò le parole dell’ex colonnello Bohnsack, scrivendo che nessun documento o testimonianza ha mai confermato tali dichiarazioni, inoltre, pur volendo a suo dire allontanare sospetti dai bulgari,«coloro che si presentavano come gruppo “Phoenix”, si qualificavano come una certa entità mafiosa che minacciava i sequestratori della Orlandi e li esortava a liberarla. E di ciò la “Stasi” non ne aveva chiaramente alcun interesse, in quanto l’unica loro motivazione era accusare i terroristi turchi di aver compiuto l’attentato al Pontefice».

E’ pur vero che il giudice Rosario Priore, che interrogò a lungo Bohnsack, lo ritenne sincero quando gli parlò dell’attività di disinformazione da parte della Stasi per allontanare i sospetti dai bulgari relativamente all’attentato al Papa («per difendere il buon nome dello Stato bulgaro»)119Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, pp. 20,21, tuttavia non c’è mai stata una prova oggettiva di questo né, tanto meno, del fatto che la Stasi intervenne anche nel caso Orlandi.


 

Conclusioni sui comunicati e le varie sigle.

Nella sentenza di proscioglimento del 1997 si evidenziò che con la comparsa di varie sigle dopo il 20/07/83, tra cui il “Fronte Turkesh”, terminò il primo periodo di autenticità del caso (cioè quello dei tre telefonisti).

Se i telefonisti e le varie sigle (“Phoenix”, “Turkesh”, “Nomlac”, “Tukum” ecc.) che rivendicarono il rapimento di Emanuela avessero davvero voluto ottenere il ritiro delle accuse di Agca verso i paesi dell’Est, la sua liberazione e il recupero dei soldi spariti con il crack del Banco Ambrosiano, perché non dimostrarono in maniera certa di aver sequestrato la Orlandi?

Certo, come abbiamo visto si sforzarono di produrre dettagli biografici piuttosto precisi di Emanuela, come diverse fotocopie di tessere e iscrizioni alla scuola di musica e una fotocopia del frontespizio di un album con gli spartiti alla giovane.

Molto più semplicemente sarebbe bastata una fotografia di Emanuela con a fianco un quotidiano che mostrasse la data, il classico metodo utilizzato da tutti i gruppi terroristici per stabilire una prova di vita degli ostaggi e negoziare con le autorità per le loro richieste.

I casi sono tre:

1) I presunti sequestratori (telefonisti e autori dei comunicati) avevano solo carpito in qualche modo oggetti e informazioni dettagliate sulla Orlandi senza aver nulla a che vedere con la sua sparizione;

2) I presunti sequestratori (telefonisti e autori dei comunicati) erano entrati in contatto con chi aveva sequestrato Emanuela Orlandi per motivi estranei al ricatto internazionale (nella sentenza di proscioglimento del 1997 si sospettò infatti che ci potesse essere stato «un contatto con il gruppo che per primo aveva ottenuto e utilizzato le informazioni su Emanuela, per appropriarsene e riciclarle a sua volta»120G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 5);

3) I presunti sequestratori (telefonisti e autori dei comunicati) effettivamente erano tali ma non avevano interesse ad un ricatto pubblico con i loro interlocutori e usarono i media soltanto per lanciare allusioni ricattatorie (messaggi, codici ecc.), mentre la vera trattativa sarebbe avvenuta sotto traccia. D’altra parte Agca ritirò le sue accuse due giorni dopo la sparizione della Orlandi, leggendovi un messaggio nei suoi confronti per motivi inspiegabili all’opinione pubblica ma nonostante ciò la Orlandi non fu rilasciata e pochi anni dopo il turco tornò ad accusare i servizi bulgari.

 

 

1.10 Il progetto di sequestro di altri cittadine vaticane

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Il 24/07/1984, un anno dopo la sparizione di Emanuela (e Mirella) avvenne la deposizione ai carabinieri di Raffaella Gugel, figlia di Angelo Gugel, aiutante di camera del Papa.

Ecco la testimonianza di Raffaella Gugel:

«Dopo alcuni giorni che il Santo Padre fu attentato dal terrorista turco, mio padre mi disse di stare attenta per la strada perché per la città del Vaticano erano circolate voci di un possibile rapimento di un cittadino vaticano in cambio del terrorista turco Alì Agca […]. In quel periodo io andavo a scuola in Corso Vittorio Emanuele II, istituto tecnico commerciale “Vincenzo Gioberti”, e ogni mattina alle ore 8,15 prendevo l’autobus 64 dal capolinea, ubicato nella piazza quasi di fronte all’ingresso di Porta Sant’Anna. Alla fermata successiva al capolinea saliva a bordo un uomo sui 28-30 anni, in giacca e pantaloni sportivi, il quale prendeva posto a sedere e notavo che mi osservava ripetutamente. Questo episodio si è verificato quasi ogni mattina. Preciso che nell’arco di una settimana succedeva tre giorni di fila, poi vi era una pausa di un giorno. E successivamente, gli altri 2, 3 giorni, rincontravo quest’uomo. Fin dai primi “incontri” con questo uomo sull’autobus riferii l’episodio a mio padre. Questi incontri durarono due o tre settimane, ma alla fine non lo vidi più. Posso riferire i dati somatici di quest’uomo. Era alto un metro e 80, corporatura snella, carnagione scura, tipo nazionalità turca, capelli scuri ricci con occhi scuri»121citata in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 6.

 

Quando il padre Angelo Gugel venne a sapere dei pedinamenti a sua figlia, interruppe la frequentazione della scuola delle figlie.

Interrogato nel 1995, Ercole Orlandi spiegò di essersi dato inizialmente come motivazione del sequestro di Emanuela una confusione con la figlia di Gugel, dovuta al fatto che lui e il padre della ragazza si somigliavano notevolmente122R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 140.

 

Nel seguente video si sospetta che i sequestratori possano aver sbagliato persona, tra la Orlandi e la Gugel, condizionati dalla forte somiglianza dei rispettivi padri:

 

Il magistrato Ferdinando Imposimato riferì anche che secondo i rapporti dei Carabinieri, vi furono pedinamenti non soltanto di Raffaella Gugel ma anche della sorella Flaviana Gugel e della figlia del Capo della sicurezza del Vaticano, Camillo Cibin. Fu testimoniato anche da un dipendente della polizia vaticana123F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 6.

Secondo Marco Accetti, reo-confesso di aver orchestrato l’allontanamento di Emanuela, questi pedinamenti così “appariscenti” sarebbero iniziati dal 1981 per evitare la collaborazione tra Alì Agca e gli inquirenti, rassicurando l’attentatore e facendogli credere che si stava organizzando un sequestro di cittadini vaticani da contraccambiare con la sua scarcerazione124M. Accetti, Memoriale, 2014.

A pedinare la Gugel, sostenne Marco Accetti, sarebbe stato lo stesso uomo che verrà fatto incontrare sia a Mirella che Emanuela il giorno della loro sparizione: «Si trattava di un estremista islamico tra i tanti rifugiati in Europa, ce n’erano in Germania, Svizzera, Francia, che aveva orientamento diverso, rispetto ai vari Agca o Celebi si poteva considerare di sinistra. Fecero da tramite i nostri referenti della nunziatura in Turchia e il sindacato di polizia Pol-Der, lo stesso che aveva intercettato le voci di attentato»125in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 102.


 

Conclusioni sui pedinamenti ad altre cittadine vaticane.

La grande domanda è perché di questi pedinamenti non fu avvertita anche la famiglia Orlandi. Avrebbe dovuto farlo la Gendarmeria, ma anche gli stessi Gugel e Cibin non avvisarono Ercole Orlandi, nonostante abitassero nella stessa palazzina. Come mai?

I Carabinieri che accolsero le deposizioni e tutti i giornalisti che si sono occupati del caso non hanno mai indagato in merito in tutti questi anni?

 

 

1.11 Gli appelli di Giovanni Paolo II

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Dieci giorni dopo la sparizione di Emanuela Orlandi, il 03/07/83, Giovanni Paolo II lanciò, in modo sorprendente, un appello pubblico perché Emanuela potesse tornare «non perdendo la speranza nel senso di umanità di chi abbia responsabilità in questo caso».

Fu un chiaro accenno al rapimento, anche se fino ad allora le autorità ritenevano si trattasse di una scappatella volontaria. Erano infatti giunte solo le telefonate di “Pierluigi” e “Mario”, mentre quella dell”Amerikano” arrivò due giorni dopo l’appello papale, a suggello della pista del rapimento a scopo ricattatorio.

Seguirono altri 7 appelli che portarono inevitabilmente l’attivazione della magistratura, dei servizi segreti e il caso Orlandi divenne noto in tutto il mondo.

 

Qui sotto la voce di Giovanni Paolo II nel primo appello sul caso Orlandi:

 

Per lo scrittore Pino Nicotri l’intervento di Papa Wojtyla e il successivo dell’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini, furono fatali in quanto avrebbero fatto capire a tutti, soprattutto ai comunisti sovietici e alla Stasi, un punto debole di cui approfittarsi.

Nicotri lo definì un ingenuo passo falso, di fatto una “condanna a morte” per Emanuela. Ha tuttavia sospettato che il Pontefice sapesse già della morte di Emanuela e quindi non avesse timore di aggravare la situazione con i suoi appelli. Quest’ultima, in particolare, è un’affermazione priva di alcuna prova o dimostrazione.

Nel 2023 Nicotri ha precisato meglio riconoscendo che «quegli appelli il Papa li fece per generosità»126P. Nicotri, in Caso Orlandi, «la pista amical-parentale è la più credibile», La NBQ, 14/07/2023.

Il fratello Pietro Orlandi ha sempre apprezzato l’intervento di Wojtyla: «Si rivolse a chi aveva “responsabilità in questo caso”, quando le autorità italiane non si erano praticamente mosse». Il Papa, scrive Pietro, doveva avere buoni motivi per esporre la Chiesa a un prezzo tanto alto: assedio mediatico sulla “ragazzina cara al pontefice”, l’oscuramento dei suoi successi come capo di Stato, subbuglio internazionale e dei servizi di sicurezza127P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 87.

Sempre Pietro Orlandi ha raccontato che il 27/07/83 Giovanni Paolo II convocò i genitori e, in lacrime, parlò per la prima volta di “un`organizzazione terroristica”. Altrettanto fece il 24/12/83 quando visitò gli Orlandi per gli auguri natalizi: «Cari Orlandi, voi sapete che esistono due tipi di terrorismo, uno nazionale e uno internazionale. La vostra vicenda è un caso di terrorismo internazionale».

Il reo-confesso Marco Accetti ha sostenuto invece che il Papa non sarebbe stato informato correttamente e chi preparò l’appello del 3 luglio lo avrebbe portato su piste confondenti volendo «sottrarsi alla nostra minaccia di rivelare pubblicamente la “realtà” relativa al “sequestro”, rendendolo a loro volta pubblico. Ci anticipano nella nostra intenzione, sia pur virtuale, rendendolo di pubblico dominio. Dichiarano in questo modo che trattasi di un qualcosa di “esterno”, un rapimento qualunque, cosicché la Città del Vaticano risulta esserne estranea, senza responsabilità alcuna. È anche un modo di dichiarare che non accettano le nostre istanze»128M. Accetti, Memoriale, 2014.

Il magistrato Ferdinando Imposimato, al contrario, riferì dei suoi incontri con Giovanni Paolo II:

«La sua convinzione era che Emanuela Orlandi fosse stata vittima di un complotto internazionale. So che lui ha avuto un grande trauma per il sequestro di Emanuela Orlandi, perché capiva che, pur non essendo colpevole del sequestro – ci mancherebbe altro – questo era comunque collegato all’attentato, era un fatto commesso contro di lui. Quindi lui era la causa del sequestro, anche se ovviamente non ne era responsabile. Lui mi ha sempre manifestato, anche indirettamente attraverso i suoi collaboratori, apprezzamento per quello che stavo facendo nella ricerca della verità»129F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 20.


 

Conclusioni sugli appelli di Giovanni Paolo II.

Come si è visto vi sono state diverse reazioni agli appelli del Papa, dal definirli un passo falso al vederli come atti di coraggiosa generosità e preoccupazione.

Conoscendo l’estrema prudenza della Santa Sede nell’intervenire su specifici casi riteniamo che tali appelli fossero motivati da elementi di urgente necessità, dovuta a indagini interne o a informazioni carpite da fonti affidabili che convinsero le autorità vaticane a orientarsi in direzione del sequestro prima di chiunque altro.

Non è pensabile altrimenti l’aver corso il rischio di una figuraccia internazionale per una tale esposizione papale se non si fosse stati in qualche modo sicuri che non si trattava di una semplice scappatella.

E’ anche possibile la lettura fatta da Marco Accetti, cioè un modo di rendere pubblica una vicenda per sottrarsi a una trattativa che avrebbe avvantaggiato i malintenzionati se fosse rimasta sotterranea.

Tra tutte le ipotesi, queste due paiono le più verosimili.

 

 

1.12 Il ruolo del Vaticano

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Il periodo in cui avvenne la sparizione di Emanuela Orlandi fu decisivo per l’Europa, la quale viaggiava verso la caduta del muro di Berlino e la posizione del Vaticano era (e fu) determinante in tutto questo.

La Chiesa cattolica in quel periodo era impegnata fortemente nel sostenere e finanziare la nascita e la resistenza pacifica del sindacato polacco di Solidarnosc, universalmente riconosciuto per essere stato l’artefice della democrazia in Polonia e del crollo del regime comunista in tutti i Paesi del Patto di Varsavia. Il leader del sindacato, Lech Walesa, fu insignito del Premio Nobel per la Pace.

Nello Stato Pontificio vi furono tuttavia due linee guida opposte, una guidata dal card. Agostino Casaroli, segretario di Stato, propenso al dialogare con il comunismo, l’altra, guidata dal polacco Papa Wojtyla, orientata alla contrapposizione aperta. La storia ha decretato che l’orientamento di Giovanni Paolo II fu vincente e determinante per l’implosione (misteriosamente) non violenta dell’Unione Sovietica.

E’ in questo contesto che molti hanno collocato la sparizione di una cittadina vaticana, evento mai avvenuto né prima, né dopo. Non si può trascurare il fatto che il giorno della scomparsa di Emanuela, il 22 giugno 1983, Giovanni Paolo II si trovasse proprio in Polonia.


 

Mancata collaborazione del Vaticano?

Una tradizione instancabilmente ripetuta da decenni vuole che il Vaticano abbia scarsamente collaborato con le autorità italiane nel caso Orlandi. La famiglia, alcuni magistrati e molti giornalisti lamentano costantemente l’eccessiva prudenza e gli eccessivi silenzi delle autorità vaticane.

Tra i più autorevoli esponenti di queste lamentele vi fu il giudice istruttore Adele Rando quando scrisse che «l’apporto istruttorio delle rogatorie introdotte davanti all’Autorità Giudiziaria della citta del Vaticano, lungi dal soddisfare i quesiti per i quali le stesse erano state proposte, si traduce nella conferma di alcuni interrogativi che hanno imposto la scelta processuale dello stralcio».

Più recentemente anche l’ex procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Capaldo, si è unito al coro di proteste per «la scarsa anzi nulla collaborazione da parte del Vaticano»130G. Capaldo, intervista al programma Atlantide di La7, 21/06/23.

Adele Rando e Giancarlo Capaldo, proprio i giudici responsabili delle due archiviazioni sul caso Orlandi a causa delle loro inconcludenti indagini.

Le parole di Adele Rando furono smentite dal collega Rosario Priore, titolare dell’inchiesta sull’attentato al Papa del 1985, il quale si confrontò a lungo con il card. Silvio Oddi, allora prefetto della Congregazione per il clero. Interrogato nel 2005, Priore ricordò che Oddi «fu di una gentilezza assoluta perché ci aiutò nella ricostruzione del sequestro Orlandi (lo interrogai insieme alla collega titolare di quel procedimento, il giudice Rando)»131Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, p. 12.

Inoltre, è noto che le indagini di Adele Rando (assieme al’ex prefetto Vincenzo Parisi, capo della Polizia dal 1987 al 1994) sul caso Orlandi non portarono ad alcuna certezza nonostante la stretta vicinanza temporale ai fatti, trascurando diverse piste investigative (quella di Bolzano si interruppe non appena emerse la presenza di un funzionario del SISMI, servizi segreti italiani132S. Petrone, Rispoli: Orlandi, indagare sulla pista di Terlano, Alto Adige, 13/05/2011) ed acquisendo tre faldoni top secret, sempre del SISMI, sulla Orlandi senza mai consegnarli agli atti d’indagine e alla famiglia, tanto che ancora oggi risultano scomparsi133Emanuela Orlandi, scomparsi tre fascicoli raccolti dal Sismi, Repubblica, 01/11/2021.

Per quanto riguarda Giancarlo Capaldo, le responsabilità furono ancora maggiori in quanto la sostanziale inattività investigativa costrinse l’allora procuratore Giuseppe Pignatone ad avocare a sé l’indagine per decretarne l’archiviazione. Gli accertamenti di Capaldo nei confronti di Marco Accetti, ad esempio, furono assolutamente minimali e insufficienti, arrivando ad esempio a liquidare un’intercettazione telefonica altamente compromettente tra l’uomo e la sua ex moglie solamente perché il primo definì “pazza” la donna mentre lo minacciava di rivelare alla polizia il suo coinvolgimento nel caso Orlandi se non avesse accettato i termini di affidamento della figlia.

Tra le enormi mancanze dell’ex magistrato Capaldo vi fu anche l’aver costantemente ignorato gli esposti in Procura dell’avvocato di Accetti riguardo al trafugamento della bara di Katy Skerl dal Cimitero del Verano, verità accertata soltanto nel 2022, ben 7 anni dopo.

Questi ex magistrati sembrano aver voluto scaricare sul Vaticano le responsabilità della non risoluzione del caso Orlandi, al posto di riconoscere la forte lacunosità delle loro indagini investigative.

Nel 2008 il magistrato Gianluigi Marrone, giudice unico della Città del Vaticano dal 1991 al 2009, parlò di «false polemiche» legate alla collaborazione vaticana, assicurando personalmente «che il Vaticano non ha mai risposto negativamente a una richiesta di rogatoria». Sul caso Orlandi «sono stato coinvolto spesso nella preparazione di queste rogatorie e, per quel che mi compete, le assicuro che tutte hanno avuto regolare risposta. Altro è, naturalmente, se la risposta viene ritenuta soddisfacente o no. Non si può dire che il Vaticano non ha collaborato o, peggio ancora, continuare a dire che non c’è mai stata collaborazione con la magistratura italiana»134G. Marrone, Tre piccoli furti e rogatorie internazionali, L’Osservatore Romano, 06/07/2008.

Al di là di questo, certamente il Vaticano non ha mai avuto un ruolo attivo nelle indagini, al contrario di quanto avvenuto nel 2023 con l’apertura di un’inchiesta guidata dal promotore di giustizia Alessandro Diddi. L’annuncio del Vaticano di intraprendere le indagini risale al 9/01/2023, dieci giorni dopo la morte di Joseph Ratzinger (ma annunciate pubblicamente nell’aprile 2023)135F. Pinotti, G. Capaldo, La ragazza che sapeva troppo, Solferino 2023, p. 13 136F. Pinotti, Sul caso Orlandi il Papa vuole piena verità. Il mondo ci guarda: non nasconderemo nulla, Corriere della Sera, 10/04/2023.

Uno dei principali esperti del caso Orlandi, il giornalista Pino Nicotri ha tuttavia sostenuto che lo scambio epistolare tra il card. Casaroli e il padre spirituale di Natalina Orlandi riguardante gli abusi subiti da quest’ultima da parte dello zio Meneguzzi «consente di scoprire che il Vaticano, perennemente accusato da tutti di reticenza, in realtà ha trasmesso i documenti – compresa l’informativa relativa a quest’episodio del 1978 – alle autorità italiane»137P. Nicotri, in Caso Orlandi, «la pista amical-parentale è la più credibile», La NBQ, 14/07/2023.

Inoltre, ha proseguito Nicotri, «sappiamo che il Vaticano all’epoca delle indagini permise ai servizi segreti italiani di controllare le telefonate sul proprio territorio. Sarebbe interessante sapere che fine hanno fatto le relazioni degli agenti italiani su quanto ascoltato nelle intercettazioni ai centralini vaticani. Si può dire che il Vaticano ha collaborato oltre il proprio dovere»138P. Nicotri, in Caso Orlandi, «la pista amical-parentale è la più credibile», La NBQ, 14/07/2023.

Va sempre tenuto presente che i “segreti di Stato” esistono da sempre per qualunque nazione, Italia compresa, e da un certo punto di vista è anche giusta una simile tutela interna. Inoltre, come ricordato dal giudice Rosario Priore, non esiste alcun trattato di assistenza giudiziaria fra lo Stato italiano e la Santa Sede139R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 28/09/2005, p. 18, al di là di norme di cortesia.

La collaborazione tra Stati non è mai semplice, a volte addirittura conflittuale. La Francia, ad esempio, nascose addirittura Oral Celik ben sapendo chi fosse e che era ricercato dall’Italia per l’attentato a Giovanni Paolo II140F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 12 141A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 31/05/2005, p. 9.


 

L’indagine interna di padre Federico Lombardi.

Nel febbraio 2012 nell’ambito di Vatileaks, emerse un appunto riservato scritto da padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede e probabilmente destinato a mons. Georg, segretario di Ratzinger.

In esso si avanzarono alcune perplessità sulla scarsa collaborazione con le autorità italiane (almeno in alcune delle forme richieste – rogatorie, deposizione Bonarelli), domandandosi se «fosse una normale e giustificata affermazione di sovranità vaticana, o se effettivamente si fossero mantenute riservate delle circostanze che avrebbero potuto aiutare a chiarire qualcosa».

In seguito, padre Lombardi svolse una personale indagine interna per sincerarsi dell’esistenza o meno di documenti o testimoni, pubblicando i risultati il 4/04/2012.

Il portavoce dalla Santa Sede ricordò l’interessamento di Giovanni Paolo II e del card. Agostino Casaroli, segretario di Stato, tanto da mettere a disposizione per i contatti con i rapitori con una linea telefonica particolare. Dalla sua verifica appurò che «non solo la segreteria di Stato stessa, ma anche il Governatorato furono impegnati nel fare tutto il possibile» per collaborare con gli inquirenti, «a cui spettava evidentemente la competenza e la responsabilità delle indagini, essendo il sequestro avvenuto in Italia. La piena disponibilità alla collaborazione da parte delle personalità vaticane che a quel tempo occupavano posizioni di responsabilità, risulta da fatti e circostanze».

Padre Lombardi scrisse che «tutte le lettere e le segnalazioni pervenute in Vaticano furono prontamente girate al Dott. Domenico Sica e all’Ispettorato di P.S. presso il Vaticano, si presume che siano custodite presso i competenti uffici giudiziari italiani». Rispetto alle tre rogatorie indirizzate alle autorità vaticane nella seconda fase dell’inchiesta (una nel 1994 e due nel 1995), esse «trovarono risposta (note verbali della segreteria di Stato N. 346.491, del 3 maggio 1994; N. 369.354, del 27 aprile 1995; N. 372.117, del 21 giugno 1995)».

Il tribunale vaticano ascoltò inoltre i soggetti indicati dalla magistratura italiana (Ercole Orlandi, Camillo Cibin, card. Agostino Casaroli, mons. Eduardo Martinez Somalo, mons. Giovanni Battista Re, mons. Dino Monduzzi, mons. Claudio Maria Celli) e le loro deposizioni vennero inviate alle autorità richiedenti e «i relativi fascicoli esistono tuttora e continuano a essere a disposizione degli inquirenti». Padre Lombardi ricordò infine la concessione vaticana alla autorità italiane di accedere al centralino e porre sotto controllo i telefoni di cittadini vaticani «senza alcuna mediazione» di funzionari vaticani.

La dettagliata nota del portavoce vaticano si concluse respingendo le ingiuste accuse di mancata collaborazione, riportando la sensazione che «non si ebbe in Vaticano alcun elemento concreto utile per la soluzione del caso da fornire agli inquirenti». L’opinione prevalente delle autorità vaticane fu che il sequestro fosse utilizzato «da una oscura organizzazione criminale per inviare messaggi od operare pressioni in rapporto alla carcerazione di Alì Agca e agli interrogatori dell’attentatore del papa. Non si ebbe alcun motivo per pensare ad altri possibili moventi del sequestro».

Infine, padre Lombardi lamentò che «l’attribuzione di conoscenza di segreti attinenti al sequestro stesso da parte di persone appartenenti alle istituzioni vaticane, senza indicare alcun nominativo, non corrisponde quindi ad alcuna informazione attendibile o fondata; a volte sembra quasi un alibi di fronte allo sconforto e alla frustrazione per il non riuscire a trovare la verità».

A conferma di ciò, il capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, mostrò apprezzamento per la nota vaticana con queste parole: «Accolgo con soddisfazione le dichiarazioni di padre Lombardi».


 

Esiste un dossier Orlandi all’interno del Vaticano?

Certamente non è mai stato chiarito se le autorità vaticane abbiano creato o meno un dossier Orlandi, contenente elementi d’indagine interna.

Alla rogatoria del marzo 1995, ad esempio, le autorità vaticane risposero di non avere mai avuto registrazioni o trascrizioni delle telefonate provenienti dall’”Amerikano”, ma agli atti dell’archiviazione del 1997 è presente la testimonianza di mons. Francesco Salerno, consulente legale presso la Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede, il quale «in ordine alle telefonate pervenute sull’utenza riservata (al caso Orlandi, ndr) nonché agli inutili tentativi di identificare gli sconosciuti interlocutori, riteneva che proprio quest’ultima circostanza provasse l’esistenza di qualche informatore interno alla Segreteria di Stato».

Lo stesso mons. Salerno «esprimeva la personale convinzione che negli archivi della stessa segreteria fossero custoditi documenti inerenti al caso»142sentenza di archiviazione del giudice ispettore Adele Rando 1997, p. 85.

Nella richiesta di archiviazione del 2015 della Procura di Roma si legge «l’esistenza o meno di un fascicolo vaticano relativo ad Emanuela Orlandi risulta smentita dalle indagini per altro verso svolte», riferendosi alle dichiarazioni del 2005 di mons. Bruno Bertagna che, «in qualità di addetto presso la Segreteria di Stato prima e di Segretario Generale del Governatorato poi, escluse l’espletamento di indagini sulla vicenda all’interno della Città del Vaticano»143G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015.

Nel 2023 l’arcivescovo Georg Gaenswein, ex segretario di Benedetto XVI, ha ricordato di aver parlato a lungo con Pietro Orlandi e aver fatto fare in Vaticano «un promemoria su quale fosse la situazione allora riguardo a Emanuela Orlandi». Fu realizzato «un appunto, si vedeva che non c’era niente di nuovo. Poi lo stesso Orlandi ha detto in un’intervista che io avrei un dossier. Non è vero, non ho alcun dossier. Se lui pensa a questo appunto, che poi ho dato a Papa Benedetto, di questo si tratta»144Don Georg chiarisce: non esiste un dossier vaticano su Emanuela Orlandi, feci redigere un appunto per Papa Ratzinger su tutte le cose note, Il Faro di Roma, 17/04/2023.

Queste affermazioni non sembrano coerenti con le parole del promotore di giustizia vaticana Alessandro Diddi, il quale ha invece basato la sua inchiesta su documenti e carte vaticane, «tante, tantissime, ho avuto modo di leggerle e analizzarle. Ci sono state anche acquisizioni interne di carte vecchie, vecchissime, impolverate. E altre ne sto cercando ancora»145citato in F. Pinotti, Sul caso Orlandi il Papa vuole piena verità. Il mondo ci guarda: non nasconderemo nulla, Corriere della Sera, 10/04/2023.


 

Conclusioni sul ruolo del Vaticano.

Le opinioni sulla collaborazione o meno del Vaticano alle indagini della magistratura italiana nel caso Orlandi sono varie e contrastanti tra loro.

Dall’accusa di scarsa o nulla collaborazione lamentata da alcuni magistrati e dai famigliari alla difesa delle autorità vaticane e all’attestazione di «collaborazione oltre il proprio dovere»146P. Nicotri, in Caso Orlandi, «la pista amical-parentale è la più credibile», La NBQ, 14/07/2023 sottolineata da Pino Nicotri.

Da quanto emerso si può riassumere così l’intervento del Vaticano:

  • Proclamazione di otto appelli pubblici ai sequestratori da parte di Giovanni Paolo II per la liberazione di Emanuela (1983-1984);
  • Concessione alle autorità e ai servizi segreti italiani di accedere liberamente al centralino e porre sotto controllo i telefoni di cittadini vaticani (1983-1984);
  • Concessione alla creazione immediata di una linea diretta tra la Segreteria di Stato e i presunti sequestratori (1983);
  • Risposta alle tre rogatorie italiane (1994 e 1995);
  • Escussione di diversi cittadini vaticani su richiesta delle autorità italiane (Ercole Orlandi, Camillo Cibin, card. Agostino Casaroli, mons. Eduardo Martinez Somalo, mons. Giovanni Battista Re, mons. Dino Monduzzi, mons. Claudio Maria Celli) e relativo invio delle deposizioni alle autorità richiedenti;
  • Indagine interna da parte di padre Federico Lombardi (2012);
  • Creazione di un appunto sulla documentazione relativa alla Orlandi fatto realizzare da mons. Georg Gaenswein e consegnato a Benedetto XVI;
  • Apertura di un’inchiesta ufficiale voluta da Papa Francesco e guidata dal promotore di giustizia Alessandro Diddi (2023);

 

Riteniamo che padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, abbia risposto in modo documentato, completo e credibile a tutti i sospetti sul ruolo del Vaticano in questo drammatico caso.

Sottolineiamo infine che Pino Nicotri, storico giornalista del caso Orlandi e autore di almeno 3 libri sulla scomparsa di Emanuela, si è convinto nel corso degli anni della non responsabilità del Vaticano. Replicando a coloro che accusano (senza prove) Giovanni Paolo II e Benedetto XVI di qualche responsabilità, ha affermato: «Io che sono sempre stato piuttosto anticlericale, o comunque un non filo clericale, a fronte di tante idiozie contro gli ultimi tre papi e il Vaticano in generale non vorrei dover diventare un filo clericale accanito»147P. Nicotri, Messaggio su Facebook, 02/08/2023.

 

 

1.13 I genitori di Emanuela e la Sala Borromini

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Un ennesimo aspetto controverso della vicenda Orlandi è dove fossero realmente i genitori di Emanuela il giorno della scomparsa. Nei verbali si legge che riferirono che quel giorno rientrarono a casa dopo le 19. Ma prima dove si trovarono?

Al centro di questo equivoco c’è il giornalista Gian Paolo Pelizzaro, storica firma de L’Indipendente che si occupò del caso Orlandi dagli anni Novanta. E’ lui che ha raccontato la vicenda148G.P. Pelizzaro, Dichiarazione su Facebook, 15/05/2023.

Nel dicembre 1993 oltre a intervistare il vigile Alfredo Sambuco, raccolse varie informazioni sulla Orlandi scoprendo che quando Emanuela telefonò a casa, poco prima della scomparsa, «non riuscì a parlare con la madre poiché era andata a seguire un saggio di danza della sorella piccola, Cristina, alla sala Borromini».

Un dettaglio oggi sorprendente, che contrasta con quanto si è sempre saputo.

Nel 1994, Pelizzaro fu invitato a casa degli Orlandi dopo aver diffuso il rapporto del SISDE (datato 14/11/1983) che identificava l'”Amerikano” in un alto prelato. Ripercorrendo la giornata della scomparsa di Emanuela, la madre disse: «Lasciammo Emanuela a casa. Noi dovevamo andare a Fiumicino. Sapeva che saremmo tornati nel tardo pomeriggio. In casa era rimasta la sorella maggiore Federica».

Essendo in contraddizione con quanto raccolto dalle sue fonti, cioè che si sarebbero recati al saggio di danza di Cristina alla sala Borromini, il giornalista chiese un chiarimento ed Ercole Orlandi rispose che qualcuno si era sbagliato perché loro due, quel giorno, andarono a Fiumicino ad aiutare Eugenio, il fratello di Ercole, per fare dei lavori.

Nel 2011 Pietro Orlandi, nel suo libro Mia sorella Emanuela, riportò una terza versione, non necessariamente incompatibile: sua mamma, subito dopo pranzo, avrebbe iniziato a preparare l’impasto per la pizza da mangiare a cena, poi i genitori sarebbero usciti149P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, EdizioniAnordes 2011, pp. 43-48.

Pelizzaro riferisce che la notizia sul saggio di Cristina Orlandi alla sala Borromini fu ripresa anni dopo da Repubblica, l’8/10/1997, nell’articolo intitolato: “Orlandi, ultimo colpo di scena”: «La madre non è in casa, ma si trovava alla sala Borromini per seguire un saggio di danza della sorella più piccola, Cristina. Emanuela parla con la sorella maggiore, Federica. Sono le sue ultime parole, dopo quella conversazione la ragazza scompare».

Il giornalista de L’Indipendente respinse l’idea che l’autore stesse attingendo al suo articolo, in quanto scriveva in ambito giudiziario-investigativo: «L’articolo, corredato da un ampio box, riguardava la requisitoria dell’allora sostituto procuratore generale Giovanni Malerba, con la richiesta di archiviazione dell’inchiesta indirizzata dal giudice istruttore Rando».

Dove si trovavano davvero i genitori nel pomeriggio del 22/06/1983? A Fiumicino o al saggio di Cristina alla Sala Borromini, luogo citato nella telefonata di Emanuela e distante solo 300 metri dal luogo in cui la giovane scomparve?

E se Cristina Orlandi era al saggio di danza, come poteva essere davanti al Palazzaccio alle 19 con alcuni amici, in attesa di Emanuela, come si è sempre detto? Raggiunse il luogo una volta finita l’esibizione?

Il reo-confesso Marco Accetti ha riferito che il codice relativo alla Sala Borromini usato da Emanuela nella telefonata avrebbe indicato la figura di Francesco Pazienza, agente SISMI, all’epoca residente nel centro di Roma vicino alla Sala Borromini, appunto. Inoltre, il vigile urbano Alfredo Sambuco raccontò di aver riconosciuto Emanuela nella giovane che quel pomeriggio del 22 giugno gli chiese dove si trovasse la Sara Borromini.

 
 

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2. EMANUELA ORLANDI E LA PISTA SESSUALE.

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La prima pista investigativa da analizzare è quella più antica, la cosiddetta pista sessuale.

Nessuno ha mai sostenuto l’ipotesi di un rapimento violento di Emanuela e Mirella, soprattutto perché entrambe scomparvero in orario diurno e in zone molto trafficate (il bar dei De Vito, per Mirella, e la fermata dell’autobus, per Emanuela). Un sequestro contro la loro volontà avrebbe avuto quantomeno dei testimoni oculari.

L’ipotesi è che entrambe si sarebbero allontanate volontariamente per vari motivi e avrebbero trovato la morte dopo essere finite in giri pericolosi a sfondo sessuale. Successivamente, gli stessi criminali avrebbero usato la scomparsa per operare ricatti e perseguire altri tipi di obbiettivi.

Nel 2012 Nicotri riportò testimonianze (anonime) sulle frequentazioni di Emanuela e sul suo uso di droghe, all’interno di circuiti sessuali (la morte sarebbe causata da un’overdose all’interno di un festino). A parlare di “comitive di amici” frequentate con fin troppa libertà da Emanuela sarebbe stato anche l’avv. Gennaro Egidio, legale degli Orlandi, nelle telefonate con lui. Lo stesso sarebbe avvenuto a Mirella Gregori150P. Nicotri, Emanuela Orlandi: drogata e morta in mano a pedofili di rango molto alto?, BlitzQuotidiano, 14/06/2012.

Nel 2017 il giornalista sostenne che Emanuela potrebbe essere stata fermata per strada il giorno della sparizione da qualcuno che conosceva di vista, con la falsa promessa di un provino. Inoltre avvalorò le parole espresse da Silia Vetere, compagna di classe di Emanuela, nella deposizione ai carabinieri del 2008151P. Nicotri, Emanuela Orlandi, 34 anni fa, una pista affiora dalle carte giudiziarie ma ormai, BlitzQuotidiano, 22/06/2017.

La Vetere riferì infatti che Emanuela era svogliata e andava male a scuola (fu effettivamente rimandata in due materie, latino e francese), voleva trovarsi un lavoro. L’ex compagna confermò così la sua testimonianza del 1983, ricordando che Emanuela saltava spesso scuola nel periodo precedente alla sparizione, firmando da sola le giustificazioni. Non ricordò però se le assenze si intensificarono nel periodo precedente alla sua scomparsa e disse comunque di non vederla mai truccata né noto alcun cambiamento negli ultimi anni152P. Nicotri, Emanuela Orlandi, 34 anni fa, una pista affiora dalle carte giudiziarie ma ormai, BlitzQuotidiano, 22/06/2017.

Nicotri si stupì che di questi comportamenti di Emanuela, testimoniati dalla compagna di classe, non abbiano mai parlato i famigliari, pur avendo sicuramente letto gli atti giudiziari.

Un altro elemento a supporto di questa pista è il documento del SISDE (servizi segreti) del luglio 1983 in cui si parlò dei fatti avvenuti nell’inverno del 1983, quando «Emanuela Orlandi e le sue più strette amiche del quartiere, a casa di una di loro e in almeno due occasioni, erano entrate in contatto con alcuni ragazzi più grandi in quel momento a Roma perché impegnati nel servizio di leva. Questi ventenni godevano però di cattiva reputazione in quanto dediti ad abbordare ragazze nella zona di piazza San Pietro, a consumare stupefacenti e, in almeno un caso, a prostituirsi»153citato in T. Nelli, Atto di dolore, 2016.

Nel 2012 l’esorcista padre Gabriele Amorth sostenne questa tesi, affermando:

Come dichiarato anche da monsignor Simeone Duca, archivista vaticano, venivano organizzati festini nei quali era coinvolto come “reclutatore di ragazze” anche un gendarme della Santa Sede. Ritengo che Emanuela sia finita vittima di quel giro. Non ho mai creduto alla pista internazionale, ho motivo di credere che si sia trattato di un caso di sfruttamento sessuale con conseguente omicidio poco dopo la scomparsa e occultamento del cadavere. Nel giro era coinvolto anche personale diplomatico di un’ambasciata straniera presso la Santa Sede»154citato in G. Galeazzi, Padre Amorth: “Orlandi, fu un delitto a sfondo sessuale”, La Stampa, 22/05/2012.

 

La strumentalizzazione successiva potrebbe anche essere stata architettata da gruppi estranei al crimine sessuale che, una volta appresa la notizia della scomparsa, avrebbero deciso di innestarsi usandola per i propri interessi.

Schematizzando, l’ipotesi è la seguente:

  • Emanuela e Mirella si sarebbero allontanate da casa per ingenuità e/o libertinismo, rimanendo poi coinvolte in un giro pericoloso (a), oppure si sarebbero fidate di persone sbagliate, legandosi ad esempio a strane amicizie (b);
  • Indipendentemente da a) o b), dopo la morte/allontanamento gli stessi autori del crimine, o persone a loro contigue ma estranee all’uccisione si sarebbero inserite nella vicenda/e facendo credere di esserne i responsabili per perseguire loro interessi/ricatti;

 

 

2.1 La pista della RAI

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All’interno della pista sessuale abbiamo inserito un filone di indagine ancora totalmente inesplorato dagli inquirenti che farebbe ricadere la responsabilità della scomparsa di Emanuela in qualcuno interno alla RAI, la televisione di Stato.

Questa ipotesi è stata teorizzata nel corso degli anni dallo storico giornalista Pino Nicotri.

La tesi della RAI nacque nel 2005 quando il programma Chi l’ha visto? recuperò la puntata di Tandem alla quale Emanuela Orlandi partecipò con la sua classe il 20/05/1983, un mese prima di scomparire. Si trattò di una trasmissione RAI andata in onda dal 1982 al 1985.

 

Nel video qui sotto alcune immagini della puntata di Tandem, l’unica volta in cui Emanuela compare in video

 

Come si vede, Emanuela è a fianco della presentatrice ed è una figura molto appariscente, inquadrata più volte dalle telecamere. Non risulta però che durante quella puntata abbia mai preso la parola, al contrario di alcuni suoi compagni.

Nicotri fece notare uno stano comportamento («una strada reticenza») da parte di famigliari in quanto non avrebbero mai fatto sapere ai magistrati dell’esistenza di quella puntata e relativa registrazione (della quale erano sempre stati a conoscenza, come si evince da questo fotogramma incorniciato), nella quale Emanuela potrebbe aver parlato e la sua voce avrebbe potuto essere confrontata con l’audio fatto ritrovare dall'”Amerikano”155P. Nicotri, Emanuela Orlandi, due misteri: lei a Tandem nel 1983 e la telefonata anonima, BlitzQuotidiano, 26/06/2015.

Nel 2023 lo stesso giornalista approfondì la tesi osservando nel video della puntata di Tandem «Emanuela viene ripresa e messa in risalto con maggiore evidenza rispetto agli altri studenti partecipanti. E si nota che Emanuela ne ha piacere, è molto a suo agio»156P. Nicotri, Emanuela Orlandi vittima di un uomo Rai? Nicotri: telefonò a Chi l’ha visto da un interno, voce da prova audio, BlitzQuotidiano, 02/07/2023.

Considerando il sogno della giovane a entrare nel mondo dello spettacolo, Nicotri ipotizzò che qualcuno della RAI, in occasione di Tandem, avrebbe potuto proporle un aiuto in tal senso. La stessa persona potrebbe averla fermata il giorno della scomparsa, un mese dopo la trasmissione, fuori dalla scuola157P. Nicotri, Emanuela Orlandi vittima di un uomo Rai? Nicotri: telefonò a Chi l’ha visto da un interno, voce da prova audio, BlitzQuotidiano, 02/07/2023.

Ad avvalorare i sospetti sulla RAI vi sarebbe anche il fatto che la famosa telefonata anonima trasmessa da “Chi l’ha visto?” nel settembre 2005, la quale invitava a cercare un legame con De Pedis, sepolto nella basilica di Sant’Apollinare, non sarebbe partita dall’esterno della Rai158P. Nicotri, Emanuela Orlandi vittima di un uomo Rai? Nicotri: telefonò a Chi l’ha visto da un interno, voce da prova audio, BlitzQuotidiano, 02/07/2023.

In realtà nella sentenza di archiviazione del 2005 si riferisce che la telefonata arrivò invece al centralino della trasmissione televisiva159G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 27.

Certamente la pista (inconcludente) su De Pedis e Sant’Apollinare apparve come un depistaggio, con il doppio risultato di aver regalato moltissima pubblicità alla trasmissione RAI.

Un secondo elemento sarebbero le telefonate anonime che il 7/09/1983 arrivarono all’avv. Egidio, intercettate dai carabinieri.

Nella prima telefonata una donna disse ad Egidio: «Faccia trovare Emanuela Castel Sant’Angelo, nel nome del Signore glielo chiedo». Poco dopo, la stessa donna richiamò: «Avvocato, ho l’impressione che non mi ha compreso, in Nome del Signore cercate Emanuela a Castel S. Angelo». Verso sera arrivò la terza telefonata, quella di un uomo che chiese di «cercare “la ragazza” a Castel S. Angelo, a destra, scendere tre scalini di legno,, c’è delle terra battuta, ancora avanti un altro gradino e si entra dentro un “tunnel”, lì si trova! Sotto di loro c’è un tubo di eternit. Sotto dov’è la ragazza…. “Loro” si trovano sopra”». L’avvocato chiese ”loro” chi?” Lo sconosciuto rispose: «Sono in quattro: la ragazza e tre. Sono in quattro e stanno li sotto; uno di colore, uno biondo e una ragazza con vestito lungo. Parlo in Nome del Signore»160P. Nicotri, Emanuela Orlandi e altri sepolti nei sotterranei di Castel Sant’Angelo? Il mistero di una telefonata da una utenza Rai, BlitzQuotidiano, 15/06/2023.

Si riuscì a risalire al numero solo di quest’ultima chiamata, proveniente dall’utenza n° 3611058 (RISERVATA = intestata a Rai via del Babuino 9)161Rapporto dei carabinieri, 07/09/1983.

La tesi di Castel Sant’Angelo sarebbe ulteriormente confermata dall’ex carabiniere Antonio Goglia, il quale darebbe ampio valore al forte interesse di Marco Accetti al film “Nell’anno del Signore” del regista Luigi Magni (1969)162testimonianza rilasciata a P. Nicotri, Emanuela Orlandi. Flauto di Marco Fassoni Accetti dai resti di studio cine Roma?, BlitzQuotidiano, 12/06/2014, il quale si svolge nel mausoleo circolare Adriano di Castel Sant’Angelo e inizia con molteplici fermo immagine sull’angelo che sormonta il mausoleo e che guarda verso il basso.

A questo farebbe riferimento una lettera ricevuta da Pietro Orlandi in cui si suggeriva di cercare Emanuela presso il Camposanto Teutonico,. «dove guarda l’angelo».

Si può infine ricordare l’incredibile, quanto sospetta, campagna di fango di Chi l’ha visto? contro Marco Accetti dopo la sua comparsa. L’uomo ha sostenuto che la violenta reazione della trasmissione RAI (con plateali accuse di pedofilia) avrebbe reso vano per sempre il suo tentativo di chiamare i suoi complici a costituirsi.


 

Analisi e verifiche della “pista della RAI”.

Pur appoggiandosi ad alcune coincidenze non trascurabili, l’impianto della tesi non si basa su alcuna prova.

La responsabilità “della RAI” andrebbe ricondotta a quante persone? Certamente non un semplice operatore tecnico, per ricevere la fiducia di Emanuela, tanto da convincerla a seguirlo il giorno della scomparsa, sarebbe dovuto essere perlomeno un dirigente. Il quale avrebbe dovuto avere almeno una complice donna, cioè la voce della telefonista anonima che chiamò l’avv. Egidio indicando Castel Sant’Angelo.

L’aspetto più controverso sono proprio queste telefonate: non si capisce perché un mese dopo aver rapito e ucciso Emanuela per una mera “questione sessuale”, il dirigente RAI e la sua complice avrebbero dovuto telefonare al legale degli Orlandi, correndo il rischio di essere registrati (e quindi più facilmente smascherati) e facendo rintracciare il numero dell’azienda, portando l’attenzione più vicina a loro.

Così com’è esposta la pista non ha alcun senso logico. Quelle telefonate sembrano piuttosto un depistaggio.

 

 

2.2 I punti forti della pista sessuale

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a) Tesi sostenuta dai primi esperti del caso.

Verso la pista sessuale si sono orientate le prime persone che hanno indagato seriamente il caso.

Parliamo di Gennaro Egidio, avvocato degli Orlandi e dei Gregori, il magistrato Margherita Gerunda e il giornalista Pino Nicotri.

Nicotri è stato, fra tutti, il principale sostenitore di questo scenario. Nel 2013 scrisse: «L’unica pista che oggi è rimasta in piedi e che all’epoca era comunque la più ragionevole: la pista del sequestro a fini di libidine o vendetta personale […]. Decenni e decenni di cronaca nera dimostrano che la pista del sequestro a fini di libidine o di vendetta personale non ha molto a che fare con i “maniaci sessuali”, ma ha invece moltissimo a che fare con i vicini di casa, i parenti, gli amici dei parenti e quelli di famiglia».

Verso questa spiegazione è sembrato orientarsi anche l’avv. Egidio, legale degli Orlandi e dei Gregori, nelle telefonate (una e due) avute con lo stesso Nicotri.

Il primo legale degli Orlandi affermò addirittura: «Ma no, non è stato un rapimento. La verità è molto più semplice e banale, la fine di Emanuela è più banale. La ragazza godeva di molta più libertà di quanto è stato fatto credere». Nella prima telefonata con Nicotri, il giornalista sottolinea che gli Orlandi non conoscerebbero davvero la figlia, trovando il pieno consenso di Egidio.

Nella seconda telefonata, Nicotri sostenne che gli Orlandi non sapessero in realtà «chi era e che faceva la figlia», trovando pieno consenso nell’avv. Egidio:

«Sono pienamente d’accordo con lei. Io propendo più per cose semplici, normali […]. Quello che rimane forse potrebbe essere quello che appare così semplice, potrebbe essere la verità. E cioè un caso molto semplice che però strumentalizzato, adoperato dagli altri per altri motivi, successivamente […]. I genitori anche se a volte si trovano di fronte all’evidenza, sono capaci di andare oltre la realtà perché loro credono nei loro figli. O magari vi è un senso di ritegno. Ritengono di voler salvare la dignità e il nome della famiglia. Ma i figli, come lei ben diceva prima, ma chi li conosce? A quell’età poi…».

 

Per quanto riguarda Mirella Gregori, Gennaro Egidio sembrò considerare l’ipotesi della prostituzione, pur senza affermarlo direttamente. Lo avrebbe intuito dalla frase che la giovane disse alla madre poco prima della scomaprsa: «Mamma, tu dici che hai difficoltà, enormi difficoltà, che non si può acquistare una casa. Non ti preoccupare, ai soldi penso io».

L’avvocato Egidio disse di essere rimasto colpito dalla frase, esattamente come lo fu la madre:

«Penserei che il caso della Gregori potrebbe essere sempre un caso che rientra in quello che era magari un traffico…e allora quindi caduta nell’inganno e avrà ripetuto dentro di sé quello che le avevano promesso, per ingannarla. E quindi avrebbe avuto chi potesse magari un giorno avere denaro e aiutare quindi la mamma e la famiglia. E invece magari cadde in un inganno. Successivamente, cioè altri che avevano chissà quali altri interessi, per pressioni magari nelle sedi al di là del Tevere o anche qui in Italia […], quando vi è stato l’interesse per il caso Gregori, che fu poi collegato al caso Orlandi, […] questa gente quando hanno visto che appariva sui giornali a questo punto si sono innestati nella storia dicendo…».

 

Anche il primo magistrato che si occupò della vicenda, Margherita Gerunda, disse: «Mi feci subito l’idea, come del resto tutti gli investigatori, che la ragazza fosse stata attirata in un agguato, violentata e uccisa, comunque morta in seguito alle violenze».

Gerunda fu sostituita dopo poco da Domenico Sica, «interpretai il mio essere tolta dal caso Orlandi come la precisa volontà di assecondare i clamori e sposare in pieno la pista del rapimento politico per lo scambio con Agca».

 

Qui sotto le parole del magistrato Margherita Gerunda:


 

b) Nessuna prova certa della detenzione di Emanuela.

La pista sessuale risolve agilmente il grande mistero per cui i sedicenti rapitori inseritisi successivamente non hanno mai saputo (o voluto) dare prova certa di avere Emanuela e Mirella.

Sarebbe bastata una foto con a fianco un quotidiano, come chiese la famiglia Orlandi. Si limitarono invece a fornire dettagli (pur abbastanza precisi) della biografia di Emanuela, fotocopie di alcuni suoi effetti personali e la registrazione di alcune sue parole ripetute più volte sul nastro. Piccole prove, mai davvero decisive o soddisfacenti.

Queste persone non potevano (o non volevano?) realmente dare prova di avere le ragazze perché, secondo la pista che stiamo indagando, erano già morte.


 

c) Scarso collegamento tra Emanuela e Mirella.

Gli autori di un sequestro sessuale non sono interessati a cercare elementi in comune tra le loro vittime.

Effettivamente Emanuela e Mirella condividevano pochissimo, a parte la stessa età. A collegare i due casi non furono i primi telefonisti che chiamarono a casa Orlandi, né qualche investigatore o le rispettive famiglie.

Il primo collegamento avvenne soltanto due mesi dopo la sparizione di Emanuela, il 4/8/1983, quando il “Komunicato 1” del “Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh” citò Mirella chiedendo informazioni. Della giovane, tra l’altro, si parlò pochi giorni prima in un’inchiesta della rivista Panorama163P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 75.

Un altro piccolo collegamento tra le due scomparse è che Mirella lavorò per la Avon (confermato dalla sorella Antonietta Gregori) ed Emanuela sarebbe stata avvicinata da un uomo che le avrebbe parlato della Avon164deposizione dell’amica Raffaella Monzi. Non è però un elemento determinante, tantissime ragazze ebbero a che fare con la Avon.


 

d) Sentenza di archiviazione del 1997.

Nella sentenza di archiviazione del giudice ispettore Adele Rando del 1997, si concluse rilevando effettivamente che quello della Orlandi non fu un rapimento ma una messa in scena depistatrice.

Inoltre, negli Atti si legge l’esistenza di una «strumentale connessione della scomparsa di Mirella con il caso di Emanuela, probabilmente allo scopo di accrescere la complessità del quadro investigativo di quest’ultima vicenda, rendendolo, se possibile, ancora più inestricabile».


 

e) Testimoni oculari.

Il ruolo delle testimonianze del vigile Sambuco e del poliziotto Bosco le abbiamo analizzate in una sezione pecedente.

A poche ore dalla scomparsa di Emanuela, Alfredo Sambuco e Bruno Bosco in servizio davanti al Senato riferirono ai familiari di averla vista parlare con un uomo mentre le veniva mostravo del materiale. Uno scenario compatibile con il racconto che Emanuela fece alla sorella prima della scomparsa, telefonata di cui ancora nessuno era al corrente.

E’ molto difficile sostenere che si misero d’accordo tra loro, non si sarebbero altrimenti contraddetti su alcuni dettagli: la presenza di un BMW fu riferita solo da Sambuco, il quale parlò di un numero civico diverso da Bosco e accennò prima ad un catalogo “Avon”, poi smentì di averne parlato. Al contrario, Bosco citò un tascapane militare con la lettera “A”.

O testimoniarono una scena realmente osservata ma confondendo Emanuela con un’altra ragazza, oppure il loro racconto coincide con quello che disse Emanuela al telefono con la sorella poco prima di sparire.

Fu ingannata da quell’uomo e attratta in un pericoloso giro sessuale?


 

f) Il profilo inedito di Emanuela.

Emanuela è sempre stata presentata dalla stampa e dai famigliari come una ragazza modello (“casa e chiesa”).

Eppure la testimonianza della compagna di classe, Silvia Vetere, e l’informativa del SISDE mettono in crisi quest’immagine e rivelano aspetti inediti della giovane. Tra i quali il fatto che saltasse scuola con una certa frequenza (autofirmandosi le giustificazioni) e la frequentazione di amici più grandi poco raccomandabili, dediti a consumo di stupefacenti.

 

 

2.3 I punti deboli della pista sessuale

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a) Tesi sempre respinta dalla famiglia.

Nonostante il legale degli Orlandi e dei Gregori sembrasse optare per la pista sessuale con l’iniziale complicità di Emanuela e Mirella, le famiglie l’hanno sempre radicalmente respinta.

Sono le persone che hanno cresciuto le due giovani e che le conoscono meglio di tutti, mentre i sostenitori di questa ipotesi non le hanno mai conosciute nella realtà.

«Mia sorella non si è allontanata spontaneamente, su questo non deve esistere il minimo dubbio. La sua scomparsa, direttamente o indirettamente, ha attivato forze occulte su scala internazionale e noi siamo capitati in mezzo a questo casino!», ha scritto Pietro Orlandi165P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 85.

Anche Nicola Cavaliere, della squadra mobile di Roma all’epoca dei fatti, ha affermato: «Non credo proprio che sia fuggita volontariamente e non esiste alcuna prova certa della sua esistenza in vita fin dal primo momento successivo alla scomparsa, così come, d’altra parte, non esiste alcuna prova certa della sua morte»166citato in R. di Giovacchino, Storie di alti prelati e gangster romani p 24.


 

b) Le prove fornite dai telefonisti.

Una forte prova contro la tesi dell’allontanamento volontario e della pista sessuale sono i dettagli forniti dai telefonisti che chiamarono casa Orlandi nei giorni immediatamente successivi alla sparizione.

Nei “punti forti” abbiamo osservato che effettivamente non diedero mai una prova certa del loro coinvolgimento con il rapimento, tuttavia fornirono informazioni piuttosto precise e rivelatesi vere. Non possono essere liquidati come “colpi di fortuna”.

«Gli autori dei messaggi», ha dichiarato il magistrato Ferdinando Imposimato, «indicavano con la massima precisione caratteristiche fisiche della ragazza e inviavano messaggi scritti e fonici della ragazza, cioè registrazioni della sua voce. Li ho sentiti, li ho letti; ci sono copie dei verbali. Ma gli autori dei messaggi mandavano anche copia dei documenti di cui era in possesso Emanuela Orlandi al momento della sua scomparsa»167F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 9.

Dopo tre giorni dalla sparizione di Emanuela, infatti, quando ancora nessuno a parte la famiglia la stava cercando o parlava di rapimento, “Pierluigi” telefonò fornendo alcuni elementi riconosciuti come veri dalla famiglia168requisitoria del pm Malerba, 6/08/97 169P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 32.

Ecco sintetizzati i dettagli forniti da “Pierluigi”:

  • Emanuela vendeva collane in piazza Campo de Fiori (attività svolta dalla giovane due estati prima a Torano);
  • Aveva un flauto riposto in una custodia nera (non sappiamo se i giornali locali ne avessero parlato);
  • Accennò alla marca “Ray Ban” (l’estate precedente Emanuela fu coinvolta in una discussione su questa marca di occhiali con la madre e un’amica);
  • Emanuela era astigmatica ad un occhio;
  • Accennò alla marca “Avon”;
  • Il matrimonio della sorella era previsto per settembre;
  • La sorella la maggiore portò gli occhiali per un certo periodo.

 

Quale testimone disinteressato avrebbe mai fornito questi dettagli? L’uomo volle evidentemente accreditarsi come persona informata dei fatti sostenendo, però, che si fosse trattata di una scappatella volontaria. Stesso copione per “Mario”, il secondo telefonista, il quale citerà molti di questi dettagli facendo intendere di avere un legame con “Pierluigi”.

Poi arrivò l’“Amerikano”, che fornì a sua volta altri elementi biografici:

  • Il sacerdote che avrebbe celebrato il matrimonio della sorella era un amico di famiglia;
  • Il cantante preferito da Emanuela era Claudio Baglioni;
  • Emanuela era innamorata di Alberto, in quel periodo a militare;

 

Ma soprattutto, l’“Amerikano”, oltre a far ascoltare un audio di Emanuela mentre ripete più volte il nome della classe e della scuola frequentata, fece ritrovare:

  • La fotocopia (con foto) della tessera d’iscrizione di Emanuela alla scuola di musica;
  • La fotocopia della ricevuta del versamento della rata scolastica per la scuola di musica da 5000 lire, datata 6/5/83 (poche settimane prima della scomparsa);
  • La fotocopia del retro della tessera della scuola di musica;
  • La fotocopia del frontespizio di un album con gli spartiti per flauto del compositore Hugues, con scritti nomi e numeri di telefono di alcune compagne di corso, che Emanuela aveva con sé il giorno del rapimento.

 

Nell’immagine qui sotto la fotocopia degli spartiti fatta ritrovare dal telefonista:

Gli spartiti di Emanuela Orlandi e l'

 

Da dove recuperò tutti questi documenti? Molto probabilmente dalla borsa di Emanuela.

In caso contrario si dovrebbe sostenere che dopo la sparizione, qualcuno della scuola di musica (dirigenti? Compagni? Docenti?) avesse fornito a degli estranei gli elementi elencati. Potrebbero averli rubati dalla scuola? E nessuno se n’è accorto o ha mai verificato?

Sull’istituto Da Victoria caddero inevitabilmente molti sospetti, Pietro Orlandi ricordò però che sia polizia che i servizi segreti si presentarono dalla direttrice suor Dolores chiedendo la lista completa delle allieve, come la religiosa raccontò in questura170P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 94. Anche ammesso di sospettare di polizia o servizi segreti, come avrebbero fatto a sapere cosa aveva con sé Emanuela quel giorno, quali documenti e spartiti rubare?

Va inoltre considerato che gli spartiti di Hugues erano segnati da scritte di Emanuela, numeri di telefono e nomi delle sue amiche (usati dai telefonisti per chiamarle e dettare loro i comunicati). Era quindi un oggetto strettamente personale della giovane che non si trovava tra i documenti della scuola.

 

Nell’immagine qui sotto i vari testi di Emanuela fatti ritrovare in momenti diversi dall’“Amerikano”:

 

Il “Fronte Turkesh”, una delle sigle comparse dopo i telefonisti, rispose correttamente ad una domanda loro rivolta sul luogo della cena di Emanuela tre giorni prima della sparizione (risposta: con “parenti molto stretti”). Pietro Orlandi spiegò che tale dettaglio era noto solo in famiglia171P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 106.

Un telefonista anonimo chiamò anche al bar dei Gregori elencando nel dettaglio le marche dei vestiti che indossava Mirella il giorno della sparizione.

I telefonisti potrebbero aver carpito, tramite ricatti e minacce, le informazioni biografiche dalle amiche delle due scomparse? Effettivamente sia Raffaella Monzi che Sonia De Vito risultarono reticenti agli occhi degli inquirenti, la prima subì anche diverse minacce nel corso degli anni.

Se furono minacciate oltre 30 anni fa, difficile credere però lo siano ancora oggi e sarebbero sufficientemente protette se venissero allo scoperto, anche grazie al rilievo mediatico della vicenda. Inoltre, le amiche di Emanuela non avrebbero certo potuto consegnare le fotocopie di tessere, iscrizioni, ricevute e il frontespizio dell’album con gli spartiti presente nello zaino della giovane il giorno della sparizione.

Nelle conclusioni della Commissione parlamentare Mitrokhin si legge: «E’ certo che i telefonisti, gli autori dei messaggi o i loro ispiratori avessero, o avessero avuto, contatti con Emanuela, con la famiglia o con conoscenti di Emanuela o della famiglia».

Nella requisitoria del Procuratore generale della Corte di Appello, Giovanni Malerba, si legge:

«Né si dica che i primi “telefonisti” fossero persone non soltanto estranee al progetto criminoso, ma altresì all’oscuro di esso; nei successivi messaggi del gruppo che rivendicava il sequestro, più di una volta è dato rinvenire riferimenti ai “nostri elementi Pierluigi e Mario”; e per di più il Pierluigi, nei colloqui telefonici, si mostrava al corrente di particolari rivelatisi esatti (flauto, occhiali con montatura bianca non graditi alla giovane, astigmatismo ad un occhio, imminente matrimonio della sorella ecc.). Tutto questo dimostra lo stretto collegamento tra Pierluigi e Mario e coloro che rivendicavano il sequestro»172requisitoria del pm Malerba, 6/08/97.

 

L’ex magistrato Ferdinando Imposimato, giudice istruttore del processo per l’attentato a Giovanni Paolo II del 1981, avendo seguito il caso per conto dei familiari di Emanuela, riferì che «le lettere sono, almeno in parte, una prova dei collegamenti tra chi le scriveva e la ragazza scomparsa, come riconosciuto anche dai magistrati, che però non hanno ritenuto provato che costoro effettivamente avessero rapito la ragazza – e la tenessero segregata – al momento in cui recapitavano, per un ampio lasso di tempo, i messaggi».

Non si trattò di mitomani e non furono estranei ai fatti. O ebbero a che fare direttamente con Emanuela e Mirella, oppure ebbero contatti diretti con chi aveva avuto a che fare con loro.

Questo dimostra che il sequestro di Emanuela e Mirella (pur se convinte ad allontanarsi con l’inganno e la loro complicità) non fu finalizzato alla mera violenza sessuale, in quanto si può ipotizzare che fossero proprio le due ragazze (in particolare Emanuela) la fonte degli elementi biografici citati dai telefonisti.


 

c) Comunicati con elementi attendibili.

Legato al punto precedente, oltre ai telefonisti bisogna porre attenzione anche ai comunicati apparentemente deliranti del “Fronte Turkesh”.

L’ex colonnello della Stasi, Gunther Bohnsack, riferì che furono loro gli autori dietro la sigla “Fronte Turkesh”173F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 17 di questi messaggi e di quelli firmati “Phoenix”: «Ci divertivamo a scriverli in un italiano molto scorretto. Cercavamo così di aiutare i bulgari assurdamente accusati per l’attentato di Agca». E ancora: «Si, li facevamo noi, insieme a colleghi dei servizi segreti bulgari che incontravamo qui a Berlino»174citato in P. Nicotri, Emanuela Orlandi: la verità, p. 109.

Abbiamo già spiegato i motivi per cui le affermazioni di Bohsack non risultano convincenti, tanto che il Procuratore generale Giovanni Malerba ricordò che «alcuni dei comunicati del Fronte Turkesh evidenziano rilevanti connotazioni di autenticità e genuinità in quanto accompagnati da prove foniche e documentali riferibili a Emanuela Orlandi»175requisitoria del pm Malerba, 6/08/97.

In uno dei komunicati, ad esempio, fu scritto che «Emanuela formulò una frase che rese di ghiaccio suo padre»176Komunicato 22/11/83, episodio -pur abbastanza vago- confermato dal padre Ercole: «Si, mia figlia reagì in modo inconsueto, con una frase pesante nei miei riguardi poco prima della scomparsa».

Nel comunicato di “Phoenix” del 13/11/83 si fece rinvenire la fotocopia della tessera scolastica con la foto di Emanuela e la ricevuta di versamento. E’ vero che furono già stati fatti ritrovare il 6/7/83 dall'”Amerikano, ma non era certo materiale reso pubblico e disponibile dalla polizia italiana.


 

d) Scuse complesse e non necessarie.

I sostenitori dell’ipotesi di una strumentalizzazione secondaria preceduta da un allontanamento volontario (pur sotto inganno) dovrebbero anche spiegare perché Emanuela Orlandi telefonò alla sorella prima di sparire raccontando la complessa storia del lavoro offertole a 375mila lire.

Pino Nicotri, sostenitore di questa pista, la ritiene una «scusa ingenua di una ragazzina che vuole poter stare fuori casa per un po’ per i fatti suoi»177P. Nicotri, Triplo inganno, p. 53.

Riteniamo più che opportuna la risposta di Marco Accetti:

«Quindi una quindicenne per restare un po’ fuori casa, non solo inventa che un uomo l’ha fermata e le ha proposto un lavoro, ma specializza la bugia coinvolgendo la maison delle sorelle Fontana, ed elaborando ulteriormente ambienta il luogo dove si terrà la sfilata, nella sala Borromini. Addirittura stabilisce la cifra esatta pattuita. Ed una scusa del genere tanto sofisticata, il giornalista la definisce “ingenua”, attribuendola oltretutto ad una semplice quindicenne. Se così fosse questa ragazzina sarebbe più che smaliziata, quasi diabolica».

 

Anche ammettendo l’estrema ingenuità della 15enne Emanuela, possibile che un predatore sessuale abbia bisogno di ingannare una ragazza tramite un complesso e assurdo racconto (375mila lire erano un’esagerazione per chiunque), con il rischio di venire scoperto dopo un’eventuale telefonata della giovane alla famiglia?

La storia raccontata da Emanuela motiva contro l’idea di un suo allontanamento ingenuo per finire nella trappola di uno stupratore.


 

e) Requisitoria di Giovanni Malerba.

La sentenza di archiviazione di Adele Rando del 1997 respinse l’idea di un rapimento parlando di «una messa in scena depistatrice».

Essa tuttavia contrastò con la requisitoria del procuratore Giovanni Malerba del 5/8/1997:

«Pur in assenza di prove sicure della vita o della morte, non vi è motivo di revocare in dubbio che le stesse siano state realmente private della libertà personale; la prolungata assenza, ormai protraentesi da oltre quattordici anni, valutata unitamente ai messaggi scritti e telefonici pervenuti ed alle prove foniche e documentali concernenti Emanuela Orlandi, rendono più che evidente che le due giovani, pur inizialmente seguendo spontaneamente i sequestratori in quanto verosimilmente tratte in inganno (un duplice sequestro attuato in pieno giorno sulla pubblica via con violenza o minaccia sarebbe stato in ogni caso notato e riferito da più persone), siano state in seguito trattenute contro la loro volontà».

 

Commentando le conclusioni di Malerba, il magistrato Ferdinando Imposimato elogiò l’acume del procuratore in quanto «in poche pagine egli indica tutta una serie di ragioni obiettive per ritenere che la tesi, secondo la quale si siano inseriti personaggi esterni in questa vicenda per strumentalizzarla senza poter essere parti di questo complotto, è una tesi che non sta né in cielo, né in terra perché così non è»178F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 9.


 

f) Altre cittadine vaticane pedinate.

Nella sezione precedente abbiamo già osservato la deposizione rilasciata ai carabinieri nel luglio 1984 di Raffaella Gugel, figlia dell’aiutante di camera del Papa, Angelo Gugel.

La giovane riferì che subito dopo l’attentato al Papa, nel maggio 1981, suo padre la avvisò di voci giunte in Vaticano su possibili sequestri di cittadine.

La Gugel raccontò anche di aver subito un perdimento per due settimane da parte di un uomo di nazionalità turca e, a seguito delle indagini di polizia, si scoprì che altre cittadine vaticane erano state seguite, in particolare la sorella Flaviana e la figlia di Camillo Cibin, capo della sicurezza del Vaticano179F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 6.

Questi elementi chiaramente giocano a sfavore dell’idea di una pista sessuale.

 

 

2.4 Conclusioni sulla pista sessuale

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L’ipotesi della pista sessuale con una successiva strumentalizzazione del caso non regge all’analisi degli elementi conosciuti. Gli argomenti contrari, soprattutto quelli riguardanti i telefonisti, i comunicati e le voci su sequestri di cittadine vaticane prima della scomparsa di Emanuela, sembrano decisivi.

Ci sarebbe anche da considerare il riconoscimento di alcuni uomini legati alla malavita romana da parte di alcuni amici di Emanuela che avrebbero pedinato la giovane nei giorni antecedenti alla sparizione (ne parleremo più sotto).

Se è da escludere che l’obbiettivo dei sequestratori fu il mero scopo libidinoso, conclusosi con la morte delle giovani, è invece verosimile che Emanuela e Mirella si possano essere allontanate volontariamente, tramite l’inganno o sotto ricatto/minaccia. Non è da escludere che gli autori del sequestro abusarono sessualmente delle giovani ma lo scopo delle loro azioni non fu soltanto questo.

 
 

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3. EMANUELA ORLANDI E LA PISTA INTERNAZIONALE.

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La pista internazionale è quella più accreditata sui media, sempre a caccia di scandali politici.

La tesi più classica è che il rapimento sarebbe servito per allontanare i sospetti dell’attentato a Giovanni Paolo II dai “Lupi Grigi” e da i bulgari, chiamati in causa da Alì Agca.

I rapitori delle ragazze, infatti, attraverso la loro azione avrebbero cercato di ricattare e/o condizionare il terrorista turco portandolo a ritrattare le sue accuse e a interrompere la collaborazione con gli inquirenti.

Per dirla con le parole del magistrato Ferdinando Imposimato, principale sostenitore di questa tesi, Orlandi e Gregori furono vittime del terrorismo di Stato, prede dei terroristi turchi al servizio dei bulgari, della STASI e del KGB, vittime del complotto ideato da Mosca fin dall’ottobre 1978, sfociato nell’attentato al Papa e proseguito nel sequestro di due ignare e sfortunate fanciulle.

Tutti i comunicati relativi alla sorte delle ragazze sarebbero stati ideati dai Servizi segreti di Berlino Est per aiutare i bulgari, ormai in affanno processuale, perché tutta l’opinione pubblica italiana e mondiale era convinta che con quelle prove il bulgaro Serghei Antonov (morto nel 2007) sarebbe stato condannato180F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 18.

Una variante della tesi è che i sequestratori avrebbero invece cercato di ricattare direttamente i capi di Stato vaticano e italiano inducendo il primo, Giovanni Paolo II, a “perdonare” Agca e il secondo, Sandro Pertini, a concedergli la grazia presidenziale. E’ quello che vollero (almeno apparentemente) anche i telefonisti e le varie sigle comparse dopo la sparizione.

E’ stata l’ipotesi più valutata dalla prima indagine sul caso, che si è conclusa con l’archiviazione del 1997. La tesi è sostenuta ancora oggi da tanti autorevoli protagonisti della vicenda ma osteggiata da diversi altri.

Analizziamo i punti di forza e quelli di debolezza.

 

 

3.1 I punti forti della pista internazionale.

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a) Il comportamento di Alì Agca.

Il principale argomento a sostegno della pista internazionale è l’effettivo e sorprendente comportamento del terrorista turco Alì Agca, autore dell’attentato a Papa Giovanni Paolo II nel 1981.

Le cronache dell’epoca riportano che dal dicembre 1981 fino al 22 giugno 1983, data della sparizione di Emanuela, l’idealista turco collaborò attivamente con il giudice istruttore, Ilario Martella, indicando come mandante dell’attentato la famosa “pista bulgara” su ordini del KGB. Agca sostenne la corresponsabilità del bulgaro Sergei Antonov, il quale gli avrebbe fornito l’arma, e dei servizi segreti bulgari.

Il 28/06/1983, sei giorni dopo la sparizione di Emanuela Orlandi, Agca modificò radicalmente il suo atteggiamento e, fingendo di impazzire, rovinerà il processo. Disse di non aver mai visto l’abitazione di Antonov, di non aver mai conosciuto la moglie Rosizca, di non aver saputo (prima del riconoscimento fotografico) dell’attività di Antonov come caposcalo della Balkan Air, di non essere mai stato nemmeno nella sede della compagnia aerea. Tutte informazioni, queste, fornite in precedenza con dovizia di particolari.

Il pm Antonio Marini spiegò a chiare lettere che il fallimento del processo fu determinato «dal comportamento di Agca, che ha inventato questa follia simulata, veramente devastante per il processo»181A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 31/05/2005, p. 7.

Nel giugno 1984, Antonio Albano, pm dell’inchiesta sull’attentato al Papa, completò la requisitoria contro Agca ed Antonov e, citando l’interrogatorio ad Agca del 28 giugno, scrisse: «A coincidenza vuole che proprio in quei giorni scompare la giovane Emanuela Orlandi».

Lo stesso Agca, riporta l’Unità del 05/07/1983, Agca affermò che appena seppe della sparizione della Orlandi interpretò il fatto come un segnale dei suoi complici: «Ho pensato, la potrebbero uccidere, appesantirebbero la mia posizione, c’è una posizione morale, mi spiace se la uccidono».

Una nota di attenzione: Agca parlerà sempre e solo di Emanuela Orlandi, mai di Mirella Gregori.

Nel 1985 Agca tornò ad accusare i bulgari dicendo di essere stato condizionato dal caso Orlandi: «Ho dato tante versioni contraddittorie, ho parlato di Pazienza che non c’entra, perché “Lupi grigi” e bulgari hanno rapito la ragazza, perché io ritrattassi e confondessi e screditassi la stampa che aveva parlato di Urss e Bulgaria. Ho visto dai giornali gli ultimi messaggi dei rapitori di Emanuela Orlandi e ho riconosciuto la calligrafia di Oral Celik».

Nel 1997 l’attentatore turco modificò la versione sostenendo che alla base delle sue ritrattazioni vi sarebbero state le minacce ricevute il 28/06/83 dai magistrati bulgari Ormankov e Pertkov (funzionari dei servizi segreti) in visita a Rebibbia, approfittando dell’assenza del giudice Ilario Martella182Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 15/03/2006, p. 262, Agca disse al giudice Priore che tale minaccia consisteva nell’uccisione della Orlandi se non avesse ritrattato le accuse ai bulgari183R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 28/09/2005, p. 6.

In un’altra occasione dirà di essere stato minacciato dai servizi occidentali che lo avevano visitato in prigione, in particolare Francesco Pazienza e Aldrich Ames. Il primo lo ha querelato, il secondo si è appurato che non si trovasse in Italia in quel periodo, «né che si sia mai incontrato con Agca».

I giudici verificarono che non vi fu alcuna minaccia da parte di Servizi italiani e di Pazienza nei confronti di Agca184A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 31/05/2005, p. 11. Tuttavia il giudice Rosario Priore ha rivelato che in molti Paesi d’Europa c’erano Servizi che offrivano denaro ad Agca perché sostenesse la pista bulgara, «lo hanno fatto i tedeschi, lo hanno fatto gli svizzeri»185R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 28/09/2005, p. 12.

Il giudice istruttore Ilario Martella ha ricordato che Agca, tre giorni dopo la condanna, rinunciò formalmente a proporre appello:

«Un fatto incredibile: una persona che è stata condannata all’ergastolo rinuncia all’appello, e non perché ha fatto scadere i termini per la sua presentazione ma per sua espressa decisione. Gli chiesi quale ne era il motivo e mi rispose che era sicuro di essere liberato con una azione di forza o eventualmente con un sequestro di persona. Mi ha raccontato questo molto prima del sequestro della Orlandi. Non si è mai pensato, neanche per un solo momento, che Agca fosse un cretino autolesionista. Se una persona rinuncia all’appello, significa che deve nutrire una fiducia illimitata sul fatto che prima o poi qualcuno lo libererà, o che comunque esiste la possibilità di avviare un negozio con lo Stato per arrivare ad una soluzione»186I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 18.

 

Stupore condiviso anche dal pm Antonio Marini, il quale dopo aver ricordato che Agca era già stato fatto fuggire dal carcere di Kartal Maltepe dopo aver ucciso un noto giornalista turco e mentre stava per fare rivelazioni importanti, ha dichiarato:

«Si pensava che aspettasse che qualcuno lo facesse fuggire, per cui doveva avere un interlocutore, a parte il mandante o i mandanti. Doveva per forza avere un interlocutore, tanto è vero che interpretavamo le sue elucubrazioni, per capire se fossero o meno messaggi. C’è stato il processo relativo ad Emanuela Orlandi. Si era anche detto che il sequestro della giovane poteva in qualche modo avere a che fare con l’attentato al Papa, perché era stata promessa ad Agca la fuga attraverso il rapimento di una persona del Vaticano. Di tutto si è parlato»187A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 14/06/2005, p. 32.

 

Al di là delle vere motivazioni, l’unico dato oggettivo è che Alì Agca decise improvvisamente di rendersi totalmente e per sempre inaffidabile esattamente 6 giorni dopo la sparizione della Orlandi (e il giorno dopo le presunte minacce ricevute dai bulgari).


 

b) Tesi sostenuta da persone autorevoli.

La tesi internazionale è stata sostenuta da diversi inquirenti e magistrati e questo non è un dato da trascurare.

Uno dei sostenitori è l’ex magistrato Ilario Martella, giudice istruttore dell’inchiesta sull’attentato a Giovanni Paolo II, il quale ha affermato:

«Mi sono occupato della scomparsa delle ragazze [Emanuela e Mirella] nella fase iniziale. Ritengo si possa con certezza affermare che ambedue i delitti siano stati ideati da una ben ramificata organizzazione criminale, che più volte ha dato notizia di sé con messaggi e comunicati volti a richiedere in ogni sede (tra cui Vaticano e presidenza della Repubblica italiana) lo scambio della libertà di Emanuela con quella di Agca e talora dei suoi amici Bagci e Celebi […]. Mi giunsero messaggi di intimidazione che minacciavano me e i miei familiari della stessa sorte di Emanuela. Chiusa l’istruttoria, a fine 1984, cessarono […]. Agca aveva dietro di sé una organizzazione potentissima che forse va al di là dell’attentato al Papa. E` una ipotesi che chiama in causa anche la scomparsa di Emanuela Orlandi. Basti pensare che, all’epoca della scomparsa della giovane, i suoi rapitori provocatoriamente lasciavano i messaggi nei posti dove facevo i sopralluoghi. Lo hanno fatto più volte e, purtroppo, gli autori non sono mai stati individuati»188I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 18.

 

Il 20/10/1983, ad esempio, Martella, allora responsabile dell’inchiesta sull’attentato a Giovanni Paolo II, ordinò riscontri sul racconto fattogli da Alì Agca in due punti precisi di Roma, l’ambasciata canadese di via della Conciliazione 30 e un bar vicino in via Traspontina 9. Qualche ora dopo, proprio nelle stesse vie, verranno fatti trovare due messaggi riguardanti il rapimento di Emanuela Orlandi, in cui si chiedeva la liberazione di Agca in cambio della ragazza.

Inoltre, aggiunse Martella, pur non avendo elementi concreti per stabilire un legame, riferì che «Emanuela Orlandi viene rapita proprio nel periodo più caldo della mia istruttoria. Anzi, ricordo che all’epoca mi trovavo in Bulgaria. Per quanto si sia cercato di trovare soluzioni diverse da queste, devo dire che non sono state trovate»189I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 19.

 

Anche il secondo legale degli Orlandi, Massimo Krogh, ha affermato: «Noi come difesa abbiamo sempre pensato che fosse stata rapita per uno scambio con Agca».

 

A sostegno della pista internazionale, come già detto, è stato Ferdinando Imposimato, giudice istruttore del caso dell’attentato al Papa, istruttore del processo alla Banda della Magliana e poi legale della famiglia Orlandi.

Imposimato scrisse che il rapimento di Emanuela Orlandi (e di Mirella Gregori) fu l’epilogo di un vasto complotto tra servizi segreti di vari Paesi, definito “Operation Papstâ” dalla Stasi ed elaborato prima del 13 maggio 1981, giorno dell’attentato a Giovanni Paolo II. Fallito l’attentato seguì il modus operandi della lotta politica del Kgb e dei bulgari: sequestrare cittadini vaticani in età adolescenziale facendo passare il messaggio che «quegli ostaggi erano vittime innocenti della sua politica temeraria verso i paesi socialisti».

Per Imposimato, lo scopo del sequestro della Orlandi fu duplice: colpire il Papa e conquistare la fiducia di Ali Agca, inducendolo a rovinare il processo contro i bulgari ed i lupi grigi in cambio della sua liberazione. Sarebbe avvenuto grazie ad agenti infiltrati, come il monaco benedettino Eugen Brammertz (agente della Stasi), il capitano delle guardie svizzere Alois Estermann (presunto agente della Stasi e uno dei tre morti in un misterioso omicidio avvenuto in Vaticano il 4/5/1998), due agenti del Kgb infiltrati nell’entourage del cardinale Agostino Casaroli (il nipote Marco Torretta e la moglie Irene Trollerova, di origine ceca, entrambi denunziati dai servizi cechi dopo la caduta del muro di Berlino), e due giornalisti dell’Osservatore Romano appartenenti anch’essi alla Stasi190F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 12.

Il giudice Imposimato aggiunse che anche Markus Wolf, capo della Stasi, sostenne che il monaco Brammertz e la guardia svizzera Estermann fossero al servizio di Berlino Est, ma nel 2005 Wolf negò l’arruolamento di Estermann191P. Brogi, Basta illazioni su Estermann, non era una spia della Stasi, Corriere della Sera, 09/05/1998.

Infine, Imposimato si convinse di poter «trarre conclusioni incontestabili sulla matrice delle due scomparse, che furono manifestazioni del terrorismo di Stato. In esse una funzione centrale venne svolta da agenti segreti della Bulgaria, della STASI e del KGB con l’appoggio di terroristi mediorientali, il tutto con una formidabile azione di disinformazione diretta a seminare tracce di reato su Servizi segreti e gruppi eversivi ricollegabili ai nazifascisti»192F. Imposimato, Vaticano, un affare di Stato, Koiné 2022, p. 14.

Seppur la ricostruzione di Imposimato appaia verosimile e offra un racconto organico e piuttosto esplicativo, manca totalmente di dimostrazioni oggettive e corroborazioni. Inoltre, soffre di diversi punti deboli che analizziamo più in basso. Ricordiamo che l’attendibilità dell’ex giudice Imposimato è apparsa inficiata quando ha sostenuto che Emanuela si sarebbe convertita all’islam e integrata in una comunità musulmana193citato in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 24.

 

Anche il Vaticano e Giovanni Paolo II ricondussero sempre la vicenda ad un “complotto internazionale”.

Papa Wojtyla, dopo un silenzio di 25 anni, prima di morire si confidò con Vittorio Messori dicendo che gli autori dell’attentato nei suoi confronti e del sequestro delle due ragazze erano i sovietici e il KGB194citato in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 19 195citato in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 9. Il magistrato Imposimato ha riferito di aver incontrato più volte il Papa polacco, il quale condivise le sue tesi196F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 20.

Nel 2012 padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, effettuò un’indagine interna al Vaticano concludendo che si ritenne «che il sequestro fosse utilizzato da una oscura organizzazione criminale» che voleva fare pressioni in favore di Alì Agca, e «non si ebbe alcun motivo per pensare ad altri possibili moventi del sequestro».


 

c) Tecnologia utilizzata.

Un altro argomento a favore è l’alta tecnologia che si sospetta utilizzarono i telefonisti per evitare di essere rintracciati dagli inquirenti.

Il padre di Emanuela, Ercole Orlandi, ricordò che l’”Amerikano” gli disse che era inutile tentare di registrare le telefonate perché poteva farle partire da quindici posti diversi.

Effettivamente una cabina della stazione Termini venne messa sotto controllo scoprendo che, mentre le chiamate risultavano in partenza dall’apparecchio pubblico della stazione, dentro la cabina non c’era nessuno. Gli inquirenti conclusero che il telefonista si serviva di un apparecchio per la triangolazione delle telefonate: un piccolo gioiello dell’elettronica capace di far rimbalzare su un’altra utenza la chiamata iniziale proteggendo il numero di partenza.

Ammesso che venisse realmente utilizzato era uno strumento difficilmente alla portata di criminali locali e sembra confermare l’interessamento dei servizi segreti.


 

d) Il contesto temporale.

Non si può ignorare che la sparizione delle due ragazze avvenga esattamente due anni dopo l’attentato a Giovanni Paolo II da parte di Alì Agca, il finanziamento a Solidarnosc (il sindacato cattolico polacco e anticomunista), un anno dopo il fallimento del Banco Ambrosiano (da cui probabilmente partirono alcuni dei finanziamenti vaticani verso Solidarnosc) e l’omicidio-suicidio del suo presidente, Roberto Calvi.

E’ anche innegabile che la sparizione di Emanuela avvenne nel giorno in cui Giovanni Paolo II si trovava a visitare proprio la Polonia.

Schematizziamo quanto avvenne prima della sparizione della cittadina vaticana:

  • 13/05/1981 attentato a Giovanni Paolo II da parte di Alì Agca;
  • 18/06/1982 omicidio-suicidio di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano;
  • 06/08/1982 liquidazione del Banco Ambrosiano;
  • 23/06/1983 sparizione di Emanuela Orlandi;
  • 25/06/1983 Alì Agca smette di collaborare con gli inquirenti e ritira le accuse verso i servizi segreti bulgari;

 

Nel video qui sotto, il giudice Rosario Priore spiegò i motivi della sua convinzione verso questa pista:

 

Il contesto temporale è un forte argomento a favore di molteplici interessi a livello internazionale.


 

e) Interesse reale dei presunti sequestratori all’inchiesta su Agca.

Gli autori dei vari comunicati apparsi dopo la sparizione di Emanuela erano effettivamente interessati alle indagini su Alì Agca.

Lo dimostrerebbe un episodio accaduto il 20 ottobre 1983: il giudice Ilario Martella, responsabile dell’inchiesta sull’attentato a Giovanni Paolo II, ordinò riscontri sul racconto fattogli da Alì Agca in due punti precisi di Roma, l’ambasciata canadese di via della Conciliazione 30 e un bar vicino in via Traspontina 9. Qualche ora dopo, proprio nelle stesse vie, verranno fatti trovare due messaggi riguardanti il rapimento di Emanuela Orlandi, in cui si chiedeva la liberazione di Agca in cambio della ragazza.

«Singolare coincidenza!», disse Martella nel 2011, «me ne accorsi quando mi venne affidata anche l’indagine sulla Orlandi. C’è quell’ispezione, alla presenza di magistrati italiani e bulgari, della polizia e dello stesso Agca e poco dopo, negli stessi luoghi, si trovano volantini sul caso Orlandi…»197Il Corriere della Sera, 14/05/2011.

Un secondo esempio: il 12/06/84 all’ANSA arrivò una lettera da Francoforte con scritto: «Non avete adempiuto alla nostra richiesta di liberare subito Agca, Celebi e gli altri nostri amici. Emanuela Orlandi non è tornata». Pochi giornali ripresero la notizia, nessuno citò la parte finale, dove i misteriosi mittenti minacciarono i familiari del giudice Ilario Martella, al quale spettò la decisione di liberare o meno il bulgaro Serghej Antonov.

La cosa singolare è che la moglie ed i figli del magistrato erano rientrati a Roma proprio in quei giorni, pur vivendo abitualmente all’estero. Chi ha scritto la lettera sapeva anche questo?

Rispetto a questo specifico messaggio di minacce a Martella, il magistrato Ferdinando Imposimato si recò a interrogare Gunther Bohnsack, funzionario della Stasi, il quale ne attribuì la paternità al suo gruppo. «Gunther Bohnsack ha fatto questa dichiarazione alla quale si può credere o no», ha affermato Imposimato, «io ho ritenuto di poterla acquisire»198F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 19.

Sempre relativamente a Bohnsack, prendendo sul serio le sue dichiarazioni pur con tutte le riserve già esposte in precedenza, c’è una lettera datata 26/08/1982 inviata da Jurj Andropov, segretario generale dell’URSS al Ministro dell’interno della Germania Est, Erich Mielke, legata all’operazione “Papst” (“Papa”). Tale operazione, spiegò Bohnsack a Imposimato, sarebbe nata la sera dell’attentato al Papa quando da Mosca arrivò una telefonata alla Stasi in cui si avvertiva che bisognava compiere ogni tipo di azione per contrastare un’eventuale inchiesta che potesse accusare l’Unione Sovietica o dei Paesi dell’Est.

Andropov chiedeva di fare «tutto ciò che è necessario per dimostrare lo zampino della CIA e per distruggere le prove. Tutti i mezzi sono consentiti. Bisogna seminare tracce contro la CIA con disinformazione, aggressione, terrore, sequestri, omicidi»199Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 3.

Il magistrato Imposimato sottolineò comunque che «non ci sono riscontri obiettivi. Ecco perché ho alcuni dubbi in merito»200F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 28.

Questa versione è stata smentita da Markus Wolf, capo della Stasi, quando spiegò che nei loro interessi non rientrava Alì Agca, «in quel momento avevamo altri interessi, la Nato, la Germania Ovest, non il Papa». L’unica attività in Vaticano fu capire gli orientamenti della Curia, «ma più in là non andammo».

Questo effettivo interesse a Ilario Martella e al processo sull’attentato al Papa è ravvisabile anche nel comportamento di Marco Accetti, auto-accusatosi di essere stato il regista dell’allontanamento di Emanuela e Mirella, nonché uno dei telefonisti principali.

Oltre ad aver avvalorato la pista internazionale, sostenendo che l’intento era (anche) indurre Agca a ritrattare le accuse ai bulgari, ha lasciato emergere un pregresso rancore nei confronti dell’ex magistrato Ilario Martella, istruttore del processo sull’attentato di Giovanni Paolo II.

Lo si nota durante un confronto televisivo tra i due201Dopo 30 anni vicini alla svolta, Metropolis 19/06/2013 ed in un post nel suo blog, nei quali accusa con veemenza l’ex magistrato di aver “sequestrato” il bulgaro Antonov (cioè tenuto in carcere), accusato da Ali Agca di aver organizzato l’attentato a Giovanni Paolo II.

Accetti ha anche più volte ricordato che il telefonista l'”Amerikano” (cioè lui stesso, secondo le sue rivelazioni) il 20/07/1983 telefonò al priore della chiesa di Santa Francesca Romana dicendo: «Il governo della Repubblica italiana, con il placito dello Stato Vaticano, intende non venire meno al possesso di uno strumento di propaganda quale il detenuto Alì Agca. Pervenendo alla soppressione del 20 luglio, non perdiamo speranza nella volontà di quanti possono adoperare un gesto ultimo e risolutore».

La scelta di quella chiesa, ha spiegato l’uomo, sarebbe stato un riferimento al nome composto in maniera simile della nipote di Ilario Martella (Francesca Maria), giudice istruttore sull’attentato di Alì Agca.

 

Nel seguente video il confronto tra il giudice Ilario Martella e Marco Accetti (2013):

 

Occorre però ricordare che l’attenzione sul nome della nipote di Martella era contenuta anche in minacce precedenti al caso Orlandi, scritte in tedesco e provenienti dalla Germania. Nelle missive si leggeva il nome della nipote Francesca chiamata con il nome anagrafico completo Francesca Maria.

Nel 2005 Martella spiegò di non poter dire «che siano stati i bulgari a mandarle. Erano minacce anonime. E’ anche possibile che provenissero dai turchi. Arrivavano da Francoforte».

Le ritenne minacce inquietanti, rivelando: «Tra i miei parenti nessuno sa che mia nipote si chiama Francesca Maria», risultava soltanto al Comune202I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, pp. 14, 15, 17.


 

f) Avvertimento del Sdece.

Dopo l’attentato a Giovanni Paolo II (13/05/81), alla segreteria di Stato Vaticano arrivò un’informativa da parte del direttore dei Servizi segreti francesi (Sdece), il marchese Alexander De Marenches, avvertendo del progetto del Kgb di un possibile sequestro di una cittadina vaticana in cambio della liberazione dell’attentatore Alì Agca.


 

g) Il monaco della Stasi all’Osservatore Romano.

Il magistrato Ferdinando Imposimato, a lungo studioso del caso Orlandi e uno dei principali sostenitori della pista internazionale, ha riflettuto sul fatto che di fronte all’edificio degli Orlandi, in Vaticano, era presente lo stabile dell’Osservatore Romano.

Nell’edificio avrebbe lavorato il monaco benedettino Eugen Brammertz e Imposimato avrebbe verificato che «l’unico punto di osservazione per vedere le persone che entravano e uscivano da casa Orlandi era la finestra dell’ufficio di questo monaco», entrato in Vaticano nel 1977 e morto nel 1987.

Il magistrato era convinto che fosse un agente della Stasi, lo avrebbero riferito gli agenti Markus Wolf e Gunther Bohnsack. Inoltre, lo avrebbe appreso anche da alcuni sacerdoti presso la basilica di Sant’Anselmo i quali, dopo la morte di Brammertz avrebbero trovato documenti comprovanti.

«Egli fu probabilmente uno dei basisti dei rapitori», sostenne Imposimato.

Pur non essendoci prove di questo, non abbiamo motivi per dubitare delle parole e delle verifiche effettuate da Ferdinando Imposimato.

Tutto questo è stato confermato all’apertura degli archivi della Stasi, quando si scoprì la presenza di due spie della Germania Ovest in Vaticano con i nomi “IM Lichtblick” e “IM Antonius”. Dietro al primo c’era il benedettino Eugen Brammertz, mentre il secondo era Alfons Waschbusch, corrispondente del Katholische Nachrichten-Agentur (KNA) a Roma.

Nel suo libro sulle spie in Vaticano, anche John Koehler, ex agente segreto dell’esercito americano e consigliere del presidente Ronald Reagan, fece i nomi di Brammertz e Waschbusch, spiegando che il primo forniva notizie sulla “ostpolitik” di Casaroli e sulla la crescente influenza del clero polacco e dell’Opus Dei dopo l’elezione di Wojtyla.

Sempre negli archivi della Stasi furono anche ritrovate 550 pagine di materiali riguardanti il Vaticano, compresi i verbali riservati dei colloqui tra Papa Paolo VI e politici occidentali, ma anche resoconti dettagliati sulle vicende ecclesiali interne durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Una delle spie, si sostiene, sarebbe stato un religioso polacco la cui identità non è stata ancora chiarita.

Il fatto che i servizi segreti riuscirono a monitorare anche lo Stato del Vaticano, come ogni Stato è sempre stato vittima di spionaggio da parte di servizi esteri, non significa automaticamente che questi ambienti c’entrino con la scomparsa di Emanuela Orlandi (e Mirella Gregori??). Tuttavia, gli elementi citati da Imposimato sono effettivamente un punto a favore della pista internazionale.

 

 

3.2 I punti deboli della pista internazionale.

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a) Archiviazione del 1997 e del 2015.

La pista internazionale venne ampiamente indagata nella prima parte della lunga inchiesta sul caso Orlandi.

Il 19/12/1997, tuttavia, il giudice ispettore Adele Rando concluse le indagini e archiviò il caso mettendo per iscritto che quello della Orlandi non sarebbe stato un rapimento ma una messa in scena depistatrice, evidenziando che il movente politico-terroristico risultò essere privo di fondamento.

Nella seconda sentenza di archiviazione (2015), la Procura scrisse:

«Né la documentazione allegata, né quella acquisita dalla Procura (reperita dalla sentenza n.2675 del 21/03/98 relativa al proscioglimento dei presunti complici di Ali Agca nell’attentato al Papa), né la documentazione dei lavori svolti dalla Commissione Parlamentare Mithrokin, apportavano quegli elementi di novità necessari per far luogo alla riapertura delle indagini rispetto alla matrice terroristica del sequestro»203G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015.

 

Si fece anche accenno alle conclusioni a cui si pervenne nel 1997, ovvero che il movente politico-terroristico fu «un’abile operazione di dissimulazione dell’effettivo movente del rapimento di Emanuela Orlandi, destinato probabilmente a rimanere sconosciuto». Si concluse, quindi, anche nel 2015 per «l’inesistenza del fine terroristico»204G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015.


 

b) Il molteplice fallimento degli obbiettivi.

Chi sostiene l’ipotesi della pista internazionale dovrebbe spiegare perché tutti i presunti ricatti e/o depistaggi messi in piedi con tanta astuzia, fallirono su tutta la linea.

E’ vero che Ali Agca, cinque giorni dopo la sparizione di Emanuela e un giorno dopo essere stato minacciato in carcere, ritrattò improvvisamente le accuse verso i bulgari, inficiando la sua attendibilità e rovinando il processo. Ma pochi anni dopo tornò ad accusare i servizi segreti bulgari di complicità. Antonov fu assolto dalle accuse soltanto nel 1986.

Un altro obbiettivo sarebbe stato influire sul comportamento del Vaticano verso i paesi dell’Est, ma Giovanni Paolo II non mutò mai la sua dura politica nei confronti del comunismo, nemmeno dopo la sparizione di Emanuela.

Il terzo obbiettivo di cui qualcuno parla è il tentativo di recuperare i soldi che sarebbero stati prestati da oscuri ambienti (mafia? Licio Gelli?) al Banco Ambrosiano (il cui crack avvenne nel 1981 e fu liquidato il 06/08/1982) anche per il finanziamento di Solidarnosc. Non risulta che qualcuno abbia mai recuperato questi ipotetici denari dopo la sparizione della Orlandi.


 

c) Mancanza di prove certe di Emanuela da parte dei sequestratori.

Se i telefonisti e le varie sigle (“Phoenix”, “Turkesh”, “Nomlac”, “Tukum” ecc.) che rivendicarono il rapimento di Emanuela avessero davvero voluto ottenere il ritiro delle accuse di Agca verso i paesi dell’Est, la sua liberazione e il recupero dei soldi spariti con il crack del Banco Ambrosiano, perché non dimostrarono in maniera certa di aver sequestrato la Orlandi?

Certo, come abbiamo visto si sforzarono di produrre dettagli biografici piuttosto precisi di Emanuela, come diverse fotocopie di tessere e iscrizioni alla scuola di musica e una fotocopia del frontespizio di un album con gli spartiti alla giovane.

Molto più semplicemente sarebbe bastata una fotografia di Emanuela con a fianco un quotidiano che mostrasse la data, il classico metodo utilizzato da tutti i gruppi terroristici per stabilire una prova di vita degli ostaggi e negoziare con le autorità per le loro richieste.

I casi sono tre:
1) I presunti sequestratori (telefonisti e autori dei comunicati) avevano solo carpito in qualche modo oggetti e informazioni dettagliate sulla Orlandi senza aver nulla a che vedere con la sua sparizione;
2) I presunti sequestratori (telefonisti e autori dei comunicati) erano entrati in contatto con chi aveva sequestrato Emanuela Orlandi per motivi estranei al ricatto internazionale (nella sentenza di proscioglimento del 1997 si sospettò infatti che ci potesse essere stato «un contatto con il gruppo che per primo aveva ottenuto e utilizzato le informazioni su Emanuela, per appropriarsene e riciclarle a sua volta»205G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 5);
3) I presunti sequestratori (telefonisti e autori dei comunicati) effettivamente erano tali ma non avevano interesse ad un ricatto pubblico con i loro interlocutori e usarono i media soltanto per lanciare allusioni ricattatorie (messaggi, codici ecc.), mentre la vera trattativa sarebbe avvenuta sotto traccia. D’altra parte Agca ritirò le sue accuse due giorni dopo la sparizione della Orlandi, leggendovi un messaggio nei suoi confronti per motivi inspiegabili all’opinione pubblica ma nonostante ciò la Orlandi non fu rilasciata e pochi anni dopo il turco tornò ad accusare i servizi bulgari.

La non chiarezza di questo aspetto la consideriamo tuttavia un punto di debolezza dell’ipotesi della pista internazionale.


 

d) Non spiega alcuni elementi chiave.

La pista internazionale risulta convincente in molti aspetti, dando una spiegazione verosimile di quanto accadde in quegli anni.

Eppure alcuni elementi chiave del caso Orlandi non vengono affatto chiariti.

Innanzitutto tale ipotesi può spiegare perché il caso Orlandi sia così complesso e intricato, coinvolgendo lo Stato italiano, lo Stato vaticano, servizi segreti italiani ed esteri, gruppi terroristici, mafiosi e malavitosi locali. E’ stato inoltre collegato a diverse altre scomparse/uccisioni misteriose avvenute in quegli anni (Alessia Rosati, Katy Skerl, Jeanette de Rothschild ecc.).

Ma la pista internazionale svelerebbe solo che al caso della sparizione della Orlandi si siano interessati successivamente numerosi ambienti e personaggi, desiderosi di approfittare della situazione per perseguire i loro interessi economici-politici. Non dimostra che Emanuela sia stata rapita proprio da chi operò le presunte trattative ricattatorie..

E che dire della sparizione di Mirella Gregori? La giovane non fu più ritrovata il 7/05/83 e il collegamento con il caso Orlandi avvenne ufficialmente tre mesi dopo tramite il “Komunicato 1” da uno dei principali gruppi di presunti sequestratori, il Fronte Turkesh206P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 75. In che modo tale pista legata all’attentato al Papa e ai soldi del Banco Ambrosiano spiegherebbe la sparizione di una cittadina italiana?

Un altro aspetto inverosimile è come potesse il sequestro di una figlia di un semplice dipendente del Vaticano (Emanuela) e di una semplice cittadina italiana (Mirella) avere la forza di influire sull’atteggiamento del Vaticano verso il comunismo sovietico, condizionare il processo su Alì Agca o addirittura ottenerne la liberazione (era incarcerato in Italia, non in Vaticano) e recuperare i soldi persi nel fallimento del Banco Ambrosiano.

Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che la sparizione di giovani donne poteva venire usata come ricatto per atti di pedofilia verso il mondo ecclesiastico. Eppure, non solo Emanuela non rientrò mai a casa, ma non risulta che vi siano stati religiosi direttamente legati all’allora capo dello Ior, Paul Marcinkus, che vennero macchiati da accuse mediatiche di pedofilia.

Un altro elemento chiave privo di spiegazione è in quale modo il sequestro di alcune adolescenti (come Orlandi e Mirella) avrebbe potuto intenerire il terrorista turco Agca tanto da spingerlo a rovinare completamente la sua reputazione e le accuse ai suoi mandanti? Nel 1997 rivelò di aver distrutto il processo sull’attentato al Papa dopo che ricevette minacce in carcere dagli agenti-magistrati bulgari Petkov e Ormankov, i quali lo intimarono a tacere altrimenti «il cadavere di Emanuela verrà gettato in Piazza San Pietro e poi tu sarai ammazzato»207Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 11.

Perché il killer Alì Agca, già autore dell’omicidio del giornalista Abdi Ipekci e attentatore di Papa Wojtyla, avrebbe dovuto preoccuparsi per il cadavere della Orlandi?

A questo ha risposto Marco Accetti, colui che si è accusato di aver organizzato la sparizione della Orlandi e della Gregori per ottenere proprio la ritrattazione delle accuse di Agca verso i bulgari: «La rappresaglia annunciatagli in carcere dai giudici bulgari in realtà riguardava sua sorella: era Fatma che gli dissero di voler ammazzare e Agca, per tutelarla, nella lettera a Martella parlò non di lei, ma della Orlandi. D’altra parte, minacciarlo attraverso ritorsioni su Emanuela, persona a lui sconosciuta, non aveva senso. Figurarsi al signor Agca, turco e islamico, cosa gliene importava della figlia di un dipendente vaticano»208in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 157.

Un altro elemento inspiegato: se la ritrattazione improvvisa di Agca subito dopo la sparizione della Orlandi è effettivamente un punto a favore, perché il turco tornò presto ad accusare i bulgari per l’attentato al Papa e per averlo minacciato in carcere, comportandosi così in modo opposto al volere degli autori dei comunicati?

Non si capisce inoltre perché l’attentatore turco abbia continuato a farsi passare come pazzo anche a distanza di anni dalla fine del processo, fin dopo la sua scarcerazione. Nel corso del primo dibattimento sull’attentato al Papa la difesa contò 107 versioni diverse e contraddizioni nelle sue dichiarazioni.

Agca ha proseguito fino ai giorni attuali ad affermare che Emanuela sarebbe viva, collocandola in diverse località, accusando la Cia, il Vaticano e altre istituzioni, scrivendo alla famiglia e facendo viaggiare il fratello Pietro per raccontargli fatti rivelatisi bugie. Perché proseguire nel (presunto) depistaggio anche senza interessi personali da ottenere? Oscure ragioni? E’ realmente pazzo? Obbedisce ad una regia nascosta? Ha ancora paura?

Il suo comportamento non è mai sembrato in linea con le ragioni di chi sostiene la “pista internazionale”.


 

e) I primi telefonisti non erano interessati a Alì Agca.

I primi due telefonisti, “Pierluigi” e “Mario”, hanno dimostrato di conoscere particolari inediti su Emanuela a poche ore dalla sua scomparsa. Secondo gli inquirenti ebbero quasi certamente a che fare con la sua sparizione.

La tesi della pista internazionale si scontra però con il fatto che i due anonimi personaggi non erano affatto interessati al processo su Alì Agca o all’attentato del Papa. Vollero invece far passare la vicenda come una semplice scappatella.

La connessione tra Emanuela e la liberazione di Agca verrà fatta per la prima volta nella prima telefonata dell'”Amerikano“, avvenuta il 05/7/1983.

Se erano membri di un unico piano (come è quasi certo che fosse così), come spiegare l’atteggiamento dei primi due telefonisti?

Nessun telefonista o komunicato inoltre si riferì mai, neanche velatamente, alla restituzione di denaro, al Banco Ambrosiano o a Roberto Calvi.

Questo avvalora che la negoziazione avrebbe voluto almeno nelle intenzioni agire sotto traccia? La non chiarezza su questo aspetto lo riteniamo un punto debole della pista internazionale.


 

f) I comunicati ottennero un effetto controproducente.

I “Komunicati” delle varie sigle di presunti sequestratori che comparvero dopo la sparizione di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori ebbero in comune il voler passare per amici e solidali di Alì Agca, tentando di portare l’attenzione sugli idealisti turchi e sui Lupi Grigi.

Un’operazione plateale fin dai nomi che si diedero: “Nuova organizzazione musulmana per la lotta anticristiana” e “Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh”, un evidente richiamo al colonnello nazionalista turco Arsaplan Turkesh, l’ideologo dei “Lupi Grigi” e di Alì Agca.

Un’idea assolutamente (o volutamente?) controproducente, realmente pensavano di poter essere creduti?

A parte il primo periodo, inoltre, gli autori dei comunicati apparvero in contrasto con il comportamento dello stesso Agca il quale, come è stato rilevato, produsse infinite dichiarazioni deliranti «con l’effetto chiaro di inficiare le acquisizioni sul “livello” turco delle indagini».

Il “Fronte Turkesh” voleva portare l’attenzione sui turchi e Alì Agca voleva toglierla. Un mese dopo la sparizione della Orlandi il turco, affermò: «Non accetterò nessuno scambio con la ragazza». Disse di non capire l’interesse di queste persone con lui e aggiunse: «Rifiuto ogni scambio con qualcuno, sto bene nelle carceri italiane»209citato in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 91.

Il “Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh” voleva risultare appositamente controproducente? Ma anche questo tentativo appare ovvio, banale e quindi controproducente allo stesso modo. Se non fosse stato per i dettagli biografici e le fotocopie dei documenti che fornirono riguardanti Emanuela e le telefonate ad amiche e compagne per dettare i loro messaggi, nessuno semplicemente li avrebbe mai presi sul serio.

Non si può escludere che l’interesse fosse solo depistare gli inquirenti e la stampa, usandoli per tenere il caso sotto i riflettori e inviando a presunti interlocutori messaggi o codici da interpretare e decifrare. Le minacce del gruppo Phoenix ad altre sigle e ai primi telefonisti sembra dimostrare l’inserimento nel caso di gruppi con obbiettivi opposti o l’azione dei servizi segreti italiani.

Ancora una volta, riteniamo che la non chiarezza su questo aspetto indebolisca la tesi della pista internazionale.

 

 

3.3 Conclusioni sulla pista internazionale.

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L’ipotesi della pista internazionale, sostenuta da autorevoli personalità, effettivamente contestualizza tramite una descrizione piuttosto organica la vicenda Orlandi nello scenario internazionale che in quegli anni vedeva gli Stati dell’est e i loro servizi segreti molto sensibili alle posizioni politiche del Vaticano, così come offre una chiave di lettura all’improvvisa ritrattazione dell’attentatore turco, Ali Agca, pochi giorni dopo la sparizione di Emanuela Orlandi.

E’ impensabile che fossero così ingenui da ritenere di poter essere creduti senza offrire una prova certa della detenzione della ragazza, allo stesso modo è difficile credere che puntassero realmente alla liberazione di Agca tramite comunicati farneticanti e, come abbiamo visto, controproducenti.

Se davvero furono personaggi talmente abili da tenere sotto scacco per anni la stampa e gli inquirenti, sicuramente sapevano che il Vaticano nulla può su una condanna della magistratura italiana, il cui Stato non avrebbe mai rilasciato l’attentatore del Papa in cambio di una adolescente (con tutto il rispetto per la sacralità della sua vita) che, oltretutto, non avevano mai dimostrato di aver rapito.

Lo stesso giudice Ilario Martella, alla domanda di esplicitare concretamente un collegamento fra il sequestro Orlandi e il tentativo di utilizzarlo come
merce di scambio per Agca, rispose: «Non posso dire che esistono elementi concreti, ma solo ipotesi plausibili»210I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 19.

E’ più sostenibile che volessero più semplicemente indurre Agca a ritrattare le accuse ai bulgari? Ciò di fatto avvenne temporaneamente solo pochi giorni dopo la scomparsa di Emanuela (ma non di Mirella).

Dalle sue dichiarazioni, gli avrebbero detto in turco (il bulgaro Petkov parlava perfettamente turco211I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 10): «Il KGB ti comunica che ci saranno altri tentativi per la tua liberazione come il caso Orlandi; devi tacere, altrimenti il cadavere di Emanuela verrà gettato in Piazza San Pietro e poi tu sarai ammazzato»212Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 11.

Al di là dell’attendibilità di Agca, suona strano che si fidarono così tanto dell'”umanità” di un terrorista. Solo un mese dopo, Agca dimostrò di non capire cosa volessero da lui i “sequestratori”.

A tal proposito, occorre precisare la perplessità del giudice Ilario Martella, presente in quei giorni assieme ai due giudici bulgari, di aver saputo di queste minacce soltanto 13 anni dopo (nel 1997): «Può darsi che la minaccia sia stata fatta nei momenti in cui Ormankov ed io andavamo a prendere un caffè, ma non potevo minimamente pensare che un magistrato minacciasse l’imputato. Ove l’avesse fatto, perché Agca non me ne ha parlato allora?»213I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 10.

Inoltre, cosa c’entrava in tutto questo il sequestro di Mirella Gregori, rivendicato dal “Fronte Turkesh”? Forse per indurre il presidente Pertini alla grazia presidenziale? E perché i primi telefonisti non furono interessati né ad Agca, né alla cittadina italiana?

Alla luce di questa analisi riteniamo che i punti di debolezza ridimensionino la credibilità della pista internazionale.

Non a caso gli inquirenti nel 1997, dopo oltre dieci anni di studio di questa ipotesi, hanno concluso sostenendo che non si trattò di rapimento ma soltanto di un depistaggio il quale, semmai, potrebbe avvalorare l’interesse di Stati esteri e servizi segreti internazionali ad Alì Agca e alle sue deposizioni, non certo dimostrare che i rapitori della Orlandi fossero gli stessi autori dei comunicati. Nell’archiviazione del 2015 si parlò chiaramente di «inesistenza del fine terroristico».

 
 

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4. EMANUELA ORLANDI E LA BANDA DELLA MAGLIANA.

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Secondo i sostenitori di questa pista investigativa, la Banda della Magliana, guidata da Enrico De Pedis (detto Renatino), avrebbe rapito Emanuela Orlandi nel tentativo di ricattare il Vaticano per ottenere la restituzione dei soldi che, assieme alla mafia siciliana facente capo Pippo Calò, avrebbe investito (e poi perso con il fallimento) nel Banco Ambrosiano214G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 11.

Una seconda versione ritiene questa pista collegata alla “pista internazionale”, sostenendo che esponenti della Magliana avrebbero avuto soltanto un ruolo di “manovalanza”. Il giudice Rosario Priore ha spiegato che «in Italia abbiamo individuato tante agenzie di servizi, a partire dalla banda della Magliana. Eessi fanno servizi per chiunque glieli chieda»215R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 12.

La pista della Banda della Magliana si è aperta ufficialmente l’11/07/2005 con una telefonata anonima alla trasmissione Chi l’ha visto?:

«Riguardo al fatto di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso, andate a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant’Apollinare, e del favore che Renatino fece al cardinal Poletti, all’epoca, e chiedete al barista di via Montebello, che pure la figlia stava con lei..l’altra Emanuela….e i genitori di Emanuela sanno tutto. Però siccome siete omertosi, non direte un cazzo come al solito!».

 

L’anonimo telefonista con “l’altra Emanuela” si riferì chiaramente Mirella Gregori. Alla telefonata facevano seguito un fax e alcune lettere anonime pervenute alla trasmissione televisita e presso l’abitazione degli Orlandi216G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 11.

Nonostante la telefonata del 2005 a Chi l’ha visto?, gli inquirenti erano già a conoscenza della salma di De Pedis nei sotterranei della Basilica di Sant’Apollinare. Il 12/12/1995, dieci anni prima, infatti, interrogarono in merito mons. Pietro Vergari, allora rettore della Basilica, il quale confermò la sua amicizia con De Pedis da prima del 1993, quando era cappellano del carcere di Regina Coeli.

Il prelato attestò quanto già contenuto nei documenti di sepoltura, ovvero che De Pedis fu molto generoso con i poveri della parrocchia (più sotto un approfondimento). La moglie dell’uomo, Carla Di Giovanni, chiese la tumulazione nei sotterranei dopo aver finanziato i lavori di risanamento della cripta. Ascoltata in Procura il 9/06/1995, la donna spiegò di aver sostenuto le spese assieme a Marco De Pedis, il fratello di Enrico, per un totale di 37 milioni di lire.

Gli inquirenti accertarono le dichiarazioni, osservando dai documenti del Comune di Roma che la sepoltura avvenne il 24/04/1990 e rilevando il nulla osta alla sepoltura rilasciato dal Vicario di Roma, Ugo Poletti, datato 10/03/1990.

Nonostante la spropositata campagna mediatica sul caso da parte di Chi l’ha visto, altrettanto veementemente osteggiata da Pino Nicotri e dalla vedova di De Pedis, la vicenda della sepoltura di De Pedis si chiuse alla fine del 2012 con l’infruttuosa perquisizione della tomba e dell’intera basilica di Santa Apollinare, nonché il proscioglimento di mons. Vergari.

La Santa Sede in merito manifestò più volte la completa disponibilità all’ispezione della Basilica di Sant’Apollinare, nel 2012 padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, confermò: «Si ribadisce che da parte ecclesiastica non si frappone nessun ostacolo a che la tomba sia ispezionata e che la salma sia tumulata altrove, perché si ristabilisca la giusta serenità, rispondente alla natura di un ambiente sacro».

Prima di soppesare le argomentazioni favorevoli e contrarie alla pista della Banda della Magliana, riteniamo utile analizzare l’effettivo coinvolgimento di alcuni personaggi che sono stati collegati alla vicenda:

 

4.1 Sabrina Minardi.

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Sabrina Minardi entrò nel caso Orlandi il 15 marzo 2008, anno in cui si presentò in Procura con la sua testimonianza.

Il 4 giugno 2008 la donna disse agli inquirenti di essere stata l’amante di De Pedis dal 1982 al 1984 il quale, in una sera imprecisata e con l’aiuto di Sergio Virtù, le avrebbe messo in macchina una ragazza, da lei riconosciuta essere Emanuela Orlandi, che consegnò ad un uomo vestito da prete a bordo di un’auto targata Città del Vaticano, alla fine di via delle Mura Aurelie.

Il pubblico ministero la ritenne una lunga e confusa deposizione, rilevando inoltre che la donna in quel periodo era in cura poiché tossicodipendente217G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 12.

In successive interrogazioni (28/10/2008, 18/11/2009, 18/03/2010 e 27/05/2010) raccontò che prima di tale episodio, Emanuela sarebbe stata sequestrata da tre uomini della Magliana (ricordando solo Angelo Cassani), portata all’EUR e consegnata a De Pedis. In un’altra occasione racconterà che venne invece consegnata a Renatino da due donne.

La Orlandi sarebbe stata quindi segregata, prima in una casa appartenente alla stessa Minardi a Torvajanica, poi al n° 13 di via Antonio Pignatelli in un appartamento di Daniela Mobili e con la complicità di Danilo Abbrucciati. La carceriera sarebbe stata la badante.

Nel 1993, disse ancora la Minardi, avrebbe visto De Pedis e Sergio Virtù buttare due sacchi dentro una betoniera in un cantiere, capendo che in uno ci sarebbe stata la Orlandi. Glielo avrebbe poi riferito anche De Pedis, aggiungendo che nell’altro sacco ci sarebbe stato il piccolo Domenico Nicitra. La mattina dopo De Pedis avrebbe negato la presenza della Orlandi nel sacco.

Il 5/11/2008 la Minardi ha invece sostenuto che la ragazza sarebbe stata portata in un paese arabo, mentre nell’ultima audizione del 18/03/2010 ha sostenuto che il corpo sarebbe stato gettato in mare da De Pedis e Virtù.

Al di là delle continue contraddizioni, la Minardi sicuramente dice il falso riguardo il piccolo Nicitra, figlio di un ex boss della Magliana, il quale morì il 21/06/1993, dieci anni dopo il rapimento Orlandi e tre anni dopo la morte di De Pedis. Oltretutto, la donna non è mai riuscita ad indicare il luogo esatto del cantiere.

Quasi nulla delle dichiarazioni della Minardi trovò infatti conferma.

Rispetto all’appartamento-prigione di Emanuela di via Pignatelli, Abbrucciati morì prima della sparizione di Emanuela, mentre la Mobili rispose agli inquirenti che dal 1982 al 1984 si trovava in carcere e non aveva una domestica fissa.

Il 18/01/2010 in un’informativa della polizia, si segnalò che la Minardi stava cercando di ottenere a tutti costi un guadagno dalle sue dichiarazioni mediatiche sia per l’ottenimento di una casa dal Comune di Roma che per pubblicità al suo libro sul caso Orlandi218G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 37.

Nel 2015 la Procura concluse ritenendo la Minardi «un testimone difficile a causa della sua tossicodipendenza e delle pessime condizioni di salute, fisiche e mentali. Le sue dichiarazioni appaiono e sono del tutto inverosimili, oltre che contraddittorie nelle versioni succedutesi nel tempo». Così, «le incongruenze evidenziate sono talmente numerose e macroscopiche da compromettere in toto la credibilità della dichiarante, senza che sia ravvisabile una plausibile spiegazione delle molteplici incoerenze e dei vari contrasti con dati certi»219G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 32, 37.

Inoltre, gli inquirenti rilevarono da un’informativa del 2010 che la Minardi cercava in tutti i modi un guadagno dalle sue dichiarazioni, in particolare pubblicità per il suo libro220G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 20.

C’è un piccolo dettaglio che merita tuttavia attenzione, non tenuto in considerazione nell’istruttoria di archiviazione del 2015.

Il 17/10/1983 in un comunicato legato al caso Orlandi e firmato “Dragan”, si invitò ad indagare su un giocatore della Lazio, Arcadio Spinozzi (si certificò in seguito la sua estraneità). Al termine del messaggio venne disegnato il nome “Sergio”, seguito dalla parola “morte”.

Sabrina Minardi è stata la ex moglie proprio di un giocatore della Lazio, Bruno Giordano ed è lei ad aver accusato Sergio Virtù di aver ucciso, assieme a De Pedis, Emanuela Orlandi. Solo una coincidenza?

La credibilità di Sabrina Minardi è stata avvalorata in parte da Marco Accetti, reo-confesso di aver architettato il finto sequestro di Mirella e Emanuela. Quest’ultima sarebbe stata ospitata in due appartamenti della Magliana nel quartiere Monteverde e nella cittadina di Torvajanica, due luoghi citati anche nella telefonata di “Mario” pochi giorni dopo la scomparsa della Orlandi. «Non si può immaginare che la Minardi possa aver avuto accesso a tali verbali secretati», ha sostenuto Accetti nel 2013, ritenendo la telefonata di “Mario” ancora in parte secretata221M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.

L’uomo ha quindi concluso: «Né si può ritenere che tra tanti quartieri di Roma e tante località marittime possa essersi verificata una mera, fortuita coincidenza nell’essere citati da entrambi i personaggi, “Mario” e la Minardi»222M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.

 

4.2 Marco Sarnataro, Carlo Alberto e Giuseppe De Tomasi.

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Tra il 2008 e il 2009 Salvatore Sarnataro, padre di Marco Sarnataro (deceduto nel 2007), dichiarò che il figlio gli avrebbe rivelato di aver prima pedinato Emanuela Orlandi per le vie di Roma assieme a «uno fra “Gigetto” e “Ciletto”, oppure anche tutti e tre», e poi l’avrebbero sequestrata su ordine di De Pedis. Dopo averla fatta salire su una BMW berlina in una fermata dell’autobus di piazza Risorgimento, senza alcuna resistenza da parte della ragazza, l’avrebbero condotta al laghetto dell’Eur e consegnata a “Sergio” (Sergio Virtù?), autista di De Pedis. Non sarebbe stato a conoscenza della sua morte223G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 20.

La Procura espresse dubbi dovuti alla pessima condizione di salute di Salvatore Sarnataro e al fatto che rilasciò informazioni di seconda mano (ricevute dal figlio), contenenti alcune contraddizioni. Tuttavia, scrissero gli inquirenti, «non si ravvisano motivi per i quali costui avrebbe dovuto attribuire al figlio una così grave condotta»224G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 38 e lo ritenne «certamente attendibile»225G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 41 nell’aver ricevuto queste confidenze dal figlio.

Le contraddizioni di Salvatore Sarnataro riguardarono in particolare la confusa collocazione temporale di quando apprese queste informazioni dal figlio. Non c’è mai stato riscontro sufficiente alle sue dichiarazioni226G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 38, 41.

Va ricordato, pur sempre considerando il notevole lasso di tempo, che Marco Sarnataro sarebbe stato riconosciuto con alta probabilità da due amici di Emanuela, Angelo Rotatori e Paola Giordani, come uno dei giovani che avrebbero pedinato loro e la Orlandi nei giorni antecedenti al sequestro. Altri amici della ragazza avrebbero individuato soltanto Sergio Virtù (Gabriella Giordani) o nessuna delle fotografie mostrate.

Gli inquirenti hanno rilevato tuttavia contraddizioni anche nei racconti dei vari amici di Emanuela, creando dei «limiti di attendibilità derivanti innanzitutto dal considerevole lasso di tempo tra il momento dell’osservazione e quello che in cui l’indagine è stata effettuata (oltre 20 anni)». Senza contare, oltretutto, il possibile condizionamento sui ricordi a causa dell’elevata esposizione mediatica del caso.

 

Qui sotto il confronto tra l’identikit fatto da Angelo Rotatori e Marco Sarnataro:

 

Le contraddizioni degli amici di Emanuela rispetto al riconoscimento degli uomini che li avrebbero pedinati nei giorni precedenti la scomparsa della ragazza sono state dettagliatamente sottolineate dal giornalista Tommaso Nelli.

 

Per quanto riguarda Carlo Alberto De Tomasi e il figlio Giuseppe, abbiamo accennato alla telefonata anonima del 2005 a Chi l’ha visto? che aprì le indagini sui legami tra la Banda della Magliana e il caso Orlandi.

Nel luglio 2008 e nel dicembre 2008 due analisi disposte dalla Procura ravvisarono una similitudine con la voce di Carlo Alberto De Tomasi e quella del telefonista anonimo che chiamò la trasmissione Chi l’ha visto? nel 2005227G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 27.

Una terza consulenza (dicembre 2008) indicò un’elevata corrispondenza con il telefonista “Mario” per Giuseppe De Tomasi (detto Sergione)228G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 26, 27.

Ascoltati in procura nel 2010, padre e figlio hanno negato di essere gli autori della telefonata229G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 27.

Una sentenza del 1994 stabiliva oltretutto che Giuseppe De Tomasi (detto Sergione) fu arrestato il 21/06/1983, giorno prima della sparizione di Emanuela, per riciclaggio di denaro. Dunque non ha potuto essere il telefonista “Mario”.

 

4.3 Sergio Virtù, Angelo Cassani e Gianfranco Cerboni.

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Sulla scia delle dichiarazione di Sabrina Minardi, la Procura ha intercettato a lungo i telefoni di Sergio Virtù, Angelo Cassani e Gianfranco Cerboni, senza rintracciare elementi di rilevanza. Almeno per quanto riguarda gli ultimi due.

Rispetto a Sergio Virtù, vi fu una intercettazione telefonica del 20/12/2009 tra lui e l’amante Maria Lldiko Kiss, durante la quale la donna gli chiese se la polizia aveva elementi su di lui relativi alla Orlandi. «Orlandi, Orlandi, Orlandi, Orlandi…», rispose l’uomo, «io me le volevo scordà queste cose dopo 23 anni».

Dopo aver sostenuto di volerne parlare di persona e di temere che le indagini possano portare a lui, per questo cambierebbe spesso numero di telefono, aggiunse: «Purtroppo quando ero giovane…stavo in un ambiente un po’ particolare, eravamo tutti scapestrati…però mica me pento di quello che ho fatto, l’ho fatto per i soldi e non me ne frega niente di quello che ho fatto…me interessa andamme a prendere dei permessi lontano, magari ce potrei avè dei problemi che me se ripercuotono contro…»230G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 24.

A questo link è possibile visionare l’intera intercettazione telefonica di Sergio Virtù.

Secondo la Procura, Virtù «è certamente a conoscenza di particolari compromettenti della vicenda»231G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 40, 41, come provato da questa intercettazione e dalla rivelazione di dover cambiare spesso utenze telefoniche perché «ti perseguitano tutta la vita questi».

L’uomo ha negato di aver avuto questa conversazione telefonica mentre la donna ammise di aver affrontato il discorso con lui232G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 24.

Nonostante ciò, gli inquirenti conclusero che «il quadro probatorio rimane insufficiente e troppo incerto per sostenere l’accusa in giudizio nei confronti di Virtù»233G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 41. L’intercettazione accerterebbe al massimo la conoscenza di particolari compromettenti, non certificando però la sua colpevolezza nell’evento.

Mentre le accuse della Minardi sono risultate inattendibili, il riconoscimento fotografico di Sergio Virtù da parte di un’amica di Emanuela (Gabriella Giordani) sugli uomini che li avrebbero pedinati prima della scomparsa ha una «minima attendibilità» secondo gli inquirenti234G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 42 (è stato definito come “vagamente somigliante” dopo un periodo di vent’anni dai fatti, mentre altri amici non hanno identificato lui come uno dei pedinatori).

Nel 2010 un’allieva della scuola di musica di Emanuela, Marta Szepesvari, le sembrò di riconoscere proprio in Sergio Virtù nel giovane che, il giorno prima della scomparsa di Emanuela, fissava l’ingresso della scuola come se attendesse qualcuno235G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 18.

Ricordiamo anche che il nome “Sergio”, come abbiamo già visto, fu disegnato a fiancola parola “morte” nel comunicato firmato “Dragan” del 17/10/83, dove si invitava ad indagare in merito alla Orlandi su un giocatore della Lazio, Arcadio Spinozzi. Sabrina Minardi è stata ex moglie di un giocatore della Lazio, Bruno Giordano e nel 2008 ha accusato Sergio Virtù di aver ucciso, assieme a De Pedis, Emanuela Orlandi.

Infine, nella sua deposizione su quanto gli avrebbe raccontato il figlio Marco, Salvatore Sarnataro indicò il nome “Sergio”, autista di De Pedis, come l’uomo a cui il figlio avrebbe consegnato Emanuela Orlandi dopo il sequestro.

 

Per quanto riguarda Gianfranco Cerboni e Angelo Cassani, chiamati in causa da Sabrina Minardi e Salvatore Sarnataro, la Procura ha più volte certificato i loro stretti legami d’amicizia almeno fino al 1984236G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 24.

Cassani e Cerboni negarono di conoscere Sergio Virtù, non riuscendo nemmeno a riconoscerlo fotograficamente. Tuttavia, in un’intercettazione telefonica dell’11/03/10, parlarono di lui in modo molto amichevole, dimostrando invece di conoscerlo bene: «Pensa a Sergio, poveretto, quello lo hanno bevuto!»237G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 25.

Anche Maurizio Abbatino, collaboratore di giustizia e accusatore della Magliana, ha rilevato nel 2009 alcune confidenze raccolte fra i membri sul coinvolgimento di De Pedis, Angelo Cassani (detto “Ciletto”), Libero Angelico (detto “Rufetto”) e Gianfranco Cerboni (detto “Gigetto”) nel sequestro e nell’uccisione della Orlandi.

 

Nel video qui sotto, Angelo Cassani rigetta le accuse:

 

Marco Accetti, reo-confesso di essere stato il regista del sequestro, ha dichiarato di aver coinvolto De Pedis nel caso Orlandi e che alcuni dei suoi uomini di De Pedis, in particolare “Ciletto” (Angelo Cassani) e “Giggetto” (Gianfranco Cerboni), si sarebbero recati nel bar dei Gregori proprio il giorno prima della sparizione di Mirella, quando fu inaugurato il locale.

Il 21/10/1986, su indicazione del cameriere Giuseppe Calì, venne eseguito un identikit del volto di una persona vista dal teste nel bar dei Gregori una settimana prima della scomparsa di Mirella, il quale assomiglia notevolmente al volto di Angelo Cassani.

Come già detto, Angelo Cassani fu riconosciuto con vari gradi di probabilità da due amici di Emanuela (Gaetano Palese e Angelo Rotatori) come uno dei giovani che li pedinarono prima dela scomparsa della giovane238G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 20.

 

Qui sotto il confronto tra l’identikit fatto da Angelo Rotatori e Angelo Cassani:

 

4.4 Antonio Mancini, Maurizio Abbatino e Maurizio Giorgetti.

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Nel 2015, la Procura di Roma ha constatato che tra i componenti della Banda della Magliana interrogati dagli inquirenti, a coinvolgere De Pedis con il caso Orlandi sono stati solo i pentiti Antonio Mancini e Maurizio Abbatino.

Sia Mancini che Abbatino hanno dichiarato di aver appreso del coinvolgimento di De Pedis da altri componenti della Banda, senza fare nomi e fornendo agli inquirenti indicazioni generiche239G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 12.

Antonio Mancini, detto “Accattone”, coinvolse De Pedis sostenendo ai magistrati che in carcere, all’epoca della scomparsa di Emanuela, «si diceva che la ragazza era robba nostra (della banda, ndr), l’aveva presa uno dei nostri».

Maurizio Abbatino, collaboratore di giustizia e accusatore della Magliana, nel 2009 rivelò alcune confidenze raccolte fra i membri sul coinvolgimento di De Pedis, Angelo Cassani, Libero Angelico (detto “Rufetto”) e Gianfranco Cerboni (detto “Gigetto”) nel sequestro e nell’uccisione della Orlandi.

Per entrambi la Procura concluse che le informazioni prodotte erano «notizie de relato, non direttamente riscontrabili e comunque relative alla sola posizione del De Pedis»240G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 42.

 

Maurizio Giorgetti intervenne nel caso Orlandi nel 2010 sostenendo che in epoca precedente alla scomparsa di Emanuela si sarebbe recato in un ristorante in gestione a Giuseppe De Tomasi e avrebbe ascoltato un dialogo tra lo stesso De Tomasi, Ciletto (cioè Angelo Cassani) e Manlio Vitali che parlavano di un prelievo di una ragazzina a scopo ricattatorio per recuperare delle somme di denaro ed esercitare pressioni.

Dopo le verifiche della Procura è stata verificata la totale inaffidabilità di Giorgetti e l’infondatezza delle sue rivelazioni241G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 54.

 

4.5 Don Piero Vergari e la Basilica di Sant’Apollinare.

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Dopo la famosa telefonata anonima del 2015 a Chi l’ha Visto?, la Basilica di Sant’Apollinare e il rettore don Piero Vergari sono stati per molto tempo al centro del collegamento tra la Magliana e la Orlandi.

Nel 2015 gli inquirenti hanno tuttavia concluso che dalla perquisizione della basilica, compresi gli accertamenti tecnici nella cripta in cui era sepolto De Pedis e lo studio delle ossa prelevate dagli ambienti circostanti, non si sono ricavati indizi utili242G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 31, 32, 42. Questo «ha escluso il coinvolgimento di mons. Vergari nella vicenda, ipotizzato in considerazione dell’amicizia con De Pedis»243G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 42.

Nessun teste, d’altra parte, ha mai accusato l’allora rettore e, anche se nelle sue dichiarazioni si rilevarono piccole incongruenze rispetto a quelle riferite da Carla Di Giovanni, moglie di De Pedis, queste non determinarono alcuna significativa valenza agli occhi dei magistrati.

Lo stesso don Piero Vergari ha precisato di aver accolto la richiesta della moglie di De Pedis di seppellirlo nei sotterranei di S. Apollinare, chiesa nella quale aveva celebrato il loro matrimonio. La salma, al contrario di quanto riferito dall’opinione pubblica, venne posta nei sotterranei della basilica dove non sono sepolti né Papi né cardinali, in un corridoio abbandonato da oltre un secolo e non situato in terra consacrata.

Nel 2005 don Piero Vergari scrisse questo testo in merito ai fatti:

«Nel carcere mai ho domandato a nessuno perché De Pedis era là o che cosa aveva fatto. Tra le centinaia di persone incontrate dei più diversi stati sociali, parlavamo di cose religiose o di attualità; Enrico De Pedis veniva come tutti gli altri, e fuori dal carcere, ci siamo visti più volte: normalmente nella chiesa di cui ero rettore, sapendo i miei orari e altre volte fuori, per caso. Mai ho veduto o saputo nulla dei suoi rapporti con gli altri, tranne la conoscenza dei suoi familiari. Aveva il passaporto per poter andare liberamente all’estero. Mi ha aiutato molto per preparare le mense che organizzavo per i poveri. Quando seppi dalla televisione della sua morte in Via del Pellegrino, ne restai meravigliato e dispiacente. Qualche tempo dopo la sua morte i familiari mi chiesero, per ritrovare un po’ di serenità, poiché la stampa aveva parlato del caso e da vivo aveva espresso loro il desiderio di essere un giorno sepolto in una delle antiche camere mortuarie, abbandonate da oltre cento anni, nei sotterranei di S. Apollinare, di realizzare questo suo desiderio. Furono chiesti i dovuti permessi religiosi e civili, fu restaurata una delle camere e vi fu deposto. Anche in questa circostanza doveva essere valido come sempre il solenne principio dei Romani “Parce sepulto”: perdona se c’è da perdonare a chi è morto e sepolto. Restammo d’accordo con i familiari che la visita alla cappella funeraria era riservata ai più stretti congiunti. Questo fu osservato scrupolosamente per tutto il tempo in cui sono rimasto rettore, fino al 1991».

 

Le autorità hanno infine stabilito che la documentazione della sepoltura era completa e trasparente, già nota agli inquirenti anche prima della famosa telefonata del 2015 a Chi l’ha visto?. La moglie di De Pedis si occupò a sue spese di risanamento dei locali della cripta a causa dello stato di abbandono in cui versavano244G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 29.

 

4.6 Enrico De Pedis.

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Coloro che hanno coinvolto Enrico De Pedis nel caso Orlandi sono stati Sabrina Minardi, Maurizio Abbatino, Antonio Mancini e Salvatore Sarnataro.

Mentre la Minardi è stata giudicata inattendibile dagli inquirenti, gli altri tre hanno riportato notizie di seconda mano, non verificabili.

Non essendoci nulla di rilevante nella sua sepoltura nei sotterranei della Basilica Sant’Apollinare e non essendo emerso nulla dalle perquisizioni, non ci sono motivi consistenti per accusarlo di aver avuto un ruolo nella vicenda Orlandi e/o Gregori.

Più volte Pino Nicotri, in solitaria rispetto al “martellamento” mediatico sulla vicenda De Pedis, ha osservato che “Renatino” morì con la fedina penale pulita, dotato di regolare patente, carta di identità valida e passaporto valido per viaggiare all’estero.

L’avvocato della famiglia De Pedis affermò nel 2015: «Sul certificato penale di Renatino vi è solo un episodio di rapina, risalente al 1974, e per cui è stata scontata interamente la pena. Enrico De Pedis non ha mai subito condanne per il reato di associazione a delinquere o per concorso nell’omicidio di alcuno. Inoltre si fa presente che nel processo principale che ha riguardato la cosiddetta Banda della Magliana, la Cassazione ha escluso che questa fosse una organizzazione di tipo mafioso».

I quotidiani dell’epoca confermano che De Pedis «uscì “pulito” dal carcere dopo che le inchieste giudiziarie che avevano portato al suo arresto e a quello di decine di malavitosi della banda della Magliana , erano state mano a mano smantellate dai processi»245L’Unità, 03/02/1990. Tuttavia le cronache di quegli anni lo definiscono uno dei capi storici della Banda della Magliana, in particolare l’ala della malavita di Testaccio che controllava interi quartieri, nonché uno dei principali “riciclatori” di denaro sporco.

Il dato più rilevante è che Enrico De Pedis fu sepolto nella cripta sotterranea della basilica di Sant’Apollinare, in territorio sconsacrato, in modo regolare e trasparente, come confermato dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, dal magistrato Andrea De Gasperis e dal ministro Cancellieri. Fu la famiglia a chiederlo e ottenne il permesso del Vaticano e il via libera dal Comune di Roma.

De Pedis è stato coinvolto nel caso Orlandi anche da Marco Accetti, reo-confesso di essere stato il regista del sequestro. L’uomo ha dichiarato di aver inserito De Pedis nelle operazioni ingannandolo sul fatto che il sequestro di due ragazzine fosse una strada efficace per convincere i vertici dell’istituto Ior a saldare il debito che avevano con la Magliana per i soldi persi nel crack dell’Ambrosiano246citato in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

Il suo coinvolgimento sarebbe avvenuto alla morte di Roberto Calvi, in quanto «venne meno la compattezza di quell’insieme di persone che a lui prestava i soldi. L’interesse del signor De Pedis sarebbe stato quello di recuperare quanto prestato al dottor Calvi, ma a questa si sarebbe opposto monsignor Marcinkus. Questo si fece presente all’imprenditore: che era necessaria la rimozione del Monsignore o la sconfitta della sua linea politica»247in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 83.

La fazione di Accetti gli avrebbe fatto credere che il sequestro di due ragazzine sarebbe stata una strada efficace per convincere i vertici dell’istituto a saldare248in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 83.

Accetti ha infine riferito che alcuni uomini di De Pedis, in particolare “Ciletto” e “Giggetto”, si sarebbero recati nel bar dei Gregori proprio il giorno prima della sparizione di Mirella, quando fu inaugurato il locale.

Il 21/10/1986, su indicazione del cameriere Giuseppe Calì, venne eseguito un identikit del volto di una persona vista dal teste nel bar dei Gregori una settimana prima della scomparsa di Mirella, il quale assomiglia notevolmente al volto di Angelo Cassani, detto appunto “Ciletto”.

 

 

4.7 I punti forti della pista della Magliana.

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a) Movente e contesto temporale.

La tesi della Magliana vanta un movente abbastanza verosimile e un’opportuna collocazione temporale.

Una cittadina vaticana sparisce esattamente un anno dopo il fallimento del Banco Ambrosiano, rapita dalla Banda della Magliana nel tentativo di ricattare il Vaticano ed ottenere la restituzione dei soldi che, assieme alla mafia siciliana facente capo Pippo Calò, avrebbe perso.


 

b) L’intercettazione a Sergio Virtù.

Al contrario della pista sessuale e internazionale, quella relativa alla Magliana ha una importante prova oggettiva riguardante Sergio Virtù.

Ci riferiamo all’intercettazione telefonica tra Sergio Virtù, faccendiere e autista di Enrico De Pedis, e l’amante Maria Lldiko Kiss. Come abbiamo già visto, l’uomo fa capire alla donna che il caso Orlandi appartiene al suo passato giovanile quando stava «in un ambiente un po’ particolare», pieno di «scapestrati», ma non se ne pente perché lo ha fatto per soldi.

Gli inquirenti che nel 2015 scelsero comunque di archiviare il caso per insufficienza del quadro probatorio, scrissero che Virtù «è certamente a conoscenza di particolari compromettenti della vicenda».


 

c) Identikit e riconoscimento facciale.

A distanza di vent’anni dai fatti, diversi amici di Emanuela ricordarono diversi episodi di perdimento nei loro confronti prima della scomparsa.

Nel video qui sotto il racconto di Angelo Rotatori di uno dei pedinamenti subiti assieme a Emanuela:

 

In questa foto, invece, i due identikit prodotti dagli amici di Emanuela sui pedinatori

 

Lo stesso Angelo Rotatori, oltre ad un’amica di Emanuela, Paola Giordani, riconobbero Marco Sarnataro con “altissima probabilità” (Rotatori) e “molto somigliante” come uno dei giovani che li avrebbe pedinati nei giorni antecedenti alla sparizione di Emanuela, mentre erano in compagnia della ragazza249G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 19).

Angelo Rotatori riconobbe anche, con “alta probabilità”, Angelo Cassani250G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 19, mentre non riconosceva la foto di Sergio Virtù251G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 39.

Ecco il confronto fotografico tra l’identikit di Rotatori e le foto di Cassani e Sarnataro:

 

Gabriella Giordani individuò invece Sergio Virtù, mentre gli altri non riuscirono a ricordare252G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 19.

Un altro amico, Gaetano Palese, seppur “vagamente” riconobbe fotograficamente Angelo Cassani253G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 20.

Nel 2010, un’allieva della scuola di musica, Marta Szepesvari, riconobbe in Sergio Virtù l’uomo che il giorno prima della scomparsa di Emanuela nel 1983, fissava la scuola come se aspettasse qualcuno254G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 12.

Va sottolineato che il riconoscimento avvenne dopo un «notevolissimo lasso di tempo trascorso»255G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 39 dai fatti e dopo il notevole «inquinamento della genuinità delle ricostruzioni causato dall’enorme rilievo mediatico che ha suscitato il caso»256G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 39. Inoltre, soltanto alcuni degli amici riuscirono a riconoscere dei volti.

Per questo gli inquirenti hanno sottolineato i «limiti di attendibilità» di questi riconoscimenti257G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 40.

Gli amici di Emanuela (Rotatori, Giordani Paola e Gabriella, Cristina Orlandi) ricordarono anche un episodio in cui un’auto con a bordo due giovani si accostò al loro gruppo e toccando il braccio di Emanuela, l’autista disse: “Eccola”258G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 19.

Più rilevante è la forte somiglianza tra l’identikit di un uomo che venne visto nel bar dei Gregori il giorno prima della scomparsa di Mirella e Angelo Cassani, detto “Ciletto”. L’uomo, esponente della Banda della Magliana, è stato coinvolto nel caso Orlandi-Gregori da Sabrina Minardi, il pentito Maurizio Abbatino e Marco Accetti. Quest’ultimo ha collocato Cassani, assieme a “Giggetto”, proprio nel bar dei Gregori.

 

Qui sotto il confronto tra il volto di Angelo Cassani e l’identikit dell’uomo visto nel bar dei Gregori:

 

Infine, occorre sottolineare che i vari riconoscimenti fotografici degli amici di Emanuela verso alcuni uomini di De Pedis (in particolare Angelo Cassani, Marco Sarnataro e Sergio Virtù) coincidono perfettamente e in maniera indipendente con la testimonianza di Salvatore Sarnataro, padre di Marco, sul ruolo che quest’ultimo avrebbe avuto nel caso Orlandi (pedinamento + sequestro).

Marco Accetti, reo-confesso di essere stato il regista del sequestro, ha dichiarato di aver coinvolto De Pedis e alcuni suoi uomini nel caso Orlandi, in particolare “Ciletto” e “Giggetto” si sarebbero recati nel bar dei Gregori il giorno prima della sparizione di Mirella, quando fu inaugurato il locale.

Il 21/10/1986, su indicazione del cameriere Giuseppe Calì, fu eseguito un identikit del volto di un uomo visto dal teste nel bar dei Gregori una settimana prima della scomparsa di Mirella, il quale assomiglia notevolmente a Angelo Cassani, detto appunto “Ciletto”.


 

d) Comunicato sul giocatore della Lazio.

Come abbiamo spiegato in precedenza, nell’istruttoria di archiviazione del 2015 non si tenne conto del comunicato firmato “Dragan” arrivato del 17/10/83 che invitava ad indagare, in merito alla Orlandi, su un giocatore della Lazio, Arcadio Spinozzi (si certificò in seguito la sua estraneità). Al termine venne disegnato il nome “Sergio” seguito dalla parola “morte”.

E’ l’unico dettaglio a favore del racconto totalmente contraddittorio fornito da Sabrina Minardi la quale, effettivamente, fu l’ex moglie proprio di un giocatore laziale, Bruno Giordano. Fu lei nel 2008 ad accusare per prima Sergio Virtù di aver ucciso, assieme a De Pedis, Emanuela Orlandi.

Una mera coincidenza? E’ probabile, tuttavia riteniamo di valutarlo come un aspetto che arreca credibilità alla pista della Banda della Magliana.


 

e) Il ristorante di “Pierluigi” e Campo De Fiori.

Due dettagli piuttosto rilevanti sono legati ai primi due telefonisti che chiamarono casa Orlandi a poche ore dalla sparizione.

Il primo, “Pierluigi”, nella seconda telefonata disse di telefonare da un ristorante sul mare, con tanto di sottofondo di piatti. Il 19/09/83 in una lettera firmata dal “Gruppo Phoenix”, comparvero minacce proprio a “Pierluigi” avvertendolo: «E’ assai pericoloso stare in quella trattoria con le spalle verso la porta perché ci sono troppe “correnti d’aria”: un nostro vecchio “amico” ha fatto una brutta fine davanti ad un piatto di spaghetti».

Nel 2006, Antonio Mancini, uno dei boss della banda della Magliana e collaboratore di giustizia, affermò di aver riconosciuto nella voce di “Mario” uno dei killer della Magliana, col soprannome di Rufetto, ovvero Libero Angelico. Per Mancini costui era «alle dipendenze unicamente di De Pedis, era il suo sicario personale e già all’epoca possedeva un ristorante a Trastevere»259citato in O. Lupacchini, M. Parisi, Dodici donne un solo assassino?, Koiné 2006, pp. 48, 49. Il confronto della voce tra Mario e Libero Angelico, realizzato dalla polizia, diede però esito negativo.

Perché “Pierluigi” specificò di parlare da un ristorante? Marco Accetti nel suo Memoriale confermò il collegamento fatto da Antonio Mancini e scrisse: «Costui dice di chiamare da un ristorante (il noto ristorante di Torvaianica frequentato da vari protagonisti di questi fatti). Fui io personalmente a registrare il rumore di sottofondo al ristorante “Pippo l’Abruzzese” di Tor Vaianica […]. Nel caso la telefonata potesse essere registrata e sottoposta al giudizio di un esperto, le caratteristiche specifiche di alcuni rumori potevano far risalire proprio a quell’ambiente».

Un secondo dettaglio è contenuto anch’esso nelle parole del primo telefonista quando disse di aver visto Emanuela vendere collane in Campo de Fiori.

Tale piazza è nota sui quotidiani locali per essere stata il luogo degli usurai (detti “cravattari”), il cui commercio era alimentato dai denari provenienti da organizzazioni mafiose e sodalizi terroristici. In una stradina adiacente alla piazza aveva un negozio di elettrodomestici Domenico Balducci, dove intratteneva rapporti con la mafia siciliana, Tommaso Buscetta, Flavio Carboni (coinvolto nella morte di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano) e “Pippo” Calò.

A questo dettaglio ha fatto riferimento ancora una volta Marco Accetti, sottolineando che «”Pierluigi” parla anche della piazza Campo de Fiori, luogo in cui aveva il negozio Edoardo Balducci, esponente della Magliana, nel quale praticava l’usura per conto di Pippo Calò, noto durante la latitanza come Mario Aglialoro, lo stesso nome usato dal secondo telefonista, “Mario”».

 

 

4.8 I punti deboli della pista della Magliana.

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a) L’archiviazione del 2015.

Il principale punto debole dell’ipotesi che coinvolge la Banda della Magliana nel caso Orlandi è la decisione della Procura nel 2015 di archiviare il caso, non rilevando un quadro probatorio sufficiente a carico degli esponenti della malavita romana. Addirittura, si legge che «la pista principale della Banda della Magliana non ha rilevato alcun coinvolgimento degli appartenenti a tale organizzazione criminale con la scomparsa della ragazza»260G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 62

Più dettagliatamente, negli atti conclusivi si legge:

«In definitiva, alla stregua degli imponenti accertamenti investigativi attuati con straordinaria capillarità, gli elementi emersi in favore dell’ipotesi di un coinvolgimento della Banda della Magliana nella scomparsa di Emanuela Orlandi, di intensità e grado diversi nei confronti degli odierni indagati e di coloro che sono deceduti non possiedono senz’altro, per nessuno degli indagati iscritti quella consistenza tale da imporre l’esercizio dell’azione penale e giustificare, dunque, il vaglio dibattimentale»261G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 43, 44.


 

b) Un piano troppo sofisticato.

La Banda della Magliana era costituita da killer professionisti, criminali legati alla droga, alla mafia calabrese. I loro atti criminali erano solitamente costituiti da attentati a freddo tramite colpi di pistola.

E’ inverosimile che dei feroci malavitosi romani abbiano potuto architettare un piano sofisticato e genialmente stratificato come il sequestro Orlandi-Gregori e la complessa opera di strumentalizzazione, formata da codici, allusioni e depistaggi.

Avrebbero dovuto distrarre la stampa e gli inquirenti con telefonate e comunicati riguardanti il giudice Ilario Martella, Alì Agca e la sua liberazione, mentre dall’altra avrebbero mantenuto una trattativa segreta con i loro interlocutori (lo Ior?) sui soldi investiti nel Banco Ambrosiano.

Tutto questo, oltretutto, fornendo dettagli biografici precisi sulle due ragazze (oltre a fotocopie di oggetti personali di Emanuela) ma senza esibire la prova decisiva della loro detenzione. Infine, probabilmente usarono una tecnologia d’avanguardia capace di impedire il rintracciamento delle telefonate, facendole rimbalzare in posti diversi.

Non è così che agivano De Pedis e gli esponenti della Magliana, un loro ruolo di primo piano va decisamente escluso.


 

c) Perché erano interessati ad Agca e alla sua liberazione?

Escluso il fatto che dei malavitosi romani come quelli della Magliana avessero potuto escogitare un piano così sofisticato da usare la liberazione di Agca come oggetto di distrazione per perseguire i loro veri interessi, a cosa poteva interessare a De Pedis e Sergio Virtù il fatto che il terrorista turco ritirasse le sue accuse verso i bulgari nell’ambito dell’attentato al Papa?

Il telefonista l'”Amerikano” e le sigle comparse successivamente (“Fronte Turkesh” ecc.) erano unicamente interessate ad Agca e alla sua liberazione. Lo stesso idealista turco, dopo aver collaborato per due anni con gli inquirenti, ritirò improvvisamente le sue accuse ai servizi segreti bulgari due giorni dopo la sparizione della Orlandi.

Questo è un altro aspetto totalmente incomprensibile se si vuole porre De Pedis e la Magliana come protagonisti del caso Orlandi-Gregori.

 

 

4.9 Conclusioni sulla pista della Banda della Magliana.

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L’ipotesi del coinvolgimento della Magliana ha come detto un movente e un contesto temporale molto forti.

Inoltre, al contrario delle altre piste, può vantare due importanti riscontri oggettivi: l’intercettazione di Sergio Virtù, nel quale ammette la sua compromissione con il caso (oltre ad essere riconosciuto dall’amica di Emanuela, Gabriella Giordani, come uno dei pedinatori nei giorni prima della sparizione), e la forte somiglianza di Angelo Cassani all’identikit realizzato da un cameriere del bar dei Gregori sull’uomo che fu visto nel locale il giorno prima della sparizione di Mirella.

D’altra parte, il coinvolgimento della Magliana ha trovato qualche riscontro anche dagli inquirenti che, tuttavia nel 2015 archiviarono il caso non rilevando prove tanto consistenti a livello penale.

Altrettanto forti sono però i punti di debolezza, non è infatti possibile che dei killer rozzi e violenti come i testaccini abbiano ideato un piano così sofisticato da sopravvivere a due archiviazioni (1997 e 2015) e scervellare decine di giornalisti, magistrati e investigatori senza arrivare a una soluzione. Oltretutto portano un caso di malavita locale a sembrare un grande complotto internazionale.

Un’ipotesi, quella della Magliana, che ha avuto più valore di quanto ne meriti, colpa senz’altro dell’opinione pubblica e della trasmissione Chi l’ha visto?, che ha sposato univocamente tale pista divulgandola ossessivamente e crogiolandosi nella possibilità di coinvolgere fantomatici alti prelati e monsignori in traffici di sesso e denaro. Il tutto è terminato con un grande flop mediatico.

Lo scenario più verosimile è invece quello che vede esponenti della Magliana coinvolti in maniera marginale nel caso Orlandi, un ruolo di manovalanza, permettendo dunque un legame tra questa tesi e quella della “pista internazionale” e superando, così, i punti deboli che abbiamo sottolineato.

Tale ipotesi collima con la versione fornita dal reo-confesso Marco Accetti, il quale riferì di aver coinvolto De Pedis e alcuni suoi uomini in una «limitata partecipazione logistica e di copertura», in particolare per quanto riguarda i pedinamenti prima della scomparsa, il coinvolgimento di De Pedis il giorno del “finto” sequestro della Orlandi e la messa a disposizione di due loro appartenenti (quello di Monteverde e quello di Torvajanica). In cambio, ha sostenuto, «avrebbero ottenuto principalmente come interscambio alcune entrature all’interno della Città del Vaticano per alcune loro esigenze di investimento finanziario»262M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.

 
 

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5. ROBERTA HIDALGO E EMANUELA ORLANDI.

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La tesi della fotografa Roberta Hidalgo è la più incredibile di tutte.

Emerse pubblicamente nel 2012 con l’uscita del suo libro L’affaire Emanuela Orlandi, anche se la Procura ha rilevato che già nel novembre 2002 una giornalista reporter si presentò presso gli uffici riferendo di aver visto e fotografato casualmente, mentre si trovava a Piazza San Pietro263G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 52.

La Hidalgo ha sostenuto di aver riconosciuto Emanuela Orlandi in una fotografia da lei scattata in Piazza San Pietro. Per coincidenza, la stessa donna sarebbe apparsa sullo sfondo anche di una seconda foto che la Hidlago scattò tempo dopo a sua figlia davanti ad un gelataio, sempre nei dintorni di piazza San Pietro. La Hidalgo avrebbe poi incrociato personalmente la donna in un supermercato della zona264R. Hidalgo, “L’affaire Emanuela Orlandi” (Edizioni Libreria Croce): intervista a Roberta Hidalgo, intervista a Radio Radicale, 24/04/2012.

In una delle aree più affollate d’Europa, Emanuela Orlandi gironzolerebbe in piazza San Pietro e sarebbe casualmente comparsa per due volte in due fotografie scattate in tempi diversi dalla stessa persona, la quale sempre per coincidenza l’avrebbe anche incontrata di persona in un’altra occasione. Senza che nessun’altro si sia accorto di lei.

La fotografa ha sostenuto inoltre di aver pedinato “Emanuela”, la quale sarebbe entrata nell’appartamento del fratello Pietro Orlandi.

Dopo numerosi appostamenti e indagini personali, iniziate nel 1999, la Hidalgo ha sostenuto che Anna Orlandi non sarebbe la vera zia di Emanuela, ma la madre e che Emanuela sarebbe nata dalla relazione con monsignor Paul Marcinkus. Inoltre, la stessa zia Anna non sarebbe di Pietro Orlandi, nonno di Emanuela, ma addirittura di papa Pio XII.

La Hidalgo sostenne di aver capito tutto questo confrontando le fotografie e grazie ai suoi studi di anatomia del volto.

La scomparsa di Emanuela, secondo la fotografa, sarebbe stata architettata dal capo dello Ior, Marcinkus (vero padre di Emanuela), così da spostare l’attenzione mediatica dal Banco Ambrosiano, dallo Ior, da Calvi ecc., dirottandola altrove.

Non è ancora finita: Emanuela Orlandi vivrebbe assieme al fratello Pietro e ai suoi figli, fingendo di essere sua moglie, mentre Patrizia Marianucci, vera moglie di Pietro, abiterebbe in una casa in campagna.

Questo elemento emergerebbe dal materiale biologico prelevato di nascosto dalla Hidalgo a vari esponenti della famiglia Orlandi, tesi che sarebbe confermata da una perizia del Dna firmata dal noto criminologo Francesco Bruno: «In sintesi», si legge, «si può dire che la donna che convive con Pietro Orlandi da almeno 10 anni non presenti molti elementi in comune con Patrizia Marinucci, ma che al contrario presenta numerose somiglianze con la sorella di Pietro, la scomparsa Emanuela».

Il Dna di “Emanuela Orlandi” sarebbe inoltre compatibile con quello di Anna Orlandi.

Un’altra prova fornita da Hidalgo è che Emanuela, cioè colei che vivrebbe a casa di Pietro Orlandi, verrebbe soprannominata “Mandi” dal fratello e dai figli, elemento scoperto grazie ad una cimice posizionata dalla Hidalgo in casa di Pietro Orlandi.

Sottolineiamo che una tesi quasi identica è stata pubblicata successivamente nel libro La Figlia del Papa dal portoghese Luis Miguele Rocha. In questo caso la Orlandi sarebbe però figlia di Giovanni Paolo II (e non di Marcinkus) e l’autore sostiene anche di averla incontrata personalmente.

Pietro Orlandi ha querelato la Hidalgo chiedendo anche il ritiro del libro ma il giudice senza successo,” rel=”noopener” target=”_blank”>ha negato sia il sequestro del libro che l’azione legale risarcitoria.

Non volendo scartare a priori nessuna ipotesi, procediamo ad analizzare i punti di forza e di debolezza della tesi di Roberta Hidalgo.

 

 

5.1 I punti forti della pista di Roberta Hidalgo.

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a) La perizia di Francesco Bruno

Al di là della comparazione di foto, l’unica “prova” fornita da Roberta Hidalgo è la perizia genetica firmata dal criminologo Francesco Bruno.

Essendo la vicenda talmente surreale, la perizia andrebbe però quantomeno replicata da altri professionisti, ancor meglio che non si siano mai occupati del caso Orlandi.

Sottolineiamo che Francesco Bruno, deceduto nel 2023, è stato docente di psicologia forense alla Sapienza di Roma e funzionario dal 1978 al 1987 della divisione tecnico-scientifica del SISDE, i servizi segreti italiani.


 

b) Mancanza di un chiarimento degli Orlandi

E’ più che comprensibile che la famiglia Orlandi non abbia voluto replicare pubblicamente alla Hidalgo se non tramite una querela, è un’operazione offensiva e scandalistica nei loro confronti che espone al grande pubblico la loro intimità familiare. Inoltre, si capisce che non vogliano regalare pubblicità gratuita.

Agli occhi dei sostenitori di questa tesi, tuttavia, un mancato chiarimento da parte degli Orlandi viene letto come l’impossibilità imbarazzata di fornire una versione alternativa. Basterebbe procedere ad una seconda perizia genetica per liquidare definitivamente questa vicenda.

Occorre infatti considerare che perplessità sul comportamento della zia Anna Orlandi, indipendentemente dalla loro fondatezza o meno, sono state avanzate dai sostenitori della “pista sessuale”, come Pino Nicotri e l’avv. Gennaro Egidio, ex legale degli Orlandi.

 

 

5.2 I punti deboli della pista di Roberta Hidalgo.

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a) Mancanza di prove oggettive

Affermazioni sconvolgenti necessitano di prove sconvolgenti.

Il racconto di per sé assurdo fornito da Hidalgo si dipana in un infinito corollario di altrettante apocalittiche conseguenze, il tutto basato su qualche fotografia, qualche somiglianza, un soprannome (manca la prova audio che Pietro e i figli chiamerebbero “Mandy” la donna che vivrebbe con loro) e una perizia di un criminologo su un assorbente (che la Procura nemmeno ha voluto considerare dato che non se ne parla negli atti).

Non basta scrivere un libro per sostenere che Emanuela sia figlia di un cardinale e della zia, la quale sarebbe a sua volta figlia di un Pontefice e che Pietro Orlandi passi la vita con sua sorella, fingendo che sia la moglie e facendo crescere i figli lontani dalla vera madre.

Si aggiunga la necessità di credere che Emanuela girerebbe tranquillamente per piazza San Pietro nonostante sia ricercata da trent’anni, implicando così che tutta la famiglia Orlandi (i loro amici e i loro parenti) stia mentendo da decenni agli inquirenti e a tutto il mondo.

Chiamarla “pista” o “ipotesi” è fin troppo generoso, soprattutto per la totale mancanza di riscontri oggettivi.


 

b) Le fotografie dimostrano il contrario.

La stessa Roberta Hidalgo ha ammesso che la presunta Emanuela da lei fotografata differisce dalla vera Emanuela in quanto mostra i lobi delle orecchie completamente diversi.

La fotografa tuttavia ha giustificando tale differenza con il fatto che «se li può essere tagliati!». Una risposta tanto incredibile da essere al livello della tesi sostenuta.

Se si osservano le fotografie di Patrizia Marinucci accanto alle figlie si percepisce chiaramente la netta somiglianza del viso e, in particolare, l’identica conformazione dei lobi delle orecchie. Molto diversa, al contrario, da quella di Emanuela Orlandi (immagine sulla destra)


 

c) L’archiviazione del 2015.

Nell’archiviazione del caso Orlandi del 2015, la Procura di Roma ha affermato di aver acquisito le immagini fornite dalla Hidalgo e le fotografie meno recenti di Patrizia Marinucci al fine di compararle con quelle di Emanuela Orlandi.

La conclusione è stata il respingimento della tesi poiché «la comparazione ne escludeva l’identità»265G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 52.


 

d) Assenza del movente.

Anche dando per vero il complesso racconto di Roberta Hidalgo, a che scopo Pietro Orlandi dovrebbe vivere e far vivere i suoi figli con Emanuela e non con sua moglie?

Se Paul Marcinkus avesse davvero ideato il sequestro per distrarre l’opinione pubblica dallo Ior e dal Banco Ambrosiano, perché avrebbe scelto di coinvolgere proprio sua figlia Emanuela e non un’altra adolescente, perché architettare tutto il complesso e stratificato scenario (telefonisti, sigle anticristiane, komunicati, appelli al Papa e al presidente della Repubblica, Mirella Gregori ecc.) che di fatto è il caso Orlandi?

Non ha alcun senso.

 

 

5.3 Conclusioni sulla pista di Roberta Hidalgo.

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Abbiamo analizzato la tesi di Roberta Hidalgo soltanto perché anche la Procura della Repubblica ha scelto di dedicarvi del tempo.

Si tratta però di uno scenario apocalittico, privo di movente, di logica e di prove documentate, basato sulla perizia genetica di un assorbente (non consultabile) e sulla comparazione di foto che smentiscono la tesi stessa (per ammissione della stessa Hidalgo).

L’unico obiettivo era il successo editoriale, prontamente imitato dal portoghese Luis Miguele Rocha con il suo libro La figlia del Papa.

Due racconti fantasy, da scartare senza alcun dubbio.

 
 

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6. EMANUELA ORLANDI E IL RUOLO DI MARCO ACCETTI.

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Marco Fassoni Accetti è un fotografo e autore cinematografico, nato in Libia e arrivato in Italia nel 1970 con la famiglia in qualità di profugo266G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46. Il 27/03/2013 si è recato in Procura per riaprire un caso giudiziario che lo ha riguardato in passato, l’omicidio di José Garramon267G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43.

Nel dicembre 1983, infatti, Accetti investì e uccise con il suo furgone il piccolo Josè Garramon, 12 anni, figlio di un funzionario uruguayano delle Nazioni Unite, nella pineta di Castel Fusano (Roma). Fu inizialmente processato per omicidio volontario e poi condannato solo per omicidio preterintenzionale, scontando 2 anni in carcere.

L’uomo ha sostenuto che all’epoca avrebbe patito accuse ingiuste e voleva «chiudere moralmente quel caso, che all’epoca non potevo delucidare pienamente in quanto avrei dovuto motivare la mia presenza in quell’area». Secondo Accetti, indagando nuovamente sul caso Garramon e identificando gli autori del messaggio a firma “Phoenix” del 19/09/83 si sarebbe potuto giungere a far luce anche sulla sparizione di Emanuela e Mirella.

Negli Atti del processo si legge268G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45 che Accetti più volte ha invitato la Procura a indagare al fine di identificare gli autori del messaggio di “Phoenix”. Si riferisce al messaggio del gruppo “Phoenix” nel quale verranno minacciati i primi due telefonisti, “Pierluigi” e “Mario”. In particolare, le parole rivolte al secondo citano la “pineta”, lo stesso luogo in cui Accetti investì e uccise Garramon: «Vogliamo generosamente ricordare a Mario che nella pineta c’è tanto posto per aumentare la vegetazione».

L’elezione di un Papa non curiale (Francesco divenne Papa il 13/3/2013) e l’abdicazione dell’ex Prefetto per la Dottrina della Fede (Benedetto XVI) lo avrebbero indotto a presentarsi dopo 30 anni in quanto sarebbero venute meno certe coesioni interne alla Curia romana, aiutando all’emergere dei responsabili delle sparizioni269G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43.

Accetti ha rivelato inoltre che avrebbe voluto comparire 10 anni prima, alla morte di Giovanni Paolo II, se non fosse stato eletto «un pontefice curiale». Aggiunse che «della mia intenzione resi partecipi in quel mese di Aprile del 2005, alcuni sodali con cui condivisi le responsabilità per i suddetti fatti degli anni 80. Seppi che alcuni di costoro, temevano io potessi fare i nomi dei responsabili dell’omicidio di Catherine Skerl». Il caso della Skerl è analizzato più sotto.

«Eravamo pochi laici che aiutavano pochi ecclesiastici», ha aggiunto il fotografo, invitando i suoi sodali «a presentarsi e contribuire con la testimonianza, coscienti che non si trattò di fatti ferali». Oltre a loro, l’appello fu rivolto ad alcune donne che avrebbero partecipato come complici.

Per quanto riguarda Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, si è accusato di aver architettato l’operazione e di essere stato il telefonista “Mario” e l'”Amerikano”. Sarebbero stati due allontanamenti volontari, anche se le ragazze furono da lui (e dal suo gruppo) indotte tramite l’inganno nell’ambito di uno scontro politico-ideologico tra due fazioni vaticane interessate a influire in modo occulto la politica estera ed economica della Santa Sede, in particolare nei suoi rapporti con i Paesi dell’Est.

 

Riteniamo Marco Accetti una persona realmente informata dei fatti, per questo prima di analizzare e valutare la sua complessa testimonianza (è stato ascoltato dagli inquirenti 11 volte, dall’aprile al luglio 2013) riassumiamo le principali sezioni del suo racconto, verificando fin dove è possibile gli elementi forniti.

 

6.1 La biografia di Marco Accetti prima del caso Orlandi

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Marco Accetti è nato a Tripoli (Libia) il 1955, figlio di Aldo Accetti e Silvana Fassoni, fratello di Laura Accetti.

Nel 1970 arrivò in Italia con la famiglia in qualità di profugo270G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.

Questo dato è in contrasto con il fatto che l’uomo avrebbe frequentato la scuola elementare Sant’Eugenio (futura St. George), sulla via Cassia271M. Accetti, Punti 6 e 7 (indizi e prove), 21/01/2014: se arrivò in Italia negli anni ’70, come si legge nella sentenza di archiviazione del 2015272G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46, com’è possibile che possa aver frequentato le scuole elementari in Italia prima di quella data? Probabile errore della Procura di Roma.

Nel 1967 Accetti frequentò le scuole medie all’Istituto Giuseppe De Merode273M. Accetti, Memoriale, 16/06/2014, il cui direttore spirituale era don Pierluigi Celata, dopo poco diventato diplomatico in Vaticano.

Attraverso mons. Celata avrebbe conosciuto ecclesiastici della Curia romana di origine lituana e francese, tra i quali mons. Audrys Juozas Backis, che nel 1973 divenne membro del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa. Accetti avrebbe quindi sposato la causa lituana274G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43

Agli Atti risulta che Marco Accetti frequentò cortei e manifestazioni con il partito di destra MSI per poi schierarsi con il partito radicale275G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.

Nel 1972, all’età di 17 anni, Accetti fu arrestato a seguito di un assalto fascista al liceo Tasso. Le cronache dell’epoca lo videro accusato di incendio doloso, danneggiamento aggravato e resistenza a pubblico ufficiale.

Secondo il racconto fatto da un uomo di origine araba ma da tanto tempo in Italia, suo stretto conoscente di allora, fu in questo periodo che Accetti iniziò a frequentare gli stabilimenti De Laurentiis, affascinato dalla scenografia del film di Luigi Magni Nell’anno del Signore (1969). Avrebbe iniziato così a creare le sue installazioni artistiche276in P. Nicotri, Emanuela Orlandi. Flauto di Marco Fassoni Accetti dai resti di studio cine Roma?, BlitzQuotidiano, 12/06/14.

Attorno al 1976-1977 sarebbe stato invitato da un religioso diplomatico a fotografare e immortalare incontri tra ecclesiastici che avevano il “vezzo” di riferire notizie delle attività del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa a persone riferibili a certi circoli d’interesse “occidentale”, tra cui mons. Achille Silvestrini, segretario del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, spesso nei pressi del Club di Roma. Lo avrebbe fatto in cambio di attrezzatura cinematografica da usare per le sue attività277G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43.

Dal 1978, con l’elezione di Giovanni Paolo II, la sua fazione si sarebbe impegnata a neutralizzare le realtà diplomatiche e politiche vaticane che contrastavano il dialogo con i Paesi dell’Est (tra cui URSS, che inglobava la Lituania, Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria e Germania dell’Est), nonché azioni di propaganda contro tali nazioni.

Nel 1979, alla nomina di mons. Bakis a sottosegretario del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa, sarebbe aumentato il monitoraggio dei suoi incontri (tramite microspia nella sua Fiat) e si sarebbe costituita una fazione (o ganglio) “progressista” per condizionare le scelte della Segreteria diretta da mons. Silvestrini, collaboratore del card. Casaroli e sostenitore della politica di apertura verso i regimi comunisti.

Nello stesso anno, Marco Accetti fu arrestato (e poi assolto) per un pestaggio ai danni di Mario Appignani (“Cavallo Pazzo”) in piazza Navona. Nel suo Memoriale ha scritto che la vittima sarebbe stata d’accordo e l’episodio sarebbe servito per dissimulare alcune attività in quel luogo legate alla sua fazione. Gli altri arrestati per il finto pestaggio (quindi anche loro appartenenti alla fazione “progressista”?) furono, Oriano Mondin (23 anni) e Gaetano De Janni (21 anni).

Nella sentenza del febbraio 1984 si parlò di “minacce” e di “sballottamento” nei confronti di Appignani (non di “pestaggio”) e si concluse con l’assoluzione di Accetti (di Mondin e di De Janni) perché «il fatto non sussiste». Inoltre, gli inquirenti denunciarono Appignani per «calunnia e simulazione di reato».

 

Qui sotto una foto di Marco Accetti travestito da prete in una una manifestazione anti-militarista alla fine degli anni Settanta.

 

Nel marzo 1982 Marco Accetti venne arrestato per detenzione d’arma da sparo278G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46, rimanendo in carcere meno di un mese, fino al 29/04/1982.


 

Marco Accetti e la morte del somalo Ali Giama.

Nella notte del 22/05/1979, il somalo Ahmed Ali Giama, senza fissa dimora, morì bruciato sotto al colonnato del Tempietto della Pace. Alcuni testimoni videro allontanarsi dal luogo dell’omicidio quattro ragazzi, poi riconosciuti in Marco Rosci, Fabiana Campos, Roberto Golia e Marco Zuccheri.

Dopo la condanna, restarono in carcere fino al 17/07/1981 quando vennero assolti dalla seconda sezione della Corte di Appello di Roma, sentenza confermata nel 1985 dalla Suprema Corte.

Come già visto nella sezione precedente, pochi giorni dopo l’omicidio del somalo, Marco Accetti fu arrestato per un presunto pestaggio in piazza Navona nei confronti di Mario Appignani (“Cavallo pazzo”), reo di aver rubato i soldi raccolti dagli abitanti del quartiere per pagare i funerali di Ahmed Ali Giama. L’uomo fu assolto e Appignani fu denunciato per “simulazione di reato”.

Nel suo Memoriale, Accetti fece riferimento a tale episodio sostenendo che proprio nell’estate 1979 avrebbe collaborato con a Giama nel sorvegliare le uscite del Collegio Pangermanico su via Santa Maria dell’Anima e su piazza della Pace. Lo descrisse come un ingegnere somalo che aveva viaggiato in Unione Sovietica e avrebbe dovuto incontrarsi con lui il giorno seguente alla sua morte. L’uomo precisa però che la morte del somalo non sarebbe da ricondurre a tali attività.

Il fotografo romano riferì che la notte dell’omicidio del somalo si sarebbe recato sul luogo e avrebbe raccolto dei brandelli della giacca (nell’ipotesi che contenessero fogli sulle loro attività). Giorni dopo sarebbe stato contattato dal commissario Paul Nash, il quale gli avrebbe mostrato alcune fotografie ritraenti Accetti mentre prelevava i brandelli. Sarebbero state scattate dal Collegio Pangermanico.

Per dissimulare i suoi reali interessi e giustificare la sua presenza in quell’area avrebbe quindi creato alcune coperture tramite la complicità di Mario Appignani, il cui esito (cioè l’arresto) sarebbe andato oltre le aspettative.

 

Analisi e verifiche sul caso Giama

A meno di contattare Paul Nash (ammesso sia ancora vivo) o poter visionare le fotografie che avrebbero immortalato Accetti, non c’è modo di verificare l’autenticità di questo racconto.

Qualche sospetto che il somalo Giama non fosse un semplice clochard è riportato anche nelle cronache dell’epoca, dove fu citata l’ipotesi di una pista politica sostenuta da Nur Giama Nur, esule somalo e amico della vittima, a suo dire anch’egli funzionario del ministero degli esteri somalo. Questa ipotesi venne dibattuta in sede di processo e scartata.

C’è però un aspetto totalmente inedito (siamo i primi a svelarlo) che sembra collegare Accetti e i casi Giama e Orlandi.

Il secondo telefonista che chiamò a casa Orlandi poche ore dopo la sparizione di Emanuela, il cosiddetto “Mario”, sostenne di telefonare per scagionare un suo amico rappresentante della Avon, il quale abitava al quartiere Parione279Trascrizione della telefonata, p. 34. Poco prima di congedarsi, inoltre, aggiunse di aver lavorato come fornaro280Trascrizione della telefonata, p. 43.

Come emerge dai quotidiani dell’epoca, uno dei quattro ragazzi accusati di aver dato fuoco al somalo Giama, Marco Rosci, aveva lavorato come fornaio nel negozio del padre e abitava in via del Governo Vecchio, cioè proprio nel quartiere Parione.

Se non fosse una coincidenza, il telefonista “Mario” (cioè Marco Accetti) volle citare nella telefonata quello che riteneva essere uno degli autori dell’omicidio Giama, ucciso per le sue operazioni di contro-spionaggio in sodalizio con lo stesso Accetti?

Una tesi complicata per tre motivi: le indagini assolsero Marco Rosci, non è provato che Giama fosse in complicità con Accetti e lo stesso reo-confesso ha escluso che la morte del somalo fosse riconducibile alle loro (presunte) attività.

 

6.2 Marco Accetti e il flauto di Emanuela Orlandi

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Il 03/4/2013, dopo la sua prima deposizione in Procura, Accetti ha fatto ritrovare al giornalista Fiore De Rienzo della trasmissione Chi l’ha visto? il (presunto) flauto di Emanuela, posizionato sotto una formella della Via Crucis all’interno dell’ex studio cinematografico De Laurentis.

Ha dichiarato agli inquirenti che il flauto sarebbe stato nascosto nella chiesa di Santa Francesca Romana dopo la telefonata dell'”Amerikano” del 4/09/83, nella quale si diceva: «Mi hanno detto di riferirvi che nelle vicinanze della basilica di Santa Francesca Romana il pontefice celebra la Via crucis. La scelta della basilica è inerente il giorno della scadenza del 20 luglio».

Nel 1987, in occasione della trasmissione televisiva Telefono Giallo (durante la quale telefonò l’amico di Emanuela Orlandi, Pierluigi Magnesio, dicendo «se parlo, mi ammazzano»), una donna glielo avrebbe consegnato e lui lo avrebbe custodito nel luogo in cui lo ha fatto ritrovare281G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45.

Secondo Accetti, l’aver fatto ritrovare il flauto della Orlandi nel 2013 sarebbe stato un elemento importante per i suoi sodali, ai quali chiese di presentarsi in Procura. Queste persone infatti sarebbero state a conoscenza del fatto che la Orlandi avrebbe dormito nell’ex studio cinematografico De Laurentis la notte del 21/12/83. Tuttavia, la trasmissione Chi l’ha visto? non accennò al luogo del ritrovamento, vanificando la portata dell’appello282G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45.

Dai rilievi scientifici sul flauto (atti a rilevare eventuali impronte, tracce di DNA, analisi pilifere) non si è riusciti a stabilire una corrispondenza con quello usato da Emanuela Orlandi 283G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 48, 49, seppur la famiglia lo abbia vagamente riconosciuto.

 

Nel seguente video, la presentazione di Marco Accetti in Procura nel 2013 e la reazione di Natalina Orlandi alla vista del flauto:

 

Nella memoria presentata da Pietro Orlandi contro la sentenza di archiviazione viene esplicitato che il flauto è stato riconosciuto dai familiari come autentico284G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 57.

 

 

6.3 Il teschio e le minacce “alle due belle more”.

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Il 21/12/2012 (tre mesi prima della presentazione di Accetti in Procura), vicino al colonnato di Piazza San Pietro fu ritrovata una busta con la scritta in inglese “non toccare”, in essa era presente un teschio con all’interno del materiale cartaceo, il cui contenuto sembrò analogo a quello allegato alle lettere che appariranno pochi mesi dopo285G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 48.

Verso fine marzo 2013, poco dopo la comparsa di Accetti e del presunto flauto di Emanuela, a casa di Raffaella Monzi (compagna di Emanuela, l’ultima persona ad averla vista) e di Antonietta Gregori, sorella di Mirella, arrivarono due lettere con queste parole: «Non cantino le due belle more per non apparire come la baronessa e come il ventuno di gennaio martirio di S. Agnese con biondi capelli nella vigna del Signore».

Oltre alla frase, presenti anche i numeri “193” e “103” e una foto del giuramento di una guardia svizzera sopra una didascalia in tedesco, la cui traduzione è: “Durante il giuramento ogni recluta si posiziona davanti alla bandiera della Guardia e promette di servire fedelmente, lealmente e onorevolmente il Pontefice e i suoi legittimi successori”. Accanto alla foto compariva la scritta a penna: ”4 – FIUME” (nella lettera arrivata alla Gregori invece c’è: “V – FIUME”).

Infine, sempre scritta a mano, erano visibili le parole “SILENTIUM”, “V. FRATTINA 103” e, sul retro, “MUSICO 26/OTT/1808 – 5/3/1913 – 2013”.

 

Qui sotto l’immagine della lettera di minacce alle “due belle more”

 

Oltre alla lettera, fu ritrovata una ciocca di capelli color cenere, un fiore colorato di merletto, del terriccio e un brandello di tessuto scuro. Allegati alla lettera anche tre negativi fotografici, il primo ritraeva l’attentato a Papa Wojtyla e l’altro un teschio umano con la scritta: “Eleonora De Bernardi, Morta in Campagna, Lì 23 agosto 1854″.

Solo nella lettera giunta alla sorella di Mirella compariva un riferimento al marito, Filippo Mercurio: «Mercurio vola in sella del suo ciclomotore dal caffè alla via Nomentana all’altro caffè».

 

Gli indizi contenuti nella lettera sarebbero questi:

  • La frase Non cantino le due belle more non si rifersce a Emanuela e Mirella, come avvalorato dai media, ma più verosimilmente sarebbe un messaggio diretto a due complici;
  •  

  • La citazione della “baronessa” si riferisce alla morte della baronessa Jeanette de Rothschild, avvenuta il 29/11/11/1980 in circostanze misteriose e che Accetti collegherà al caso Orlandi, lo analizziamo più sotto;
  •  

  • La citazione del ventuno di gennaio, biondi capelli e vigna del Signore si riferisce alla morte di Caterina (Katy) Skerl, altro caso che Accetti unirà alla Orlandi. La ragazza (bionda) fu trovata strangolata il 21/01/83 in una vigna a Grottaferrata (Roma);
  •  

  • La citazione di “Eleonora De Bernardi” potrebbe riferirsi alla ex moglie di Marco Accetti, Eleonora Cecconi. L’uomo la indicherà come colei che spediva i comunicati da Boston;
  •  

  • Il teschio del negativo fu fotografato nella cripta in Santa Maria dell’Orazione e Morte, in via Giulia, e la didascalia sulla fronte è la stessa riportata nella lettera (“Eleonora De Bernardi, Morta in Campagna, Lì 23 agosto 1854”);
  •  

  • Il riferimento a Filippo Mercurio, marito di Antonietta Gregori, si riferisce probabilmente al fatto che fu l’uomo a rispondere al telefonista anonimo che chiamò al bar dei Gregori dopo la scomparsa di Mirella, elencando le marche dei vestiti che la giovane indossava il giorno della sparizione;
  •  

  • La frase “MUSICO 26/OTT/1808 – 5/3/1913 – 2013” si riferisce al musicista Luigi Hugues, morto il 5/3/1913 ma nato il 27/10/1836 (non il 26/10/1808), i cui spartiti erano nello zaino di Emanuela il giorno della sparizione e la fotocopia del frontespizio fu fatta ritrovare dall'”Amerikano” il 04/09/83;
  •  

  • La parola “FIUME” potrebbe ricordare la Avon, ovvero “fiume” in lingua celtica, codice già usato da Marco Accetti;

 

E’ evidente che le lettere siano legate alla comparsa di Marco Accetti e citano molti elementi chiave del complesso raccontò che farà nel corso degli anni.

L’uomo ha negato di esserne l’autore, sospettando del tentativo «della parte avversa di inquinare la situazione».

Le analisi scientifiche sul teschio ritrovato il 21/12/12, sulle due lettere, sui ritagli di giornale e sugli indirizzi sulle buste scritti con il normografo hanno evidenziato una riconducibilità ad uno stesso autore, senza che emergesse alcun elemento per rintracciarlo286G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 49.

 

 

6.4 Le fazioni vaticane e i complici di Marco Accetti.

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Marco Accetti ha sempre dichiarato di non voler citare i sodali che avrebbero operato con lui per onorare la parola data, invitandoli a comparire spontaneamente per usufruire di un’agevolazione di una pena e in considerazione del fatto che non sarebbero stati compiuti atti gravi.

Inoltre, ha sottolineato l’inutilità di citare testimoni i quali avrebbero inevitabilmente negato, senza giungere comunque alla soluzione. E’ stato più volte criticato per questa reticenza.

Negli Atti del processo che lo riguarda si legge che Accetti ha però più volte invitato la Procura a fare un appello alle ragazze e alle persone coinvolte perché si facciano avanti a confermare le sue dichiarazioni287G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45.

Nel luglio 2023 la Procura di Roma avrebbe individuato una donna, romana e di estrema sinistra, che ha ammesso di aver letto con un finto accento inglese uno dei comunicati sul caso Orlandi spediti da Boston. E’ la famosa “amerikana” di cui ci riferì l’uomo nel 2016.

Marco Accetti ha però s,m però per smentito la notizia dell’identificazione di una persona che prestò la sua voce per il caso Orlandi»M. Accetti, Dichiarazione su Facebook, 27/07/23.

Nel corso degli anni sono emersi numerosi nomi di persone che avrebbero operato al fianco di Accetti o sarebbero stati coinvolti in qualche modo.

Per quanto riguarda le “fazioni vaticane”, Accetti ha parlato di una lotta nella Curia romana fra due fazioni contrapposte sulle politiche della Segreteria di Stato e del Papa in materia economica e di rapporti con il blocco sovietico e con il sindacato Solidarnosc.


 

La fazione vaticana progressista.

La fazione “progressista” di cui avrebbe fatto parte si sarebbe opposta alla politica papale di forte contrasto al comunismo288G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

Avrebbero inoltre mirato a coinvolgere mons. Marcinkus, presidente dello IOR, in un discorso di finta pedofilia per minarne il potere, coinvolgendo a tal proposito inconsapevoli ragazze e ragazzi289G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43.

Tale fazione sarebbe stata formata da «pochi laici che aiutavano pochi ecclesiastici».

 

Qui sotto le parole di Marco Accetti sulla sua fazione:

 

Nel suo blog, Accetti ribadì lo stesso concetto: «Non si pensi che degli ecclesiastici possano compiere tali misfatti. Erano solo alcuni e pochi laici a loro contigui ad adoperarsi in tal senso, per interessi finanziari od altro. E quasi sempre gli ecclesiastici in oggetto erano assolutamente estranei ed inconsapevoli di quanto accadeva in pro o contro di loro»290M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.

I membri della fazione “progressista” vaticana in cui avrebbe operato sarebbero stati fedeli alla linea del segretario di Stato, car. Agostino Casaroli, cioè favorevoli al dialogo con il comunismo. Avrebbero inoltre avuto come riferimento mons. Audrys Juozas Backis, il card. Basil Hume e l’arcivescovo Bruno Heim, senza che essi ne fossero stati mai coinvolti.

 

Secondo i vari racconti di Marco Accetti, i membri operativi sarebbero invece stati:

  • Religiosi lituani e francesi, consiglieri e segretari di nunziatura vicini al francese Jacques-Paul Martin, prefetto della casa pontificia e al polacco Andrzej Maria Deskur, dal 1973 presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali;
  •  

  • Alcuni laici vicini al marchese Giulio Sacchetti del Palazzo del Governatorato;
  •  

  • Due religiosi asiatici della Congregazione Propaganda Fide, uno dei quali avrebbe prestato servizio diplomatico in Brasile (e che avrebbero avuto relazioni con Alì Agca);
  •  

  • Elementi vicini al card. Egidio Vagnozzi nella Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede e nell’ex- gendarmeria;
  •  

  • Tre persone tedesche291in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 96, (due ragazze e un ragazzo), ben retribuite e collaboratrici della Stasi: il ragazzo, biondo, svizzero del cantone tedesco292in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 99, sarebbe stato presentato a Mirella per farla innamorare e giustificare l’allontanamento da casa, le due ragazze avrebbero invece avuto un falso passaporto americano293in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 135. Una di esse, sempre presente al fianco di Accetti fino al dicembre 1983, era una ragazza bionda294in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 101, dal nomignolo Ulrike, coetanea di Accetti295M. Accetti, Punti 6 e 7 (indizi e prove), 21/01/2014, conosciuta tramite un diplomatico e un religioso delle Amministrazioni Palatine (il nome in codice deriva da Ulrike Meinhof, la terrorista tedesca di estrema sinistra che fondò la Banda Baader-Meinhof);
  •  

  • L’ex Lupo grigio Musa Serdar Celebi, spesso coinvolto da Accetti nel caso Orlandi e che avrebbe ospitato nella sua abitazione296F. Peronaci, Caso Orlandi, la difesa di Accetti: «Interrogate 2 arcivescovi e il turco Celebi», Corriere della Sera, 21/11/2013
  •  

  • Una ragazza cecoslovacca di nome Iva (ne ha fornito anche il cognome) che avrebbe nascosto il flauto di Emanuela e che lui avrebbe portato con sé in Egitto per una “missione” in ambienti della nunziatura;
  •  

  • Oriano Mondin e Gaetano De Janni, entrambi arrestati (e assolti) assieme ad Accetti nel pestaggio di Mario Appignani, episodio che sarebbe stato architettato dalla sua fazione;
  •  

  • Una compagna di Emanuela dell’Istituto Convitto Nazionale che collaborò nel giorno della sparizione;
  •  

  • L’ex moglie Eleonora Cecconi, alla quale Accetti avrebbe detto (mentendo) di aver ucciso Mirella Gregori e le avrebbe chiesto di aiutarlo a sbarazzarsi del corpo ai piedi di «una collina chiamata Empireo» a Monterotondo297in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 139. La stessa donna aveva un fratello a Boston e secondo l’uomo sarebbe stata lei a spedire da lì i telegrammi dopo la sparizione di Emanuela298G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47;
  •  

  • L’ex fidanzata Patrizia De Benedetti (legame sentimentale durato dal 1979 al 1982 e poi ricominciato dopo l’estate del 1983299G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46), la quale secondo l’uomo avrebbe scritto alcuni comunicati e sarebbe stata informata dei fatti relativi alla Orlandi300M. Accetti, varie dichiarazioni su Facebook, 2015-2016;
  •  

  • Alcuni elementi del SISE (Servizio di Informazioni della Sicurezza Democratica)301M. Accetti, Punto 4 (indizi e prove), 17/12/2013.
  •  

  • Una ragazza romana di 19 anni, di estrema sinistra, che lesse un comunicato con un finto accento inglese (sarebbe stata individuata dalla Procura nel luglio 2023302F. Peronaci, Caso Orlandi: individuata una donna coinvolta nelle rivendicazioni, Corriere della Sera, 27/07/23).

 

Una menzione particolare per Dany Astro, compagna di Accetti dal 2001 (fino sicuramente al 2013).

Nel 2013 la donna ha riferito in Procura di aver riconosciuto Emanuela Orlandi a Parigi dove Accetti l’avrebbe mandata dopo la morte di Oscar Luigi Scalfaro (2012), a consegnare una lettera ad un arabo (o un orientale) della moschea centrale di Parigi303G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45. Dopo la consegna, avrebbe incontrato tre donne che avrebbe messo in contatto con Accetti e tra queste avrebbe riconosciuto la Orlandi304G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45.

 

Nel novembre 2013 l’allora legale di Marco Accetti, Maria Calisse, sollecitò (inutilmente) alla Procura l’audizione di una decina di testimoni: tra essi, mons. Pierluigi Celata e mons. Audrys Backis, l’ex Lupo grigio Musa Serdar Celebi, vicino ad Agca e capo dei turchi rifugiati in Germania, un poliziotto oggi in pensione a alcune amiche di Emanuela e Mirella che si sarebbero rese complici involontarie305F. Peronaci, Caso Orlandi, la difesa di Accetti: «Interrogate 2 arcivescovi e il turco Celebi», Corriere della Sera, 21/11/2013.


 

La fazione vaticana anticomunista.

La fazione opposta a quella di Accetti (deduttivamente “conservatrice”) sarebbe stata dalla parte di Papa Wojtyla, favorevole al pugno duro del Vaticano contro il comunismo.

Questa fazione avrebbe invece avuto come riferimenti:

  • Il presidente dello Ior, Paul Marcinkus, il quale però sarebbe stato un semplice esecutore della politica filo-statunitense dell’avvocato Thomas Macioce e del card. John Joseph O’Connor;
  • Alcuni uomini vicino all’avvocato Umberto Ortolani;
  • Il generale Giuseppe Santovito, capo del SISMI (servizi segreti italiani);
  • Alcuni elementi del SISDE (servizi segreti italiani);
  • Il card. Giuseppe Caprio, presidente dell’APSA (organismo che cura il patrimonio economico del Vaticano), prelato effettivamente avverso al comunismo;
  • Mons. Pavol Hnilica, presidente della “Pro Fratribus” con sede a Grottaferrata, accusato di aver versato a Flavio Carboni dai 3 ai 6 miliardi di lire per riavere documenti relativi allo lor contenuti nella borsa
    sottratta a Roberto Calvi prima della sua morte. Accetti ha detto che Hnilica «era la nostra bestia nera»306citato in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014;
  • Alcuni membri dell’aeronautica militare italiana307M. Accetti, Memoriale 2014;

 

Analisi e verifiche sulla fazione opposta

Riguardo a Umberto Ortolani, il suo nome viene spesso citato da Accetti («i cui uomini erano la parte a noi opposta»308M. Accetti, Punti 6 e 7 (indizi e prove), 21/01/2014). L’uomo fa spesso notare che la sua nazione feudo era l’Uruguay, proprio il Paese da cui proveniva José Garramon, ucciso in circostanze misteriose dallo stesso Accetti nel 1983.

Effettivamente nel 1969 divenne Ambasciatore dell’Ordine dei Cavalieri Ospitalieri di Malta a Montevideo, capitale uruguayana. Fu arrestato nel settembre 1983 e tra le sue proprietà comparivano trenta grandi fattorie in Uruguay309in Umberto Ortolani, Wikipedia.

Nel 1983 si scoprì che Ortolani era proprietario del Banco Financiero sudamericano (Bafisud), mentre in Italia fu coinvolto nello scandalo del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e per molte altre vicende legate alia P2.

Ortolani nel 1963 venne nominato “Cavaliere di Gran Croce” dal presidente della Repubblica Giovanni Leone310da Ortolani, un miliardario all’ombra di DC e Vaticano, l’Unità 22/04/1984 e gentiluomo pontificio da Paolo VI, titolo revocato nel 1983 da Giovanni Paolo II.

Massone, anticomunista e esponente di rilievo della P2 (tessera 1622311da Ortolani, un miliardario all’ombra di DC e Vaticano, l’Unità 22/04/1984), Umberto Ortolani era il braccio destro di Licio Gelli, venerabile maestro della stessa organizzazione. La collaborazione iniziò a partire dagli anni Sessanta quando esportarono in Sudamerica i capitali dei gerarchi fascisti e nazisti. I due erano legati anche a Michele Sindona.

A proposito della tessera di Ortolani della P2 (1622), Accetti ha riferito che la data scelta per la sparizione di Emanuela Orlandi (22/6/83) avrebbe dovuto ricordarla come codice (oltre alla sezione 22 della Stasi dedita all’antiterrorismo)312M. Accetti, Memoriale, 2014.

Per quanto riguarda Licio Gelli, Accetti non lo nomina tra gli esponenti della controparte. Nelle cronache dell’epoca si riportò che era orientato verso la destra americana, in linea con la visione politica di Ortolani.

Proprio tra il 1983 e il 1984, mentre Ortolani era ricercato per il crack del Banco Ambrosiano e per l’inchiesta sulla P2, l’Italia era in contrasto con l’Uruguay per l’archivio segreto di Gelli, custodito nella sua villa a Montevideo e fonte di uno dei più gravi scandali della storia italiana dal dopoguerra. La stessa villa in cui José Garramon giocava a fare il detective intrufolandosi nel giardino e dove, a pochi metri di distanza, abitava anche Umberto Ortolani.

 

In questo video vengono ricostruiti i legami tra il caso Garramon, Licio Gelli e Ortolani:

 

 

6.5 La baronessa Rothschild, Marco Accetti e il caso Orlandi.

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Secondo il racconto di Marco Accetti, la fazione “progressista” vaticana in cui disse di far parte ebbe come obbiettivo di frenare i finanziamenti al sindacato anticomunista di Solidarnosc (definito da Accetti la «cellula radicale polacca» e avrebbero cercato di delegittimare moralmente Paul Marcinkus tramite false testimonianze sul suo conto.

La scelta sarebbe caduta anche su donne altolocate come la baronessa Rothschild, Jeannette Bishop, la quale avrebbe frequentato gli stessi ambienti di studio di araldica di mons. Heim, riferimento della fazione accettiana. Le donne avrebbero dovuto sostenere che nella loro relazione con Marcinkus costui avrebbe fatto trapelare informazioni riservate riguardanti lo Ior.

Accetti ha però sostenuto che la baronessa non fu mai contattata e sparì improvvisamente per motivi estranei ai fatti. Le due fazioni vaticane sospettarono l’una dell’altra, il fotografo romano ha escluso che il suo ganglio abbia avuto a che fare con la morte di Jeannette May.

 

La scomparsa della baronessa e della sua amica, Gabriella Guerin, avvenne il 29/11/1980. Le donne furono viste in paese alle 17 e, nonostante un importante appuntamento, si sarebbero avventurate in montagna poco prima di una forte nevicata. Tracce della loro presenza furono trovate in una casa abbandonata di montagna a Fonte Trocca.

All’epoca un testimone disse di averle viste arrivare all’albergo in cui alloggiavano in auto con un uomo distinto e abbronzato, per poi ripartire. Un altro le vide il giorno dopo con due uomini su due grosse macchine dirette a Roma. Tuttavia la baronessa era da soli quattro giorni in Italia, troppo pochi per organizzare un rapimento.

I loro corpi furono ritrovati il 27/01/1982 tra i monti del Maceratese. L’autopsia stabilì che le donne morirono il giorno stesso della sparizione sul luogo del ritrovamento dei resti, causa assideramento. Le perizie successive non esclusero però il duplice omicidio ma, senza ulteriori elementi, il caso fu archiviato nel 1987.

 

In quale modo la morte della baronessa è collegata al caso Orlandi?

Secondo la versione fornita da Marco Accetti, gli «venne raccontato che uno dei miei sodali aveva spedito dei telegrammi riportanti dei codici che già contemplavano la possibilità di scegliere una o due delle ragazze nella palazzina abitata dagli Orlandi: si citava il luogo 3, così indicando la palazzina degli Orlandi ma non ricordo il motivo per cui questa palazzina fosse associata al numero 3, e inoltre si citava l’anagramma parziale di Orlandi, “Roland“».

 

Analisi e verifiche su “Roland” (codice di “Orlandi”)

Setacciando le cronache dell’epoca riguardo questi telegrammi, in quasi tutte le versioni -pur contraddittorie tra loro- il nome “Roland” non comparì.

Si trattò di tre telegrammi inviati poco dopo la comparsa della baronessa: il primo (spedito 03/12/1980) alla casa d’aste Christie’s (svaligiata il giorno dopo della scomparsa), il secondo (spedito il 06/12/1980) all’hotel di Sarnano in cui alloggiava Jeannette, il terzo (spedito il 02/01/1981) a un imprenditore del marmo.

Il quotidiano l’Unità del 15/03/1981 riferì che alla casa d’aste Christie’s arrivò questo testo: «Se volete ritrovare la roba andate al 130 di via Tito Livio». Firmato: «Roderigo, via Po 45».

La Stampa del 24/08/1981, invece, riportò un testo diverso: «Se volete ritrovare la roba andate in via Tito Livio 130, interno 3». Lo stesso quotidiano il 22/02/1981 riportò un’altra versione ancora: «Se vuoi la tua merce vai al 130 di via Tito Livio». Firmato: «Rodrigo». Versione confermata nella copia dell’11/12/1984.

Per quanto riguarda il secondo telegramma, inviato al residence da cui scomparve la baronessa, l’Unità del 15/03/1981 riferì questo testo: «Ti aspetto in via Tito Livio 130». Firmato: «Peppo, via Po 55».

La Stampa del 22/02/1981 riportò anche in questo caso una frase diversa: «Ti aspetto in via Tito Livio 130, interno 3». Firmato: «Peppo» (testo confermato anche nella copia del 24/08/1981 e in quella dell’11/12/1984).

Vi furono però altre versioni riportate sui quotidiani dell’epoca. Ad esempio, La Stampa del 14/03/1981 riferì che il mittente che inviò il telegramma all’albergo “Ai Pini” di Sarnano, dove scomparve la baronessa, si firmò effettivamente come “Roland”. Il testo riportato fu il seguente: «Attendoti Tito Livio 130, interno 3».

Questa esatta versione del testo, con la firma “Roland”, fu confermata anche dal Messaggero del marzo 1983.

I carabinieri si recarono all’appartamento di via Tito Livio 130, trovando solo degli extracomunitari e della cocaina.

Infine, per quanto riguarda il terzo telegramma, l’Unità del 15/03/1981 scrisse che qualche giorno dopo gli altri sarebbe arrivato a un anonimo imprenditore di Roma, indicante sempre “via Tito Livio”. Anche La Stampa del 24/08/1981 confermò che fu spedito «a un industriale del marmo di Roma». Il testo diceva: «Ti aspettiamo riunione di affari in via Tito Livio 130, int. 3».

Molto più preciso fu Il Messaggero del marzo 1983, dove si scrisse che il telegramma ai familiari di Valerio Ciocchetti, industriale del marmo, sequestrato una ventina di giorni prima (il 03/12/198, quattro giorno dopo la scomparsa della baronessa) da Laudavino De Sanctis e dalla cosiddetta “Banda delle Belve” e trovato morto il 27/02/1981, nonostante il riscatto pagato dalla famiglia.

E’ evidente che in quei giorni i mittenti dei telegrammi riguardanti la baronessa lessero sui giornali del sequestro di Ciocchetti e, per ignoti motivi (depistaggio?), inviarono ad un suo familiare lo stesso telegramma.


 

Conclusioni sui legami tra la scomparsa della Baronessa e il caso Orlandi.

Abbiamo visto che solo alcune fonti dell’epoca confermarono che il mittente dei telegrammi si fosse firmato come “Roland”.

Quali conclusioni trarne?
1) Marco Accetti ha mentito e si tratta di un errore di battitura di alcuni quotidiani (gli altri giornali dell’epoca riferirono i nomi “Rodrigo” e “Roderigo” per il telegramma alla casa d’aste Christie’s e “Peppo” per quello inviato all’albergo della baronessa)? Ipotesi da scartare, la probabilità che Accetti stia mentendo in merito a “Roland” e che, casualmente, alcune cronache di allora confermino pur erroneamente lo stesso nome, è troppo bassa;

2) Marco Accetti ha inventato il legame tra “Roland” e “Orlandi” solo dopo aver letto quegli articoli? E’ possibile, tuttavia sarebbe stato rischioso: a parte alcuni quotidiani (ne abbiamo trovati due per ora), le altre cronache dell’epoca non parlarono di “Roland”;

3) Marco Accetti ha detto il vero e gli articoli dell’epoca sono una prova? E’ possibile, tuttavia andrebbe spiegato perché gli altri quotidiani riferiscano nomi diversi (“Rodrigo” e “Peppo”).

Una controprova che si potrebbe fare è verificare se la palazzina (o l’appartamento) degli Orlandi in Vaticano abbia qualcosa a che vedere con il numero 3 (o con il numero 130). Al momento il legame tra la baronessa Rotschild e il caso Orlandi rimane incerto, non smentito ma nemmeno confermato.

C’è un aspetto che però sembra contrastare con le dichiarazioni di Accetti.

Abbiamo già spiegato in una sezione precedente che voci di possibili sequestri di cittadine vaticane arrivarono effettivamente in Vaticano, come testimoniato Raffaella Gugel, figlia dell’aiutante di camera del Papa (e come hanno rilevato le indagini di polizia su alcuni pedinamenti) e abitante nello stesso edificio degli Orlandi313F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 7. Ma esse pervennero soltanto dopo l’attentato del Papa, avvenuto nel maggio 1981 e non all’inizio di quell’anno, cioè quando arrivarono i telegrammi subito dopo la sparizione della baronessa Rotschild (avvenuta il 29/11/1980).

 

 

6.6 L’attentato a Giovanni Paolo II.

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Si è sempre sospettato che al centro del caso Orlandi vi fosse anche l’attentato a Giovanni Paolo II, avvenuto il 13/05/1981 (anniversario della apparizioni di Fatima, 13/05/1967), un anno prima della scomparsa di Emanuela.

L’evento rientra anche nel racconto di Marco Accetti e delle fazioni che avrebbero operato nell’ombra del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa.

L’uomo ha infatti sostenuto che la sua fazione vaticana si sarebbe affiancata agli organizzatori di un possibile attentato al Papa al fine di limitarne gli effetti cercando di trasformarlo in un gesto intimidatorio314G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.


 

La fazione di Accetti e le notizie sull’organizzazione dell’attentato.

Nell’estate 1980, la fazione di Marco Accetti sarebbe venuta a conoscenza della preparazione di un attentato al Papa da parte di idealisti turchi di estrema destra (i “Lupi Grigi”), grazie ad agganci nel servizio diplomatico della Turchia, dove fu nunzio mons. Backis.

 

Analisi e verifiche sulle notizie giunte alla fazione di Accetti.

Effettivamente in Vaticano arrivò nel 1979 un’informativa da parte del capo dei Servizi segreti francesi (SDECE), Alexandre de Marenches, di un possibile attentato al Papa.

Il giudice Rosario Priore, autore dell’inchiesta giudiziaria sull’attentato del 1985, ritenne che la fonte arrivasse dall’Est, più probabilmente dalla Polonia, escludendo però una connessione con l’attento del 1981 (si sarebbe trattato di un altro attentato). Al contrario, il marchese De Marenches creò un collegamento tra quelle notizie e quanto poi avvenne, attribuendo le responsabilità ai più alti vertici di Mosca315R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, p. 7, come scrisse lui stesso nel libro Dans le secrets des princes (1986).

Il 01/06/1979 De Marenches inviò due agenti a Roma, Valentin Cavenago e Maurice Beccuau, i quali si misero in contatto con l’ordine dei Premostratensi sull’Aventino, il cui l’abate generale era padre Norbert Calmel, con la Segreteria di Stato vaticana e quindi al Papa.

i monaci Premostratensi dell’abate Calmels?

Marco Accetti ha risposto sostenendo che fu la sua fazione a controllare «l’iter di consegna dell’informativa presso la Città del Vaticano e facemmo in modo che a essere prescelto come terminale della stessa fonte fosse l’abate dei Premostratensi Calmels, persona molto vicina a monsignor Bačkis, sottosegretario al Consiglio per gli Affari pubblici della Chiesa, a cui la mia parte faceva riferimento diplomatico-politico, senza che egli ne fosse mai stato coinvolto»316F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 35.

Nel 2005 il giudice Priore ha sostenuto di aver indagato nell’archivio dei Premostratensi ma esso era già stato diviso e le carte di interesse politico erano state portate in Vaticano, prelevate da «un monsignore lituano che lavorava presso la Segreteria di Stato e che, al tempo in cui svolgevo era diventato nunzio fuori d’Europa»317R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, pp.6, 7.

In risposta alla rogatoria del 28/02/1994, i vertici vaticani negarono l’esistenza di un’informativa da parte dei Servizi francesi318p. 8, ma Priore non lo ritenne credibile in quanto oltre alla testimonianza di De Marenches, ricevette la conferma dei due agenti recatisi in Vaticano, e dei Premostratensi che li accompagnarono319R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, pp. 8, 9.

Secondo la deposizione fornita dal giudice Ilario Martella, il SDECE (servizi segreti francesi) avrebbe nuovamente informato le autorità vaticane nel febbraio 1981, almeno secondo la testimonianza del giornalista americano Arnaud De Borchgrave320F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 12.

Da questi elementi non si può appurare quanto riferisce Accetti, se non la coincidenza che sia lui che il giudice Priore riferiscono un coinvolgimento “lituano”.


 

b) Il primo contatto con i “Lupi Grigi”.

Marco Accetti continua il suo Memoriale spiegando che, dopo aver saputo dell’intenzione di un attentato al Papa, avrebbero contattato loro i “Lupi Grigi” turchi qualificandosi come appartenenti a un gruppo cultista sudamericano di destra, in polemica con il pontefice per il flebile sentimento anticomunista (chiamandosi “Proprietà, Tradizione e Famiglia”).

 

Analisi e verifiche sul primo contatto con i “Lupi Grigi”.

E’ credibile che dei cattolici tradizionalisti potessero aver contattato degli estremisti islamici?

Il fatto che sull’attentato del Papa vi fosse stata una convergenza di interessi di gruppi eterogenei è effettivamente confermato dalla Corte di assise di primo grado e da quella di appello, le quali esclusero la tesi dell’atto individuale: «Il delitto fu il risultato di un complotto di alto livello: e cioè a monte dell’esecutore, anzi degli esecutori materiali vi furono organizzatori ed entità, con ogni probabilità, statuali»321citata in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 10.

La tesi fu confermata dal giudice Rosario Priore, titolare dell’inchiesta sull’attentato del 1985322Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, p. 12, convinto che dietro ad Agca ci fu sicuramente anche una parte dei “Lupi Grigi”, idealisti turchi di estrema destra, i quali, spiegò, «è pacifico che erano legati agli Stati Uniti[cioè la CIA, nda]. I Lupi Grigi erano una struttura che aveva compiti di difesa contro il comunismo» e «operano in un certo senso più dalla parte occidentale che dalla parte orientale»323Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, pp. 15, 27.

Ferdinando Imposimato e la Commissione parlamentare sul dossier “Mitrokhin” sostengono invece che, almeno inizialmente, Agca era un estremista di sinistra, amico del leninista rivoluzionario arabo Seddat Kaddem, addestratosi 40 giorni in un campo militare palestinese di Habbash324F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 15 325Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, Documento conclusivo 15/03/2006, p. 257.

Il giudice Rosario Priore, al contrario, faticò ad inquadrare Agca: si dice che furono «i Servizi occidentali ad avere rapporti con i Lupi Grigi, però altri sostengono che i Lupi Grigi fossero stati infiltrati dal KGB e che addirittura Agca fosse un infiltrato del KGB. Agca l’ho sentito molte volte: è furbo, astuto, intelligentissimo, però non lo ritengo in grado addirittura di percepire queste differenze. Se dovessi dare un giudizio su Agca, non lo definirei né di destra, né di sinistra, ma lo descriverei come un uomo aperto, rotto a tutto, come si diceva una volta»326R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 25.

La versione più sostenuta dagli inquirenti italiani sull’attentato al Papa è che il KGB e l’Unione Sovietica avrebbero dato mandato ai Servizi segreti bulgari di uccidere il Papa, i quali si sarebbero serviti della mafia turca, tramite Bekir Celenk, che a sua volta si avvalse dell’organizzazione terroristica dei Lupi grigi. Agca sarebbe stato l’ultimo anello della catena.

Per quanto riguarda l’eterogeneità degli interessi, anche il magistrato Carlo Palermo citò un rapporto di polizia giudiziaria in cui venivano collegati esponenti islamici, massonici (Thurn und Taxis e «il gruppo religioso cultista “Tradizione, famiglia e proprietà”, particolarmente forte e numeroso in America Latina», ed il tradizionalismo ultracattolico (la famiglia portoghese Braganza e Juan Fernandez Krohn, attentatore del Papa nel 1982)327Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 06/07/2005, p. 12.

Così, proseguì il magistrato Palermo328p. 8, 9, «si hanno dei collegamenti tra componenti occulte occidentali, in particolare americane, ed elementi arabi o musulmani, che dovrebbero essere contrapposti, ma che tali non sono, ove si esaminino tutti gli aspetti affaristici che invece ne costituiscono il prodotto».

Il tutto ruotava attorno alle apparizioni di Fatima, quella che Palermo definì «esaltazione mistica dell’ispirazione alle apparizioni di Fatima e al terzo segreto di Fatima cui, da una parte Agca e dall’altra padre Krohn l’anno seguente, sia pur da contrapposte posizioni, si erano ispirati»329p. 7.

D’altra parte, proseguì il giudice Palermo, Alì Agca «ha una sorella che si chiama Fatma (lo scrive lui nel suo libro). E dato che non può parlare delle apparizioni di Fatima nel senso religioso nostro, visto che è musulmano, ma ha anche una sorella che si chiama così, lui può esprimere solo una rivendicazione propria nei confronti di quell’episodio, in attesa del premio, così come era stato per gli altri omicidi che aveva compiuto»330p. 16.

Ricordiamo infatti che Fatima era anche il nome della figlia prediletta di Maometto, come spiegò Carlo Palermo, «le apparizioni avvenute in Portogallo per i musulmani non sono altro che apparizioni della loro Fatima, alle quali viene ricondotto comunque un effetto salvifico, un fine salvifico» (p. 24).

Se il legame tra fondamentalisti cattolici e islamici ha dunque una conferma storica, rimane sempre possibile che Marco Accetti ne sia venuto a conoscenza e l’abbia usato in maniera creativa per inserirlo nel grande filone del caso Orlandi.


 

c) Il contatto con Alì Agca.

Marco Accetti ha sostenuto che a contattare Alì Agca sarebbero stati due religiosi asiatici con lineamenti orientali, membri di Propaganda Fide, uno dei quali avrebbe prestato servizio diplomatico in Brasile e avrebbe incontrato tre volte l’idealista turco, a Milano, a Perugia e a Roma in un appartamento in via Belsiana, di proprietà di una persona conosciuta da Accetti stesso al collegio San Giuseppe De Merode331in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, pp. 56, 57.

 

Analisi e verifiche sul contatto con Alì Agca

Non esistono riscontri specifici anche se c’è un elemento particolare riguardante l’albergo “Aosta” di Milano, nel quale Agca alloggiò.

Il giudice Rosario Priore ha rivelato che i registri furono trovati bruciati da un incendio ma i Servizi segreti (il Sisde o il Sismi) conservarono copia delle pagine, sulle quali «c’erano degli sbianchettamenti sulla registrazione di un prelato che era stato in quell’albergo, quasi in coincidenza con Agca». Un dettaglio trascurabile, anche se «questa presenza aveva immediatamente richiamato l’attenzione dell’intelligence»332R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 14.

Non si capisce se la sbianchettatura la operarono i Servizi o il nome risultava già cancellato quando fotocopiarono le pagine del registro dell’albergo. A rigor di logica, se dedussero la presenza di un prelato è perché videro effettivamente il nome. Sarebbe utile indagare in tal senso.


 

d) La presenza di Alì Agca ad alcune udienze papali.

La fazione di Accetti avrebbe anche introdotto Agca in alcune udienze papali prima dell’attentato, in veste di studente universitario in contatto con la Segreteria per i non cristiani.

Agca, disse Marco Accetti, «doveva essere presentato come uno studente indiano, dell’università di Perugia e poi fotografato assieme a prelati, tra i quali alcuni membri della Congregazione per la dottrina della fede, che non sapevano chi fosse il giovanotto, certo, ma se le foto fossero arrivate a un giornale, dopo l’attentato, sarebbe stato comunque un problema serio, imbarazzante»333in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 148.

Agli idealisti, invece, sarebbe stato fatto credere che la presenza di Agca in queste occasioni ecclesiastiche «fosse per il fine di esercitare pressione su alcuni prelati attestati su posizioni vicine all’eurocomunismo»334in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 55.

 

Analisi e verifiche sulla presenza di Alì Agca alle udienze papali.

Il primo a sostenere che Agca comparve in alcune cerimonie in presenza di Papa Wojtyla non è stato Accetti ma Oral Celik335R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 131.

Fu dalle sue dichiarazioni che si visionarono le immagini della messa di Giovanni Paolo II celebrata il 10/05/81, tre giorni prima dell’attentato, presso la chiesa di S. Tommaso d’Aquino. Effettivamente il giudice Rosario Priore riconobbe una persona somigliantissima a Agca, totalmente sconosciuto ai parrocchiani del quartiere336R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, pp. 131, 132.

I tratti somatici erano identici, «se costui non è Agca, ne è di certo un perfetto sosia», scrisse Priore337R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 135. La forte somiglianza fu notata nei giorni dopo l’attentato anche dal parroco di S. Tommaso, dal fotografo pontificio, Arturo Mari, e da quelli dell’Osservatore Romano338R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 131.

Quest’uomo si trovava in una zona riservata a coloro che potevano ricevere la Comunione dalle mani del Papa, a cui si accedeva tramite invito da parte della parrocchia e della Prefettura della Casa Pontificia, il cui reggente era mons. Dino Monduzzi. L’indagine stabilì che gli inviti distribuiti dalla parrocchia erano solo per i parrocchiani, mentre quelli forniti dalla Casa pontificia erano una ventina, tra cui alcuni stranieri339R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, pp. 136, 137.

Il padre di Emanuela, Ercole Orlandi era uno degli incaricati alla distribuzione degli inviti e nel 1995 testimoniò che essi venivano consegnati a mano il giorno prima delle cerimonie ed escluse che tra essi vi fosse il nome di Agca. Ricordò però di aver inviato diversi biglietti all’albergo Isa di via Cicerone, dove effettivamente Agca alloggiò340R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, pp. 137, 138.

Uno dei fotografi della parrocchia era Daniele Petrocelli, poche ore dopo l’attentato si presentò a casa sua un uomo qualificatosi come appartenente alla Digos e chiese le foto dell’evento senza però redigere un verbale d’acquisizione. Qualche giorno dopo fu restituita una solo foto e gli fu detto che l’uomo sarebbe stato individuato come appartenente alla scorta del Papa341R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 132.

Il giudice Priore smentì che si trattò di un uomo della scorta, sottolineando anche quell’uomo che si trovava in una zona riservata agli invitati, per la quale occorrevano speciali inviti342R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 135.

Tale evento fu l’unico in cui emerse la presenza di Agca a cerimonie religiose343R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 141.

Se è quindi possibile confermare la presenza di Agca vicino a Papa Wojtyla tre giorni prima dell’attentato, non ci sono prove che dimostrino il ruolo di Marco Accetti ad averlo introdotto.

Certamente i vari viaggi e spostamenti di Agca prima dell’attentato sono sempre risultati inspiegabili, non fu il classico comportamento di un attentatore.

La spiegazione fornita da Accetti di un apposito intento di farsi fotografare per produrre pressioni e ricatti successivamente all’attentato è un’ipotesi convincente, molto meno lo è pensare che organizzazioni criminali estere avessero riposto così tanta fiducia in Marco Accetti e al suo finto gruppo sudamericano tradizionalista, tanto da affidare a loro la logistica del più grande attentato del secolo. Con quali garanzie?

Della logistica di quei giorni avrebbero potuto interessarsene in maniera più autorevole e competente i servizi segreti di uno dei Paesi dell’Est interessati. Il giudice Rosario Priore ha infatti scritto che vi sono prove certe «che tale delitto fu il risultato di un complotto di alto livello, e cioè che a monte dell’esecutore, anzi degli esecutori materiali, vi furono organizzazioni e entità con ogni probabilità statuali»344R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 14.

L’organizzazione alle spalle di Agca (ingaggiata da entità statuali riferite da Priore) era talmente preparata che lo aveva fatto evadere dal carcere turco, gli aveva fornito rifugio, lo aveva rifornito di denaro, di documenti d’identità e di viaggio falsi, lo aveva fatto muovere attraverso varie frontiere, dall’Asia, all’Europa, all’Africa e infine lo aveva munito dell’arma345R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 14.

Non avevano bisogno di Marco Accetti e della sua fazione, certamente non come mente logistica, al massimo come semplice manovalanza (ricordiamo la telefonata di prenotazione dell’albergo “Isa” fatta da un italiano).


 

e) La prenotazione degli alberghi di Alì Agca.

Pur precisando di non averlo mai incontrato personalmente, Marco Accetti sostenne di prenotato lui stesso a Roma l’albergo “Archimede” in via dei Mille, l’albergo “Ymca” di piazza Indipendenza e l'”Isa” di via Cicerone, da dove il terrorista uscì per compiere l’attentato.

«Venne deciso che fossi io a prenotare la stanza per il signor Agca per dare una certa impronta al cosiddetto attentato, far capire che l’azione nasceva da ambienti italiani, e per esteso vaticani»346citato in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, ha riferito Accetti.

Marco Accetti aggiunse inoltre che in quei giorni offrì anche la logistica per l’attentato ad un complice di Agca, Musa Serdar Celebi, «che una volta ospitai presso la mia abitazione»347citato in F. Peronaci, Caso Orlandi, la difesa di Accetti: «Interrogate 2 arcivescovi e il turco Celebi», Corriere della Sera, 21/11/2013.

 

Analisi e verifiche sulla prenotazione degli alberghi.

Alì Agca, nell’interrogatorio del 21/02/1983, sostenne che nel gennaio 1981 non alloggiò solo all’albergo “Isa” ma anche all’albergo “Archimede”.

Gli inquirenti dell’epoca verificarono che all’hotel “Archimede”, Agca alloggiò nel novembre 1980, mentre all’“Ymca” si fermò la notte tra il 10 maggio e l’11 maggio 1981. All’albergo “Isa” arrivò invece la mattina del 12 maggio 1981.

Un dettaglio rilevante riguarda l’albergo “Isa”: Maurizio Paganelli, il titolare di allora, testimoniò che a prenotare la stanza per telefono fu una persona che parlava un italiano corretto, quindi non Agca in quanto lo parlava a malapena.

«Se si vuole disporre un confronto con il titolare della pensione Isa sanno dove trovarmi», ha dichiarato Accetti348citato in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

Il reo-confesso ha sostenuto anche che l’albergo “Isa” sarebbe stato scelto per la stretta vicinanza alla sede di Osservatorio Politico dell’avvocato Mino Pecorelli, il quale «era nei nostri interessi per il rapporto con monsignor Bruno, e come ulteriore codice per il nome dell’albergo “Isa”, che in lingua araba e turca significa “Gesù”».

Pecorelli venne assassinato nel 1979, due anni prima dell’attentato al Papa e l’Osservatore Politico aveva sede in via Tacito, effettivamente a 100mt. di distanza dall’albergo “Isa”.

L’elemento contraddittorio è quanto sottolineato dal giudice Rosario Priore, ovvero che Agca alloggiava «sempre in determinati alberghi». Inoltre, aggiunse, «i registri alberghieri sono una miniera di notizie, perché negli alberghi frequentati da Agca vi erano contemporaneamente un’infinità di turchi»349R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, pp. 14, 15 .

Dai registri dell’hotel “Isa” emerse infatti che il turco pernottò in quell’albergo anche nel gennaio 1981, nella stanza 18. Si trovava a Roma presumibilmente per compiere un attentato (poi fallito) a Lech Walesa, leader di Solidarnosc, in udienza papale il 15/01/81. In quest’albergo, spiegò Priore, «c’é stato ben tre volte»350R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 14.

Quando tornò nel maggio 1981, fu registrato il 13/05/1981 anche se era già lì dal 10/05/1981. Non gli venne però data la stanza 18, «come sempre era successo», ma gli assegnarono la stanza 31. Lo si apprese dai registri, dalla testimonianza del gestore Paganelli (diede 4 deposizioni) e da quella della sorella, «che riporta con attendibilità come sono andate le cose»351R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 14. E’ confermato il fatto che la prenotazione venne fatta da un uomo che parlava in italiano perfetto.

Un dettaglio controverso è che nella stanza 31 dell’albergo “Isa”, alloggiava un somalo e dopo l’attentato furono trovate due valige, sequestrate dagli inquirenti352R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 14.

Se Agca pernottava sempre negli stessi alberghi, se all'”Isa” alloggiò già altre tre volte, se vi era la presenza di altri turchi: perché Accetti riferisce di aver scelto lui quell’albergo il giorno prima dell’attentato per simboleggiare una relazione con Pecorelli e con il nome “Isa”? Intende dire che la sua fazione aveva prenotato a nome di Agca nonostante il terrorista turco avesse prenotato e alloggiato negli stessi alberghi anche in passato?

 

f) Il giorno dell’attentato al Papa.

I contatti con Agca sarebbero serviti ad indurre i turchi a semplici minacce o a spari in aria, cercando di convincerli che la morte del Pontefice sarebbe stata controproducente per gli interessi di tutti. Tuttavia, Agca sparò al Papa.

«Abbiamo sempre pensato a due ipotesi», ha scritto Accetti, «la prima che vede gli idealisti venir meno autonomamente al patto. La seconda, che possa esserci stato il suggerimento da parte di interessi terzi»353M. Accetti, Memoriale, 2014.

Gli accordi iniziali sarebbero stati di effettuare un solo colpo di arma da fuoco da esplodere per aria, simulando di aver mancato il bersaglio. La pistola di Agca, aggiunse il reo-confesso, disponeva di un caricatore con un limite-capienza di 14 cartucce, e una non fu inserita per timore di inceppamenti. Avrebbe dovuto quindi montare 13 proiettili e il colpo esploso doveva essere il tredicesimo, come la data del giorno da noi scelto, per l’appunto il 13 maggio, anniversario del fatto di Fatima354in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango libri 2014, pp. 61, 62.

 

Analisi e verifiche sul giorno dell’attentato al Papa.

Per quanto riguarda il fatto che il turco sarebbe venuto meno agli accordi, Agca colpì Wojtyla a soli due centimetri sotto l’aorta, quindi l’intenzione fu di uccidere il Papa.

Rispetto a ciò, però, il giudice Rosario Priore ha dichiarato che «Agca era veramente un killer […] era abituato a uccidere persone ad una distanza di 50 metri anche in condizioni di scarsissima visibilità; in piazza San Pietro era a sette metri, in pieno giorno, con il sole»355R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 9.

Nel primo periodo del processo a suo carico (dal maggio 1982), quando si dimostrò collaborativo, Agca comunicò al giudice Ilario Martella che l’intenzione era uccidere il Papa, «questo era il mandato che mi era stato affidato, tant’è che ho sparato solo due colpi perché accanto a me c’era una suora[di nome Lucia, tra l’altro, NDA] che ad un certo momento mi ha preso il braccio destro, per cui non ho potuto continuare a sparare. Altrimenti io avrei ucciso il Papa»356citato in I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/04/2005, p. 8.

Per quanto riguarda il caricatore dell’arma di Agca, il pm Antonio Marino ha spiegato che nella pistola di Agca fu trovato un caricatore con dieci colpi e, poiché il caricatore ne poteva contenere dodici, si è sempre dedotto che fossero stati sparati due colpi357A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 31/05/2005, p. 12. Ciò risulta anche dagli atti della documentazione sonora358I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/04/2005, p. 12.

L’esplosione di due colpi fu confermata dal rapporto dell’Ufficio centrale di Vigilanza del Governatorato del 19/05/1981, dall’autista della papamobile, Franco Ghezzi, dal sovrastante Giusto Antoniazzi, dall’agente di Vigilanza Graziano Tommasini, dall’agente scelto Franco Chiei Gamacchio, dall’agente Antonio Mantovani e dal gendarme Ermenegildo Santarossa359R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, pp. 175-183.

Quanto riferisce Accetti, quindi, riguardo al caricamento di 13 proiettili (codice di Fatima), non corrisponde al vero. Sarebbe stato fisicamente impossibile per il tipo di caricatore trovato in possesso di Agca.

La diatriba fu piuttosto sul terzo colpo udito da alcuni presenti quel giorno 360I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/04/2005, pp. 11, 12, testimoniato anche da mons. Stanislao, che stava accanto al Papa. Il processo non ha mai stabilito che il terzo colpo sia stato esploso da un complice di Agca361A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 31/05/2005, p. 13.

 

g) Un complice di Agca in Piazza San Pietro.

Il reo-confesso Marco Accetti ha riferito inoltre che in piazza San Pietro vi sarebbe stata «una persona accanto a lui che doveva coprirne la fuga accendendo un fumogeno»362in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango libri 2014, p. 61.

Non sappiamo a chi si riferisca, seppur in precedenza disse di aver gestito anche la presenza in quei giorni di Musa Serdar Celebi.

 

Analisi e verifiche sul complice di Agca.

I magistrati che si sono occupati dell’attentato al Papa hanno smentito ufficialmente che Agca abbia agito da solo, parlando esplicitamente e documentando l’idea di un complotto internazionale363priore 364Imposimato, p.15, ordito da entità statali.

E’ infatti piuttosto certificato365F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 15 366A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 14/06/2005, p. 25 che in piazza San Pietro vi furono altri elementi a sostegno di Agca.

Alcuni magistrati furono convinti che ci fosse Oral Celik367F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 15, addirittura con «prove schiaccianti»368A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 14/06/2005, pp. 25, 35, insieme ad Antonov369A. Marini, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 14/06/2005, p. 25.

Altri inquirenti hanno negato, riconoscendo solo un uomo che fugge ripreso di spalle verso il colonnato in corrispondenza di Porta Angelica370R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 28/09/2005, p. 22. Il giornalista Lowell Newton riferì infatti agli inquirenti di aver visto un uomo diverso da Agca scappare con in mano una pistola e di essere riuscito a fotografarlo soltanto di spalle. Dall’immagine si vede la protuberanza della pistola nascosta sotto il giubbotto371I. Martella, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/04/2005, p. 11.

Lo stesso Oral Celik, interrogato dal giudice Priore, ammise che c’era un’auto in attesa, non sotto l’ambasciata del Canada come si è sempre detto, ma in via di Borgo Angelico (la direzione in cui stava correndo l’uomo fotografato di spalle)372R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 28/09/2005, p. 22.

Nel 2006 una perizia della polizia scientifica su una fotografia scattata in Piazza San Pietro il giorno dell’attentato stabilì la presenza certa di Sergej Ivanov Antonov373Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, Documento conclusivo 15/03/2006, p. 264. Abbiamo mostrato la foto a Marco Accetti ma ci venne risposto che non si trattava di Antonov.

Ferdinando Imposimato ha criticato talla perizia sostenendo che non vi sarebbe «alcun elemento che induca a ritenere che Antonov si trovasse in Piazza San Pietro. Sarebbe stato assurdo anche dal punto di vista logico, considerato che in quella piazza vengono fatte riprese e scattate fotografie»374F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 24.

Il giudice Rosario Priore fu più prudente affermando che «sappiamo chi era l’autore ma non sappiamo chi erano i coautori presenti a piazza San Pietro»375R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 28/09/2005, p. 18.

Una cosa simile a quella riferita da Accetti fu detta nel 1985 in uno degli interrogatori dallo stesso Agca, quando sostenne che Arslan Samet sarebbe dovuto intervenire, nel caso qualche membro fosse stato catturato, facendo esplodere delle bombe panico. Un anno più tardi ritrattò tutto376R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, pp. 20, 21.

 

h) Tentativi di condizionare Agca e l’idea del sequestro della Orlandi.

Dopo l’arresto di Agca nel 1981 e per evitare la collaborazione con gli inquirenti, la fazione di Accetti avrebbe ideato di effettuare dei pedinamenti “appariscenti” per far credere al turco che si stava organizzando un sequestro di cittadini vaticani da contraccambiare con la sua scarcerazione377M. Accetti, Memoriale, 2014.

E’ con questa motivazione che Accetti spiega gli effettivi pedinamenti che le figlie di Gugel (aiutante Papa) e Cibin (sicurezza Papa) denunciarono dopo la scomparsa di Emanuela.

A pedinare Raffaella Gugel, disse Accetti, sarebbe stato «un membro dei Focolari Idealisti», mentre della figlia di Camillo Cibin si sarebbe occupato un membro della Stasi.. Il nome dell’idealista turco «è negli atti del processo per l’attentato. Non intendo fare chiamate di correità, ma gli organi inquirenti, volendo, arriverebbero a lui facilmente»378in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 72.

Nel marzo 1982, Marco Accetti venne arrestato per detenzione d’arma da sparo379G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46, ha sostenuto in merito che la sua fazione ebbe la notizia che l’attentatore turco intendesse collaborare con i giudici incolpando la delegazione bulgara, «cercammo di fargli credere, fittiziamente, che un servizio dell’Unione Sovietica stesse mandando un neofascista a compiere un omicidio nei suoi confronti. Agca sapeva essere prassi d’oltrecortina usare elementi di destra»380in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 75.

Lo stesso Accetti si sarebbe fatto arrestare «usando un’arma del padre di mia moglie, la quale me l’avrebbe consegnata senza conoscerne l’uso. Quindi il semplice reato era porto abusivo»381in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 75.

Si sarebbe così posizionato «nel giardinetto prospiciente» in piazza Sant’Emerenziana «cercando di far notare al vigilante privato, posizionato innanzi ad una banca, che recavo con me, sotto al giubbotto, una rivoltella», di tipo P38. Venne avvisata la polizia e Accetti finì a Rebibbia. «Nell’interrogatorio di rito simulai un trascorso nell’ambiente del neofascismo, citando fatti inesistenti e inserendo, all’interno degli essi, luoghi ecclesiastici a mo’ di codice»382in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 75.

La minaccia verso Agca sarebbe stata far girare la voce di un emissario del Kgb entrato nelle carceri incaricato di ucciderlo. Al terrorista turco, attraverso un agente corrotto dagli uomini di De Pedis, sarebbe stata fatta leggere una copia del verbale. Accetti fu scarcerato il 29/04/82 e un mese dopo, Agca iniziò a collaborare con gli inquirenti e l’8/11/82 accuserà di complicità i bulgari Antonov, Vassilev e Ayvazov383in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 76.

 

Analisi e verifiche sul condizionamento di Agca.

  • Un riscontro al fatto che a pedinare alcune adolescenti vaticane sarebbe stato un “idealista turco” è contenuto nella deposizione del 1984 di Raffaella Gugel, figlia di Angelo Gugel, aiutante di camera del Papa, la quale testimoniò di essere stata pedinata pochi giorni dopo l’attentato al Papa da un uomo «di carnagione scura, tipo nazionalità turca, capelli scuri ricci con occhi scuri»384citata in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, p. 6.
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  • Lo stesso Agca nel 1990 dichiarò che sia da prima dela realizzazione dell’attentato il piano prevedeva il sequestro di diplomatici italiani nel caso un membro fosse stato arrestato e, continuò il turco, «qui è entrata in mezzo la storia di Emanuela e Mirella»385citato in R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 22.
  •  

  • Non vi sono prove per sostenere che Accetti non abbia consultato gli atti delle deposizioni di Raffaella Gugel e degli interrogatori di Agca e abbia innestato queste informazioni nel suo racconto sul caso.
  •  

  • Anche per quanto riguarda l’arresto di Accetti per detenzione d’arma da fuoco non è possibile né avvalorare, né smentire quanto riferito dal reo-confesso. Sottolineiamo soltanto la poca credibilità di un’immolazione totale da parte di Accetti per salvaguardare i bulgari dalle accuse di Agca (tentativo fallito, tra l’altro), tanto da macchiare appositamente la sua fedina penale e passare un mese in carcere. In cambio di cosa?

 

 

6.7 Marco Accetti e l’omicidio di José Garramon.

Nel dicembre 1983 Marco Accetti fu arrestato e processato per l’omicidio di José Garramon, figlio dei coniugi Maria Laura Bulanti e Carlos Juan Garramòn, ingegnere specializzato in progetti agricoli per l’Ifad, agenzia delle Nazioni Unite. L’uomo fu condannato per omicidio colposo e omissione di soccorso.

 

Qui sotto il furgone di Marco Accetti dopo l’incidente:

 

Presentandosi in Procura nel 2013 per il caso Orlandi ha sostenuto che all’epoca del processo per il caso Garramon non poté rivelare i retroscena dell’episodio386G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43, che sarebbero legati al caso Orlandi.

Accetti ha infatti raccontato che il 20/12/1983 nella pineta di Ostia mentre si trovava alla guida di un furgone Ford Transit in compagnia di una sua complice tedesca (fiancheggiatrice della Stasi con nome in codice Ulriche) investì involontariamente Garramon.

Nel 2013 l’uomo ha chiesto agli inquirenti di fare luce sulla vera natura dell’incidente in quanto, a suo dire, la responsabilità dei fatti sarebbe stata della fazione vaticana a lui contrapposta387G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43.

 

Nel seguente video la ricostruzione dell’omicidio e la tesi di Marco Accetti:


 

a) La pineta e la figlia del giudice Santiapichi.

Marco Accetti e Ulrike si sarebbero trovati in quella pineta per recarsi al camper in cui Emanuela sarebbe stata custodita da altre ragazze, parcheggiato all’Infernetto vicino alla casa del giudice Santiapichi, magistrato che avrebbe dovuto presiedere la prossima Corte d’Assise per l’attentato al Papa388G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 43.

«Alla Orlandi, senza spiegare il motivo, facemmo delle foto nelle quali si rendeva riconoscibile il luogo», ha dichiarato Accetti. «Più che Santiapichi, ci interessavano i familiari, in particolare la figlia Arianna, con la quale io stesso scambiai qualche parola, senza farle intendere nulla»389in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

In un’altra occasione (perlomeno citato da Fabrizio Peronaci) l’uomo ha precisò che «le pressioni, più che alla persona del giudice, erano rivolte ai suoi familiari, in particolare la figlia, e a funzionari del ministero di Giustizia, con riferimento alla composizione della futura giuria di Corte d’assise».

 

Analisi e verifiche sui Santiapichi :

  • Nel febbraio 2016 abbiamo contattato Xavier Santiapichi, figlio del giudice Severino e fratello di Arianna, il quale ci ha riferito che «mia sorella non si è mai interessata di queste cose, fra l’altro aveva un fidanzatino in Sicilia e stava sempre in Sicilia con il suo fidanzatino». Circostanza che ci è stata confermata dallo stesso giudice Santiapichi in una telefonata del 27/02/16.
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  • Per quanto riguarda l’utilizzo del camper, vi è invece un possibile riscontro, rimandiamo il lettore alla sezione apposita.


 

b) Il SISDE, “Phoneix” e l’omicidio Garramon.

Secondo la versione ipotizzata da Accetti, l’attività svolta dal suo “ganglio” nella pineta (pressioni, foto, pedinamenti, lettere di minaccia) sarebbe giunta a conoscenza di elementi del Sisde.

Sarebbero stati loro dietro al gruppo “Phoenix” che, in un comunicato del 27/09/1983 (tre mesi prima dell’episodio riguardante Garramon), minacciarono i telefonisti del caso Orlandi, parlando proprio di una “pineta” («Vogliamo generosamente ricordare a Mario che nella pineta c’è tanto posto per aumentare la vegetazione“»).

Il 20/12/1983, tre mesi dopo la minaccia di “Phoenix”, alla vigilia dell’uscita dal carcere di Antonov (un successo per la fazione “progressista”) Accetti si sarebbe recato al camper, in cui ci sarebbe stata Emanuela, in quanto i vertici della sua fazione avrebbero deciso di far interrompere le pressioni in corso affinché la decisione non venisse revocata. Rientrando verso Ostia, in compagnia della ragazza tedesca vicina alla Stasi (“Ulrike”), avvenne l’incidente e Accetti investì José Garramon.

Accetti avrebbe deciso di costituirsi ma cercando di sfruttare l’episodio per le finalità della fazione, facendosi arrestare nei pressi della villa di Santiapichi.

La ragazza tedesca si sarebbe recata nuovamente al camper per spostarlo, Accetti prese un autobus per il centro (fu ritrovato il biglietto) e sarebbe passato da casa sua per telefonare all’amica ed ex fidanzata Patrizia De Benedetti. Con lei, a notte fonda, sarebbero tornati sul luogo, precisamente in via Francesco Cilea. L’uomo si trovava con la De Benedetti al momento dell’arresto390G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.

Nella sentenza si sostenne che i carabinieri fermarono Accetti e De Benedetti nella Fiat 127 per un controllo dei documenti e li sospettarono di essere estremisti di sinistra, quali i due erano considerati allora, anche per la vicinanza a una scuola391citata in P. Nicotri, Fassoni Accetti: tre errori nella sentenza di condanna per la morte di Garramòn, BlitzQuotidiano, 11/03/2014.

La preoccupazione di Accetti sarebbe stata farsi arrestare prima che i testimoni oculari della fazione avversa lo denunciassero producendo indizi fasulli. Per questo avrebbe tenuto addosso il giubbotto macchiato di sangue e non avrebbe tolto i frammenti del parabrezza dalla ventola del furgone392in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 154.

Nel 1986, tre anni dopo, la Corte d’Assise condannò Marco Accetti a 26 mesi di reclusione ma, siccome la carcerazione era già stata superiore (oltre un anno in cella, altrettanto ai domiciliari), ne disporrà l’immediata liberazione393in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 152.

Nell’istruttoria non c’è traccia del fatto che Accetti, nelle settimane precedenti l’investimento, si sarebbe recato presso l’abitazione dei Garramon travestito da prete e poi come fotografo, come invece affermato dalla madre di Garramon e dalla sua domestica394M. Accetti, Le falsità della signora Garramòn, 06/08/2014.

 

Analisi e verifiche sull’arresto di Accetti dopo l’omicidio:

  • La Corte di Assiste del 1985 stabilì che Marco Accetti nella notte fra il 20 e il 21 dicembre 1983 fu tratto in arresto per omicidio colposo e omissione di soccorso per aver investito Garramon su viale di Castel Porziano all’altezza della cascina nel Bosco, nascondendo il furgone in via Dobbiaco all’altezza del civico 59.
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  • Il giornalista Pino Nicotri ha sostenuto che nella sentenza non è citato il fatto che l’arresto avvenne nei pressi dell’abitazione del giudice Severino Santiapichi, né che «a bloccare Fassoni Accetti sulla 127 fu la scorta di Santiapichi preoccupata per la vicinanza della casa del magistrato»395P. Nicotri, Fassoni Accetti: tre errori nella sentenza di condanna per la morte di Garramòn, BlitzQuotidiano, 11/03/2014. Eppure, il fatto che l’omicidio Garramon si svolse effettivamente nei pressi della villa del giudice Santiapichi è stato confermato sia dal figlio Xavier Santiapichi, da noi intervistato nel febbraio 2016, che in maniera oggettiva e imparziale dalle cronache dell’epoca.

    Ecco cosa si legge sull’Unità del 22/12/1983 (una ricostruzione tuttavia poco chiara e differente dalla sentenza):

    «A lui i carabinieri di Ostia sono giunti per un caso del tutto fortuito, a quanto sembra. Sarebbe stata la scorta del giudice Santiapichi, presidente della Corte d’Assise a far scattare l’operazione. Avendo notato infatti un “Ford Transit” simile a quello segnalato nei bollettini di ricerca per il “pirata” di Castelporziano, gli uomini della scorta hanno segnalato il numero di targa alla stazione dei CC di Ostia. Risaliti al proprietario del furgone, i militari hanno scoperto che effettivamente Marco Accetti aveva parcheggiato in garage il suo “Ford”, con un’ammaccatura sul muso anteriore. E mancava anche la targhetta ritrovata vicino al corpo del piccolo José. Per questo l’uomo fu fermato, ed accompagnato in carcere per essere interrogato dal magistrato»

    Nella ricostruzione della Procura di Roma del 2015, si rilevò inoltre che Patrizia De Benedetti dichiarò che «lei è Accetti, dopo essere stati fermati e portati in caserma dai carabinieri, appresero solo il giorno successivo che i carabinieri che li avevano sottoposti a controllo appartenevano alla scorta del magistrato Santiapichi, che abitava in quei pressi»396G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 51.

    Lo stesso Nicotri, oltretutto, ha riconosciuto che la De Benedetti sarebbe stata pressata da domande «per lei prive di senso da un magistrato – Domenico Sica – arrivato apposta da Roma perché la vicinanza dell’abitazione di Santiapichi, all’epoca impegnato in processi di grande importanza anche politica, faceva sospettare intenti terroristici»397P. Nicotri, Fassoni Accetti: tre errori nella sentenza di condanna per la morte di Garramòn, BlitzQuotidiano, 11/03/2014.

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  • Nella versione dell’arresto riportata da Fabrizio Peronaci nel suo libro, secondo il quale i carabinieri avrebbero invece fermato Accetti e De Benedetti alle ore 4 in via Francesco Cilea e, sospettando fossero brigatisti, li avrebbero portati in caserma. Nell’interrogatorio, la De Benedetti si tradì (lui non intendeva ancora parlarne) citando il furgone e l’uomo venne arrestato398in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 154.


 

c) I legami biografici tra Marco Accetti e José Garramon.

Considerando che Accetti fu accusato di omicidio colposo (non di rapimento), rimane un mistero come il piccolo José Garramon si fosse trovato a quell’ora su quella strada al buio, nonostante abitasse al’Eur, diversi chilometri di distanza. E’ possibile che l’omicidio non fu una casualità?

Secondo Marco Accetti qualcuno condusse lì Josè Garramòn: «Non ho mai pensato che potessero essere stati i funzionari del Sisde a prelevare il ragazzo uruguyano, ma che gli stessi potessero aver detto a determinati personaggi a loro contigui[la malavita romana, nda], delle nostre attività nella suddetta pineta, e che queste persone, autonomamente, abbiano deciso di “usare” il Garramòn, e senza forse mettere al corrente le persone del predetto servizio dello Stato Italiano»399M. Accetti, Punti 6 e 7 (indizi e prove), 21/01/2014.

Accetti ha rintracciato alcuni elementi che lo collegherebbero al bambino400M. Accetti, Punti 6 e 7 (indizi e prove), 21/01/2014:

  1. Il primo indizio è oggettivo e non falsificabile: José frequentava lo stesso collegio elementare frequentato da Marco Accetti, la St. George School.
  2.  

  3. José era uruguayano, «nazione feudo dell’avvocato Ortolani, i cui uomini erano nostra controparte»;

    Analisi e verifiche: l’Uruguay poteva essere effettivamente essere definito il feudo del faccendierie Umberto Ortolani (oltre che di Gelli), esponente della P2, come abbiamo visto in un’altra sezione. La nonna di José Garramon abitava a pochi metri dalla villa di Ortolani (oltre che a quella di Gelli).

  4.  

  5. Una certa contiguità tra la famiglia Garramon in Uruguay con Licio Gelli, capo della loggia massonica P2401in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 155;
    Analisi e verifiche:
    Questo sarebbe stato per Accetti l’elemento chiave, come disse nel 2013 a Radio Radicale: «Uscito dal carcere, ho conosciuto tutti i motivi che legano i Garramòn a una certa abitazione. Vada a vedere in Uruguay chi abita accanto a lui».

    Effettivamente la nonna di Garramon abitava a poche centinaia di metri dalla villa di Licio Gelli a Montevideo (oltre che a quella di Umberto Ortolani). La madre di José, Maria Laura, dichiarò a Chi l’ha visto? nel 2013 che «quando eravamo in Uruguay mio figlio andava spesso a giocare con un amichetto nel giardino della villa di Licio Gelli. Si divertivano a cercare l’archivio segreto» Due mesi prima dell’omicidio, José e un amico (o altri amici) entrarono nel giardino della casa di Gelli con una macchina fotografica, il giardiniere li cacciò e rientrarono a casa agitati. Alla domanda su cosa stessero cercando, José rispose che forse avrebbe potuto trovare i documenti che l’Italia stava cercando in Uruguay (nel video più sopra si possono ascoltare le parole della madre).

  6.  

  7. José abitava in viale dell’Aeronautica all’Eur, nei pressi dell’abitazione di Enrico de Pedis;
    Analisi e verifiche:
    Non abbiamo riscontri sul fatto che De Pedis abitasse lì. Al contrario, Pino Nicotri ha rivelato che il padre di Marco, Aldo Accetti, nel dicembre 1983 chiese il trasferimento della residenza in via Curzio Malaparte in cui aveva una seconda abitazione (o un ufficio), strada distante solo un paio di chilometri da casa dei Garramon e dal negozio del barbiere (via dell’Aeronautica 23402G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46), dove il giovane fu visto l’ultima volta403P. Nicotri, Marco Fassoni Accetti: José Garramon e il mistero della strada. BlitzQuotidiano, 12/10/2015.
  8.  

  9. L’incidente si verificato vicino alla villa del giudice Santiapichi, presidente del primo processo ad Agca ed in predicato di presiedere la Corte d’Assise del secondo processo per l’attentato al Pontefice;
    Analisi e verifiche:
    Come già visto, nelle cronache dell’epoca si riferisce che effettivamente fu la scorta di Santiapichi ad allertare la polizia trovando il furgone di Accetti abbandonato sul ciglio della strada. Circostanza a noi confermata nel 2016 dal figlio, Xavier Santiapichi.
  10.  

  11. Esattamente un mese prima, verso fine novembre, Accetti a Ulrike fermarono in corso Vittorio Emanuele Stefano Coccia (12 anni), che avrebbero dovuto coinvolgere in una sua falsa testimonianza contro un membro della curia. Aveva la stessa età di Josè Garramòn;
    Analisi e verifiche:
    Circostanza verificata e riconosciuta dallo stesso Coccia, come abbiamo visto nella sezione apposita.
  12.  

  13. Tre mesi prima, il 19/09/83, in una lettera del “Gruppo Phoenix” vi furono delle minacce al telefonista “Mario” parlando di “pineta”;
    Analisi e verifiche:
    Evento verificato, oltretutto legame piuttosto credibile: risulta effettivamente inusuale usare una “pineta” come luogo di minaccia, è fuori contesto soprattutto se tale riferimento non fu mai utilizzato nella telefonata di “Mario”. Accetti ha ragione quando afferma: «Se io devo fare una minaccia di morte posso dire: ti strozzo, ti accoltello, ti sparo, ti infilo in un pilone di cemento..ma nella pineta mai, non ci penso proprio!»404in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 156. Se si considera che la voce di Accetti risulta compatibile con quella di “Mario” (anche la Procura ha parlato di «similitudine»405G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 49), l’elemento della pineta rafforza la tesi di un legame non casuale tra Accetti e Garramon.


 

Conclusioni sul caso Garramon.

Quali conclusioni trarre da tutti questi elementi? Ricapitoliamo brevemente le certezze a cui possiamo giungere, provate in maniera oggettiva.

Nel settembre 1983 in un comunicato del gruppo “Phoenix” sul caso Orlandi, si minacciò il telefonista “Mario” parlando, inspiegabilmente, di una “pineta” (elemento indeito che non emerse mai nelle telefonate di “Mario”).

Tre mesi dopo, il 20/12/1983 Marco Accetti invest’ e uccise José Garramon nella pineta di Castel Porziano nei pressi della villa del giudice Severino Santiapichi, presidente del primo processo ad Agca e nell’imminenza di presiedere la Corte d’Assise del secondo processo per l’attentato al Pontefice.

E’ tuttora un mistero la dinamica dell’incidente in quanto Accetti non fu condannato per sequestro di persona né per omicidio preterintenzionale (ma per omicidio colposo gravato da omissione di soccorso), mantenendo irrisolta la spiegazione su cosa ci facesse un 12enne, di sera e al buio in una pineta romana, lontano diversi chilometri da casa sua.

La sentenza su Garramon chiarì che il bambino si trovava al centro della carreggiata «che in qualche modo stava per attraversare»406Sentenza Corte d’Assise, 1986, quindi Garramon non stava scappando dal furgone (perché altrimenti restare al centro della strada quando avrebbe potuto spostarsi a lato ed entrare nei campi e nella boscaglia?).

Inoltre, non sono state trovate sue impronte digitali sul veicolo di Accetti e la stessa sentenza, dopo un’indagine psichiatrica, escluse manifestazioni di pedofilia nell’uomo407Sentenza Corte d’Assise, 1986. D’altra parte non fu trovato alcun segno di violenza sessuale, né tracce e reperti sotto le unghie.

Garramon aveva effettivamente alcuni elementi di contatto con Accetti e con il caso Orlandi.

La sentenza stabilì che Garramon uscì di casa alle 17:30 per andare dal barbiere distante 1,5km dalla sua abitazione, arrivandovi alle 18:15 (ben 40 minuti dopo!). Una volta uscito, se ne persero le tracce fino alle 20:30 (oltre due ore dopo!) quando a 20km di distanza venne investito dal furgone in viale Castel Porziano408G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.

Nessun testimone osservò la scena di un rapimento o sentì grida d’aiuto. Cosa fece José tra l’uscita di casa e l’arrivo al barbiere? Una volta lasciato il negozio, salì volontariamente sull’auto che lo portò alla pineta? Quest’ultima ipotesi spiegherebbe le dichiarazioni della signora Garramon, sul comportamento strano ed inquieto del bambino nei giorni precedenti, riluttante ad andare a scuola, con tanto di crisi di pianto.

Se Garramon era autonomo nel girare per le trafficate strade di Roma, perché quella sera avrebbe attraversato una strada buia e deserta (tanto che il suo corpo rimase sul ciglio della strada diverso tempo) proprio nell’imminenza dell’arrivo di un furgone con i fari accesi, quindi visibile anche da lontano? Stava forse scappando da qualcuno che lo aveva condotto lì e nella concitazione non si accorse del furgone? Oppure fu in qualche modo indotto ad attraversare volontariamente, andando incontro alla sua morte?

 

Le sentenze hanno escluso l’ipotesi più verosimile, cioè la responsabilità di Marco Accetti nel prelievo dall’Eur di José Garramon. L’unico aspetto controverso è il fatto che Aldo Accetti, padre di Marco, avesse un’abitazione o un ufficio a poca distanza dall’abitazione del giovane. Andrebbe quantomeno chiarito.

Considerando gli elementi biografici che effettivamente accomunavano Garramon a Marco Accetti e alla complessa storia di fazioni vaticane di cui ha parlato a lungo (vicinanza della villa Santiapichi, contiguità con le abitazioni di Gelli e Ortolani, minaccia di “Phoneix” e la scuola frequentata) risulta verosimile che la presenza del giovane uruguayano e il suo omicidio involontario da parte del reo-confesso Accetti non fosse casuale.


 

d) Marco Accetti, Garramon e il caso dei nomadi.

Legato al caso di José Garramon ci sarebbe un altro episodio svoltosi sempre nella pineta di Castel Porziano.

E’ un presunto episodio raccontato da Marco Accetti e, in maniera deformata, anche da Sabrina Minardi nel 2008.

Iniziamo dalla versione della Minardi, la quale riferì che tra l’83 e l’84 il suo amante De Pedis le avrebbe chiesto di tenere in braccio una zingarella di due anni mentre si sarebbero diretti proprio nella pineta di Castel Porziano, in direzione Ostia. Ad un certo punto avrebbe accostato e, assieme ad un complice sopraggiunto, si sarebbero inoltrati nella boscaglia e le avrebbero sparato.

Non vi è stato alcun riscontro nemmeno su questo episodio, tuttavia Accetti sostenne che «la signora Minardi ha trasfigurato un reale episodio in cui ero presente», cioè una “simulazione” di omicidio di un nomade che la donna configura come un reale omicidio, «trasfigurando anche il sesso e l’età del giovane»409M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.

Il vero episodio, secondo Accetti, sarebbe avvenuto nell’autunno 1983 quando in un campo vicino alla pineta di Castel Porziano avrebbero pagato il padre di un nomade di 12 anni per avere l’autorizzazione a filmare suo figlio per «esigenze cinematografiche» nella stessa pineta. Al giovane sarebbe stata puntata una pistola 357 Magnum alla testa, e dopo il finto sparo si sarebbe gettato a terra, fingendosi morto. Nella scena sarebbe apparso anche un finto prete410M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.

Tale filmato sarebbe servito per fare pressioni su mons. Giovanni Cheli, un ostacolo per la fazione accettiana alla restituzione dei fondi che la Magliana aveva affidato al Banco Ambrosiano-Ior. Tale prelato «nel 1983 aveva dei rapporti presso la Pontificia Commissione per la Pastorale dei Migranti, che tra l’altro si occupava dei diritti dei nomadi»411M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.

Dopo aver investito Garramon il 20/12/83 e aver osservato il volto del giovane uruguayano, Accetti ha sostenuto di averne ravvisato «nei tratti la possibilità che questi fosse un giovane nomade, pensando conseguentemente che potesse trattarsi di una possibile vendetta per l’aver noi portato il giovane nomade di cui sopra nella stessa pineta, per le pressioni nei confronti di mons. Cheli»412M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.

Secondo Accetti, la Minardi userebbe la stessa tecnica di Agca nel raccontare parte della verità e al tempo stesso rendere la deposizione inverosimile, inutilizzabile a fini giudiziari, così da non coinvolgere altre parti in causa. Un’altra prova sarebbe il racconto della donna dell’uccisione del piccolo Domenico Nicitra (11 anni) da parte di De Pedis, sbagliando clamorosamente la collocazione temporale di dieci anni. Secondo Accetti, «pare che la Minardi lo coinvolga proprio per indicarne l’età, 11, come a rammentare sotto forma di codice l’età del reale minorenne nomade che fu da noi condotto in quella pineta, se non addirittura ricordando il giovane Garramòn, di 12 anni»413M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.

Ragionamento ribadito dall’uomo in un’altra occasione: «La Sabrina Minardi ambienta giustamente l’episodio, ma trasfigurandolo, modificandone la realtà per suoi motivi di cui non sono a conoscenza e rendendolo impropriamente un fatto omicidiario»414M. Accetti, Ultima e nuova considerazione sulla tv di Stato, 26/16/2013.

Infine, Accetti ha sostenuto che nel 1996 il suo ganglio sarebbe venuto a conoscenza della scomparsa di un altro nomade di 12 anni, Bruno Romano e, pur non avendo nulla a che vedere con tale sparizione, avrebbero nuovamente simulato che lo stesso ecclesiastico, membro della Pontificia Commissione per i Migranti e vicino a mons. Cheli (nel frattempo diventato pro-presidente della Commissione), potesse esserne ancora il responsabile415M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 18/11/2013.

Avrebbero così inviato una missiva anonima agli inquirenti il cui contenuto avrebbe rivelato solo in Procura, dalla quale sarebbe stata avviata un’indagine che incluse intercettazioni telefoniche anche all’utenza di Accetti. Fu in quell’occasione che nell’aprile 1997 gli inquirenti carpirono due conversazioni separate tra Accetti e l’ex compagna, Ornella Carnazza mentre quest’ultima lo minacciava di rendere noto alla polizia il suo coinvolgimento con il caso Orlandi.

Accetti venne denunciato da una fonte fiduciaria qualificata della polizia proprio per la sparizione del bambino rom Bruno Romano, avvenuta il 26/12/1995 con la complicità di Ornella Carnazza. Le indagini tuttavia negarono la responsabilità dei due e non emerse alcun riscontro a quanto dichiarato dalla fonte fiduciaria416G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.

 

Conclusioni sul caso del nomade nella pineta.

Non esistono al momento riscontri sulla verità del racconto di Accetti rispetto all’uso di un giovane nomade per creare filmati da usare come oggetti di pressione verso mons. Giovanni Cheli (deceduto nel febbraio 2013, un mese prima della comparsa di Marco Accetti in Procura).

Risulta poco credibile quel che dice Accetti rispetto a Sabrina Minardi, cioè che la donna abbia astutamente rivelato episodi realmente avvenuti e che videro protagonista lo stesso Accetti, pur trasfigurandoli completamente per non renderli utilizzabili a fini giudiziari. Anche la Minardi giocherebbe con i codici? A chi si starebbe rivolgendo?

Come abbiamo già visto, nelle intercettazioni telefoniche carpite dagli investigatori la Minardi apparve preoccupata solamente da un ritorno economico delle sue rivelazioni417G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 37 e gli stessi inquirenti sottolineraono le sue «pessime condizioni di salute, fisiche e mentali»418G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 32, 37.

Rispetto a Bruno Romano, appare controversa la versione di Accetti secondo cui avrebbe sfruttato la sua sparizione (di cui non ebbe responsabilità) inviando delle missive anonime agli inquirenti. Si sarebbe auto-lesionato quindi, in quanto le indagini caddero proprio sulla sua persona?

Resta il fatto oggettivo che il reo-confesso venne denunciato da una fonte fiduciaria qualificata della polizia del rapimento del giovane Romano (poi fu assolto), rimarcando ancora una volta una certa contiguità di Accetti con il mondo adolescenziale.


 

e) Marco Accetti, le accuse di pedofilia e la sparizione di Magdalena Chindris.

Da diversi anni la trasmissione televisiva Chi l’ha visto?, condotta da Federica Sciarelli, ha avviato una dura campagna contro Marco Accetti accusandolo di pedofilia ma, allo stesso tempo, ritenendolo totalmente inattendibile sul caso Orlandi-Gregori.

Un comportamento, quello di Rai3 (televisione di Stato) dettato chiaramente dalla ricerca di audience tramite facile scandalismo. Nonostante nessun processo a carico di Accetti abbia mai accennato a sue perversioni sessuali verso minorenni, la trasmissione ha spesso manipolato i racconti sull’uomo adombrando sospetti più o meno palesi.

 

C’è però un caso oggettivo in cui Chi l’ha visto? ha prodotto un elemento interessante, ovvero quando si è occupata della sparizione di Magdalena Chindris. La donna scomparve nel nulla all’età di 46 anni, in data 31/05/1995. Lasciò la figlia Ester, allora ventiduenne e oggi ancora in ricerca della madre.

Madre e figlia abitavano a Roma e negli anni ’80 Magdalena si innamorò di un fotografo di nome Gherardo Gherardi e iniziò a lavorare nel suo studio sito nel quartiere Africano-Trieste (a 5 minuti da casa di Marco Accetti, in piazza Sant’Ermeneziana).

Gherardi è il primo collegamento tra Magdalena Chindris e Marco Accetti, infatti l’uomo testimonierà al processo Garramon del 1984-85 sostenendo che Accetti dall’inizio degli anni ’80 frequentava il suo studio fotografico e, proprio il pomeriggio della scomparsa José, sarebbe passato dal suo negozio per ritirare del materiale. Gherardi dimostrò così che Accetti non avrebbe avuto il tempo per appostarsi e sequestrare il bambino uruguayano nel quartiere Eur.

Verso la fine degli anni ’80, Magdalena conobbe e si fidanzò con l’intellettuale Aldo Rosselli e si trasferì in via Torino, la casa in cui scomparve nel 1995. A detta della figlia, era una casa visitata spesso da intellettuali socialisti e persone famose.

Il 31/05/1995, rientrata a casa, la figlia Ester trovò una macchia di sangue in camera da letto («come se qualcuno ferito fosse scivolato a terra») e una scena che simulava un tentativo di suicidio: una scala al centro della stanza, il ventilatore da soffitto appoggiato al divano con attaccata una cravatta annodata e, accanto, un foulard annodato più volte come fosse un cappio. Il corpo non fu mai trovato.

La soluzione è inevitabilmente una di queste:

  • 1) Magdalena ha tentato senza successo di suicidarsi, poi è uscita di casa ed è sparita;
  • 2) Magdalena ha finto un suicidio, poi è uscita di casa ed è sparita;
  • 3) Magdalena è stata uccisa fuori casa (altrimenti ci sarebbero stati maggiori segni di omicidio), qualcuno è entrato nell’appartamento e ha inscenato un suicidio;
  • 4) Magdalena si è suicidata in casa o è stata indotta al suicidio, qualcuno poi ha fatto sparire il corpo;

 

Il portiere del palazzo, intervistato da Chi l’ha visto?, ha ricordato di averla vista uscire di casa quel giorno in tarda mattinata. Era serena, aveva due buste in mano (uno con delle bottiglie vuote), ha salutato e si è diretta verso la stazione Termini. Un taxista l’ha portata a piazza Farnese, si è ricordato della donna in quanto ne è nato un diverbio sul pagamento, Magdalena aveva solo assegni.

 

Qui sotto un video che ricostruisce la scomparsa di Magdalena Chindris:

 

Il caso di Magdalena Chindris è in qualche modo collegato con Marco Accetti in quanto sia l’ex fidanzato della donna, Gherardo Gheradi, che la stessa Magdalena, testimoniarono a favore di Accetti nel processo del piccolo Garramon del 1984-1986. Mentre Gherardi lo scagionò dal rapimento di Garramon, Chindris escluse che l’uomo fosse un pedofilo.

Questo perché Magdalena conosceva Marco Accetti, lasciando alcune volte la figlia tredicenne Ester Ceresa a casa sua in quanto l’uomo desiderava fotografarla e inserirla in piccole opere teatrali che si svolgevano nella sua abitazione.

Il programma Chi l’ha visto? ha registrato una telefonata con Accetti (risalente al 2013 o 2014) in cui l’uomo disse di aver avuto diverse relazioni con adolescenti femmine (dai 13 anni in su) e ricordò la piccola Ester, l’essersene innamorato e il desiderio che ebbe di volerla sposare: «Vidi questa donna, con la figlia, mi innamorai della figlia e glielo dissi: “La voglio sposare”. Ora, ti pare che un pedofilo dice che vuole sposare la persona?». Secondo l’uomo, Magdalena gli avrebbe anche risposto: «Non c’è problema».

La figlia di Magdalena Chindris, oggi adulta, ha ricordato che Accetti «aveva questo grande amore per il mondo infantile e adolescenziale, lo rappresentava, lo sbirciava». Ester parlò anche dei momenti a casa di Accetti, sempre alla presenza di altri giovani e adolescenti e, pur confermando di non aver mai ricevuto attenzioni pedofile, ricordò di un contesto sessualmente morboso e inquietante, di una costante sensazione di disagio e pericolo.

 

Nel video qui sotto Ester Ceresa ricorda cosa avvenne a casa si Marco Accetti:

 

Questi ricordi di Ester sembrano però discordanti con la testimonianza di sua madre al processo Garramon del 1984-1985.

Nella deposizione che rilasciò, Magdalena Chindris disse infatti (un po’ confusamente) di essere ritornata altre volte a casa da Accetti dopo l’incidente della pineta in cui l’uomo uccise Garramon: «Sono ritornata con la bambina, anche se la bambina, io penso, non aveva grande confidenza come me, ammettiamolo, era restia nel ritornare in quella casa, anche se lui magari dimostrava qualcosa di morboso nei confronti della mia bambina, invece la bambina è ritornata tutta contenta da lui»419Testimonianza di Magdalena Chindris al processo Garramon, 1984-1985.

Gli episodi descritti da Ester si verificarono diversi anni prima del 1995, non è quindi ipotizzabile alcun legame con l’improvvisa scomparsa di Magdalena Chindris.

Abbiamo parlato della vicenda di Magdalena Chindris e della figlia Ester in quanto sembra invece avvalorare il ruolo di Accetti in relazione alla scomparsa delle adolescenti di cui lui stesso si è auto-accusato (Orlandi, Gregori, Rosati), in quanto viene confermata la predisposizione e la facilità dell’uomo nel relazionarsi con il mondo adolescenziale femminile, anche in modi moralmente ambigui.

 

 

6.8 Marco Accetti e la sparizione di Mirella Gregori.

Gli obbiettivi della fazione “progressista” vaticana di cui avrebbe fatto parte Marco Accetti sarebbero stati quelli di condizionare il processo ad Alì Agca, evitando l’accusa ai bulgari (1), defenestrare mons. Marcinkus (e soprattutto Thomas Macioce) dalla guida dello IOR per interrompere i finanziamenti al sindacato anticomunista di Solidarnosc (2) e inserire ecclesiastici polacchi affini al loro orientamento politico in determinati dicasteri vaticani (3).

L’idea di sequestrare (seppur fintamente) una cittadina italiana e una vaticana sarebbe nata con lo scopo di tranquillizzare Agca, un deterrente per una eventuale collaborazione con i magistrati.

Nel maggio 1982, però, il terrorista turco iniziò ad accusare i bulgari come complici dell’attentato al Papa. Fu così che, dopo gli appositamente appariscenti pedinamenti a cittadine vaticane, la fazione di Accetti avrebbe deciso di passare all’azione tramite due finti sequestri, ingannando delle giovani ragazze e facendole allontanare da casa.

I rapporti di complicità tra la fazione progressista vaticana e la Banda della Magliana sarebbe iniziati proprio nell’estate 1982, un anno prima del sequestro Orlandi.

Il presidente del Banco Ambrosiano, Roberto Calvi, fu trovato morto nel giugno 1982 e fu allora che il “ganglio” di Accetti avrebbe iniziato a collaborare con Enrico De Pedis per interessi comuni, ovvero “defenestrare” mons. Marcinkus (e il dott. Macioce, il vero capo dello IOR).

Accetti ha infatti spiegato che la “defenestrazione” di Marcinkus avrebbe giovato alla fazione vaticana per l’interruzione del finanziamento a Solidarnosc, mentre «l’interesse del signor De Pedis sarebbe stato quello di recuperare quanto prestato al Calvi, ma a questa operazione si sarebbe opposto monsignor Marcinkus»420in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 83.

Nel suo racconto, Accetti unisce così sia la “pista internazionale” che quella locale della Banda della Magliana.

Il 7 maggio 1983 sparì in circostanze misteriose la cittadina italiana Mirella Gregori, abitante in via Nomentana 91.

La sparizione avvenne un mese prima di quella di Emanuela e il 4/8/1983 i due casi furono uniti per la prima volta nel primo Komunicato del “Fronte Turkesh”, una delle sigle che comparvero dopo la sparizione di Emanuela.

Di Mirella, tra l’altro, si parlò pochi giorni prima del komunicato in un’inchiesta della rivista Panorama421P. Nicotri, Mistero Vaticano, p. 75.


 

Il momento della sparizione: perché Mirella mentì alla madre?

Il pubblico ministero Giovanni Malerba ha ricostruito il momento della sparizione di Mirella Gregori422citato in Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 12/10/2005, pp. 4,5, spiegando che la giovane rispose al citofono di casa alle ore 15:30 del 7/5/83, venendo invitata da Alessandro De Luca, ex compagno di scuola, a un appuntamento in Piazza Porta Pia, dinanzi al monumento del bersagliere.

Fu questo che Mirella disse alla madre prima di uscire, tranquillizzandola che sarebbe tornata di lì a poco e non prendendo con sé nulla, né la borsa, né i soldi. Una volta in strada, Mirella si sarebbe però recata al bar vicino, il cui titolare era il padre della sua amica Sonia De Vito. Dopo una conversazione di circa 15 minuti, all’amica avrebbe confermato l appuntamento con il comune conoscente Alessandro De Luca. Tuttavia Mirella non fece più ritorno a casa.

Nella sera del 7 maggio stesso si iniziarono le ricerche a seguito della denuncia presentata dalla madre, Maria Vittoria Arzenton e fu rintracciato Alessandro De Luca Alessandro, il quale riferì di non avere contatti con la Gregori da oltre cinque mesi e fornì dimostrazione che nel momento in cui Mirella ricevette la chiamata citofonica egli si trovava presso l’abitazione dell’amico Raffaele Longo, in Viale Libia, con altri amici.

Gli inquirenti dell’epoca dedussero quindi che Mirella sarebbe stata tratta tramite l’inganno da un persona sconosciuta, falsamente qualificatasi per Alessandro.

La ricostruzione del pm Malerba coincide sostanzialmente con quella contenuta nella sentenza di archiviazione del 2015423G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 2, 3.

 

Analisi e verifiche:

Le ipotesi sulla sparizione di Mirella possono essere solo due: o un malintenzionato finse di essere Alessandro (come dissero gli inquirenti dell’epoca) o Mirella mentì alla madre, avendo un accordo preventivo con la persona al citofono.

Se assumiamo la prima ipotesi, cioé che Mirella sarebbe stata fatta scendere con l’inganno da un soggetto maschile (adulto) diverso dal suo ex compagno Alessandro (adolescente), come mai non lo riconobbe al citofono? Alessandro De Luca risultò credibile quando disse di non avere contatti da 5 mesi con Mirella, perché allora quest’ultima non si insospettì di ricevere improvvisamente una citofonata da lui?

Inoltre, è incomprensibile il fatto che qualcuno citofoni per invitare ad un appuntamento in un luogo distante dall’abitazione. Al contrario del telefono, chi si è reca sotto casa per citofonare solitamente attende la persona. Gli appuntamenti non si danno al citofono.

Infine, se anche Mirella avesse sbagliato a riconoscere Alessandro e si fosse recata a Porta Pia, luogo dell’appuntamento, trovando però ad attenderla persone diverse dall’amico, sarebbe stato arduo sequestrarla in pieno giorno e in un luogo tanto frequentato. Sarebbe comunque stato un piano totalmente folle, tanto valeva evitare il rischio di citofonare e semplicemente sorvegliare la ragazza, attendendo il momento giusto per sequestrarla o per avvicinarla così da indurla a seguirli tramite un inganno.

Un rapitore non citofonerebbe mai a casa della vittima, con il rischio di non venire riconosciuto e magari anche individuato dalla finestra a causa dei sospetti innescati.

Per tutto questo risulta più verosimile che Mirella avesse effettivamente un’intesa con la persona che le citofonò ma disse falsamente che si trattava dell’ex compagno Alessandro. Aggiungiamo che si trattò presumibilmente di una persona conosciuta anche dalla famiglia in quanto, se a rispondere fosse stata la madre o la sorella, non si sarebbero allarmate del fatto che uno sconosciuto cercasse Mirella.


 

Marco Accetti ideatore del sequestro Gregori?

Nel 2013 Marco Accetti ha dichiarato di essere responsabile anche dalla sparizione di Mirella Gregori.

Secondo il racconto depositato in Procura, anche quello di Mirella (come per la Orlandi) sarebbe stato non un sequestro ma un allontanamento volontario, indotta da un ricatto riguardante il padre424G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

A Mirella sarebbe infatti stato fatto credere che il padre fosse stato aiutato a sanare i debiti per la ristrutturazione del bar di via Volturno contratti con personaggi riconducibili alla malavita romana, in particolare a De Pedis. Le sarebbe stato anche fatto credere che il padre era consenziente rispetto a tale “uso” della figlia”425G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

Mirella, ha affermato Accetti, sarebbe stata scelta «dopo lunghe ricerche, per l’età, la stessa di Emanuela, utile a richiamare suggestioni di pedofilia; per le caratteristiche fisiche, anche queste non lontane da quelle della Orlandi; per una certa vivacità caratteriale; e per la sua riconducibilità ad ambienti della gendarmeria»426in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 80, ovvero per la vicina abitazione del sovrastante vaticano Raoul Bonarelli. Inoltre, avrebbe giocato un ruolo la difficoltà economica del padre.

Inoltre, avrebbe giocato un ruolo importante l’abitazione posta sulla linea dell’autobus che conduceva dalla Nomentana a piazza della Stazione di San Pietro e, come già detto, i problemi finanziari del padre che, secondo il reo-confesso, sarebbero stati «autonomamente soddisfatti da una persona vicina all’imprenditore De Pedis».

 

Analisi e verifiche:

Non risulta che gli inquirenti abbiano mai verificato i movimenti finanziari sul conto del padre di Mirella Gregori, è un elemento che non è mai emerso dalle indagini. Se non fosse già stato indagato (poco credibile), sarebbe un importante elemento investigativo per provare il racconto di Accetti.

C’è una contraddizione tuttavia nel racconto di Accetti sulla scelta di Mirella. Dando per vero che l’uomo fu anche l'”Amerikano”, nell’ottobre 1983 diede un’altra versione in una telefonata al giornalista della CBS, Richard Roth: la Gregori «l’abbiamo prescelta durante un udienza in Vaticano».

La sorella, Maria Antonietta, in questo video confermò che alcune settimane prima della sparizione aveva partecipato ad un udienza del Papa e la sua foto, vicina a Papa Wojtyla, sarebbe stata appesa a lungo nella bacheca all’interno della Città del Vaticano.

 

 

Secondo Accetti, gli obbiettivi del finto e temporaneo sequestro della Gregori sarebbero stati quelli di far ritrattare ad Agca le accuse verso i bulgari, di operare delle minacce verso mons. Marcinkus e porre alcuni ecclesiastici polacchi alle udienze papali mettendo sotto pressione alcune persone dell’ex gendarmeria «per far credere che questi avessero un rapporto di connivenza con il dottor Gugel». La pressione era di poter accostare a Mirella il sovrastante vaticano Bonarelli, creando uno scandalo427M. Accetti, Memoriale, 2014.

Si sarebbe dovuto far credere che Mirella sarebbe scappata per voler trascorrere del tempo con un ragazzo conosciuto l’estate prima all’estero (Svizzera?), per poi rientrare a casa. Questo sarebbe stato scritto da Mirella in una lettera che avrebbe consegnato ad un’amica, la quale non l’avrebbe mai consegnata per timore e pudore.

A Mirella sarebbe stato fatto conoscere realmente un ragazzo svizzero (in realtà era tedesco, membro della Stasi) tempo prima, del quale si sarebbe realmente innamorata incontrandolo “casualmente” in via Nomentana e dicendole di averla vista nel paese di vacanza dell’estate prima e di non raccontare a nessuno di lui in quanto non avrebbe avuto i documenti in regola. Mirella avrebbe voluto lasciare per lui il suo fidanzato dell’epoca, ma il gruppo di Accetti glielo avrebbe impedito per inscenare una finta litigata tra i due al bar dei Gregori, da usare come pretesto per la sparizione.

Un finto sacerdote della parrocchia di San Giuseppe e Ulrike, la ragazza tedesca della Stasi fintasi appartenente all’Azione Cattolica, avrebbero fermato la Gregori e questo “nuovo” ragazzo parlandole dei debiti del padre e la pressione di certi malavitosi. Il finto sacerdote le avrebbe detto che per risolvere la cosa bisognava aiutare un prelato vicino a mons. Marcinkus, anche lui soggetto a pressioni degli stessi uomini. Il padre di Mirella, al posto di restituire i soldi, avrebbe permesso di usare la figlia per inscenare un finto sequestro.

 

Analisi e verifiche:

Non è chiaro dal racconto di Accetti perché avrebbe dovuto costituirsi una “pressione” per alcuni elemento dell’ex gendarmeria l’avere «un rapporto di connivenza» con Angelo Gugel, maggiordomo del Papa.

Per quanto riguarda una presunta amica a cui Mirella avrebbe scritto, raccontando di un ragazzo conosciuto in Svizzera, non è dato sapere chi sia. Si trattò sempre di Sonia De Vito? Nel 2013 Accetti ha riferito fuori dal tribunale di Roma che le complici del caso Gregori furono «due amiche».

Risulta piuttosto controverso costruire un piano di sequestro contando sul fatto che Mirella si sarebbe sicuramente innamorata di un loro complice, a maggior ragione se era già fidanzata.

Per quanto riguarda il litigio tra Mirella e Massimo, il fidanzato dell’epoca, avvenuto il giorno dell’inaugurazione del bar dei Gregori (elemento da usare come pretesto per la sparizione), fu confermato dallo stesso fidanzato in un’intervista per Chi l’ha visto?. Qui sotto il video:


 

Mirella Gregori e il giorno prima della sparizione

Alcuni episodi avvenuti il giorno prima della sparizione di Mirella risulterebbero decisivi.

Il 6 maggio 1983, infatti, Mirella partecipò all’inaugurazione del bar del padre, appena ristrutturato.

Secondo le testimonianze della famiglia sarebbero stati presenti anche due sconosciuti intenti a fotografare e osservare principalmente proprio Mirella.

Questi sono i due identikit di quegli uomini presenti nel bar dei Gregori:

Durante l’inaugurazione del bar, inoltre Mirella discusso con il fidanzato Massimo.

Nel seguente video, la sorella Maria Antonietta Gregori e l’allora fidanzato ricostruiscono questi episodi:

 

Nell’1986 il cameriere Giuseppe Calì produsse un identikit del volto di una persona vista nel bar dei Gregori, il quale assomiglia notevolmente al volto di Angelo Cassani, esponente della Magliana.

Secondo Marco Accetti, quegli uomini sarebbero stati gli stessi che pedinarono la Orlandi nei giorni precedenti alla sua sparizione, la loro presenza nel bar sarebbe servita per convincere Mirella dei problemi finanziari del padre, produrre testimoni pressi gli astanti e trait de union con il caso Orlandi428M. Accetti, Memoriale, 2014.

 

Analisi e verifiche:

o: sarebbe stato concordato con la ragazza, in quanto l’episodio sarebbe servito per giustificare una scappatella d’amore con il ragazzo svizzero.

Nell’ideazione del piano sarebbe stato tale ragazzo a citofonare a Mirella e lei avrebbe dovuto far credere alla madre che si sarebbe trattato dell’amico Alessandro. In realtà, a citofonare sarà l’amica Sonia De Vito mentre sarebbe stata video-ripresa con audio («come accadrà, solo fotograficamente, con la compagna di scuola del Convitto della Orlandi alla fermata del bus alle 19», affermò Accetti) per usare tale filmato per avvalorare la presenza di testimoni e far sentire coinvolta la ragazza, vincolandola al silenzio.

Prima di recarsi all’appuntamento, la Gregori sarebbe andata nel bagno del bar con Sonia De Vito per indossare degli abiti portati alla De Vito il giorno prima. I vecchi vestiti -conosciuti dalla madre- con i quali Mirella uscì di casa sarebbero invece stati concordati con la fazione e scelti tra i più identificabili e contrassegnati da etichette, per essere usati successivamente come prova mentre i vecchi abiti sarebbero stati consegnati dalla De Vito alla ragazza tedesca, complice della fazione.

Oltre a usare i vestiti per comunicare la lista delle etichette (Mirella avrebbe fornito loro in anticipo la lista di ciò che avrebbe indossato quel giorno), la fazione li avrebbe usati come intimidazioni «nei confronti di prelati avversi». Ad esempi, Accetti ha ricordato che nel 1985 un abito sarebbe stato nascosto nei locali della Pontificia commissione dei Migranti, ove vi era la segreteria di mons. Cheli, un altro nella sede di via dell’Erba di una organizzazione presieduta dal card. Sergio Pignedoli e poi da monsignor Jadot. In generale, «i vestiti della Gregori furono collocati in quattro sedi: due religiose, come ho messo a verbale, e due laiche»429in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 144.

In questo video Filippo Mercurio e Maria Antonietta Gregori ricordano la telefonata dell'”Amerikano” in cui elencò le etichette dei vestiti:

 

Dopo essersi cambiata, Mirella si sarebbe recata da sola verso il piazzale di Porta Pia, seguita da Accetti e dalla complice tedesca che avrebbero fotografato tutto. Alle 15:30 (codice 13-5 richiamante le apparizioni di Fatima del 13-5-1917, da completare con le 19, orario in cui scomparirà Emanuela) sarebbe arrivato De Pedis con una BMW verde e poi un secondo incontro con idealista turco.

L’uomo sarebbe stato lo stesso che verrà fatto incontrare anche a Emanuela il giorno della sua sparizione: «Si trattava di un estremista islamico tra i tanti rifugiati in Europa, ce n’erano in Germania, Svizzera, Francia, che aveva orientamento diverso, rispetto ai vari Agca o Celebi si poteva considerare di sinistra», ha spiegato Accetti. «Fecero da tramite i nostri referenti della nunziatura in Turchia e il sindacato di polizia Pol-Der, lo stesso che aveva intercettato le voci di attentato. Fu lui a pedinare la Gugel due anni prima. Agca, riconoscendolo nelle foto accanto a Mirella ed Emanuela, si sarebbe convinto che i sequestri erano stati realmente eseguiti da un’organizzazione filosovietica, quindi con l’intento dimostrato di ottenere da lui la ritrattazione delle calunnie sui bulgari, di cui avrebbe beneficiato grazie al tentativo di liberarlo»430in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 102.

Dopo l’incontro con il turco, Mirella si sarebbe allontanata per raggiungere il ragazzo svizzero e quindi un’abitazione in via di Santa Teresa, dove la coppia sarebbe stata ospite di un altro ragazzo locatario dell’appartamento. Accetti ha descritto esattamente come trovare l’abitazione.

Mirella si sarebbe chiamata da lì in poi Rosy, nome-codice per ricordare alla controparte vaticana Rossitza, la moglie del bulgaro Antonov accusato da Agca come collaboratore per l’attentato al Papa. Accetti l’avrebbe visitata un paio di volte e il ragazzo svizzero si sarebbe realmente innamorato di Mirellla.

La coppia sarebbe uscita pochissimo e avrebbe abitato lì per alcuni mesi, fino al gennaio 1984. Poi sarebbero usciti dall’Italia.

Nel frattempo Marco Accetti fu arrestato nel 1983 per l’omicidio di José Garramon, la polizia perquisì casa sua trovando diversi foglietti con nomi di giovani e relativi numeri di telefono, tra cui uno con scritto “Rosy” (il cognome è secretato). A fianco del nome il numero di telefono, la via Santa Teresa d’Avila n°23, interno 13. Nel marzo 1984 gli investigatori trovarono nell’appartamento l’attore americano Robert Sommer, il quale negò qualunque conoscenza con “Rosy” o con Accetti (nel 1982 partecipò come attore all’opera La Traviata di Franco Zeffirelli).

Di fronte all’abitazione c’era la parrocchia di Santa Teresa d’Avila. La sorella di Mirella, Maria Antonietta Gregori, dichiarò: «La nostra parrocchia era un’altra però mia sorella frequentava anche quella chiesa, per il cineforum. Ricordo che ci andava abbastanza spesso, si chiamava teatro Avila»431in F. Peronaci, Corriere della Sera, 12/09/2014.

Le reali intenzioni della fazione sarebbero state quelle di far rientrare la Gregori dopo qualche tempo che era divenuto pubblico il “finto sequestro” e farle raccontare della scappatella all’estero con questo ragazzo (senza rivelarne il nome), sostenendo che qualcuno, a conoscenza di ciò, avrebbe inventato un finto sequestro senza che lei ne avesse avuto notizia.

Il primo obbiettivo sarebbe stato far credere che ad architettare il finto sequestro sarebbe stato il sovrastante Raul Bonarelli, conoscente della Gregori e della De Vito, attraverso questi ulteriori passaggi:

Una volta rientrata Mirella:
– La De Vito avrebbe dovuto telefonarle per esternarle il dubbio che fosse stato un loro conoscente (Bonarelli) a orchestrare il finto sequestro (ma senza fare nomi), contando sul fatto che gli inquirenti avrebbero sottoposto ad intercettazione i telefoni;
– In una lettera anonima sarebbe stato scritto che qualcuno (Bonarelli) avrebbe saputo dalla De Vito che la Gregori avrebbe litigato al bar con il suo fidanzato e poi avrebbe visto Mirella entrare a casa dell’amica uscendo con altri abiti. Dopo la notizia della sparizione di Mirella, questo qualcuno avrebbe allora recuperato i suoi vecchi vestiti che erano stati nascosti nel frattempo e inventato un finto sequestro, telefonando anche ai familiari per elencare le marche dei vestiti di Mirella.

La pressione sarebbe stata esercitata verso persone dell’ex-gendarmeria per far credere di rivelare il nome del sovrastante Bonarelli come l’autore del finto sequestro e creare uno scandalo. Tale ricatto, secondo Accetti, sarebbe arrivato fino a mons. Heimo dell’Anticamera Papale, appartenente alla Consulta Pastorale Peregrinatio ad Petri Sedem, colui che in Germania si occupa di passare il denaro da Roma a Solidarnosc e responsabile delle udienze papali degli ecclesiastici polacchi. L’obbiettivo della fazione era conoscere l’identità di tali ecclesiastici venuti in Italia per le udienze e inserire alcuni ecclesiastici polacchi a loro vicini presso tali e udienze.

Un secondo ricatto sarebbe stato indirizzato verso mons. Marcinkus: la Gregori avrebbe potuto ammettere che la scappatella sarebbe stata una menzogna e invece avrebbe incontrato un ragazzo della Avon (dando riferimenti di una persona vicino a Marcinkus) che le avrebbe proposto un lavoro portandola in una villetta dove mons. Marcinkus stesso l’avrebbe indotta a partecipare ad un finto sequestro per riottenere la restituzione dei soldi da parte del padre, prestati dagli uomini di De Pedis in combutta con Marcinkus stesso.

L’allontanamento di Mirella Gregori sarebbe dovuto durare poche ore, il tempo di far presentare la denuncia di scomparsa ai famigliari, presentando codici ad Agca per costringerlo a ritrattare la pista bulgara. Tuttavia, come spiegato sopra, circostanze non dipendenti dalla volontà degli organizzatori dei finti sequestri avrebbero fatto rimandare il rientro432G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

Accetti finì in carcere nel dicembre 1983 e non avrebbe più avuto contatti diretti con Mirella. Sostiene che la sua fazione gli comunicò che non potendo più tenerla in Italia per questioni di sicurezza, sarebbe stata trasferita all’estero. «Mi fu detto in modo lapidario: “Stanno bene fuori, meglio non farle rimpatriare, si creerebbe uno scandalo inutile”».

Secondo l’uomo, Mirella avrebbe lasciato l’Italia in aereo, partendo dallo scalo dell’Urbe, sulla Salaria, a bordo di un velivolo privato. Sarebbe andata in Francia, in una città di cui non ricorda il nome, assumendo il nome di Rosi433in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 161.

In Procura, Accetti ha riferito anche che Mirella potrebbe trovarsi in Svizzera, paese da lei visitato l’estate prima della scomparsa, in compagnia del ragazzo della quale fu fatta innamorare434G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.


 

L’indagine sul sovrastante di polizia vaticana Raoul Bonarelli.

Un collegamento con la sparizione di Mirella Gregori coinvolgerebbe il Sovrastante maggiore della polizia vaticana (oggi Gendarmeria), Raoul Bonarelli.

Il 15/12/1985 la madre di Mirella, Maria Vittoria Arzenton, lo avrebbe riconosciuto come parte della scorta di Papa Wojtyla durante la visita alla parrocchia di San Giuseppe, ritenendolo lo stesso uomo che si sarebbe intrattenuto con la figlia e l’amica Sonia De Vito. Da successivi accertamenti, risultò effettivamente che Bonarelli abitava in quella zona, in via Alessandria435P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, pp. 204, 205.

 

Qui sotto il volto di Bonarelli recuperato dagli archivi di Rai3:

 

Interrogato dagli inquirenti, Bonarelli confermò di essere stato presente alla visita del Papa, ma negò di essere cliente del bar de De Vico.

Il 29/07/1993 registrò la sua deposizione agli inquirenti ed ebbe un confronto diretto con Bonarelli, confermò le dichiarazioni ma non lo riconobbe né di persona, né nel filmato sulla visita pontificia436P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 205. Inoltre, gli inquirenti sottolineano che nemmeno la descrizione dei connotati somatici forniti dalla donna corrispondeva alle caratteristiche fisiche di Bonarelli437G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 8.

Un aspetto controverso è la telefonata ricevuta da Bonarelli il giorno precedente all’interrogatorio con i magistrati e al confronto con la signora Arzenton. Gli inquirenti che la intercettarono ne verificarono l’origine dal Vaticano e ascoltarono il chiamante invitare Bonarelli a «non dire che la Segreteria di Stato ha indagato. Dì che siccome la ragazza è scomparsa in territorio italiano, la competenza delle indagini è della magistratura italiana e non del Vaticano»438P. Nicotri, Emanuela Orlandi, la verità p. 19, 203.

Incalzato dai magistrati, Bonarelli non seppe dare motivo della telefonata ricevuta e venne indiziato del reato di concorso in sequestro di persona dal giudice istruttore Adele Rando. In seguito verrà prosciolto.

Il 13/10/1993, in un’altra telefonata intercettata, Bonarelli risultò essere sollevato dal fatto che il colloquio con gli inquirenti avesse riguardato solo la Gregori e non Emanuela Orlandi439G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 10.

Bonarelli venne formalmente indagato, gli inquirenti ricevettero dal Vaticano la versione di Camillo Cibin e mons. Bruno Bretagna in merito alle conversazioni intercettate con l’uomo. Nel 2009 arrivò l’archiviazione.

Dalle indicazioni ricevute dal sovrastante Bonarelli si potrebbe leggere un eccesso di scrupolo da parte dei suoi responsabili vaticani, i quali lo avrebbero semplicemente messo al corrente dell’effettiva realtà dei fatti. Inoltre, è comprensibile la sensazione di sollievo per Bonarelli di non essere indagato per un caso riguardante una cittadina vaticana (Emanuela), scenario spinoso per un dipendente del Vaticano stesso.

Nel 2023 il giornalista Pino Nicotri ha avanzato l’ipotesi che i responsabili vaticani si riferirono a un carteggio segreto e imbarazzante per la famiglia Orlandi riguardante le molestie verbali da parte dello zio Mario Meneguzzi alla nipote Natalina Orlandi, risalenti al 1978. Episodio che fu oggetto di indagine da parte degli inquirenti dopo la scomparsa di Emanuela.

Secondo lo storico giornalista, il Vaticano avrebbe sempre «evitato di alimentare le malelingue, in modo da proteggere l’immagine degli Orlandi e la loro pace familiare»440P. Nicotri, Emanuela Orlandi, 40 anni fa: dai faldoni emerge rapporto dei carabinieri, il fidanzato di Natalina contro lo zio?, BlitzQuotidiano, 23/04/2023.

«Si è sempre pensato e scritto, l’ho fatto anch’io, che a Bonarelli venisse autorevolmente “consigliata” l’omertà totale per nascondere chissà quale responsabilità o colpa d’Oltretevere nella scomparsa di Emanuela», scrisse Nicotri, in una sorta di mea-culpa. «Oggi si può più serenamente e realisticamente pensare che non si voleva saltasse fuori il carteggio citato. E che non si voleva saltasse fuori perché si voleva invece proteggere la famiglia Orlandi»441P. Nicotri, Emanuela Orlandi, 40 anni fa: dai faldoni emerge rapporto dei carabinieri, il fidanzato di Natalina contro lo zio?, BlitzQuotidiano, 23/04/2023.

Il reo-confesso Marco Accetti ha aggiunto un episodio piuttosto controverso legato all’indagine nei confronti di Bonarelli.

Nel 1993 Mirella Gregori sarebbe stata fatta rientrare in Italia per incontrare la madre, Maria Vittoria Arzenton, evitando che quest’ultima riconoscesse Bonarelli come quell’uomo visto al bar dei De Vito in compagnia di Mirella e Sonia, rischiando di indirizzare le indagini sulla gendarmeria vaticana. Tale incontro sarebbe avvenuto a Villa Borghese in uno spazio nei pressi del galoppatoio442G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

«Era la fine del 1993», ha sostenuto Accetti, «un pomeriggio, attorno alle 15,30. Io ero presente, ma in lontananza, non visto. Ci trovavamo nei pressi del galoppatoio di Villa Borghese. La ragazza era nel camper, parcheggiato a ridosso della recinzione. L’incontro durò circa tre quarti d’ora, serviva a tranquillizzare la signora Arzenton, per le dichiarazioni da lei fatte contro la gendarmeria. Si salutarono e Mirella fu riportata all’estero»443in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 166.

 

Nel seguente video le parole di Marco Accetti sul presunto incontro tra Mirella e sua madre:

 

La sorella Maria Antonietta non ha mai creduto a tale episodio: «Non ci credo assolutamente. Sta dicendo che mia madre, riabbracciata mia sorella dopo dieci anni, tenne per sé il segreto? Continuò a fingere di cercarla, fino a morirne, di dolore e di malattia, mentre sapeva che era viva e dove si trovava? Impossibile. Mamma era sicura che fosse lui l’uomo visto con mia sorella. Lo ricordo bene, non aveva dubbi. La Procura impiegò otto anni a chiamarla per un confronto con questo signore, nel frattempo diventato misteriosamente cittadino vaticano, e quando la convocarono era ormai stanca e malata, morirà di lì a poco. Si confuse, forse si spaventò»444in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 166.

Accetti replicò a Maria Antonietta Gregori: «La sorella ha diritto di pensare ciò che vuole, ci mancherebbe. Sappia che dico la verità. E che la signora poteva aver un ottimo motivo per non raccontare: salvaguardare sua figlia». E questo può significare salvaguardare Mirella o anche la stessa Antonietta, la madre potrebbe essere stata costretta ad obbedire, altrimenti potevano far fuori Mirella o Antonietta445in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 166.

 

6.8 Marco Accetti e la sparizione di Emanuela Orlandi.

In maniera speculare al “finto sequestro” della Gregori, Marco Accetti ha spiegato agli inquirenti che anche quello di Emanuela sarebbe stato un allontanamento volontario, indotto da un ricatto riguardante il padre446G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

Per la precisione, a Emanuela sarebbe stato fatto credere che il padre Ercole fosse coinvolto nell’attentato a Giovanni Paolo II poiché aveva favorito (pur inconsapevolmente) la partecipazione di Agca ad alcune udienze papali del 1979 e che, per tale ragione, il suo lavoro era a rischio così come la sua permanenza della famiglia nell’appartamento in Vaticano447G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

Lo stesso Accetti, nel suo blog ha precisato che Emanuela «fu tratta in inganno raccontandole che il padre era sotto ricatto, e dunque necessitava della sua partecipazione a tale finto sequestro. Non significa affatto che la ragazza fosse “consenziente” ma che la sua minima partecipazione fu “estorta” e forzata. Quindi non era consenziente “in toto” e al tempo stesso non prelevata secondo i metodi convenzionali».

I complici di tale operazione sarebbero state delle ragazze, tra cui alcune amiche di Emanuela, Enrico De Pedis e alcuni prelati qualificati come officiali maggiori di seconda classe448G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

Gli scopi del temporaneo e finto sequestro sarebbero stati inviare codici ad Agca perché ritirasse le accuse verso i bulgari e operare pressioni e minacce a mons. Marcinkus. Lo stesso Accetti ha spiegato che «Emanuela serviva a far credere ad Agca che il Vaticano sotto ricatto non si sarebbe opposto alla sua liberazione, e la Gregori a spingere il presidente della Repubblica, allora era Pertini, a concedergli la grazia. Ma a noi delle sorti del detenuto non importava nulla, noi volevamo solo che credesse a queste promesse e scagionasse i bulgari, era una questione politica»449in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 19.

Una volta rientrata a casa, Emanuela, avrebbe dovuto raccontare che l’uomo della Avon, finita la lezione di musica, semplicemente le aveva mandato incontro un’amica con la quale sarebbe andata nel suo appartamento per mostrarle dei cosmetici e nella cui abitazione si sarebbe fermata a dormire.

Nel frattempo, la fazione di Accetti avrebbe fatto pressioni su prelati vicino a Marcinkus facendo credere che quella della Orlandi potrebbe essere stata una menzogna per coprire la verità, la quale sarebbe invece stata che un prelato la avrebbe condotta in una villetta dove Marcinkus le avrebbe fatto velate e gentili avances (da lei respinte), offrendo in cambio aiuto al padre che si trovava sotto ricatto avendo acconsentito al “finto sequestro” della figlia.

Secondo il Memoriale di Accetti, la ricerca della cittadina vaticana sarebbe iniziata nel 1981 da parte della giovane tedesca (la bionda “Ulrike”, fiancheggiatrice della Stasi), la quale -sotto mentite spoglie-, avrebbe lavorato in Vaticano dicendo di essere dell’Azione Cattolica.

Inizialmente avrebbero puntato sulla sorella di Emanuela, Cristina, la minore. Questo per comporre anagraficamente come codice l’età dei tre pastorelli di Fatima: Mirella (15 anni), Cristina e Stefano (Coccia, di cui parleremo dopo). Venne però ritenuto che Cristina, data la giovanissima età, non avrebbe “capito” il piano. Per la stessa “indisponibilità caratteriale” sarebbero state escluse anche le figlie della famiglia Gugel, il cui padre era addetto dell’anticamera papale.

In questo video Marco Accetti spiega a Pietro Orlandi il motivo per cui fu scelta Emanuela:

 

La scelta sarebbe quindi caduta su Emanuela per il carattere aperto (disponibile a collaborare) ma, soprattutto, perché frequentava la scuola di musica di musica nel palazzo di Sant’Apollinare, che Accetti definisce «feudo storico del Card. Caprio, nostra controparte». All’interno della scuola “Ludovico Da Victoria” sarebbe stata attenzionata Giuliana, membro del Consiglio direttivo450M. Accetti, Memoriale, 2014.

In un’altra occasione l’uomo ha ricordato vagamente che il nome sarebbe stato Giuliana Lollo (o Di Lollo) e che fu fintamente corteggiata per carpirle delle informazioni sul card. Caprio. La donna non fece mai collegamenti con la vicenda Orlandi451in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

Inoltre, sostiene che sarebbero stati rilevanti i rapporti del maestro Miserachs con “ambienti” francesi e operante nella Cappella Giulia.

Sarebbe stata una «lavoratrice laica» fintasi appartenente ad una Associazione Cattolica a individuare e a conquistare gradualmente la fiducia di Emanuela, venendo a conoscenza delle sue attività, e assicurandole dei favoritismi come musicista nei riguardi dell’attività della Cappella Musicale e della Cappella Giulia grazie alle sue conoscenze nella Prefettura della Casa Pontificia. La donna le avrebbe chiesto di non mettere al corrente nessuno di questo suo interessarsi presso le suddette entità per non vanificare le sue iniziative nel favorirla452M. Accetti, Memoriale, 2014.

Lo stesso Accetti ha sostenuto di aver incontrato Emanuela diverse volte prima della scomparsa, la prima all’uscita di scuola nel giardino limitrofo alla scuola Convitto nazionale Vittorio Emanuele II e, l’ultima (a 24 ore dal finto sequestro), nell’ipogeo della chiesa di Sant’Agnese in Agone453in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

La Orlandi avrebbe dovuto portare con sé il giorno della scomparsa la tessera personale della scuola, così da portare in seguito gli inquirenti e la stampa a attenzionare il palazzo di Sant’Apollinare454in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

 

La data scelta sarebbe stata il 22 giugno 1983 in quanto Giovanni Paolo II si sarebbe recato al Senato Accademico polacco, per questo fu deciso di ambientare l’incontro con tra l’uomo della Avon e la Orlandi davanti al Senato italiano, in Corso Rinascimento, consapevoli del non funzionamento delle telecamere (non ricorda però se le disattivarono loro). Inoltre, il numero 22 avrebbe dovuto ricordare la sezione 22 di antiterrorismo della Staatssicherheit e la tessera dell’avv. Ortolani presso la Loggia P2455M. Accetti, Memoriale, 2014.

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Secondo gli accordi presi con la ragazza, Emanuela sarebbe dovuta provenire da via Zanardelli, cioè dal Palazzo di Giustizia, ma non lo fece e si sarebbe imbattuta in una complice, cioè «la compagna dell’Istituto Convitto Nazionale che stazionava in Corso Rinascimento, e la quale la corresse indirizzandola a percorrere l’interno di piazza Navona per poi riprendere Corso Rinascimento dalla parte opposta».

Emanuela sarebbe così arrivata da corso Vittorio. Una Bmw parcheggiata (codice della Germania Federale) dal colore sgargiante (colore che avrebbe ricordato l’auto nella quale fu assassinato Pecorelli) guidata da Enrico De Pedis, avrebbe fatto delle manovre appena individuata la ragazza, accostandosi in contromano e in doppia fila al centro della strada. Questo per attirare l’attenzione di eventuali testimoni e produrre un identikit per far credere che il sequestro fosse opera della Magliana456M. Accetti, Memoriale, 2014.

De Pedis sarebbe sceso dall’auto e avrebbe simulato un incontro con Emanuela, mostrandole un tascapane azzurro con una “A” (codice dell’Aeronautica italiana, di cui alcuni membri avrebbero fatto parte della fazione avversa) con alcuni prodotti cosmetici. La “A” avrebbe anche ricordato la “Avon”, industria con sede a New York (oltre alla Polonia e Russia), diocesi del card. O’Connor che, assieme a Macioce, avrebbe influito sulla politica dello Ior457M. Accetti, Memoriale, 2014.

Un altro codice legato alla “Avon” sarebbe il significato celtico di “fiume”, ad indicare alla fazione della controparte la testimonianza della ragazza del Convitto, istituto lungo le sponde del fiume Tevere. La “A”, infine, avrebbe rappresentato l’”agenzia A”, «un opuscolo sociopolitico che lavorava anche negli interessi della DDR, e che in vari precedenti numeri si era già occupato di criticare la gestione dell’Istituto Opere di Religione»458M. Accetti, Memoriale, 2014.

L’incontro tra De Pedis e la Orlandi sarebbe stato fotografato dallo stesso Accetti, sempre in compagnia di Ulrike. Il fotografo avrebbe indossato sotto il giubbotto gli stessi abiti indossati da De Pedis, portando anche lo stesso taglio e pettinatura. Si sarebbe infatti sostituito a lui in caso di riconoscimento da parte di qualcuno, con un motociclista nei paraggi pronto a prelevarlo459M. Accetti, Memoriale, 2014.

Finito il “finto incontro”, Emanuela si sarebbe diretta verso la scuola mentre Accetti avrebbe consegnato il rullino fotografico a De Pedis, il quale si sarebbe allontanato con la moto, lasciando la BMW al centro della strada.

Qui sarebbe avvenuto un secondo finto incontro, quello tra Emanuela e un esponente dei Focolari Idealisti turchi, vicino alla fazione. Sarebbe stato lo stesso fatto incontrare anche a Mirella il giorno della sua sparizione: «Si trattava di un estremista islamico tra i tanti rifugiati in Europa, ce n’erano in Germania, Svizzera, Francia, che aveva orientamento diverso, rispetto ai vari Agca o Celebi si poteva considerare di sinistra. Fecero da tramite i nostri referenti della nunziatura in Turchia e il sindacato di polizia Pol-Der, lo stesso che aveva intercettato le voci di attentato. Fu lui a pedinare la Gugel due anni prima. Agca, riconoscendolo nelle foto accanto a Mirella ed Emanuela, si sarebbe convinto che i sequestri erano stati realmente eseguiti da un’organizzazione filosovietica, quindi con l’intento dimostrato di ottenere da lui la ritrattazione delle calunnie sui bulgari, di cui avrebbe beneficiato grazie al tentativo di liberarlo»460in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 102.

Dopo aver fotografato anche questo incontro, Accetti avrebbe fatto avere ad Agca, tramite un agente corrotto da De Pedis, le fotografie, facendogli credere che il “sequestro” fosse stato organizzato con l’aiuto dei turchi461M. Accetti, Memoriale, 2014.

Terminato anche il secondo incontro, la Orlandi sarebbe entrata (appositamente in ritardo) nella scuola di musica. L’entrata in ritardo della Orlandi quel giorno è stata confermata da Laura Casagrande (oltre che dal maestro Loriano Berti e dalla direttrice suor Dolores)462R. Pera, Emanuela Orlandi – E questo è solo l’inizio, Giustizia, 18/07/23.

In una telefonata che UCCR ha avuto con Accetti nel gennaio 2016, l’uomo ha dichiarato dopo gli incontri con De Pedis e il turco, «mi presentai io a chiedere dove fosse la Sala Borromini per confondere le acque e la possibilità di un identikit». I due agenti (Bosco e Sambuco) «avevano assistito a questa scena» con De Pedis, al quale «mi sono sostituito io -chiaramente loro non è che avessero l’occhio fisso sulle nostre mosse- per incidere meglio nella memoria, e gli ho chiesto: “Dov’è la Sala Borromini?”. Non ricordo se al vigile o al poliziotto, oltretutto c’erano anche altri impiegati, credo del Senato».

 

Qui sotto il confronto tra l’identikit fornito da Alfredo Sambuco e Enrico De Pedis:

 

Qui sotto il confronto tra l’identikit fornito da Alfredo Sambuco e Marco Accetti:

 

Analizziamo questa sequenza descritta da Accetti.

Secondo il giudice Fernando Imposimato, la cui convinzione è che il doppio rapimento sia stato opera premeditata della Stasi, la ragazza di corso Rinascimento sarebbe stata Fabiana Valsecchi.

Il nome venne fatto da Fabrizio Peronaci nel primo incontro che ebbe con Marco Accetti: mentre quest’ultimo ricostruiva l’accaduto di fronte al Senato, Peronaci domandò: “conosci la Valsecchi?”. L’uomo, colto di sorpresa, avrebbe risposto: “Da chi l’hai saputo? Chi te l’ha detto?”463F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 111.

 

Una volta uscita da scuola, Emanuela avrebbe dovuto telefonare a casa senza trovare i genitori (il padre Ercole, essendo d’accordo, non avrebbe dovuto farsi trovare a casa), per poi comunicare alle compagne un consiglio sull’accettare o meno la proposta di lavoro. Tuttavia la «lavoratrice laica» dell’Associazione avrebbe segnalato l’imprevista presenza di una sorella a casa Orlandi, così tramite una compagna della scuola di musica complice della fazione, comunicarono a Emanuela di telefonare alla sorella informandola dei codici “Avon” e “375”.464M. Accetti, Memoriale, 2014.

La cifra appositamente esagerata di 375000 lire avrebbe ricordato la data della prima apparizione della Madonna di Fatima: 13-5-1917. Il codice “Sorelle Fontana” avrebbe invece significato l’abitazione di mons. Celata, posta un portone prima della sede dell’atelier, presso il Collegio De Merode. Il prelato sarebbe stato incaricato di allontanare Marcinkus dallo Ior collaborando con il SISMI, guidato da Santovito e Francesco Pazienza. “Sala Borromini” significava l’abitazione di quest’ultimo, posta vicino a piazza dell’Orologio, laddove si diceva incontrasse persone vicine a De Pedis.

Il codice composito significava: un’azione (“sfilata”) di monsignor Celata (“Sorelle Fontana”) con Pazienza (“Sala Borromini”), questo connubio avrebbe osteggiato la politica dello Ior465M. Accetti, Memoriale, 2014.

Il secondo appuntamento con la Orlandi sarebbe stato alle 7 di sera (altro codice da sommare con le 15:30, l’orario in cui fu fermata Mirella: 13-5-1917, data di Fatima). A lei si sarebbe avvicinata la compagna dell’istituto Convitto (già operativa nel primo incontro e che non sarebbe mai stata a conoscenza del coinvolgimento di De Pedis) con la quale si sarebbero recate verso piazza Navona, dove salirono a bordo di un’auto con finta targa del Vaticano, al cui interno ci sarebbe stato un sosia di un prelato della fazione avversa (segretario del Comitato Organizzativo per l’Anno Giubilare della Redenzione del 1983).466M. Accetti, Memoriale, 2014.

Il cosiddetto “prelato della fazione avversa” sarebbe stato mons. Liberio Andreatta, all’epoca 42enne e negli ultimi anni responsabile dell’Opera romana pellegrinaggi. Dopo l’ordinazione sacerodtale del 1969, fu inserito nella diocesi di Tarquinia e Civitavecchia. Nel 1983 divenne effettivamente segretario di Presidenza del Comitato per il Giubileo Straordinario, poi passò all’Opera romana pellegrinaggi con incarichi di vertice.

Accetti riferisce che mons. Andreatta «era in cima all’elenco dei religiosi avversati»467in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 120, «verso di lui esercitammo notevoli pressioni, in quanto nella diocesi di Tarquinia si era occupato di innumerevoli realtà edilizie compiendo varie scorrettezze legali»468M. Accetti, Memoriale, 2014. In particolare, aggiunse Accetti, «le illegalità in materia immobiliare nell’Alto Lazio, di cui avemmo qualche resoconto, portavano a certi rapporti tra il suddetto prelato e un faccendiere noto in ambienti della banda della Magliana, Ernesto Diotallevi»469in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 120.

Una volta giunti a Porta Sant’Anna, l’amica avrebbe atteso fuori dalla Porta per distrarre eventuali parenti della Orlandi che fossero rientrati a casa (stessa cosa avrebbe fatto la ragazza dell’Associazione Cattolica presso piazza di Sant’Egidio, monitorando la sorella Federica) mentre la Orlandi sarebbe entrata verso il cortile Sisto V, chiedendo a quanti testimoni possibili dove potesse rintracciare il prelato vicino a Marcinkus (che, nel ricatto ideato dalla fazione avrebbe portato Emanuela nell’appartamento di Marcinkus). Tutto ciò sarebbe stato fotografato da Accetti stesso.470M. Accetti, Memoriale, 2014.

Dopo essere risalite a bordo, le ragazze sarebbero state condotte nei pressi di Villa Lante al Gianicolo, dove la Orlandi sarebbe entrata mentre la ragazza del convitto sarebbe rientrata a casa471M. Accetti, Memoriale, 2014.

 

Quanto è verificabile di tutto ciò?

E’ uno dei pochi casi nel racconto di Accetti in cui dagli elementi forniti si giunge al nome di un personaggio ancora vivente, ovvero mons. Liberio Andreatta. Il quale, come abbiamo visto, avrebbe fatto parte della fazione avversa a quella “progressista” e filo-sovietica di Accetti, e verso il quale furono operate molte pressioni per presunte irregolarità edilizie.

Bisognerebbe domandare a mons. Andreatta riscontro di queste parole, tuttavia una recente inchiesta giornalistica ha effettivamente attribuito al prelato un grande fiuto per gli affari edilizi

L’idea di Emanuela Orlandi che rientra a Porta Sant’Anna, nei pressi di casa sua, e fa domande ai passanti è davvero poco credibile. A maggior ragione se tale episodio non ha prodotto testimoni emersi in questi anni.

In realtà, il racconto di Accetti coincide perfettamente con quanto disse nel 1993 in un’intervista a Il Tempo il card. Silvio Oddi: «Posso dire solo quello che a suo tempo ascoltai in ambiente ecclesiastico e che molti sanno. Emanuela quel pomeriggio, finita la lezione di musica, tornò a casa, all’interno della Città del Vaticano. Fu vista arrivare a bordo di un’automobile di lusso, che non attraversò la soglia di Sant’Anna, restando ferma all’esterno, su via di Porta Angelica».

La sorella di Emanuela, Federica, smentì la ricostruzione affermando di essere rimasta a casa e di non aver mai visto Emanuela tornare472citata in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 282.

Successivamente il prelato volle precisare che «erano chiacchiere ascoltate per strada, da qualcuno che parlava della scomparsa di Emanuela Orlandi, come in quei giorni facevano un po’ tutti dalle parti di San Pietro».

Secondo Marco Accetti però, «la testimonianza a posteriori del Card. Oddi la ritengo non veritiera, in quanto la ragazza era sempre accompagnata dall’altra compagna del Convitto e di questo non vi è traccia nel resoconto di Sua Eminenza. Comunque il Cardinale era quindi a conoscenza del reale episodio, e lo avrà menzionato per un suo qualche motivo personale di cui non sono a conoscenza»473M. Accetti, Memoriale, 2014.

Una contraddizione apparente nel racconto del reo-confesso è che quel giorno Emanuela insistette molto per farsi accompagnare dal fratello in moto alla scuola di musica, litigarono a tal punto che Emanuela se ne andò sbattendo la porta. Come conciliare questo con il fatto che avrebbe dovuto di lì a poco incontrare alcune persone e partecipare in gran segreto ad un “finto sequestro”?

Nel 2013, Pietro Orlandi obiettò proprio questo nel confronto televisivo che ebbe con Marco Accetti, il quale rispose: «Per rispettare gli orari». Il reo-confesso è tuttavia apparso in difficoltà rispetto all’obiezione fornitagli. Qui sotto il video:

 

Il giornalista Fabrizio Peronaci, propenso a credere nella versione di Accetti, ha interpretato il comportamento di Emanuela come una ricerca inconscia di protezione da parte del fratello474F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

 

Marco Accetti continua il racconto spiegando che Emanuela, ospitata in una stanza affittata all’istituto religioso Villa Lante della Rovere al Gianicolo, sarebbe dovuta rientrare a casa molto tardi, dopo che la fazione avesse avuto una copia della denuncia di sparizione (ottenibile grazie a un agente corrotto da De Pedis), da mostrare ad Agca assieme alla fotografia della Orlandi con il turco dei Focolari Idealisti e alla fotocopia della tessera della scuola di musica475M. Accetti, Memoriale, 2014.

Sarebbe stata scelta Villa Lante in quanto «luogo vicino all’abitazione della giornalista Sterling, che tutti ritenevano responsabile della costruzione fasulla delle accuse ai bulgari» grazie a rapporti con esponenti della Cia e con l’avvocato di Agca476in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

La denuncia arrivò solo il giorno successivo, in concomitanza con la notizia che la Commissione Bilaterale, voluta dal Segretario di Stato Card. Casaroli con personalità del governo italiano per indagare sulle finanze dello Ior, non avrebbe consegnato la relazione il 30/06/1983, come invece promesso. Così avrebbero deciso di trattenere Emanuela per usare la sua “scomparsa” anche in tale direzione477M. Accetti, Memoriale, 2014.

Dal 23/06 sarebbe iniziata una competizione tra le due fazioni e tentativi di trattative, con la complicità di alcuni articoli di giornale: avrebbero fatto pubblicare il caso della 127 caduta nel fiume per comunicare alcuni codici mentre un loro complice della Stasi al giornale Il Tempo, di nome “Ecce Homo”, fece pubblicare il 25/06 una lettera che Agca scrisse un anno prima al card. Oddi, riportante la frase “spero che qualcosa accadrà in futuro, che qualcuno mi risponda dal Vaticano”, appaiata ad un articolo sulla Orlandi478M. Accetti, Memoriale, 2014.

Nello stesso giorno “Pierluigi” (codice di mons. Pierluigi Celata) telefonò a casa Orlandi parlando di “scappatella”, un gesto di apertura nella trattativa con la fazione opposta.

Emanuela sarebbe rimasta a Villa Lante quattro giorni, Accetti sostiene che avrebbe indossato una salopette con camicia bianca e scarpe da ginnastica basse, con scritto a penna il nome “Emanuela” (tessuto che sarebbe stato da loro tagliato).

La descrizione dei vestiti è importante in quanto il testo dei manifesti dell’epoca parlò solo di jeans, lo si legge nel piccolo trafiletto che uscì su Il Tempo il 24/06/1983, due giorni dopo la scomparsa («indossa un completo jeans e una maglietta a maniche corte bianche»), nonché fu confermato anche l’amica Raffaella Monzi.

Pietro Orlandi confermò tuttavia le parole di Accetti: «Mia sorella indossava una salopette, certo. Anzi, precisamente, dei jeans con delle bretelline. Il nome sulle scarpe, onestamente, non lo ricordo»479P. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

Accetti ha sostenuto anche di aver passeggiato con Emanuela nel centro di Roma nei mesi di luglio e agosto 1883480G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44, «una volta andammo nella zona del Ghetto e parlammo di un progetto di film. Quando usciva dal luogo in cui l’avevamo portata, le facevamo indossare una parrucca»481in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

Per quanto riguarda Claire Sterling, la donna fu la prima, insieme a Paul Henze, capo centro della CIA ad Ankara, a parlare effettivamente della pista bulgara relativamente all’attentato al Papa. E’ anche vero che viveva con il marito a Trastevere, circa 2km da Villa Lante, in via San Francesco di Sales482F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, pp. 75, 177. Ubicazione confermata in maniera indipendente dal giudice Rosario Priore483R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 28.

Non c’è dubbio sul fatto che la giornalista americana Sterling avesse dato indicazioni precise ad Agca su come avrebbe dovuto comportarsi, fu stato confermato nel 2005 anche dal giudice Rosario Priore484R. Priore, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 20/07/2005, p. 28.

 

Il 26/06/83 Emanuela sarebbe stata trasferita sul litorale romano in un appartamento presso Tor Vaianica a bordo di un camper e in compagnia di due ragazze. Accetti ha ricordato che la ragazza «voleva capire, certo, chiedeva cosa ne pensassero i genitori. Noi le ripetevamo che la famiglia sapeva. D’altra parte non è che le fu detto: dovrai stare fuori mesi. Doveva essere una cosa breve, che poteva concludersi da un’ora all’altra»485in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 134.

Il fotografo l’avrebbe incontrata con una certa regolarità dal 22 giugno fino alla fine del 1983. «Non si spostò mai da Roma e dal litorale, dove abitò in due appartamenti. Molte volte dormì in un camper. Le consentivamo di suonare il flauto, le comprammo un pianoforte. Lei sapeva che suo padre era d’accordo con non tornasse a casa, perché aveva avuto dei problemi che, grazie al suo momentaneo allontanamento, sarebbero stati risolti. All’inizio si sentiva un po’ come un’eroina, tra noi si era instaurato anche un certo affetto»486in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

La Orlandi sarebbe stata usata in tutto questo periodo per esercitare pressioni a favore del proscioglimento di Antonov e, grazie al secondino corrotto da De Pedis, sarebbero stati mostrati a Agca documenti che attestavano si trattasse di un vero sequestro mascherato da finta scappatella, facendogli credere che il Papa, per liberare la Orlandi, avrebbe chiesto al Presidente della Repubblica Pertini la cortesia di conferire la grazia per lui. Pertini sarebbe stato già sensibilizzato dal sequestro della Gregori487M. Accetti, Memoriale, 2014.

Il 28/06/83 Agca iniziò la ritrattazione sui bulgari inficiando la sua credibilità, il telefonista “Mario” (codice di “Mario Aglialoro”, probabile mandante dell’omicidio Calvi) chiamò casa Orlandi parlando di “scappatella”, per mostrare alla controparte la volontà di non compiere scandali purché si fossero accettate le richieste e rafforzare la trattativa interna. Tuttavia, la relazione della Commissione sullo Ior sarebbe stata rimandata generando sospetti nella fazione, per questo Emanuela e Mirella sarebbero state trattenute in attesa di comprenderne il motivo.

II 3/7/83 arrivò il primo appello di Giovanni Paolo II il quale parlò di sequestro, Accetti ritenne che «il Papa non sia stato realmente informato compiutamente, ma portato su piste confondenti, quale un’operazione di terrorismo ordito da un paese oltrecortina. Coloro che hanno prodotto l’appello intendevano, a nostro avviso, sottrarsi alla nostra minaccia di rivelare pubblicamente la “realtà” relativa al “sequestro”, rendendolo a loro volta pubblico. Ci anticipano nella nostra intenzione, sia pur virtuale, rendendolo di pubblico dominio. È anche un modo di dichiarare che non accettano le nostre istanze»488M. Accetti, Memoriale, 2014.

La ritrattazione di Agca avvenne e la Orlandi avrebbe dovuto tornare, se non che il 30 giugno 1983 l’esito della Commissione per lo IOR venne ufficialmente rinviato sine die. Il 3 luglio 1983 arrivò l’appello del Papa: «Coloro che hanno prodotto l’appello intendevano sottrarsi alla nostra minaccia di rivelare la ‘realtà’ relativa al ‘sequestro’, rendendolo a loro volta pubblico. Ci anticipano nella nostra intenzione, sia pur virtuale. Dichiarano in questo modo che trattasi di un qualcosa di ‘esterno’, un rapimento qualunque, cosicché il Vaticano risulta estraneo, senza alcuna responsabilità. È anche un modo di dichiarare che non accettano le nostre istanze», (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).

La Orlandi sarebbe stata trasferita in un appartamento nel quartiere di Monteverde.

Perché la scelta di Torvajanica e Monteverde? Accetti nel 2013 ha spiegato che ciò avrebbe portato gli inquirenti verso abitazioni legate alla Magliana, ritenendo «la stessa unica responsabile del sequestro. Sarebbe parso un rapimento a scopo di estorsione tra i tanti che gli stessi elementi criminali avevano già compiuto nella città di Roma»489M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.

Relativamente ai luoghi di “Monteverde” e “Torvajanica”, nel 2013 Accetti ha sostenuto che la telefonata di “Mario” sarebbe in gran parte secretata e «non è mai stata rivelata integralmente dagli inquirenti, e se ne conoscono pubblicamente solo alcuni passaggi». Nella lunga parte secretata si annuncerebbe «gran parte di quanto si sarebbe verificato nei mesi seguenti». Si parlerebbe, ad esempio, di “Monteverde” e di “Tor Vaianica”490M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013. “Torvajanica” fu usato anche dal primo telefonista, “Pierluigi”, dicendo di chiamare da un ristorante di quella cittadina.

Tra i vari domicili della Magliana si sarebbe scelto quello di Monteverde in quanto vicino alla residenza di mons. Franco (sottoposto del card. Oddi) e di Marcinkus, che sarebbero stati residenti a Villa Stricht, in via della Nocetta. Un’allusione che i due prelati «potessero avere la disponibilità di tale appartamento e di essere a conoscenza della segregazione della Orlandi». L’appartamento di Torvajanica, invece, si trovava vicino alla villa del giudice Santiapichi, futuro presidente della Corte d’Assise sull’attentato al Papa491M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.

Come già detto, Accetti avvalora anche la testimonianza di Sabrina Minardi in quanto la donna citò proprio queste due località come luoghi di detenzione della Orlandi. «Non si può immaginare che la Minardi possa aver avuto accesso a tali verbali secretati. Né si può ritenere che tra tanti quartieri di Roma e tante località marittime possa essersi verificata una mera, fortuita coincidenza nell’essere citati da entrambi i personaggi, “Mario” e la Minardi»492M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.

L’uomo ha però evitato di confermare la proprietaria dell’appartamento nel quartiere “Monteverde” indicati dalla Minardi (cioé Daniela Mobili, come confermato dagli inquirenti), per coerenza «alla mia intenzione di non fare alcuna chiamata di correità»493M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.

La Magliana, in cambio di questa «limitata partecipazione logistica e di copertura, avrebbe ottenuto principalmente come interscambio alcune entrature all’interno della Città del Vaticano per alcune loro esigenze di investimento finanziario»494M. Accetti, Elenco dei punti (indizi e prove), blog personale, 14/11/2013.

Valutazione:
Sabrina Minardi riferì effettivamente che la Orlandi sarebbe stata prima segregata in una casa di sua proprietà a Torvajanica, in via Rumenia 123 (Pomezia) e poi in via Pignatelli 13, nel quartiere Monteverde, in un appartamento di Daniela Mobili e Vittorio Sciattella, con la complicità di Danilo Abbrucciati. Le carceriere sarebbero stata due donne delle pulizie, Maria Adelaide Eugenia Cassi e Maria Luisa Melchiorri495G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 34.

La Procura effettuò queste verifiche:
Danilo Abbrucciati morì prima della sparizione di Emanuela;
– Daniela Mobili possedeva effettivamente l’appartamento in via Pignatelli 13, contenente un locale sotterraneo con una grotta ricavata dal sottosuolo (le analisi scientifiche della grotta non portarono alcun risultato circa la detenzione della Orlandi)496G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 13, 14;
– Daniela Mobili (compagna di Abbrucciati) si trovò in carcere dal 1982 al 1984497G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 13, 14;
– Maria Luisa Melchiorri, deceduta nel 2009, fu trovata presente nell’appartamento della Mobili in via Pignatelli 13 (mentre la Mobili era detenuta) durante una perquisizione498G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 14, la donna ammise la circostanza soltanto dopo contestazione, sostenendo di aver poi lasciato l’appartamento in disponibilità della suocera della Mobili499G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 16. La Mobili negò di conoscere la Melchiorri500G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 15;
– Maria Adelaide Eugenia Cassi, deceduta nel 2002, fu effettivamente legata in passato a Roberto De Pedis, deceduto nel 1988 e zio di Enrico501G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 16;

Il 5/7/83 la fazione avrebbe deciso di ufficializzare gradualmente il sequestro facendo comparire il telefonista “l’Amerikano” (con la voce di Thomas Macioce, il vero responsabile della politica dello Ior a favore di Solidarnosc). Il primo livello fu riferirlo solo alla Sala Stampa Vaticana (sequestro per ottenere liberazione Agca, ultimatum il 20/07 per lo “scambio” con Emanuela), le richieste non furono accettate e perciò si passò alla famiglia (a cui fecero sentire un audio con la voce di Emanuela) e infine alla stampa502M. Accetti, Memoriale, 2014.

Questa gerarchizzazione dell’intervento dei sequestratori non è originale, trova conferma in un articolo de l’Unità datato 05/10/1983, nel quale si rende nota la rilettura della vicenda dagli occhi del giudice Domenico Sica:

«Pochi giorni dopo il rapimento di Emanuela arriva il primo messaggio al Vaticano, un messaggio “particolare”, mai diffuso dalla stampa. Il Vaticano tace, ma il giorno dell’Angelus Papa Wojtyla lancia il primo appello. E’ il “segno” chiesto dai rapitori per l’apertura delle trattative; di che tipo non si sa. Ci sono altri contatti segreti con la Santa Sede. Ma evidentemente la trattativa sta per arenarsi, perché i rapitori decidono di far intervenire la stampa. E utilizzano i canali dell'”Ansa”, per garantire la massima diffusione delle loro farneticanti richieste: cioè la liberazione di Alì Agca e degli altri turchi coinvolti nell’inchiesta sull’attentato al Papa. La Santa Sede sa bene che in realtà i turchi non c’entrano nulla e la richiesta è un’altra. Arriva quindi l’ultimatum del 20 luglio. Il Vaticano fa di tutto per riattivare le trattative ma i rapitori puntano troppo in alto».

 

Accetti riferì che la telefonata dell'”Amerikano” agli Orlandi fu fatta dai Parioli e la registrazione di EManuela sarebbe stata eseguita dopo la sua sparizione. Per quanto riguarda il fischio del treno che si sente in sottofondo, sarebbe stato registrato in precedenza per depistare gli inquirenti503in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 176.

L’8/07/83 Agca rilanciò le accuse verso i bulgari, secondo Accetti fu perché la trattativa non era più occulta e non avrebbe avuto possibilità di successo. Così Emanuela e Mirella furono trattenute ulteriormente per fare comprendere ai giudici popolari della Corte d’Assise un legame con l’esito del processo504M. Accetti, Memoriale, 2014.

Accetti dichiarò che sarebbe stato «contrario a proseguire, avrei preferito rimandarle a casa. Non era bontà. Temevo che saremmo stati scoperti, arrestati»505in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 137.

In quel giorno avvenne la telefonata alla compagna di musica di Emanuela, Laura Casagrande, in cui il telefonista disse che Emanuele era fuori dal territorio italiano: «Per alludere che possa trovarsi in territorio della Città del Vaticano», ha spiegato Accetti506in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 136.

La Orlandi intanto sarebbe rimasta nell’appartamento nel quartiere Monteverde, «parlavamo di fotografia e di musica, suo grande interesse. Le promettemmo che l’avremmo aiutata a coronare un sogno, suonare nella cappella Giulia. E poi pensava alla ripresa della scuola, studiava sui libri che ci chiedeva e le portavamo, suonava il flauto e un piccolo pianoforte verticale, che le mettemmo a disposizione. Ricordo anche che ricamava, la vidi più volte con ago e filo». Sia lei che Mirella, sostiene Accetti, «non conoscevano i fatti reali, i nostri nomi, le nostre fattezze. Io indossavo sempre una parrucca, portavo lenti a contatto marroni. Una volta ero Paolo, un’altra Ivan, nome un po’ sinistroide, o Fabio, a seconda delle esigenze. Paolo perché così mi chiamò una volta un prelato, conoscendo la mia predilezione per l’immagine carismatica di papa Paolo VI»507in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 138.

E’ la seconda volta che emerge il (presunto) desiderio di Emanuela nel suonare nella cappella Giulia. La prima volta le avrebbe promesso un favoritismo la ragazza dell’Associazione Cattolica, complice di Accetti, che conquistò la sua fiducia in Vaticano. Sarebbe utile che i familiari della Orlandi confermassero o meno questo vivo desiderio di Emanuela, sicuramente nato precedentemente al sequestro.

Rispetto ai vari nomi che Accetti avrebbe cambiato agli occhi di Emanuela, appare senza senso in quanto la ragazza lo avrebbe comunque riconosciuto dalla voce, dalla struttura corporea, dai modi di fare e dalle fisionomie somatiche.

Inoltre, come ha sottolineato Fabrizio Peronaci508in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p.138, il nome “Paolo” non è nuovo: nella testimonianza di Sabrina Minardi509in R. Notarile, Segreto criminale, Newton Compton 2010, la donna disse che le venne caricata in macchina Emanuela, la quale «era frastornata, confusa. Piangeva, rideva. Le avevano tagliato i capelli in maniera oscena. Trascinava le parole, nominava un certo Paolo e mi chiese se la stessi portando da lui».

E’ la seconda volta che il racconto di Accetti collima con quello della Minardi.

Il 4/8/83 si sarebbe attivata anche la fazione avversa (con l’aiuto del SISMI) a quella di Accetti tramite il primo comunicato del gruppo “Turkesh”, nel quale si accostò per la prima volta il caso Gregori a quello Orlandi. Furono chieste notizie su Mirella e la fazione “progressista” accettiana avrebbe interpretato il “codice” in questo modo: se non avessimo più coinvolto il Vaticano tramite la Orlandi occupandosi solo pubblicamente della Gregori lo Stato del Vaticano, sarebbero stati favoriti sulla ritrattazione verso Antonov510M. Accetti, Memoriale, 2014.

Nel settembre 1983 comparvero una serie di comunicati spediti da Boston e dagli USA, sarebbero stati scritti da una ragazza e spediti da un’altra (l’ex moglie di Accetti, Eleonora Cecconi) con l’intendo di «spostare l’attenzione dalla Repubblica Bulgara al territorio statunitense». Il Sisde sarebbe stato a conoscenza di questo tentativo di depistaggio e avrebbe creato il gruppo “Phoenix”, minacciando la fazione di Accetti con il codice 158 e citando la pineta e il ristorante di Torvajanica511in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 140.

Per forzare l’ottenimento della grazie presidenziale per Agca, la fazione avrebbe fatto circolare un video nella pineta di Castel Porziano, mettendo in evidenza la vicinanza alla residenza estiva del capo dello Stato e filmando Mirella Gregori (consenziente), poi un’arma calibro 357 (3-5-17, codice di Fatima) e la targa di Castel Porziano. Alla fine il suono di un sparo fuori campo512in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 143.

Il 20 ottobre arrivò l’appello di Pertini: «Ho sempre sostenuto una linea di estrema fermezza nella lotta al terrorismo, contro ogni trattativa o cedimento. Oggi, senza allontanarmi da questa linea, di fronte all’angosciata richiesta delle famiglie, e in particolar modo della signora Gregori, madre di Mirella, rivolgo l’invito ai rapitori a rilasciare immediatamente queste giovani e formulo l’auspicio che un raggio di pietà illumini il loro animo».

Secondo Accetti la frase “in particolar modo” dimostrerebbe che il capo dello Stato, dopo che per mesi si era prevalentemente parlato di Emanuela, fu costretto a spostare l’attenzione sull’altra ragazza513in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 146.

Il 20 dicembre 1983 Marco Accetti venne arrestato e condotto in carcere per l’omicidio del piccolo José Garramon, quella sera si stava dirigendo a Ostia dopo che aver visitato Emanuela nel camper ubicato nei pressi della villa del giudice Santiapichi. Dopo l’incidente, mentre Accetti si farà arrestare, la complice tedesca Ulrike avrebbe raggiunto nuovamente il camper portando l’auto negli ex stabilimenti De Laurentis su via Pontina, «un posto che noi conoscevamo bene, lo stesso dove anni dopo nascosi il flauto. Tra i due teatri di posa c’era una struttura con i camerini, comodi, arredati, perfetti per dormire. Noi avevamo appoggiato una scala all’esterno. Bisognava solo stare attenti al sistema d’allarme, azionato nell’atrio, ma non nei corridoi»514in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 158.

Emanuela avrebbe passato quella notte in quel luogo, poi fu detto ad Accetti che sarebbe stata portata a Roma. «Io ero già in carcere, da allora il mio racconto va preso con beneficio d’inventario»515in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 158, ha sostenuto.

L’allontanamento di Emanuela Orlandi sarebbe dovuto durare poche ore, il tempo di far presentare la denuncia di scomparsa ai famigliari, presentando codici ad Agca per costringerlo a ritrattare la pista bulgara. Tuttavia, come spiegato sopra, circostanze non dipendenti dalla volontà degli organizzatori dei finti sequestri avrebbero fatto rimandare il rientro516G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

Accetti finì in carcere nel dicembre 1983 e non avrebbe più avuto contatti diretti con Emanuela. Sostiene che la sua fazione gli comunicò che non potendo più tenerla in Italia per questioni di sicurezza, sarebbe stata trasferita all’estero. «Mi fu detto in modo lapidario: “Stanno bene fuori, meglio non farle rimpatriare, si creerebbe uno scandalo inutile”».

Da quanto ha saputo, Emanuela sarebbe stata ospitata qualche giorno a Milano da un italiano convertito all’Islam, il quale avrebbe allestito in casa sua una piccola comunità e un luogo di preghiera. Poi si sarebbe diretta vicino a Parigi, a Neauphle le Chateau. Il viaggio sarebbe stato fatto in compagnia dello stesso turco (di orientamento di sinistra) che avrebbe partecipato al finto sequestro davanti al Senato nel giorno della sua scomparsa. A Neauphle le Chateau avrebbe risieduto soltanto per gli anni 1984 e 1985 con un passaporto iraniano517G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44 518in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 161.

Il turco che avrebbe accompagnato Emanuela sarebbe stato Oral Celik (lo stesso Accetti in un’altra occasione escluse Musa Serdar Celebi519in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 102)?

Emanuela avrebbe assunto il nome di Fatima, «nel 1984, in Olanda, fu albergata in pertinenza cardinal Felici, che in Francia operava in modo reazionario contro i prelati ‘indipendenti’ francesi. Fu posizionata, ospitata. Il fatto risale ai primi mesi del 1984. Io ero in carcere, lo venni a sapere dopo. Per fare una pressione sul cardinale Felici, che era un reazionario tremendo, si collocò la Orlandi in una residenza provvisoria, di laici a lui riferibili, Non ricordo in che città, ma immagino fosse la capitale. Basta andarsi a vedere la biografia del cardinale. Però, onestamente non sono sicurissimo che fosse proprio Emanuela, anzi…quasi certamente era una sosia… Ma la sostanza non cambia. A noi per sollevare uno scandalo bastava poter dire: la Orlandi ha dormito qui, in una pertinenza di quel monsignore che ci sta dando fastidio, e abbiamo le foto che lo attestano»520in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 162.

La tesi che la Orlandi fosse stata ospitata in un casa a Parigi la sostennero anche i “Lupi Grigi”.

Il giudice Rosario Priore ha infatti ricordato che nel 1986 la polizia italiana, francese e tedesca convergerono sulla capitale francese nella ricerca dell’abitazione. Yalcin Ozbey (collaboratore dei servizi tedeschi) avrebbe dovuto prendere informazioni da Oral Celik, il quale non si presentò e il tentativo andò a vuoto. Furono comunque individuate due case, una a Boulevard de Strasbourg e l’altra a Rue de Roquette, ma non si ebbe mai nessuna prova concreta521Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 27/07/2005, p. 38.

Il magistrato Ferdinando Imposimato, a lungo occupatosi dell’attentato al Papa e del caso Orlandi, oltre a confermare le coperture della Francia a favore di Oral Celik mentre era oggetto di un mandato di cattura da parte italiana per l’attentato a Wojtyla, ha sostenuto che fosse stato «in qualche modo implicato anche nel sequestro di Emanuela Orlandi, come ha riferito a me un suo amico, detenuto con lui in un carcere francese»522F. Imposimato, Commissione Parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence italiana, 05/10/2005, p. 12.

Di Parigi ha parlato in Procura sorprendentemente anche Dany Astro, presentatasi agli inquirenti nel 2013 dopo Marco Accetti. Ha riferito di essere compagna di Accetti dal 2001, raccontando che nel 2012 l’uomo l’avrebbe incaricata di consegnare una lettera ad un arabo o un orientale della moschea centrale di Parigi523G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45.

Ciò sarebbe avvenuto dopo la morte di Oscar Luigi Scalfaro. Ricordiamo che la segreteria particolare dell’ex presidente emerito della Repubblica, ministro dell’Interno dall’agosto 1983 (quindi capo dei servizi segreti), era ubicata nello stesso complesso di S. Apollinare e allo stesso piano della scuola di musica pontificia Ludovico Da Victoria in cui Emanuela andava a scuola di musica e da dove poi sparì).

La lettera consegnata da Dany Astro all’arabo di Parigi avrebbe portato all’incontro con tre donne, le quali furono messe dalla Astro in contatto telefonico con Accetti. In una tra queste, ha riferito, avrebbe riconosciuto Emanuela Orlandi524G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45.

 

Analisi e verifiche

La testimonianza di Dany Astro è incredibilmente controversa.

La donna è probabilmente la ragazza bionda che viene ripresa dalle videocamere a fianco di Accetti il giorno della sua presentazione in Procura. La deposizione ai magistrati della testimonianza della Astro in cui racconta di aver riconosciuto la Orlandi a Parigi è quindi stata senz’altro concordata con Accetti, il quale però riferisce di non sapere nulla della sorte della Orlandi.

Accetti sta mentendo oppure pensa che la sua stessa compagna si sia sbagliata? Ma allora perché ha acconsentito a tale deposizione? Gli inquirenti hanno mai chiesto all’uomo di confermare o meno quanto riferito da Dany Astro?

«Escludo siano state uccise», afferma Accetti. «L’omicidio comporta un rischio immenso, perché se si trova il corpo l’assassino può pentirsi o essere individuato, e non vedo il movente. L’unico potrebbe essere la tacitazione testimoniale, ammazzarle per impedire che rivelino chi furono i sequestratori… Ma anche questo è improbabile, laborioso, perché le giovani coinvolte sono state molte. Io stesso conducevo 5 o 6 ragazze, e poi c’erano le amiche di Emanuela e Mirella. Per stare tranquilli bisognava sopprimerne 1 5 o 1 6, un po’ troppe, no? Ci sono tanti modi per tenere lontana una persona, ad esempio dire che un tuo ritorno potrebbe significare la morte di tua sorella, di tua madre. Con il trascorrere degli anni mi sono convinto che ci sia stata una forzatura, un farle stare bene, un usare una pressione perché dimenticassero il proprio nucleo familiare, il contesto sociale, e si abituassero alla nuova vita» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).

 

6.9 Marco Accetti e altre vittime coinvolte.

Dalle indagini svolte su Marco Accetti a seguito dell’omicidio di José Garramon nel 1983 e dalla perquisizione di casa sua, emersero ritagli di giornalini per giovani riportanti annunci per richiesta di scambio poster o amici di penna525G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46, e che l’uomo, in qualità di fotografo, era solito avvicinare e contattare giovani adolescenti per offrire loro una partecipazione ai suoi lavori artistici.

Inoltre, l’area frequentata da Accetti per tali proposte (corso Vittorio, via dei Coronari ecc.) era la stessa percorsa solitamente da Emanuela Orlandi, aveva infatti un laboratorio a ridosso di piazza dell’Orologio e dell’oratorio Borromini, vicino alla Sala Borromini citata da Emanuela nella telefonata prima di scomparire.

Questo dettaglio convinse nel 2016 il giornalista Pino Nicotri, da sempre ostile al racconto di Accetti, della sua sospettabilità nell’adescamento di Emanuela, facendo anche notare che l’uomo della Avon chiese alla ragazza di farsi prima autorizzare dai genitori, stesso modo di operare di Accetti.

 

Qui sotto l’importante riscontro su Marco Accetti e il ruolo degli adolescenti:

 

Ma chi furono le persone fermate da Accetti o utilizzate da lui in qualche modo?


 

Paola Diener.

Nel settembre 1983, Paola Diener (33 anni) sarebbe stata “attenzionata” dalla fazione di Accetti con lo scopo di influire sui lavori della Commissione dello IOR che avrebbe dovuto consegnare i risultati il 30/09/83. Sarebbe stato Accetti stesso a occuparsene.

Diener era figlia di uno svizzero, Joseph Diener, responsabile dell’archivio segreto vaticano, abitante in via Gregorio VII, strada che avrebbe condotto al luogo dove «avevamo situato la virtuale “villetta” prestata a monsignor Marcinkus»526in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 141.

Ecco come Accetti descrive i fatti su Paola Diener:

«Avrebbe dovuto essere una “testimone”» degli atti pedofili che sarebbero avvenuti in questa villetta, «proprio per la vicinanza della sua abitazione. Per comprendere se la ragazza avesse edotto i propri genitori dell’iniziale parziale proposta fattale, posizionammo una microspia presso la sua abitazione. E per accedere al palazzo ci fingemmo clienti di uno studio di agopuntura cinese, posto al primo piano. All’interno dell’abitazione, sita al piano terra, riscontrammo la presenza di un piccolo cane che ci intralciò nel nostro lavoro, che comunque portammo a termine. La ragazza non fece cenno alcuno alla famiglia, ma comunque non si dimostrò idonea alle nostre aspettative»527in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 141.

 

E’ sorprendente la conoscenza dettagliata delle circostanze esposte da Accetti.

Effettivamente dai documenti si rileva che il padre, Joseph Diener, era capo-custode dell’archivio vaticano. Inoltre, il dettaglio sul cane è stato riscontrato 30 anni dopo, il meccanico del palazzo vicino ricordò: «È vero, i Diener avevano un cagnolino. Lo vedevo spesso nel loro terrazzo»528citato in F. Peronaci, Emanuela Orlandi e la ragazza (oggi 59enne) che rivendicò il sequestro: ecco perché i messaggi da Boston portano ai veri rapitori, Corriere della Sera, 01/08/2023.

La donna fu però trovata morta il 5/10/1983 a causa di un incidente domestico sotto la doccia: «Sorprendentemente, leggendo i quotidiani, ne riscontrammo l’improvvisa morte dovuta a una folgorazione per elettricità, mentre la stessa era all’interno della vasca da bagno. Ritenemmo il fatto assolutamente accidentale, ma lo sfruttammo per far
credere che fosse nostra opera, citandolo in uno dei comunicati. L’incidente si era verificato durante il Sinodo dei Vescovi, ed anche di questa coincidenza se ne fece uso. Fotografammo il viso presso la camera ardente e lo mostrammo a chi di dovere»
529in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 141.

L’uomo ha spiegato che il nome della Diener sarebbe stato usato il 20/10/83 dai giudici bulgari a Rebibbia per minacciare Agca di uccidere la sorella Fatma così come «accaduto con la Diener», della quale sarebbero stati prodotti documenti attestanti il finto “omicidio”. Ad Agca sarebbe stata mostrata la foto del corpo della Diener, esposta nella camera ardente, con allegato l’articolo che ne annunciava la morte attraverso la corrente elettrica530M. Accetti, Punto 4 (indizi e prove), 17/12/2013.

Anche agli inquirenti, Accetti ha raccontato che qualche giorno prima della morte la donna sarebbe stata avvicinata in quanto persona legata al Vaticano e pertanto elemento di suggestione nei confronti dei prelati. Il ritrovamento il 13/05/2001 (anniversario apparizioni di Fatima) del teschio nella chiesa di San Gregorio VII, localizzata nell’omonima via, sarebbe stato un codice che avrebbe richiamato questo avvenimento531G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 45 532M. Accetti, Tre giornalisti, 10/09/2014.

Relativamente a tale teschio, ritrovato il 13/05/2001 (anniversario delle apparizioni di Fatima e dell’attentato al Papa) all’interno del confessionale della chiesa di San Gregorio VIII, gli accertamenti medico legali conclusero che apparteneva a una donna fra i 25 e i 35 anni, morta circa 25 anni prima del ritrovamento533G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 52 (nel 1976). Un’età anagrafica coincidente effettivamente con quella di Paola Diener alla sua morte: 33 anni.

Infine, un riferimento alla morte della Diener sarebbe stato incluso in un comunicato arrivato da Boston il 28/10/1983, in cui si parlava di una «cittadina soppressa il 5 ottobre, a causa della reprensibile condotta vaticana»534in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 141. Che il comunicato parlasse proprio di Paola Diener non è scritto in nessun atto giudiziario, in nessun libro e in nessun articolo, Accetti è stato il primo a parlarne.

 

Verso fine novembre 1983, Marco Accetti fermò per strada Stefano Coccia.

Secondo quanto ha riferito in Procura, determinante nella scelta sarebbe stato il numero civico del negozio del padre: il 351, richiamo dell’apparizione di Fatima (13-5-1917), e il fatto che abitava vicino alla fermata dell’autobus con capolinea San Pietro, stazione che collegava la Orlandi, la Gregori e Caterina Gillespie (un’altra ragazza da lui fermata, ne parliamo più sotto).

Accetti ha spiegato che lui e una ragazza tedesca, presumibilmente Ulrike, la giovane donna fiancheggiatrice della Stasi sempre presente nel sequestro Orlandi-Gregori, fermarono Stefano in Corso Vittorio Emanuele, fotografandolo di nascosto «e facendo credere a un ecclesiastico che il minorenne ci avesse rilasciato alcune confidenze riguardo il comportamento del prelato in questione», si parla di mons. Marcinkus, capo dello Ior.

L’incontro è stato confermato nel giugno 1984 dallo stesso Stefano Coccia535G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 46, 48: «Nel novembre 1983, mentre nei pressi della gioielleria di mio padre guardavo una vetrina di giocattoli, fui avvicinato da due giovani, un uomo e una donna. Erano le sette di sera. Mi dissero che lavoravano per una rivista e chiesero se ero disposto a farmi fotografare, perché ero bellino. Lei era bionda».

Nel 2013 Coccia ha confermato quanto già detto in precedenza, spiegando di essere stato fermato in Corso Vittorio da una ragazza in compagnia di un ragazzo con al collo una macchina fotografica professionale e che i due, con modi gentili, gli proposero di fare delle fotografie e che avrebbe potuto guadagnare molto facendo con loro fotoromanzi e servizi fotografici sulla moda presso uno studio fotografico sito in via dei Coronari. Lui rispose che avrebbe chiesto il permesso al padre che aveva una gioielleria poco distante, ma i due anziché seguirlo al negozio preferirono lasciargli il numero per un successivo contatto telefonico. Suo padre però strappò il foglietto dicendogli di non accettare niente dagli sconosciuti536G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 48

Agli atti risulta il nome di Patrizia De Benedetti, l’ex fidanzata ma Accetti sostenne: «Fui io a fare quel nome perché non potevo dire chi fosse la ragazza bionda, e nominai la Patrizia perché già era comparsa nell’inchiesta, ripromettendomi in un secondo tempo, nel caso, di ritrattare»537in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 105.

Stefano Coccia ha quindi proseguito ricordando: «Mi chiesero il numero di telefono e lo scrissi su un pezzo di carta. Il giovane mi diede il suo. Poi andai nel negozio e raccontai quel che era successo. Mio padre strappò il foglietto e mi raccomandò di non dare ascolto agli estranei. Non vidi mai più quella coppia. Successivamente ricevetti una telefonata da voce maschile e matura, che mi chiese se ero Stefano e io risposi di sì. Lui abbassò il ricevitore»538in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 105.

Il contatto di Stefano venne trovato nella casa di Accetti quando fu perquisita in seguito all’omicidio di Garramon.

 

Due giorni prima dell’omicidio di Garramon, Accetti fermò Caterina Gillespie (16 anni).

Lo ha confermato la donna stessa nel 2013, spiegando di averlo conosciuto assieme a sua sorella, di avergli presentato i suoi genitori i quali hanno poi posarono per lui per delle fotografie. Gillespie ha riferito inoltre che nel marzo 2013, il mese stesso in cui Accetti è comparso pubblicamente, l’uomo l’ha contattata nuovamente dicendo di voler organizzare una mostra in Svizzera e di volere l’autorizzazione all’utilizzo della foto fatta ai suoi genitori539G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 48.

Tra il 1982 e il 1984 Gillespie partecipò con il Teatro dell’Opera di Roma ad alcune rappresentazioni teatrali.

Accetti ha sostenuto di aver tentato di coinvolgere Gillespie in false accuse di pedofilia contro mons. Marcinkus (cioé che il prelato incontrasse minorenni in un inesistente villino vicino la stazione San Pietro) in quanto «si vociferava che il presidente dello Ior avesse all’epoca, o avesse avuto in passato, una simpatia per Catherine Deneuve»540citato in F. Peronaci, Nel giallo due ragazze di nome Caterina. “Servivano a ricattare Marcinkus, Corriere della Sera, 11/01/2014, una diva del cinema dell’epoca.

Questo fu il motivo per cui avrebbe fermato in via Nomentana (la stessa via in cui abitava Mirella Gregori) Caterina Gillespie, «una giovane straniera. Il mio gruppo voleva usarla per ricattare alti prelati, un po’ come la Orlandi e la Gregori, senza però arrivare al sequestro. Non è strano che poche settimane dopo un’altra Caterina venga assassinata in circostanze oscure?»541citato in F. Peronaci, Nel giallo due ragazze di nome Caterina. “Servivano a ricattare Marcinkus.

Accetti fa riferimento al misterioso omicidio (mai risolto) di Catherine Skerl, avvenuto il 21/01/1984 (un mese dopo aver conosciuto Gillespie). «Seppi della morte violenta della Skerl in carcere, in quanto il mese precedente ero stato coinvolto in un incidente che costò la vita a un ragazzino, e la coincidenza mi turbò: capii subito che l’omicidio era stato compiuto dalla fazione a noi opposta»542citato in F. Peronaci, Nel giallo due ragazze di nome Caterina. “Servivano a ricattare Marcinkus.

Un altro motivo per cui sarebbe stata scelta la Gillespie fu che per recarsi a scuola, la ragazza prendeva lo stesso autobus di Mirella Gregori543G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 44.

Sosia della Orlandi. Una volta uscito di prigione, MFA ha proseguito la sua attività. Nonostante, come dice, non sapesse nulla sulla sorte della Orlandi e della Gregori (se non che erano all’estero), nel 1987-1988 usò delle sosia die Emanuela con lo scopo, ha scritto di esercitare pressioni perché Thomas Macioce non diventasse presidente dello IOR (poiché avrebbe proseguito l’operato di Marcinkus).

Una di queste sosia della Orlandi, Flaminia Cruciani, venne portata nel maggio 1987 ad un convegno nella sala del Campidoglio, evento frequentato «da molti esponenti legati alla società sportiva di calcio Lazio, tra cui mio zio Agostino D’Angelo, che della stessa società fu un alto dirigente». Lo scopo era proporre alla controparte, in cambio della rinuncia di Macioce, di far testimoniare la Orlandi che la sua sparizione non riguardava il Vaticano ma la malavita romana, «inerente a certi infinitesimali ambienti della società Lazio». Per questo la sosia venne fotografata «con determinati personaggi presenti, e le stesse immagini poi prodotte a chi di dovere». Curioso che lo zio di MFA fosse legato alla Lazio considerando il comunicato del 17/11/83 in cui si chiamava in causa proprio un calciatore di questa società calcistica.

Un’altra, Priscilla Morini, effettivamente molto somigliante ad Emanuela, venne fotografata nel 1988 davanti al collegio San Giuseppe Istituto De Merode, accanto alla Maison delle Sorelle Fontana. «Vi era il processo d’appello del cosiddetto attentato al Papa, per cui la stessa fu fotografata in un locale ubicato in una traversa di via Veneto, a ricordare l’agenzia di stato bulgara Balkan Air, nella quale operava il Dot. Sergej Antonov». La Morini è stata interrogata in Procura confermando di aver incontrato MFA in quel periodo e confermando i luoghi in cui l’uomo ha detto di averla fotografata.

In ultimo, nel 1993, un’ulteriore controfigura della Orlandi, Ornella Carnazza, compagna di Accetti dal 1990 al 1996, «fu adoperata in quanto vi era in atto il coinvolgimento dell’allora sovrastante Bonarelli. Nell’impiego di tale ultima ragazza vi fu anche il contrastare un personaggio del Servizio d’Informazioni della Sicurezza Democratica (Sisde) che, nei nostri sospetti, poteva aver operato, per quanto riguarda il coinvolgimento del giovane Josè Garramòn. Alcune fotografie furono eseguite presso l’istituto St. George’s, frequentato nel 1983 dal ragazzino. Il momento era propizio in quanto in quei mesi il Sisde era esposto a
un’inchiesta giudiziaria, con gravi accuse ad alti dirigenti, e ciò lo rendeva fragile di fronte a eventuali pressioni»
.

Iva Skybova. Alla domanda del giornalista Fabrizio Peronaci se oltre alla ragazza tedesca Ulrike, ci sono state altre complici straniere, MFA ha risposto: «Ehm, una cecoslovacca. La agganciai in piazza San Pietro, Iva Skybova. Era bionda, aveva 1 8 anni, ma ne dimostrava molti meno. Pochi mesi dopo la morte di Oddi, la portai con me in Egitto, nel gennaio 2002, per fare alcune operazioni. Diciamo dei riscontri, delle conferme presso alcune persone residenti al Cairo, vicine al cardinale defunto, che lì era stato nunzio per anni» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).

Federica Orlandi. Anche lei, poco tempo prima della sparizione di Emanuela, venne avvicinata da un uomo che le propose di fare la comparsa in un film. Il 14/02/16 UCCR ha chiesto a Pietro Orlandi se quest’uomo assomigliava ad Accetti, ci ha risposto: «Fu svolta un’indagine, interrogata la persona, era uno che effettivamente cercava comparse».

 

6.3 Marco Accetti, il padre e i suoi familiari.

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Dopo aver parlato di massoneria, P2, di Licio Gelli e Ortolani occorre sottolineare che Marco Accetti è figlio di Aldo, schedato come iscritto nell’Archivio Giovanni Alliata di Montereale, fondata dal principe siciliano Giovanni Francesco Alliata di Montereale.

E’ possibile che Accetti abbia usato delle conoscenze del padre per entrare in certi ambienti? La madre di José, Maria Luisa Garramon, ha sostenuto che il padre «ha pagato sempre tutto», probabilmente riferendosi ai risarcimenti e alle spese legali sostenuti da Accetti.

In questo video viene accennato il legame tra Aldo Accetti e la massoneria.

Il particolare contrastante è che mentre il padre Aldo Accetti, Giovanni Francesco Alliata di Montereale, Licio Gelli e Ortolani erano esponenti della massoneria di destra, Marco Accetti ha sempre rivendicato la sua appartenenza a sinistra e alla fazione vaticana filo-sovietica. Ha quindi rinnegato le idee politiche del padre?

Ascoltato dagli inquirenti nel 2013, il padre e la sorella Laura Accetti, hanno testimoniato che Marco era stato particolarmente colpito dalla scomparsa della Orlandi, sorprendendolo a scrivere lettere anonime, fare telefonate e ritagliare articoli di cronaca fin dal 1983, giustificandosi con il fatto che lo faceva solo per gioco. Tale ossessione sarebbe stata oggetto anche di discussioni in famiglia544G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

Negli Atti si legge anche che Laura Accetti, psicologa e psicanalista, ha riferito anche una confidenza di Marco nel 1983 sul fatto che avrebbe saputo tutto della vicenda della Orlandi, in particolare del fatto che lei e la Gregori erano scappate all’estero. Inoltre, le avrebbe raccontato di aver predisposto delle lettere anonime e di aver chiesto a Eleonora Cecconi di spedirgliele da Boston, dove lei si recava spesso. Le avrebbe anche mostrato un flauto di plastica azzurro e un orologio affermando che glieli avrebbe dati la Orlandi545G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

La sorella non avrebbe dato peso a tutto questo ritenendole invenzioni, sensazione condivisa anche dalla madre Silvana Fassoni, anch’essa ascoltata dagli inquirenti. Sempre Laura Accetti ha infine aggiunto che nel 2012 le avrebbe confidato l’intenzione di volersi presentare in Procura per evitare di essere arrestato546G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

Dalle intercettazioni ai suoi familiari nelle telefonate tra loro, Marco Accetti viene ritenuto inattendibile e incline a inventarsi storie e situazioni particolari riferibili a Emanuela Orlandi per la quale, dice il padre Aldo Accetti, avrebbe una vera ossessione.

In una telefonata con un amico, il padre Aldo afferma: «Purtroppo Marco queste uscite sue, sparate, ce le ha da quando è venuto fuori il caso Orlandi…la vicenda dell’Orlandi, lui l’ha colpito questa faccenda, e scrive lettere anonime che lui sa tutto sulla Orlandi, sa questo, sa questo, sa questo…non tengono conto che queste qua sono farneticazioni…e allora si inventa le cose più strane…su questa storia sono vent’anni che va avanti…che scrive lettere…quel flauto è un pezzo di ferro che avrà trovato…infatti lo ha fatto ritrovare in questo capannone a Cinecittà dove lui va sempre a recuperare la roba…ma tu l’hai visto quanta roba ha portato lì?»547citato in G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

La sorella Laura, intercettata al telefono con un’amica, riguardo al fratello Marco afferma: «Stiamo parlando di una persona gravemente disturbata». Parlando con la madre, invece, dice: «E’ un circo, è un circo, non è possibile che non si siano resi conto che dice cavolate…il problema è un altro…ne parlavo oggi con Barnà anche lui dice che questi non vogliono la verità, questi vogliono il circo! La verità non gliene frega niente, l’importante è che ci mangino sopra…quella ci fa una trasmissione con quella intervista»548citata in G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

Per quanto riguarda la deposizione dell’ex moglie, Eleonora Cecconi, la donna ha sostenuto che dopo la fine del loro breve matrimonio (maggio 1982 – giugno 1983), Accetti le avrebbe detto che conosceva la Gregori e la Orlandi, e che avrebbe seguito quest’ultima il giorno prima della scomparsa dalla scuola di musica a casa. Avrebbe anche fatto telefonate relative al caso Orlandi da alcune cabine, senza precisarne il motivo. La Cecconi non ne avrebbe parlato con nessuno ritenendole frasi fatte per smanie di protagonismo549citata in G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

Pur confermando di essersi recata a Baston a trovare il fartello, ha escluso di aver inviato delle lettere per conto di Marco Accetti. La donna sarebbe infine stata dal reo-confesso poco prima della sua comparsa pubblica il quale, pensando che lei abitasse ancora a Roma, le avrebbe segnalato l’apertura di una palestra che sarebbe stata utile alla sorella disabile.

Nel 2013, pochi giorni dopo la comparsa di Accetti, le due lettere di cui abbiamo già parlato contenevano un’intimazione chiara: “Non cantino le due belle more per non apparire come la baronessa”. Ad esse era allegata la foto di un teschio umano con la scritta “Eleonora De Bernardi, Morta in Campagna, Lì 23 agosto 1854”. Il nome della Cecconi è proprio Eleonora.

In risposta a tali dichiarazioni, Marco Accetti precisò: «Quando mettevo al corrente alcune ragazze del mio coinvolgimento nel caso in oggetto, non era per una qualche ostentazione, ma per chiedere la collaborazione delle stesse. Alcune condivisero e parteciparono, altre come nel caso della mia parente dimostrarono un distacco, per il quale desistii dal raccontare oltre»550M. Accetti, Flauto dolce, 21/05/2015.

 

Nel 2013 gli inquirenti ascoltarono anche un’altra ex moglie, Ornella Carnazza, la quale ha ricordato a sua volta che Accetti le parlò della Orlandi. La donna non avrebbe dato peso pensando si trattasse di vanteria. Relativamente all’intercettazione del 1997 in cui la donna lo minacciò di rivelare il suo coinvolgimento con il caso Orlandi, ha invece detto di non ricordarne il contenuto («non ricordo la telefonata e non so dire a che cosa io mi riferissi con quelle espressioni»), nonostante le fosse stato letto il testo della telefonata551G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 46, 48.

 

Tre dei suoi famigliari hanno infine riferito la presenza di abusi sessuali nell’infanzia/adolescenza di Marco Accetti, in particolare:

  • La madre Silvana Fassoni ha riferito che quando si trovavano ancora in Libia, il figlio Marco fu quasi violentato da un lavorante della villa a fianco e che, Marco stesso le disse che alcuni suoi compagni dei collegi che frequentò furono oggetto di attenzioni omosessuali552G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47;
  • L’ex moglie Eleonora Cecconi ha riferito che Accetti le avrebbe raccontato di aver subito un atto di violenza sessuale in Libia (lo stesso riferito dalla madre) e di essere stato oggetto di attenzioni sessuali mentre frequentava il collegio553G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47;
  • L’ex fidanzata Patrizia De Benedetti ha riferito che Accetti stesso le avrebbe raccontato di essere stato oggetti di violenze sessuali mentre si trovava nel collegio in via Cassia554G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 48;

 

6.7 Marco Accetti e la morte di Catherine Skerl.

 

Catherine Skerl (detta Katy), 17 anni, fu trovata morta per strangolamento il 21 gennaio 1984 in un vigneto di Grottaferrata. Fu strangolata nella notte tra il 20 e il 21 gennaio con la cinghia del suo borsone, preparato per andare il giorno dopo sulla neve con l’amica Angela Liguori, con cui aveva appuntamento in via Tuscolana. Non subì violenza sessuale.

In quel periodo Marco Accetti si trovava agli arresti domiciliari per l’omicidio di José Garramon e quando venne a conoscenza della notizia sarebbe rimasto turbato in quanto «capii subito che l’omicidio era stato compiuto dalla fazione a noi opposta»555citato in F. Peronaci, Nel giallo due ragazze di nome Caterina: «Servivano a ricattare Marcinkus», Corriere della Sera, 27/11/2014.

La responsabilità sarebbe stata della fazione opposta alla sua (quella anticomunista) e lo avrebbe capito dal fatto che Katy frequentava una scuola non distante dal Convitto di Emanuela, era fortemente anticlericale e attivista comunista556F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, l’ultimo fidanzato di Katy Skerl: «Alla festa era tesa, scappò via. Poi scattò la trappola», Corriere della Sera, 13/04/2023, orientamento affine a quello della fazione accettiana, era figlia di Peter Skerl, regista di film ad alto contenuto erotico (codice della “pedofilia” di alcuni ecclesiastici)

Inoltre, la morte di Skerl sarebbe stata una “risposta” agli incontri di Accetti con altri giovani con lo scopo di operare ricatti verso la fazione opposta. Vediamo come:

  • Novembre 1983, Accetti e Ulrike avvicinano Stefano Coccia (12 anni)
  • 20 dicembre 1983, Accetti investe accidentalmente e uccide in circostanze non chiare José Garramon (12 anni)
  • 18 dicembre 1983, Accetti avvicina e conosce Caterina Gillespie (svizzera, bionda, 16 anni)
  • 21 gennaio 1984, viene trovata morta Catherine Skerl (serba, bionda, 17 anni appena compiuti)

Skerl aveva effettivamente lo stesso nome, età e colore dei capelli di Caterina Gillespie, entrambe straniere. «Sia il giovane Garramòn sia la Skerl ci apparvero due risposte al nostro aver coinvolto adolescenti affinché testimoniassero, seppur falsamente, contro membri dell’altra parte»557citato in F. Peronaci, Nel giallo due ragazze di nome Caterina: «Servivano a ricattare Marcinkus», Corriere della Sera, 27/11/2014, disse Accetti.

Ad ammazzare la Skerl, ha detto Accetti in un’altra occasione, «è stato qualche laico criminale legato al Vaticano, per interessi economici»558in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 160. Il motivo alla base di tutto sarebbero stati i soldi dell’Ambrosiano che lo Ior, con a capo Marcinkus, si rifiutava di consegnare.

La sua interpretazione sarebbe ulteriormente dimostrata dal fatto che proprio a Grottaferrata «avevano sede l’associazione Pro Fratribus di monsignor Hnilica, molto attiva nella raccolta di fondi in chiave anticomunista, e la villa dell’avvocato Ortolani, anche lui nostra controparte»559citato in F. Peronaci, Nel giallo due ragazze di nome Caterina: «Servivano a ricattare Marcinkus», Corriere della Sera, 27/11/2014.

Ricordiamo che nel 2013 due lettere anonime giunte alla sorella della Gregori e a una compagna di Emanuela recitavano così: «Non cantino le due belle more per non apparire come la baronessa e come il ventuno di gennaio martirio di Sant’Agnese con biondi capelli nella vigna del signore». Caterina Skerl aveva i capelli biondi come la Sant’Agnese della lettera. E proprio come nella lettera fu uccisa il 21 gennaio in una vigna.


 

Marco Accetti e la tomba vuota di Katy Skerl.

Nel settembre 2015 Marco Accetti ha rivelato dei particolari inediti riguardo a Catherine Skerl560M. Accetti, Cenotafio – Una eventuale tomba vuota, 08/09/2015.

Nel 2005 alcuni membri della fazione opposta alla sua, avendo appreso della sua intenzione a presentarsi in Procura, avrebbero temuto l’emergere dei nomi dei responsabili dell’omicidio di Catherine Skerl, per questo «si adoperarono a sottrarre uno degli elementi che poteva legare il caso della ragazza a quello delle Orlandi- Gregori».

Quando la Skerl fu deposta nella bara, infatti, una ragazza avrebbe assistito alla preparazione del feretro per «comprendere se la Skerl fosse persona conosciuta o meno dal nostro gruppo». La donna avrebbe visto un elemento addosso alla Skerl e il dettaglio venne «usato in un comunicato del 1984, ed attribuito alla Orlandi. Conosco il luogo romano dove tale bene è occultato, e lo potrei rivelare ai magistrati se mai manifestassero l’intenzione di apprenderlo»561M. Accetti, Cenotafio – Una eventuale tomba vuota, 08/09/2015, ha sostenuto Accetti.

Questo elemento sarebbe la camicetta bianca con cui fu vestita la salma, con l’etichetta riportante “Frattina 1982”, nome che effettivamente comparve nel comunicato del 22/11/84 del “Fronte Turkesh”: “Via Frattina 1982”562P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, pp. 122, 123.

«Per impossessarsi di tale elemento», ha proseguito Accetti, nel 2005 alcune persone avrebbero simulato di essere operai del cimitero, avrebbero smurato il fornetto della Skerl prelevando la bara come se si trattasse di una traslazione, lasciando all’interno della tomba un codice, ovvero «una maniglia che svitarono alla stessa cassa raffigurante un angelo».

Oltre a nascondere un elemento di collegamento tra la Skerl e la Orlandi, tra i motivi del trafugamento vi sarebbe stata anche l’intenzione di esercitare alcune pressioni.

L’avvocato di Accetti, Giovanni Luigi Guazzotti, presentò anche un esposto all’allora capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, chiedendo anche di stabilire la datazione dell’effrazione del loculo e periziare il materiale con cui fu richiuso nel 2005 il muretto interno e la lapide563F. Peronaci, Orlandi, esposto-denuncia a Pignatone sulla tomba di Katy Skerl, Corriere della Sera, 17/11/2015.

In una nostra intervista a Accetti nel febbraio 2016, il reo-confesso aggiunse che la camicia si sarebbe trovata «dentro Cinecittà, c’è una ricostruzione scenografica ed è messa là dentro. Quella della Skerl è una cosa grave, lì non c’è proprio più la cassa! Ci sono i segni sulla lapide perché, mi hanno riferito, si poteva soltanto rompere per togliere la cassa. E si vede che è stata rotta».

La scenografia in questione sarebbe quella del film “Habemus Papam” di Nanni Moretti, in alto, nel colonnato del Bernini. Tale scenografia in realtà non esiste più, ma avrebbe soggetti molto analoghi a quelli del film di Sorrentino.

A tale notizia vi sono state diverse reazioni sui social, Accetti ha indicato in particolare «un personaggio losco, molto losco, che tiene una pagina sulla Skerl, che fa di tutto per rendermi non credibile e che si è affrettato a dire “no, no, c’è stato un restauro”. Non è vero assolutamente, quando morì Wojtyla e quando mi dissero che era stata trafugata andai subito ed era così com’è. Va periziato il materiale con cui è stata chiusa e si vedrà che è di dieci anni fa. Lì dentro c’è solo una maniglia. E’ sparita una cassa, per farlo non si può scavalcare il muro ed è un’azione che non può essere quella di un mitomane: aprire un fornetto, richiuderlo e portarsi via la cassa. Sono le stesse persone che mandarono quelle lettere [nel 2013, NDA], che hanno fatto questo, persone con cui ho avuto anche contatti».

Nel luglio 2022, ben sette anni dopo l’esposto di Marco Accetti, gli inquirenti hanno effettivamente verificato che la tomba della Skerl era vuota. La lapide, posta nel Riquadro 115, n° 84, Fila 2 del cimitero monumentale Verano, è stata smurata e la cassa di legno è sparita. All’interno, come preannunciato da Accetti, è stata recuperata solo una maniglia d’ottone. Sul lato destro c’erano segni di effrazione e di intonacatura, come se qualcuno avesse smurato la lapide e poi l’avesse ricollocata al suo posto.

Sul caso è intervenuta anche Patrizia De Benedetti, ex fidanzata di Accetti e accusata più volte da lui di essere coinvolta nel caso Orlandi tramite la scrittura dei comunicati. Secondo la donna, la bara sarebbe stata rubata dallo stesso Accetti:

«Sono coinvolta emotivamente nella vicenda di Katy per il dispiacere che provo e che prova la cugina per quel trafugamento. Un trafugamento di bara che un mitomane millantatore ha causato. E se quel millantatore sapeva che la bara non c’era più nel fornetto c’è un’unica semplice e logica motivazione: come faceva il tizio a sapere che la bara non c’era più? Chi l’ha rubata quella bara?»564P. De Benedetti, Dichiarazione su Facebook, 03/07/2023.

 

Intervistato in merito alla scoperta, Accetti ha risposto: «C’è chi pensa che io, proprio io che ho denunciato il furto della bara, sia lo stesso che l’abbia fatta sparire. Impossibile, sarebbero servite altre 2 o 3 persone. Altri 2 o 3 mitomani, dei maniaci».

L’uomo aggiunse anche ulteriori dettagli: «La bara è stata portata via di mattina, alle prime luci dell’alba, quando non ci sono visitatori. È stata portata in un altro luogo pubblico, un luogo consono. La maniglia? Lo avevo detto. Il maglione? So dov’è. Ma non dirò più niente. So in quale posto portarono il feretro nel 2005. Ma ormai è troppo tardi. Facciamo che sia stato solo un sogno. Se sono soddisfatto per aver avuto ragione? No, nessuna. Ora sul serio. Non aggiungerò altro. È troppo tardi, quel treno ormai è passato»565citato in B. Tominic, La sparizione della bara di Katty Skerl e i presunti collegamenti con il caso di Emanuela Orlandi, Fanpage, 22/07/2022.

L’1 agosto 2022, un mese dopo il ritrovamento del loculo vuoto della Skerl, proprio negli studi di Cinecittà è divampato un incendio. La notte seguente Accetti ha pubblicato un messaggio sui social: «La scenografia in questione, che rappresentava la facciata della basilica, non è stata mai smontata, ed oggi è incendiata»566citato in G. Zanotti, Katy Skerl e l’incendio a Cinecittà per nascondere altri misteri?, Nuova Società, 02/08/2022.


 

Katy Skerl e la telefonata al fidanzato.

Nel 2023 il fidanzatino dell’epoca di Katy Skerl, Francesco Morini, ha ricordato che il giorno della scomparsa vide la giovane «tesa, nervosa, un po’ assente. Attorno alle 18.30 mi disse che doveva andarsene, per dormire dalla sua amica Angela, con la quale il giorno dopo aveva programmato una gita sulla neve, a Campo Felice. Infatti aveva con sé un grande borsone. Fu categorica: io provai a insistere per accompagnarla, mi preoccupavo perché era già buio, ma lei continuava a ripetere “no, voglio andare da sola”. Mi ingelosii, sospettai di un altro ragazzo. Esserci lasciati male, dopo una discussione, è ancora un mio grande cruccio»567F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, l’ultimo fidanzato di Katy Skerl: «Alla festa era tesa, scappò via. Poi scattò la trappola», Corriere della Sera, 13/04/2023.

«Tanta insistenza nel voler andare via da sola», ha riflettuto l’ex fidanzato, «può dimostrare che aveva un appuntamento con colui che poi si è rivelato l’assassino, o con qualcuno che la consegnò al killer. Il fatto che fu strangolata ma non sottoposta a violenza sessuale mi porta a escludere l’ipotesi del maniaco»568F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, l’ultimo fidanzato di Katy Skerl: «Alla festa era tesa, scappò via. Poi scattò la trappola», Corriere della Sera, 13/04/2023.

Quella stessa notte del 21/01, quando ancora Morini non era a conoscenza della morte della Skerl, avrebbe ricevuto una telefonata a casa sua a cui rispose la madre. Una volta riattaccata la cornetta, la donna disse a Morini: «Era una ragazza che chiedeva aiuto, si sarà sbagliata».

Considerando che la morte della Skerl è stata collocata tra le 21 e le 22, mentre la telefonata risale all’1 di notte, «o i medici legali hanno sbagliato nel collocare l’ora della morte a fine serata del sabato, ma mi pare difficile; oppure quella telefonata è stata fatta volontariamente, con l’obiettivo di depistare, di far pensare che Katy era ancora viva e non già morta strangolata nella vigna»569F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, l’ultimo fidanzato di Katy Skerl: «Alla festa era tesa, scappò via. Poi scattò la trappola», Corriere della Sera, 13/04/2023.


 

Katy Skerl e la compagna figlia del complice di Agca.

Alla fine degli arresti domiciliari nel 1986, Accetti si sarebbe recato al liceo frequentato dalla Skerl e avrebbe conosciuto Ligeia Studer, una compagna di scuola. «Tra noi nacque anche una storia d’amore, durata tre mesi»570in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 160.

Tale relazione avrebbe avuto come scopo quello di far credere alla controparte vaticana che la Studer avesse rivelato notizie sull’accaduto alla Skerl, tuttavia «loro non abboccarono». Ligeia Studer sarebbe stata «scelta per ulteriori somiglianze, quali l’altezza, il colore dei capelli, simili alle “altre Catherine”. Inoltre frequentava una scuola di danza, come la Catherina Gillespie»571M. Accetti, Punto 5 (indizi e prove) – Catherine, 11/01/2014.

Nel 2014 è emerso un singolare legame tra la Skerl e l’attentato di Agca, probabilmente fortuito.

Una compagna di classe della Skerl, interrogata dal giornalista Fabrizio Peronaci, si ricordò che un’altra compagna della stessa classe era Snejna Vassilev, figlia di Zhelio Vassilev, funzionario dell’ambasciata poi a processo come complice di Alì Agca. Snejna, subito dopo l’attentato al Papa, rientrò in patria con la famiglia mentre Vassilev venne assolto, come gli altri bulgari sospettati di complicità con Agca572F. Peronaci, Katy Skerl, la svolta 30 anni dopo. Spunta la pista bulgara: uccisa per «vendetta», Corriere della Sera, 20/01/2014.

Prima che l’articolo uscisse, Peronaci chiese a Accetti, stando attento a non instradarlo nella risposta, se ricordasse un profilo particolare tra le compagne della Skerl. L’uomo lo sapeva già: «Si, la bulgara che stava in classe della Skerl, non ricordo se era figlia di Antonov o di Vassilev. L’ho saputo in carcere, dall’idealista turco con cui dividevo la cella»573in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 160, ovvero Musa Serdar Celebi.


 

La nonna di Katy Skerl testimone oculare dell’omicidio di Aldo Moro.

Nel 2023 il giornalista Fabrizio Peronaci ha reso pubblica una vecchia pista, poi abbandonata per mancanza di prove, sull’indagine di Emanuela Orlandi la quale ravvisava analogie tra i messaggi dei sequestratori della cittadina vaticana, l'”Amerikano” e il “Fronte Turkesh”, e quelli dei brigatisti che rapirono Aldo Moro (1978). Un certo uso del gerundio, il ritmo sincopato, alcune locuzioni574F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, spunta il caso Moro: la nonna di Katy Skerl fu testimone in via Fani, Corriere della Sera, 03/07/2023.

Già nel 1983, l’agenzia Ansa rilevò un’assonanza tra il comunicato del 20/7/83 dell'”Amerikano” e il linguaggio brigatista: «Il gerundio usato nella seconda parte del messaggio (“pervenendo alla soppressione del 20 luglio”) è significativo e ha un precedente nel comunicato n. 9 delle Brigate rosse (“eseguendo la sentenza”), diffuso durante il sequestro Moro»575F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, spunta il caso Moro: la nonna di Katy Skerl fu testimone in via Fani, Corriere della Sera, 03/07/2023.

Una seconda assonanza è una locuzione famosa ai tempi del sequestro Moro, riproposta più volte dai rapitori di Emanuela: «La nota personalità». Nel 1978 divenne di dominio pubblico quando con tale frase la polizia confermò il corpo di Moro al ministro dell’Interno Francesco Cossiga. 7 anni dopo, i registi dell’azione Orlandi-Gregori inserirono più volte la locuzione “nota personalità” nelle rivendicazioni firmate “Fronte Turkesh”576Komunicato XXX, 27/11/1985 577Messaggio del 3/12/1985.

Tra i registi dell’operazione-Orlandi avrebbe potuto esserci un’ammiratore o un emulatore delle Brigate rosse? Oppure un terrorista rosso in persona?

Un’apparente conferma del legame tra Orlandi e Moro sarebbe proprio Katy Skerl, si è scoperto578F. Peronaci, Emanuela Orlandi e i gialli collegati, spunta il caso Moro: la nonna di Katy Skerl fu testimone in via Fani, Corriere della Sera, 03/07/2023 infatti che la nonna paterna Eleonora Skerl fu testimone oculare del rapimento di Aldo Moro579Verbale di polizia, 16/03/1978. Il 16/03/1978 era affacciata al suo appartamento di via Stresa 96, all’angolo di via Fani, e vide i brigatisti uccidere Moro e la sua scorta e poi scappare su due auto diverse.

La morte di Katy Skerl, giovane comunista, sarebbe quindi legata a Emanuela Orlandi (tramite Marco Accetti), all’attentato al Papa (tramite compagna di classe, figlia di un presunto complice di Agca) e al caso Moro (la nonna paterna testimone oculare).

Semplici coincidenze e suggestioni?


 

Marco Accetti e il caso di Alì Estermann.

Il 21/03/1999 Marco Accetti è apparso per la prima (e ultima) volta in televisione partecipando ad una puntata di “Domenica In” nell’occasione di una gara di sosia, imitando Roberto Benigni e vincendo la competizione. Nell’occasione si fece chiamare Alì Estermann580G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

Sempre agli Atti è segnalato che a seguito della trasmissione si recò negli Stati Uniti venendo arrestato in quanto si spacciò come il vero Benigni581G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

Marco Accetti ha fornito una spiegazione a questo sostenendo che nel 1998 e nel 1999 avrebbe ricevuto delle minacce telefoniche da parte di una persona riconosciuta vicina agli ambienti di monsignor Bruno della diocesi di New York (la fazione vaticana opposta alla sua). Tale individuo avrebbe preteso la restituzione di materiale fotografico che lo avrebbe ritratto durante determinate azioni negli anni precedenti e che Accetti lo avrebbe seppellito nel 1983 nei pressi di Santa Maria di Galeria582in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 169. Secondo Accetti, l’uomo potrebbe essere anche l’autore delle due lettere ricevute dalla Monzi e dalla sorella di Mirella nel 2013 (“Non cantino le due belle more”).

Il posto non si sarebbe trovato nella cittadina moderna, ma nell’Antica Galeria, un sito archeologico medievale: «Ricordo che c’erano degli anfratti, delle cavernette, dove nascondemmo alcune scatole metalliche», contenevano «documenti, atti, carte compromettenti su qualche prelato. Ma niente di speciale. Basta, c’è il riserbo istruttorio»583in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 169.

Nella stessa località, Accetti si sarebbe nuovamente recato nel 1986 con uno dei due idealisti turchi, presenti nel processo per l’attentato»584M. Accetti, Devianza e manipolazione Rai. – Prima presentazione., 06/06/2013. Si riferisce a Musa Serdar Celebi. A conferma di ciò ha chiesto alla magistratura di rintracciare il turco, «non deve essere difficile, vive ancora a Francoforte»585in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 169.

Oltre a quanto rilevato dagli inquirenti, avrebbe anche chiamato la trasmissione “Chi l’ha visto?” imitando il modo di parlare del prelato americano586M. Accetti, Devianza e manipolazione Rai. – Prima presentazione., 06/06/2013.

Per quanto riguarda il nomignolo utilizzato a “Domenica In” (Alì Estermann), avrebbe significato questo: «Era un modo di intimidire occultamente, attraverso la sintesi tra colui che spara, Agca, e colui che muore, il comandante delle guardie svizzere. Mi recai in New York dove cercai di far pressioni nell’ambiente della suddetta diocesi e presso alcune conoscenze di Mons. Cheli, spacciandomi direttamente per l’attore in questione, affinché l’interesse della stampa locale ed italiana avrebbe ancor più accentuato le stesse pressioni»587M. Accetti, Devianza e manipolazione Rai. – Prima presentazione., 06/06/2013.

 

Alessia Rosati. Nel 2015, dopo l’archiviazione del caso, ha fatto emergere la vicenda di Alessia Rosati, ragazzina scomparsa il https://www.uccronline.it/2013/09/23/emanuela-orlandi-analisi-di-tutte-le-ipotesi-di-soluzione-del-caso/#rosaticon lo scopo di denunciare l’irresponsabilità della Procura nell’aver preso questa scelta senza indagare. Ha collegato la misteriosa sparizione della Rosati alle turbative che investirono nel 1993 il Servizio per le informazioni e la sicurezza (Sisde), per le quali si necessitava di operare pressioni verso alcuni membri: «e secondo uno dei nostri moduli di operare, abbisognavamo di una ragazza con estrazione di sinistra, per chiederle di collaborare nell’esercizio di queste pressioni». MFA avrebbe così individuato nel centro sociale “Hai visto Quinto?” la 21enne Alessai Rosati (che aveva contatti assidui con esponenti di Autonomia operaia, nella sede di via dei Volsci), approcciandola tramite l’invito a partecipare ad un lungometraggio: «essendo questa una maggiorenne, a differenza delle precedenti ragazze, le dissi il mio nome reale e le fornii il numero di telefono. Questo alla presenza di una sua amica, che se rintracciata non può che confermare».

La Rosati, scrive MFA, «era solita trovarsi in un piazzale situato al termine di via Val Padana, sedersi su quelle panchine e frequentare il centro sociale posto nello stesso slargo. Questo era anche il luogo dove ci conoscemmo ed apparentemente scomparì. Su questa scena si apriva il portone di una delle abitazioni in cui ho vissuto con la mia compagna di venti anni, la stessa ragazza che poco tempo dopo sarà intercettata mentre telefonicamente nominava l’ Emanuela Orlandi». Ovvero Ornella Carnazza. In seguito MFA le avrebbe rivelato il progetto che sarebbe dovuto durare pochi giorni: esercitare pressioni contro alcuni elementi del Sisde, coinvolti nello scandalo dei fondi neri scoppiato l’anno precedente, facendo balenare un loro possibile coinvolgimento nella sparizione della ragazza. Il suo allontanamento da casa, scrive l’uomo, fu «spiegato da una lettera fatta pervenire alla stessa amica che fu presente nel momento in cui non fece ritorno presso la sua famiglia», un desdierio di libertà -come nelle prime telefonate per la Orlandi- e la presenza di un ragazzo, come per la Gregori-. E, come fu per ambedue, la presenza di un’amica negli ultimi momenti che ne precedevano la scomparsa. La Rosati scomparve il 23 luglio 1994, giorno sarebbe dovuta partire per un viaggio in Umbria assieme ai genitori. «Alessia Rosati si prestò al nostro piano», dice MFA, «tanto che nei primi giorni dormì da me, in via Val Padana, dove vivevo con la mia compagna, e frequentò il mio studio fotografico, in via Chisimaio. Giravamo con una A112 e su un motorino, adottando alcuni accorgimenti per evitare che i familiari la riconoscessero, nel caso li avesse incrociati per strada». Inoltre, prosegue, «continuammo ad incontrare vari compagni [del comunismo romano, nda] del mio e del suo ambiente. Faccio appello a costoro a presentarsi alle autorità e confermare». Tuttavia dopo circa dieci giorni la ragazza «non fece ritorno al mio studio fotografico dove risiedeva. Alcune persone che la conoscevano e con noi collaborarono, improvvisamente si negarono come intimoriti». Alessia Rosati scomparve davvero. Precisato meglio: «Da un giorno all’altro Alessia non tornò. Ricordo che la aspettai invano una sera, proprio in via Chisimaio. Tentai di informarmi con i compagni che erano al corrente dell’azione, ma si volatizzarono, nessuno ne volle sapere più nulla». Ovvero, secondo MFA, venne realmente rapita.

C’è tuttavia una contraddizione nel racconto di MFA: in un articolo sostiene che a scrivere all’amica sarebbero stati i rapitori: «ho sempre pensato che i responsabili di tale scomparsa abbiano scelto come destinataria della lettera proprio tale amica, per farci comprendere che sapevano di quel nostro primo incontro», sospettando che gli autori della scomparsa siano gli stessi omicidi della Skerl. In un secondo articolo, invece sostiene di aver invitato lui a inviare la lettera: «Insieme ad Alessia ed altri, concordammo il suo andarsene di casa, spiegato da una lettera fatta pervenire alla stessa amica che fu presente nel momento in cui non fece ritorno presso la sua famiglia».

La lettera, scritta certamente da Alessia e spedita da Roma, contiene un errore abbastanza clamoroso: Alessia scrive all’amica: «lunedì sarei dovuta anche partire per andare in quel paese di merda e tu sai quanto lo odio…». Invece la partenza era prevista per sabato pomeriggio, non per lunedì. Lapsus o errore voluto? A noi sembra più quest’ultimo, dato che nel finale della lettera “l’errore” viene ribadito, quasi a sottolinearlo: «Mi dispiace che non ci vediamo, ma tanto sarebbe rimasta solo domenica». La madre di Alessia ha anche rivelato: «Fummo io e mio marito a scoprire che l’amica di Alessia aveva mentito. Mise a verbale di averla salutata alle 12.45 e non che passò pure lei da casa nostra, dove non c’era nessuno. Fu una vicina, che la incrociò con mia figlia nel palazzo, a raccontarcelo. Ma perché Claudia disse una menzogna? Intendeva coprire Alessia? Cosa voleva nasconderci? Ricordo che nelle prime concitate ore, quando proposi all’amica di Alessia di cercarla in via dei Volsci, dove c’era Radio Onda Rossa, lei insistette perché non andassi. Fu molto decisa. “Vado io, voi girate nel quartiere”. Un comportamento strano ». Hanno anche aggiunto: «In effetti nei giorni successivi al mancato ritorno a casa ci giunse voce che Alessia era stata vista in zona».

Il 31 ottobre 2015 MFA ha lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica della famiglia Rosati, dicendo loro di essere un conoscente di Alessia e di avere notizie da produrre, chiedendo di essere richiamato. La famiglia non lo ha richiamato ma ha portato il nastro registrato alla trasmissione “Chi l’ha visto?” che lo ha mandato in onda senza però dare molta credibilità a MFA. Il quale commenta: «Il paradosso è che quando inquadrano il luogo dove la ragazza è scomparsa, appare proprio il portone della mia abitazione di allora». MFA invita a rintracciare l’amica, il nome è Claudia, e l’agenda telefonica della Rosati sulla quale sarebbe appuntato il suo numero telefonico. Aggiungendo: «Alcune persone degli ambienti del comunismo romano di quel periodo conoscono l’accaduto», invitando più volte ad indagare in tal senso.

Sosia della Orlandi. Una volta uscito di prigione, MFA ha proseguito la sua attività. Nonostante, come dice, non sapesse nulla sulla sorte della Orlandi e della Gregori (se non che erano all’estero), nel 1987-1988 usò delle sosia die Emanuela con lo scopo, ha scritto di esercitare pressioni perché Thomas Macioce non diventasse presidente dello IOR (poiché avrebbe proseguito l’operato di Marcinkus).

Una di queste sosia della Orlandi, Flaminia Cruciani, venne portata nel maggio 1987 ad un convegno nella sala del Campidoglio, evento frequentato «da molti esponenti legati alla società sportiva di calcio Lazio, tra cui mio zio Agostino D’Angelo, che della stessa società fu un alto dirigente». Lo scopo era proporre alla controparte, in cambio della rinuncia di Macioce, di far testimoniare la Orlandi che la sua sparizione non riguardava il Vaticano ma la malavita romana, «inerente a certi infinitesimali ambienti della società Lazio». Per questo la sosia venne fotografata «con determinati personaggi presenti, e le stesse immagini poi prodotte a chi di dovere». Curioso che lo zio di MFA fosse legato alla Lazio considerando il comunicato del 17/11/83 in cui si chiamava in causa proprio un calciatore di questa società calcistica.

Un’altra, Priscilla Morini, effettivamente molto somigliante ad Emanuela, venne fotografata nel 1988 davanti al collegio San Giuseppe Istituto De Merode, accanto alla Maison delle Sorelle Fontana. «Vi era il processo d’appello del cosiddetto attentato al Papa, per cui la stessa fu fotografata in un locale ubicato in una traversa di via Veneto, a ricordare l’agenzia di stato bulgara Balkan Air, nella quale operava il Dot. Sergej Antonov». La Morini è stata interrogata in Procura confermando di aver incontrato MFA in quel periodo e confermando i luoghi in cui l’uomo ha detto di averla fotografata.

In ultimo, nel 1993, un’ulteriore controfigura della Orlandi, Ornella Carnazza, compagna di Accetti dal 1990 al 1996, «fu adoperata in quanto vi era in atto il coinvolgimento dell’allora sovrastante Bonarelli. Nell’impiego di tale ultima ragazza vi fu anche il contrastare un personaggio del Servizio d’Informazioni della Sicurezza Democratica (Sisde) che, nei nostri sospetti, poteva aver operato, per quanto riguarda il coinvolgimento del giovane Josè Garramòn. lcune fotografie furono eseguite presso l’istituto St. George’s, frequentato nel 1983 dal ragazzino. Il momento era propizio in quanto in quei mesi il Sisde era esposto a
un’inchiesta giudiziaria, con gravi accuse ad alti dirigenti, e ciò lo rendeva fragile di fronte a eventuali pressioni»
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Iva Skybova. Alla domanda del giornalista Fabrizio Peronaci se oltre alla ragazza tedesca Ulrike, ci sono state altre complici straniere, MFA ha risposto: «Ehm, una cecoslovacca. La agganciai in piazza San Pietro, Iva Skybova. Era bionda, aveva 1 8 anni, ma ne dimostrava molti meno. Pochi mesi dopo la morte di Oddi, la portai con me in Egitto, nel gennaio 2002, per fare alcune operazioni. Diciamo dei riscontri, delle conferme presso alcune persone residenti al Cairo, vicine al cardinale defunto, che lì era stato nunzio per anni» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).

Federica Orlandi. Anche lei, poco tempo prima della sparizione di Emanuela, venne avvicinata da un uomo che le propose di fare la comparsa in un film. Il 14/02/16 UCCR ha chiesto a Pietro Orlandi se quest’uomo assomigliava ad Accetti, ci ha risposto: «Fu svolta un’indagine, interrogata la persona, era uno che effettivamente cercava comparse».

 

6.8 Il caso Orlandi e i continui riferimenti a Fatima.

Il 13-5-1917 a Fatima si verificò l’inizio delle apparizioni della Madonna a tra bambini, Lucia (10 anni), Jacinta (7 anni) e Francisco (9 anni).

Nel 1944, la veggente Lucia consegnò a Pio XII il testo di un messaggio segreto ricevuto da Maria (i famosi “segreti di Fatima) e, in particolare il terzo segreto (o terza parte del messaggio unico) avrebbe dovuto essere letto e rivelato solo nel 1960. Tuttavia, sia Giovanni XXIII nel 1959, che Paolo VI nel 1965 lessero il testo ma non ritennero opportuno rivelarlo, fu Giovanni Paolo II nel 2000 a divulgarne il contenuto.

Il Terzo Segreto di Fatima riferiva la visione di un vescovo vestito di bianco, presumibilmente il Papa, insieme a vari religiosi salire una montagna ripida, attraversando una città in rovina e giungendo in cima, dove si trovava una grande Croce di tronchi grezzi, ai cui piedi Si prostrò. Venne però ucciso -assieme a tutti i religiosi e i laici presenti- da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce. Sotto le braccia della Croce c’erano due Angeli ognuno con un innaffiatoio di cristallo nella mano, nei quali raccoglievano il sangue dei Martiri e con esso irrigavano le anime che si avvicinavano a Dio.

Cosa c’entra Fatima con il caso Orlandi?

Apparentemente nulla, tuttavia dal giorno della sparizione (23/06/1983) fino a oggi, i riferimenti ai numeri 13 (o solamente 3) – 5 – 17 (o solamente 7) sono stati onnipresenti.

Innanzitutto occorre ricordare che l’attentato a Giovanni Paolo II avvenne proprio nell’anniversario di Fatima, il 13-5-1981, colpito da Alì Agca, la cui sorella si chiama Fatma (per il misterioso caso del destino, la donna che bloccò Agca subito dopo aver sparato e gli impedì di esplodere altri colpi si chiamava suor Letizia, il cui nome secolare era Lucia Giudici).

Il più conosciuto possibile riferimento del caso Orlandi a Fatima fu la cifra totalmente sproporzionata che Emanuela riferì alla sorella a poche ore dalla scomparsa, sostenendo che gliele avrebbe offerte un uomo della Avon per distribuire volantini in una sfilata. Si trattava di 375.000 lire.

Il 10/8/83 in una lettera sgrammaticata giunta all’Ansa il “Fronte Turkesh” ribadì la liberazione di Agca e l’intervento del Papa in suo favore in cambio di Emanuela. Fu quindi aggiunta una serie di numero, 17-13-17 seguiti da XXX. Cifre allora completamente incomprensibili da chiunque.

 

6.8 Marco Accetti e le conclusioni dei magistrati nel 2015.

Il 30 settembre 2015 la Procura ha archiviato il caso sentenziando che «la personalità di Accetti è caratterizzata da smania di protagonismo e di pubblicizzazione della propria immagine, con una spasmodica ricerca di accesso ai media e della loro costante attenzione»588G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 50.

I magistrati hanno quindi scritto:

«E’ nell’ambito di tale personalità che vanno inquadrate e spiegate le iniziali dichiarazioni spontanee, che vanno inquadrati e spiegati gli interrogatori assistiti e gli appunti allegati, la ricostruzione delle sparizioni di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, il contesto nel quale dette sparizioni vengono inserite, infine il ruolo che gli si attribuisce, tutti elementi (fantasiosamente) costruiti su dati di fatto a lui decisamente noti, che però in concreto -per una sua scelta consapevole- non hanno consentito e non consentono riscontri che corroborino le vicende raccontate, sia perché non vi è una concreta individuazione delle persone che sarebbero state protagoniste della vicenda ed avrebbero agito assieme a lui, sia perché i limitati approfondimenti investigativi praticabili hanno avuto esito negativo. Il riferimento è al flauto e al ruolo di telefonista che egli si è attribuito»589G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 50.

Secondo la Procura, l’opinione dei genitori e della sorella confermano questa tesi590G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 50.

Gli inquirenti riconoscono però «che la profonda conoscenza dei fatti dimostrata sembra andare oltre quella che può avere un semplice appassionato del caso. Ed è anche vero che i familiari e la ex moglie Eleonora Cecconi hanno riferito che fin da subito Accetti si sia interessato al caso Orlandi, avendolo mentre scriveva lettere ed effettuava telefonate anonime in merito, dimostrando quindi un forte coinvolgimento emotivo con il caso. E tuttavia, non vi è alcun serio riscontro probatorio che le lettere e le telefonate siano quelle effettivamente pervenute alla famiglia Orlandi, alla famiglia Gregori, allo studio dell’avvocato Egidio e al Vaticano»591G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 50.

Come spiegare però la approfondita conoscenza della vicenda da parte di Accetti? La Procura rispose così:

«Si spiega del tutto verosimilmente per essere stato l’Accetti molto vicino alle carte del caso Orlandi e alle numerose pubblicazioni esistenti sull’argomento, dimostrando di aver esaminato in modo puntuale e dettagliato quanto è stato pubblicato negli anni, soprattutto degli atti processuali del vecchio processo. E ciò riceve conferma dalla circostanza secondo la quale costui è stato in grado di fornire indicazioni precise sul contenuto di gran parte delle telefonate effettuate con l’indicazione addirittura delle cabine dalle quali sono state fatte, indicazioni presenti negli atti dell’istruttoria formale e quindi a conoscenza delle parti fin dal 1997, mentre ha dimostrato di conoscere poco e ha fornito indicazioni assai meno precise su particolari che non sono stati oggetto di pubblicazioni»592G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 51.

La Procura non ritenne rilevante nemmeno l’intercettazione tra lui e la Carnazza, tenendo anche conto che «lo stesso indagato apostrofa l’interlocutrice come “pazza”, qualificando come farneticante quanto da lei minacciato»593G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 51.

La conclusione ufficiale dei magistrati è che la vicenda descritta da Marco Accetti va ritenuta «frutto di un lavoro di sceneggiatura scaturito dallo studio attento di atti e informazioni scaturite negli anni da parte di un soggetto con spiccate smanie di protagonismo»594G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 51.

La magistratura è arrivata a queste conclusioni dopo un lungo periodo di indagine, tuttavia il profilo di folle mitomane da loro descritto difficilmente combacia con il comportamento e l’attitudine di Marco Accetti. Se davvero il reo-confesso avesse vissuto oltre trent’anni di vita ossessionato del solo caso Orlandi (solo quello?), studiando ogni dettaglio e costruendo anno dopo anno un racconto complesso in cui collegare tra loro in maniera piuttosto geniale diversi casi tra loro indipendenti (Orlandi, Gregori, Rosati, Skerl, Diener, Agca, Bonarelli ecc.) non sarebbe un semplice mitomane ma una persona totalmente disturbata, impossibilitata a una normale vita sociale.

Gli stessi inquirenti hanno attestato la presenza di vari mitomani e persone ossessionate dal caso Orlandi, come Giorgio Malpetti e Luca Bianchi. In entrambi i casi, i loro disturbi psichiatrici si palesarono istantaneamente tanto che non furono nemmeno iniziate delle indagini nei loro confronti595G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 52. 55.

Al contrario, Marco Accetti oltre alla “smania di protagonismo” non ha manifestato particolari disturbi agli occhi degli inquirenti. Non solo è stato ascoltato numerosissime volte, non solo ha prodotto un racconto complesso e stratificato, a tratti inverosimile, ma lo ha fatto mantenendo una certa coerenza, logica e razionalità. Lo si evince anche nelle risposte più che opportune e contestualizzate che ha offerto nel corso degli anni a chi dubitava della sua partecipazione. Senza contare, come abbiamo già notato, tutte le coincidenze biografiche che nessun altro mitomane avrebbe potuto dimostrare di avere.

 

I PUNTI FORTI DELLA TESI DI MARCO FASSONI ACCETTI

1) Racconto organico: al di là della verità o meno, per la prima volta dalla scomparsa delle due ragazze viene presentata una ricostruzione sensata in linea generale, un racconto organico che fa luce sui tanti aspetti misteriosi e mai capiti, dando soluzioni verosimili (credibili è una parola troppo impegnativa), sulle quali hanno lavorato inutilmente decine di investigatori in decine di anni. Una stratificazioni di obiettivi, di messeinscena, un “gioco” finito però male, con la sparizione reale delle due ragazze. Anche il senso dell’immenso sforzo di depistaggio ha avuto luce: non si è voluto tanto coprire due probabili omicidi (o sparizioni), ma un’intensa e nascosta attività ricattatoria ai danni del Vaticano e dello Stato italiano da parte della malavita organizzata, servizi segreti deviati e ideologhi di varie estrazioni. Il racconto di MFA illumina il caso Orlandi-Gregori, il caso Garramon, il caso di Caterina Skerl e il caso di Alessia Rosati. La conoscenza dettagliata di MFA di eventi risalenti a decine di anni fa Sarebbe tutto il frutto di un decennale lavoro di archiviazione e studio da parte di MFA? L’obiezione è valida, lo vedremo più sotto, tuttavia è riuscito a spiegare in modo inedito e covincente eventi misteriosi, come mai nessun inquirente e/o giornalista ha mai fatto. Inoltre l’ipotesi del “finto sequestro” non è così peregrina se si pensa che emerse nella requisitoria del 5/08/97 da parte del procuratore generale Giovanni Malerba, il quale avvalorò l’ipotesi di un allontanamento volontario di Emanuela e Mirella, ingannate dai sequestratori, e un successivo allontanamento contro la loro volontà.

 

2) Collegamento date Agca-Orlandi-Garramon.
-Il 22 giugno 1983 sparisce Emanuela Orlandi.
-Il 25 giugno 1983 (tre giorno dopo) appare inspiegabilmente su Il Tempo una lettera inviata nel settembre 1983 (nove mesi prima) da Agca al card. Oddi, nel quale il turco si dichiara pentito e dice di aspettare una risposta dal Vaticano (MFA sostiene che fu la sua fazione a far uscire questo articolo, un messaggio per Agca per dirgli che la promessa fattagli due anni prima era stata mantenuta, il rapimento di una cittadina vaticana, e ora toccava a lui contraccambiare inficiando il processo).
-Il 29 giugno 1983 (una settimana dopo la sparizione di Emanuela e quattro giorni dopo l’articolo su Il Tempo), Agca ritratta improvvisamente (come riportano le cronache di allora) le sue accuse di complicità nell’attentato al Papa, inficiando il processo. Collaborava dal dicembre 1981.
-Il 27 novembre 1983 compare il comunicato “Phoenix” che minaccia i telefonisti citando la “pineta”.
-Fine novembre 1983 MFA ferma nei pressi del numero 351 di corso Vittorio Emanuele II, dove ha la gioielleria il padre, il dodicenne Stefano Coccia, come ha confermato quest’ultimo ai magistrati. Corso Vittorio Emanuele II 351 si trova a qualche metro di distanza da Ponte Vittorio Emanuele, citato -tra tutte le vie e i ponti di Roma- dal secondo telefonista che ha chiamato casa Orlandi, “Mario”. Convitto nazionale Vittorio Emanuele II è anche il nome della scuola che frequentava Emanuela Orlandi al momento della sparizione.
-Il 20-21 dicembre 1983 (un mese dopo) MFA viene coinvolto in un misterioso incidente investendo il dodicenne (stessa età di Coccia) José Garramon proprio nei pressi di una pineta, frequentante lo stesso istituto frequentato in passato da MFA. L’incidente avviene vicino al luogo dell’incidente abitava il giudice Severino Santiapichi, che avrebbe presieduto la Corte d’Assise sull’attentato al Papa da parte di Agca e, altra coincidenza.
-Il 21 dicembre 1983, il giorno dopo l’incidente (come ha fatto notare MFA), ottenne gli arresti domiciliari Sergej Antonov, uno dei bulgari accusati da Agca (MFA sostiene che il giorno dopo sul giornale “l’Unità” gli articoli riportanti il fatto della pineta e l’uscita di Antonov appariranno pubblicati nella stessa pagina, in realtà uscirono il 22 dicembre 1983 e non sulla stessa pagina, ma uno a pag. 3 e l’altro pag. 14. Un errore che non avrebbe fatto un archiviatore seriale di notizie secondo le accuse che gli vengono rivolte).


 

Le intercettazioni.

In tempi non sospetti, in un’intercettazione telefonica del 04/04/1997 tra Accetti e l’ex compagna, Ornella Carnazza.

Negli atti si legge che a seguito di una discussione animata riguardante l’affidamento della figlia Daphne, l’ex compagna gli rese noto di avere il telefono sotto controllo e lo minacciò di raccontare per telefono alcune circostanze riguardanti Emanuela Orlandi596G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.

Ecco le testuali parole di Ornella Carnazza: «Il mio telefono l’hanno messo sotto controllo. E adesso io comincerò a raccontare per telefono tutte le cose di una certa ragazza…di tutte le cose che tu hai fatto con questa ragazza…Emanuela, chi è Emanuela? Io continuo a dire i nomi per telefono se tu non mi fai parlare…allora parliamo di Emanuela Orlandi e di quello che vuoi fare con lei?». Accetti sembrò imbarazzato, cercando di interrompere la donna.

In una seconda telefonata, poco distante dalla prima, la scena si ripeté: la donna, venendo interrotta, tornò a dire: «E allora parliamo di Emanuela….se tu cominci a fare i ricatti io divento più bastarda di te, sai dove vado..ti rovino a te e tutto quanto….».

Nel seguente video la ricostruzione della telefonata presa dagli Atti della Procura:

 

Ornella Carnazza, interrogata nel 2013, ha riferito di ricordare che Accetti le parlò della Orlandi all’inizio della loro relazione ma disse di non ricordarne il contenuto («non ricordo la telefonata e non so dire a che cosa io mi riferissi con quelle espressioni»), nonostante le fosse stato letto il testo della telefonata597G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 46.

La giustificazione della Procura a non ritenerlo un elemento probatorio in quanto lo stesso Accetti avrebbe accusato la donna, durante la telefonata, di “essere pazza” lascia davvero perplessi.

La non conferma della Carnazza (così come farà l’ex moglie, Eleonora Cecconi) ricorda la minaccia apparsa pochi giorni prima della comparsa di Accetti in Procura: “Non cantino le due belle more…”.

A tal proposito, Accetti ha scritto: «Solo in quest’anno 2013 ho appreso di questa remota intercettazione, ben dopo 17 anni. Se fossi veramente estraneo al caso, non si comprenderebbe come già nel lontano 1996 una persona si sia espressa, pur privatamente, raccontando del mio coinvolgimento, ed in quegli anni non ero certo in contatto con alcuna realtà mediatica per cercare di “apparire” sotto il presunto impulso di protagonismo, come molti mi accusano. E son trascorsi, mi ripeto, ben 17 anni.»598M. Accetti, Punto 2 (indizi e prove), 13/11/2013.


 

Boston.

Tra il 27 settembre 1983 e i primi di gennaio 1984 dalla città di Boston arrivarono alcuni comunicati relativi al caso Orlandi al corrispondente della Cbs, Richard Roth.

Rispetto a questi, il reo-confesso Marco Accetti ha scritto: «Una ragazza le scrisse in Roma ed un’altra le spedì da Boston. Non confermo se si trattava o meno della mia ex-moglie»599M. Accetti, Devianza e manipolazione Rai. – Prima presentazione., 06/06/2013.

L’ex moglie di Accetti si chiama Eleonora Cecconi (matrimonio contratto dal maggio 1982 al giugno 1983600G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 46, 47), la donna fu già interrogata nel 1983 dai carabinieri che indagavano sulla morte di Josè Garramòn, la quale dichiarò: «Mi trovavo a Boston, presso l’abitazione di mio fratello Alessandro, che è in America da sette anni per motivi di studio, in 75 Winter St. Natick Mass. Lì sono rimasta dal 20 novembre al 22 dicembre 1983, quando ho fatto ritorno in Italia».

Alla domanda su quando vide o sentì l’ultima volta «suo marito Marco», la donna rispose: «Qualche giorno prima che partissi. Preciso altresì che da mio fratello in America sono stata anche dal 2 agosto al 10 novembre 1983, ininterrottamente».

La Cecconi confermò così di essersi recata nella città di Boston a trovare il fratello proprio nel periodo in cui partirono da lì le lettere sulla Orlandi, escludendo però di essere stata lei a spedirle per conto di Marco Accetti601G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

La sorella di Accetti, Laura (compagna di scuola della Cecconi), ha riferito in Procura che nel 1983 suo fratello le avrebbe detto di aver scritto delle lettere e aver chiesto a Eleonora Cecconi di spedirgliele da Boston, dove si recava. Lei non ritenne veritieri questi racconti602G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

Il giornalista Fabrizio Peronaci ritiene la Cecconi «una testimone di fatti non marginali. Si sposarono nel maggio 1982 e, dopo il viaggio di nozze a Venezia, andarono a vivere nell’ufficio del suocero. Subentrarono litigi, resistenze della famiglia di lei. La primavera seguente saranno di fatto già separati, però – e ciò pesa nell’inchiesta – resteranno amici almeno per tutto il 1983, nell’intera fase calda del doppio rapimento»603in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 96.

Nel 2023 le attenzioni degli inquirenti si sarebbero concentrate su Patrizia De Benedetti come l’autrice delle lettere, già interrogata dagli inquirenti nel 2013 e indagata (poi assolta) con Accetti nel 1983 nel caso Garramon604F. Peronaci, Emanuela Orlandi e la ragazza (oggi 59enne) che rivendicò il sequestro: ecco perché i messaggi da Boston portano ai veri rapitori, Corriere della Sera, 01/08/2023. La donna ha sempre negato di essere mai stata partecipe.

Già nell’ottobre 1983, un esame grafologico sulla lettere dei sedicenti rapitori dell’epoca stabilì con certezza che la grafia con cui fu scritta la lettera fatta ritrovare dall'”Amerikano” a Castelgandolfo il 04/09/83 con allegata la fotocopia degli spartiti di musica che Emanuela aveva nello zaino il giorno della sparizione, era la stessa del contorto comunicato spedito da Boston e arrivato il 28/09/83 nella sede romana della “CBS News”.

Il legame con Boston fu ritenuto talmente credibile anche dalla stampa dell’epoca che addirittura si sospettò che lì vi fosse il centro operativo dell’operazione Orlandi.

Secondo la perizia grafica voluta dal giudice Domenico Sica nel 1983, il messaggio partito da Boston, la lettera recapitata alla mamma di Mirella Gregori l’8 settembre e quello infilato il 4 settembre nel furgone della Rai furono vergati dalla stessa mano.

 

Qui sotto abbiamo realizzato un confronto tra i messaggi recapitati da Boston, dal quale si conferma che furono scritti dallo stesso autore (o autrice!).

Lo si evince dall’identica scrittura delle parole “soppressione” e dalla stessa forma della lettera “s”. Inoltre, risulta uguale la scrittura di “Alì” (comunicati 22/10 e 27/10), la cui iniziale è identica a quella di “Agostino” (comunicato 28/10).

 

Nel luglio 2013 la grafologa Sara Cordella, analizzando a sua volta la scrittura del comunicato arrivato da Boston, ha rilevato che il segno grafico che si osserva «si trova soprattutto nelle scritture femminili».


 

I codici.

Secondo il racconto di Marco Accetti, il cuore del caso Orlandi e di quello Gregori sarebbero i codici utilizzati che avrebbero dovuto far intendere alla fazione opposta i termini delle presunte trattative.

Effettivamente non possiamo negare che vi sia una certa coerenza e ripetitività degli stessi codici e, allo stesso tempo, serva un enorme e quasi incredibile sforzo creativo per “inventare” questi codici analizzando i due casi a posteriori, come alcuni credono possa aver fatto Accetti.

Ecco i principali codici citati da Accetti e legati alla sparizione di Emanuela e Mirella:

  • -1-3-5-7 ➡ la vicenda è effettivamente costellata da questi numeri che avrebbero dovuto richiamare la data dell’apparizione di Fatima (13-5-17). L’ora della sparizione di Mirella fu le 15.30 (anagramma-sciarada di 13-5), la Orlandi telefona a casa alle 7 della sera (anagramma-sciarada di 17, da completarsi con l’orario di Mirella); l’età del telefonista “Mario” erano 35 anni, mentre quella di “Pierluigi” era 17 («ne devo compiere 17», disse); Emanuela telefonò a casa raccontando di un’offerta di lavoro pagata 375 mila lire; il gruppo “Phoenix” lasciò dei proiettili Magnum calibro 357 in un’edicola vicino all’istituto Giuseppe De Merode (frequentato da MFA) il 13/11/83; Stefano Coccia venne fermato alle 7 del pomeriggio da Accetti e Ulrike davanti al negozio del padre, al numero 351; Fatima come Fatma, la sorella di Agca.
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  • Vittorio Emanuele II ➡ il Convitto Vittorio Emanuele II era il nome della scuola della Orlandi; era la via della scuola frequentata da Raffaella Gugel, l’Istituto tecnico commerciale “Vincenzo Gioberti”; il telefonista “Mario” dice di possedere un bar a Ponte Vittorio Emanuele II; Stefano Coccia viene fermato da Accetti e Ulrike in corso Vittorio Emanuele II (a pochi metri da Ponte Vittorio Emanuele II);
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  • De Merode-Pierluigi-Sorelle Fontana-Borromini ➡ Pierluigi era il nome del primo telefonista che chiamò casa Orlandi poche ore dopo la scomparsa e che venne minacciato da “Phoenix”; mons. Pier Luigi Celata era il direttore spirituale dell’istituto De Merode nel 1967, frequentato da Accetti (nonché segretario di Agostino Casaroli) e abitante sopra la Maison delle “Sorelle Fontana”, citata nella telefonata di Emanuela. Effettivamente mons. Celata ebbe rapporti con Francesco Pazienza, collaboratore del SISMi e “Sala Borromini” indicava la casa di Pazienza alle spalla della sala, in cui si diceva incontrasse De Pedis. Secondo quanto mise nero su bianco lo stesso Pazienza605F. Pinotti, I poteri forti, 2011, nella sua autobiografia, mai smentita, mons. Celata avrebbe costituito un punto di riferimento per il Sismi, in particolare nel contrastare la figura di Marcinkus alla guida dello Ior, attraverso scandali da creare ad hoc606F. Pazienza, Il disubbidiente, 1999 e sostenne di essere stato indirizzato da monsignor Celata su indicazione di Giuseppe Santovito, il generale piduista che guidava il Sismi607citato in S. Livadiotti, I senza Dio, 2013; “Phoenix” lasciò dei proiettili Magnum calibro 357 in un’edicola vicino all’Istituto Giuseppe De Merode; Marco Accetti nel 1988 fotografò Priscilla Morini (“sosia” della Orlandi?) davanti all’istituto Giuseppe De Merode;
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  • Senato-Polonia ➡ Emanuela sparì davanti al Senato proprio nel giorno in cui Giovanni Paolo II, nel suo viaggio in Polonia, fece un incontro al Senato Accademico polacco di Cracovia; il giornalista Richard Roth, scelto come destinatario di molti comunicati riguardanti la Orlandi, dal 16 al 23 giugno 1983 era in Polonia al seguito del Papa;
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  • Maria Vittoria ➡ questo codice non è mai stato citato da Marco Accetti, non sappiamo se sia una coincidenza che si tratti sia del nome della mamma di Gregori (Maria Vittoria Arzeton) che quello della segretaria personale di mons. Marcinkus dal 1971 al 1990608R. Priore, L’attentato al Papa, Kaos 2002, p. 185.
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  • Avon ➡ secondo Marco Accetti il nome “Avon” avrebbe ricordato la traduzione “fiume” in lingua celtica, per indicare alla controparte la testimonianza della ragazza del Convitto, istituto lungo le sponde del fiume Tevere609M. Accetti, Memoriale, 2014. Lo riteniamo un codice piuttosto debole, molto più suggestivo il fatto che avrebbe indicato l’anagramma della fondazione pontificia Nova, che gestiva l’obolo per le opere caritatevoli, e dunque anche parte dei fondi destinati alla Polonia.

 

Marco Accetti ha parlato di questo uso esasperato dei codici: «I codici dovevano essere molti ed esprimersi in forme esasperate, a volte anche gotiche. In tal modo si rendevano inverosimili all’indagine di un eventuale inquirente, alla curiosità di un possibile giornalista, che li avrebbero per l’appunto considerati eccessivi, implausibili, o comunque ne sarebbero stati depistati».

Invece, ha proseguito l’uomo, «ogni codice raccontava l’origine di un evento, le nostre intenzioni. L’usarli era una forma di pressione verso l’altra parte. Un modo di dire loro che realtà delicate e riservate diventavano pubbliche, ma momentaneamente sotto scrittura cifrata. E che, se non fossero state corrisposte le nostre richieste, avremmo potuto spiegare pubblicamente quel che il codice occultava, e ciò non era certo interesse della controparte»610in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 171.

Tuttavia, ha scritto, «il codice firmava un’azione, un gesto. Agli esponenti della nostra controparte, il significato veniva spiegato attraverso missive anonime, che permettevano di interpretare integralmente ogni scrittura cifrata, man mano che i fatti si evolvevano. I nostri interlocutori, a cui doveva giungere il significato di ogni azione, non avrebbero dovuto pensare a coincidenze, tutto doveva ricondurre a una stessa matrice».


 

Le fermate dell’autobus di San Pietro.

Tutte le persone che MFA ha citato nel suo racconto sembrano effettivamente collegate dall’autobus che faceva capolinea alla stazione di San Pietro. Scrive MFA: «Nella piazza della stazione San Pietro vi era il capolinea di un autobus che compiva un tragitto lungo il quale noi dovemmo scegliere gli adolescenti che nelle loro testimonianze fittizie avrebbero dovuto dire di aver preso quell’autobus per raggiungere» una villetta usata da un prelato vicino al Presidente Mons. Marcinkus, che rimandava a Villa Stricht, dove effettivamente abitava il capo dello Ior. «Nel suo tragitto poteva virtualmente essere preso dalla Emanuela Orlandi, che abitava nelle vicinanze. Il bus passava innanzi la gioielleria del padre del dodicenne Stefano C., posta in Corso Vittorio Emanuele II; raggiungeva la Nomentana, strada nei pressi della quale, sulla stessa direttrice di sinistra erano poste le abitazioni di Mirella Gregori, della Catherina Gillespie e della Catherina Skerl, le quali potevano raggiungere la fermata del suddetto mezzo con altri autobus percorrenti la stessa via Nomentana». Sono collegamenti effettivi, coincidenze. Un’altra coincidenza, avendo citato la stazione di San Pietro, è una una telefonata dell’Amerikano del 5 luglio 1983, nella quale si sentono distintamente alcuni fischi di treno in sottofondo.


 

Le abitazioni di Marco Accetti.

L’area di Roma è di 1.285 km², eppure al tempo della sparizione di Mirella Gregori, MFA abitava assieme alla moglie Eleonora C in via Goito 24, dove il padre Aldo Accetti aveva un ufficio. «Qui attrezzai una stanza a laboratorio di fotografia, uscendo dal portone, a sinistra, si poteva tener d’occhio l’ingresso della scuola media di via Montebello, frequentata da Mirella, e da una compagna da noi coinvolta nell’azione». Si parla di duecento metri dal bar dei Gregori, all’angolo tra via Montebello e via Volturno (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Stessa coincidenza per quanto riguarda Alessia Rosati: MFA abitava allora esattamente di fronte al luogo in cui la ragazza venne vista l’ultima volta prima di scomparire. Anche Alessia, come la Skerl, era militante comunista, anche lei allontanatasi -secondo la lettera che ha inviato all’amica Claudia- per un bisogno di libertà, le stesse motivazioni che riportarono i primi due telefonisti, “Pierluigi” e “Mario” per giustificare la “scappatella” di Emanuela. Anche nel caso della Rosati c’è un’amica, Claudia, a vederla per l’ultima volta come Raffaella Monzi (per Emanuela) e Sonia De Vito (per Mirella). Amica su cui cadono pesanti sospetti (da parte dei genitori di Alessia), così come caddero su Sonia De Vito.


 

La comparazione della voce tra Accetti e i telefonisti.

Dopo aver comparato la voce di Marco Accetti con quella dell'”Amerikano” e del telefonista “Mario”, la Procura ha riconosciuto una similitudine soggettiva611G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 49, concludendo tuttavia sull’impossibilità nel comparare le voci a causa dell’eccessivo tempo trascorso che ha modificato il suo l’apparato fonoarticolare. Similitudine, dunque, ma non effettiva attribuibilità.

Anche nel confronto di voci realizzato da UCCR risulta una forte similitudine con il telefonista “Mario” e con il telefonista “l’Amerikano”. Pur non essendo esperti, rileviamo lo stesso timbro vocale, le stesse pause (ehmm…), la stessa accelerazione ad inizio frase seguita da un rallentamento, la stessa abitudine ad interrompere continuamente l’interlocutore, la stessa gestione autoritaria della conversazione. Al di là della voce in sé (quella attuale di Accetti si è abbassata di tono ed ha acquisito più raucedine), il modo di parlare e di esprimersi risultano fortemente compatibili.


 

I collegamenti tra le vittime.

MFA effettivamente avvicinò ragazzi e ragazze prima e dopo la sparizione di Mirella ed Emanuela e una di queste, due giorni prima del suo arresto, fu Caterina Gillespie, stessa età, stesso nome e cognome straniero di Caterina Skerl, morta misteriosamente un mese dopo l’incontro tra MFA e Caterina Gillespie. Cosa simile è accaduta dopo l’incontro, verso la fine di novembre 1983, tra MFA e il dodicenne Stefano Coccia (confermato da quest’ultimo): esattamente un mese dopo dopo MFA investe accidentalmente nella pineta il dodicenne Josè Garramòn. Coccia viene fermato in via Vittorio Emanuele a Roma, nella sua telefonata “Mario” dice di possedere un bar -come il padre della Gregori- a ponte Vittorio Emanuele, proprio nei pressi della via in cui sarà fermato Coccia. La Skerl fu, come Alessia Rosati, militante comunista e iscritta alla Fgci (Alessia frequentava invece i centri sociali), compagna di classe di un funzionario dell’ambasciata finito sotto processo (poi assolto) come complice di Alì Agca, è stata trovata morta a Grottaferrata, dove effettivamente aveva sede l’associazione Pro Fratribus di monsignor Hnilica, molto attiva nella raccolta di fondi in chiave anticomunista, in via Corso del Popolo 40 (G. Galezzi, F. Pinotti, “Wojtyla segreto”, Chiarelettere 2011, p.45). La Orlandi, la Gregori, la Gillespie e il (negozio del padre) Coccia abitavano tutti nei pressi della direttrice dell’autobus che ha la stazione di San Pietro come capolinea. MFA frequentava lo stesso istituto di José Garramon e abitava vicino sia a Alessia Rosati che a Mirella Gregori, entrambe hanno un’amica fortemente sospettata di reticenza (Claudia per Alessia e Sonia De Vito per Mirella). Un’amica, come per Mirella e Alessia, è l’ultima persona che ha visto Emanuela Orlandi. MFA ha affermato che il ragazzo del quale fecero innamorare Mirella, fiancheggiatore della Stasi, era svizzero, Mirella lo conobbe l’estate prima in vacanza: «Era biondo, svizzero, del cantone tedesco, parlava un po’ d’italiano. Era davvero bello. Anche lui, come Ulrike, fiancheggiatore della Stasi. Cose del genere non devono stupire, all’epoca capitavano con facilità… È estate, uno straniero aggancia una ragazza e lei lo trova irresistibile. Lui magari le dice che è finlandese, svedese, e lei ci crede, s’innamora. Decidono di stare insieme». Antonietta Gregori, sorella di Mirella, nel 2013 ha risposto così alla domanda su dov’erano stati in vacanza nell’estate 1982: «Dovrei controllare le foto, ammesso che ne trovi. Di certo eravamo tutti e quattro insieme, con mamma e papà. Doveva essere Francia o Svizzera» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Alla baronessa Rotschild arrivò, un giorno dopo la sua sparizione nel 1980, un telegramma firmato Roland, anagramma di Orlandi. Il padre di Catherine Gillespie si chiama Ronald James Gillespie. Ronald, ancora una volta anagramma di Orlandi.


 

Approfondita conoscenza, enormi rischi e presenza mediatica.

La conoscenza dettagliata di MFA di numerosi eventi risalenti a decine di anni fa è strabiliante, quasi unica. Così come la conoscenza di tantissime nomine vaticane, anche di secondo o terzo livello, ruoli di diplomatici, prelati e monsignori della Curia romana e della Segreteria di Stato tra gli anni ’80 e ’90, con tanto di loro abitudini e retroscena. Ha mostrato di conoscere gli uffici usati per particolari compiti dal Servizio Militare di allora, un residence situato in via Panama, in Roma, di un ufficio presso vicolo del Cinque a Trastevere e di un appartamento in via del Governo Vecchio (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Ha parlato anche di dettagli dell’arredo di alcune case di questi prelati, come la moquette gialla del cardinal Caprio o l’esistenza di una casa-museo di un dilpomatico del Consiglio per gli Affari pubblici nel Palazzo dell’Arciprete ecc. Non si può liquidare tutto dicendo che avrebbe studiato tutto a posteriori. Dove? Su quali articoli comparvero queste notizie? In quali atti? Internet allora non esisteva e oggi, ovviamente, questi dettagli non sono presenti sul web. Ma anche se fosse, a che scopo inserire nel caso Orlandi tutti questi inutili particolari e dettagli? Oltretutto con l’enorme rischio di essere smentito su questi dettagli, facilmente verificabili (la salopette e le scarpe da ginnastica di Emanuela su cui c’era scritto il suo nome, la telefonata tra lui e Antonietta Gregori in cui lei lo scambiò per un collaboratore dell’avvocato Egidio ecc.). Lo stesso rischio preso con il flauto: se sapeva o dubitava non essere appartenuto alla Orlandi, lo avrebbe fatto ritrovare con tanto di matricola leggibile e possibili contaminazioni? E se fossero emerse tracce appartenenti a qualcuno diverso dalla Orlandi? E se i familiari avessero conservato il numero di matricola del flauto? Come faceva MFA a sapere che gli esiti della scientifica non avrebbero purtroppo fornito alcun risultato utile? Mancava il tamponcino, tuttavia tracce di Dna potevano trovarsi in qualunque parte del flauto, come ad esempio il beccuccio. «Se io fossi un falsario», ha commentato MFA, «mi sarei procurato oltre il flauto anche quest’asticella per la pulizia, e l’avrei messa nella custodia, dopo averla ripulita ed invecchiata per non farvi trovare la saliva, così come avrei fatto con il flauto».

Ha obiettato Accetti a chi non crede al flauto: «se mai fosse stato nelle mie intenzioni produrre un falso, avrei dovuto, oltre il procacciarmi uno strumento dell’epoca fornito dei necessari elementi formali, riprodurre anche uno stato di usura relativo agli anni trascorsi. Pulirne radicalmente l’interno ed ogni altra parte per assicurarmi che non si potesse rintracciarne alcun DNA collegabile con il reale proprietario. Ma le esigue tracce biologiche rinvenute dalla perizia dimostrano che il flauto non è stato interamente sterilizzato, per cui avrei “rischiato”, nel qual caso queste tracce fossero state identificate, di essere ritenuto un millantatore ed avrei già sin dall’inizio invalidato tutto quel che in seguito avrei dichiarato. Inoltre ho consegnato il flauto riportante la sua matricola e marca, e la famiglia poteva ancora essere in possesso del certificato originale. Nella consapevolezza che anche uno strumento musicale comprato già usato può comunque essere ancora dotato del documento di certificazione. Per cui se i dati riportati sul flauto non fossero stati autentici, mi avrebbero potuto smentire. Se fosse stato quindi un “falso” avrei dovuto abradere la parte riportante i suddetti dati, potendo dichiarare che tale procedura fu effettuata all’epoca dei fatti per non permettere, in caso lo strumento fosse stato rintracciato presso una nostra pertinenza, di verificarne l’origine». Il maestro di flauto di Emanuela, Loriano Berti, ha ricordato che la ragazza aveva un flauto Yamaha, non un Rampone e Cazzani come quello fatto ritrovare. Pietro e Natalina Orlandi, tuttavia, «appena se lo sono rigirato tra le mani, hanno concluso che è molto simile, se non identico, a quello posseduto da Emanuela. Il produttore Rampone e Cazzani, che Pietro ha contattato tramite lo stesso negoziante del quartiere Prati dal quale suo padre lo acquistò, in base ai dati riportati e al numero di matricola ha confermato che è stato fabbricato prima del 1983. Lo stesso Pietro ha trovato, tra i vecchi album di famiglia, la foto di un saggio di fine anno scolastico. Sua sorella in piedi, concentrata nell’esecuzione del brano, e sul pavimento, ben visibile, la custodia: i segni di usura agli spigoli sono ben visibili, la foderatura è dello stesso punto rosso» (“Il Ganglio”, Fandango libri 2014).

All’interno di una ricostruzione verosimile, Accetti ha inserito episodi controprudcenti per la loro inverosimiglianza, come il fatto che avrebbe passeggiato per Roma con Emanuela, la quale avrebbe indossato una parrucca. Se fosse falso, perché dirlo? Uno che riesce genialmente ad inventare una storia del genere, non si accorge che è un particolare che mina la credibilità generale della ricostruzione? Inoltre ha collegato il caso Orlandi ad altrettanti misteri d’Italia, quali quello della baronessa Rothschild, quello della Skerl, della Rosati ecc., ma anche a noti furti d’arte. Una scelta folle, che insinua l’idea del mitomane. Solo un maniaco avrebbe potuto compiere questi enormi studi, sprecare un’infinità di tempo per trovare (trovandoli!) collegamenti tra codici, suoi fatti biografici e notizie di cronaca, studiare nomine, ruoli e abitudini di decine di ecclesiastici quasi sconosciuti degli anni ’80-’90, prendersi enormi rischi ingolfando il racconto con un’infinità di dettagli irrilevanti, fare accuse ben precise ai suoi complici o persone a conoscenza dei fatti (a Patrizia D.B., a Eleonora C., a Ornella C., a suo padre Aldo A., alla sorella Laura A. ecc.): tutto questo per cosa? Soldi? Non ne ha avuti, né cercati. La Procura sostiene che si tratta di «un soggetto con spiccate smanie di protagonismo». Eppure un mitomane, affetto da smanie di protagonismo, non aspetta 30 anni per apparire pubblicamente al mondo, dato che i familiari hanno testimoniato che fin dal 1983 MFA si occupava del caso, di cui era rimasto colpito. MFA ha raggiunto: «Come anche l’accusa che io eserciti una “mania di protagonismo” confligge con il fatto che, pur vivendo in un sistema mediatico che offre innumerevoli occasioni di apparire, io non sono mai “apparso” se non in alcuni fatti del lontano 1999, nonostante abbia avuto negli anni innumerevoli inviti a comparire in varie trasmissioni della Rai e di Mediaset. E tutto questo è documentato». Ha osservato lui stesso: «se fossi veramente pervaso da una “smania di apparire” non avrei rifiutato l’offerta di scrivere congiuntamente un libro da parte dei giornalisti Dino Marafioti, Fiore De Rienzo, Fabrizio Peronaci, Pino Nazio. Chieder loro per aver conferma». Non sembra affatto ricercare un protagonismo esasperato e non ha compiuto gesti scenici per catalizzare su di sé l’attenzione e mantenersi al centro dell’opinione pubblica. Nelle interviste pubbliche che ha rilasciato è ben capace di intendere e volere, sa rispondere in modo preciso, originale e con cognizione di causa, così come abbiamo appurato nella telefonata di quasi due ore avuta con lui nel gennaio 2016. Non ci è affatto parso di essere al telefono con un maniaco, come invece dovrebbe essere se avesse inventato tutto questo. Ha chiesto inolte ai magistrati di essere messo a confronto con suo padre, con le donne che hanno negato la loro partecipazione, con il poliziotto Bosco e con il proprietario dell’albergo Isa, da lui contattato nell’81 per prenotare la stanza per Alì Agca. Proprio il suo comportamento sembra essere un argomento a favore.

2) Ha avuto la fortuna, nonostante si sia preso enormi rischi (il flauto e i numerosi dettagli secondari che ha rivelato, come la scritta “Emanuela” sulle scarpe della ragazza il giorno in cui sparì), di non essere mai stato smentito, nessuno ha mai dimostrato in modo chiaro che almeno un particolare che ha rivelato è certamente falso. Lui stesso ha scritto: «Se la Procura dovesse ritenere tutti gli indizi da me prodotti non altro che frutto di mere coincidenze, dovrebbe intanto quantificarle e constatare che si tratta di un numero veramente elevato, e le troppe coincidenze sono indizi. Se mi si ritiene un abile sceneggiatore, altrettanto mi si deve riconoscere la ripetuta e ripetuta fortuna, che in quei anni ottanta si siano verificate una serie impressionante di concatenazioni casuali che sembrano andare tutte univocamente in una direzione».

Laura Accetti, la sorella, ha anche ricordato che mentre lui era agli arresti domiciliari, vide un flauto azzurro di plastica e un orologetto che lui disse averli ricevuti dalla Orlandi. Leggendo queste dichiarazioni, MFA ha scritto: «ciò mi ha permesso di ricordare che nella borsa dell’Emanuela vi era presente un flauto dolce, di color azzurrino o bianco. E quanto dichiaro è verificabile, interrogando la famiglia e i docenti e compagni della scuola di musica della ragazza. Questa del flauto dolce è un’ informazione mai emersa, minore. Che probabilmente familiari e compagni non rammentavano. Giornalisti ed inquirenti li contattino ed appurino».


 

Biografia.

Oltre agli enormi rischi che si è assunto, va rilevato che Accetti, se fosse un millantatore, è anche un uomo incredibilmente fortunato.

Parliamo di “fortuna” in quanto la sua biografia, da quanto è emerso in questi anni, lo colloca da sola al centro del caso Orlandi senza che sia necessario credere a tutto il suo racconto delle fazioni.

Ecco gli elementi oggettivi della sua biografia legati alla Orlandi/Gregori che nessun altro può “vantare”:

  • La ex moglie Eleonora Cecconi ha un fratello a Boston e si trovava proprio lì (da sua ammissione) nei giorni in cui da lì partivano i comunicati;
  • Un’intercettazione telefonica nel 1997 in cui la ex moglie lo minaccia di parlare della Orlandi;
  • La sua abitazione era a pochi metri da quella di Mirella Gregori nel periodo in cui è sparita;
  • La sua abitazione era a pochi passi dal luogo in cui è stata vista l’ultima volta Alessia Rosati;
  • Ha frequentato lo stesso istituto elementare (il St. George’s) frequentato da José Garramon al momento dell’incidente;
  • Ha frequentato alle medie l’istituto De Merode con direttore spirituale mons. Pierluigi Celata, il prelato che diventò diplomatico in Vaticano, che ha lo stesso nome del telefonista “Pierluigi” e che abitava sopra le Sorelle Fontana, citate nella telefonata di Emanuela alla sorella Federica il 22/06/83. L’istituto De Merode si trova in piazza di Spagna, nello stesso luogo in cui avevano la maison le “Sorelle Fontana”612N. Misani, Giovanna, Micol, Zoe Fontana, L’Enciclopedia delle donne. Vicino allo stesso istituto il gruppo “Phoenix” il 13/11/83 lasciò dei proiettili Magnum calibro 357. Il cappellano dell’Istituto De Merode era padre Salvatore Pappalardo613Biografia del card. Salvatore Pappalardo, Enciclopedia Treccani (confermato anche da Accetti), a questo religioso l’8/7/1983 venne consegnata una cassetta con lo voce registrata attribuita a Emanuela Orlandi;
  • Ha una voce compatibile e sovrapponibile a quella dell'”Amerikano” e a quella del telefonista “Mario”;
  • Dalle indagini su di lui dopo l’omicidio di Garramon nel 1983 e dalle escussioni nel 2013 di Caterina Gillespie e Stefano Coccia, emerse che Accetti era solito avvicinare giovani ragazze e ragazzi e proporre loro delle fotografie614G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 48. Non solo, ma l’area frequentata da Accetti per proporre a giovani di posare nei suoi film o fotografie (corso Vittorio, via dei Coronari ecc.), come nel caso di Stefano Coccia, è la stessa percorsa da Emanuela. Il suo laboratorio era infatti a ridosso di piazza dell’Orologio e dell’oratorio Borromini, nome citato dal vigile Sambuco nella sua testimonianza. Il dettaglio ha portato, nel 2016, il giornalista Pino Nicotri a convincersi della sospettabilità di Marco Accetti perlomeno nell’adescamento di Emanuela, facendo anche notare che l’uomo della Avon chiese alla ragazza di farsi prima autorizzare dai genitori, stesso modo di operare di Accetti.

Quante persone nel 1983 a Roma (o anche tra tutte quelle vissute nel mondo tra il 1980 e il 2016) possono “vantare” dati biografici così coincidenti con il caso Orlandi? Nessuna.


 

Misteri risolti in maniera geniale.

Che la ricostruzione di Accetti, al di là della sua autenticità, sia geniale lo dimostra la spiegazione illuminante che riesce a dare degli elementi finora rimasti inspiegabili.

a) Comportamento assurdo dei telefonisti e dei comunicati: non si volle mai provare con chiarezza la detenzione di Emanuela, bastava una foto, eppure si elencarono infiniti dettagli e particolari, risultati veri, e fotocopie di documenti e spariti che aveva con sé quel giorno. Tanta fatica quando bastava una foto, perché? Perché erano codici, i loro interlocutori non erano né gli inquirenti, né la famiglia, né la stampa, ma qualcun altro con cui dialogavano, sfruttando la cassa di risonanza dei media. Lo dimostra anche l’insistenza assolutamente inedita dei telefonisti affinché i media pubblicassero i loro messaggi e comunicati, invece che chiedere pagamenti per i riscatti.

b) Voce di Emanuela: venne riportata su un nastro fatto trovare dall’Amerikano: «Prova. Convitto nazionale Vittorio Emanuele secondo. Dovrei fare il terzo liceo staltr’anno…scientifico». Frase registrata e fatta ascoltare ai familiari più volte. La voce è la sua, venne riconosciuta, Emanuela non aveva mai parlato di un’intervista prima della scomparsa, nemmeno i compagni. Il giornalista Pino Nicotri sostiene che la frase ripetuta più volte potrebbe essere stata pronunciata da Emanuela durante la puntata di Tandem a cui partecipò nel maggio 1983, o nelle presentazioni prima o dopo l’entrata in studio. Ipotesi peregrina, a quella puntata venne invitata tutta la classe di Emanuela, dunque era ridondante che lei si presentasse come studentessa del Convitto nazionale Vittorio Emanuele II. Oltretutto, nessuno dei suoi compagni, una volta saputa la comparsa di questa “prova” dopo la sparizione di Emanuela, ha mai fatto presente che quella frase fosse stata detta da Emanuela durante la trasmissione televisiva. Anche a loro avrebbero dovuto fare la stessa domanda prima o dopo l’entrata in studio, eppure nessuno ha collegato le cose evidentemente perché nessuno chiese loro singolarmente che scuola facessero, poiché era inutile: avevano invitato proprio quella classe di quella scuola. Venne realizzata dopo. Davvero strana come “prova”, tutti si sarebbero aspettati: “Ciao mamma e papà, sono Emanuela e sto bene, non vi preoccupate”. Per decenni investigatori e giornalisti si sono chiesti perché una “prova” del genere. Non era una “prova”, il racconto di Accetti lo spiega e risolve: «La frase della Orlandi significava: accettate le richieste, in modo che tutto possa terminare entro i primi di settembre, in tempo per l’inizio dell’anno scolastico, altrimenti riferirò fatti compromettenti. Lo spettro da noi agitato era la pedofilia. La telefonata fu fatta dai Parioli. La registrazione con la voce della ragazza fu eseguita dopo il 22 giugno. Il rumore del treno, registrato in precedenza, serviva a depistare gli inquirenti». Ovvero era un codice alla controparte, solo così effettivamente si spiega. «Io la ragazza l’ho frequentata trentadue anni fa e l’ho vista per mesi, quella è proprio la sua voce, questa voce un po’ cantilenante che aveva, un po’ lagnosetta. Ma le pare che noi presentiamo la voce di un’altra, in modo che la famiglia ci smentisce da subito? Lei disse quella frase una sola volta, io avevo un registratore a due piste e ripetei più volte quella frase in modo che fosse chiaro a chi ascoltasse. Venne registrata in un appartamento al chiuso, infatti non ci sono rumori di fondo, le voci dei compagni della scuola ecc.» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Può essere falso, ma non si può dire che è l’unica soluzione adeguata. E l’ha data soltanto Accetti.

c) Pedinamenti appariscenti e comportamento dell’uomo davanti al Senato: un altro mistero che non si è mai chiarito è perché l’uomo visto dai testimoni oculari Sambuco e Bruno avesse tutta l’intenzione di essere notato. Pensiamo al luogo in cui avvenne il dialogo con Emanuela (davanti al Senato!), al colore dell’auto. Giulio Gangi infatti dirà: «tutto fa pensare che l’uomo della BMW voleva essere notato: dal colore squillante della sua auto al fatto che avesse parcheggiato la vettura in direzione contraria al senso di marcia, al posto prescelto, cioè proprio di fronte all’ingresso del Senato» (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 22). Lo stesso dicasi per le persone che seguirono Emanuela prima della sua sparizione. Lo ha testimonianto la sorella Cristina e alcuni amici di Emanuela (Garbiella e Paola Giordani, Cristina Franzè, Angelo Rotatori e Andrea Bevilacqua), alcuni uomini seguivano il gruppo -tra cui c’era Emanuela- il 16 giugno 1983 in zona Prati, loro se ne accorsero e pensarono si trattasse di semplici corteggiatori (Rapporto operativo, quinta sezione di Roma, 18 luglio 1983, p.7). Tre giorni dopo, il 19/07/83, gli stessi amici si trovavano in via dei Corridori, quando a loro si avvicinò una macchina di colore bianco con a bordo due giovani. Il passeggero, sui venti-venticinque anni, biondo, capelli corti e ondulati, senza barba né baffi, indicò Emanuela, dicendo: “Eccola!” (testimonianza di Gabriella e Paola Giordani al Reparto operativo dei carabinieri di Roma, 14 luglio 1983). Anche loro volevano evidentemente essere notati e questo collima con la versione di Marco Accetti dell’organizzazione di un finto sequestro.

 

Prove secondarie


 

Regista e sceneggiatore.

Le competenze artistiche di MFA, sceneggiatore e regista, erano proprio quelle necessarie ad inscenare il “finto sequestro”, secondo il suo racconto, e tutta la messinscena successiva. Era certamente la persona adatta a cui affidare tutto questo: l’organizzazione, i codici, i luoghi, gli orari, i depistaggi ecc. Lavorare con la fotografia gli dava oltretutto l’alibi di poter fermare ragazzi e ragazze -possibili futuri complici nelle sue losche operazioni- con la scusa di servizi fotografici. Questo, tuttavia, è anche un punto a suo sfavore come riferiremo sotto. Le frasi “montate” a ripetizione potevano essere state registrate in qualunque momento prima della sparizione di Emanuela, di certo non sono una prova: perché non fare parlare la ragazza ad un semplice registratore al posto di fare questo montaggio? Inoltre, per realizzarlo allora occorrevano due registratori (ma è un’operazione difficile) o un banco professionale da sala d’incisione e fu montato da qualcuno che aveva dimestichezza di quegli apparecchi (“Dodici donne un solo assassino”, pag. 23).


 

Alì Estermann.

Il 21/03/1999 MFA appare per la prima (e ultima) volta in televisione partecipando ad una puntata di “Domenica In” imitando Roberto Benigni (esattamente il giorno in cui vinse l’Oscar), presentandosi come Alì Estermann. Un nomignolo assolutamente fuori dal contesto della trasmissione televisiva e completamente assurdo, una via di mezzo tra Alì Agca e Alois Estermann (guardia svizzera morta misteriosamente in Vaticano nel 1998). Seguì un viaggio a New York dove attirò l’attenzione della stampa facendo credere di essere il vero Benigni. Comparso all’improvviso e poi sparito di nuovo nel nulla. MFA avrebbe un’ossessione maniacale per il Vaticano o le vicende clericali? Bisognerebbe spiegare perché allora questo fu l’unico episodio pubblico in trent’anni, nonostante diversi casi di cronaca abbiano coinvolto il Vaticano (oltre al fatto che la Corte d’Assise nel 1983 escluse malattie psichiche e anomalie del carattere).


 

b) Il padre di Accetti e le testimonianze della famiglia.

Abbiamo già sottolineato che Aldo Accetti, padre di Marco, è risultato essere vicino alla massoneria di destra, iscritto nell’Archivio Giovanni Alliata di Montereale, congregazione fondata dal principe siciliano Giovanni Francesco Alliata di Montereale.

Inoltre, un’intercettazione del padre, Aldo Accetti, rivela che MFA ha fatto loro dichiarazioni assurde soltanto sul caso Orlandi e non su altri casi di cronaca o fatti slegati da questo: «», dice il padre in una telefonata ad un amico. E’ una conferma del fatto che prima del momento del suo arresto, a causa dell’incidente nella pineta, MFA si era interessato al caso (e solo a questo) in modo approfondito. Le opinioni dei familiari sono importanti (ne parleremo nei “punti deboli”) tuttavia è possibile che non abbia mai voluto raccontare loro la portata del suo reale coinvolgimento, facendo soltanto alcuni accenni, probabilmente per tutelarsi, per tutelare loro oppure sapendo di non essere preso sul serio. Una scarsa comunicazione con i suoi stretti familiari è dimostrata dalle parole della madre che ha rivelato di sapere poco anche del caso Garramon, cioè dell’incidente che è costato al figlio due anni di prigione.


 

Filippo Picchetti.

Legato al punto precedente c’è anche un aspetto legato a tale Filippo P. (il nome per esteso lo si trova qui) Nel febbraio 2015 MFA ha infatti scritto di aver individuato su Facebook “Filippo P.”: «Costui è in realtà una donna che partecipò ai noti fatti. Nel timore che io potessi nel futuro chiamarla in correità» cerca di farlo passare per bugiardo. Non che questo possa influire in tribunale, ma certamente può avere un peso nel “tribunale popolare” che da anni alimenta e tiene vivo il caso Orlandi. Effettivamente tale “Filippo P.” mostra un acceso risentimento verso MFA, così come dimostra di conoscere molto bene il suo passato e anche i fatti di cui si parla, spesso accusandolo di essere un fascista -al contrario di quanto dice MFA-, ricordando suoi trascorsi biografici. MFA ha risposto a questa accusa scrivendo: «ebbi una relazione per anni con Patrizia D. B., conoscevamo entrambi i rispettivi genitori e a volte dormivamo insieme nelle rispettive abitazioni. Come si concilia che una ragazza di estrema sinistra e sensibile come lei condividesse la sua vita con un fascista tanto pericoloso e delinquente quale il Filippo P. mi definisce?». MFA ritiene che proprio la donna appena citata si nasconda dietro al profilo di “Filippo P.” e lo stesso lo pensano diversi utenti e anche il giornalista Fabrizio Peronaci, che infatti la chiama “Patrizia” e minaccia di pubblicare in un gruppo Facebook la sua fotografia. Se si ritengono vere le supposizioni dei due, la Procura ha verificato che Patrizia D.B., nota come militante di estrema sinistra, ha avuto una relazione con MFA dal 1979 al 1982, storia poi ripresa nel 1983 tanto che la donna venne fermata assieme a lui il 21/12/83 dopo l’investimento di Garramon, avendolo accompagnato a recuperare il furgone. Interrogata recentemente in Procura, si legge che «non ha fornito elementi utili» sul caso Orlandi.

Il giornalista Pino Nicotri ha rivelato tuttavia che Patrizia D. B. avrebbe «demolito il racconto di Fassoni Accetti, ridotto a parto della sua fervida fantasia, con una lunga e dettagliata deposizione al magistrato Giancarlo Capaldo, alla quale hanno fatto seguito alcuni incontri con me». Ma questa “lunga e dettagliata” deposizione non compare, purtroppo, nella sentenza di archiviazione. In particolare negli incontri con Nicotri, Patrizia D. B. ha affermato che la notte in cui vennero arrestati, MFA non sapeva chi fosse il giudice Santiapichi e tanto meno dove abitasse, lo avrebbe appreso soltanto durante l’interrogatorio con il magistrato Domenico Sica, chiamato dai carabinieri perché titolare all’epoca delle inchieste sul terrorismo rosso. Infatti i due sarebbero stati sospettati di essere “brigatisti”. Eppure, oltre a non riuscire a giustificare in modo credibile l’assenza di qualunque rapporto firmato, nemmeno una sola citazione della presenza del magistrato Domenico Sica nel verbale di quella notte, la donna ha sostenuto che l’interrogatorio del magistrato sulla politica e sui brigatisti andò avanti «per quasi due ore chiedendomi anche se conoscevo Severino Santiapichi e il motivo per cui ero andata vicino casa sua». Soltanto verso le 7.30 del mattino «nel ri-raccontare la mia giornata del 20 dicembre, io spontaneamente parlai del furgone guasto dell’Accetti, rottosi nel pomeriggio in pineta», l’attenzione così si spostò sull’investimento di Garramon, trovarono il furgone e arrestarono MFA. Sembra davvero inverosimile che la donna abbia dovuto raccontare più volte il motivo della loro presenza in quella zona, come dice, e soltanto due ore dopo abbia accennato al fatto che erano lì per recuperare il furgone. Eppure non aveva nulla da nascondere dato che, come ha detto, quella notte non sapeva nulla dell’incidente provocato da MFA. Allora perché non parlare subito dell’unico motivo per cui era nella zona, ovvero il semplice e innocente recupero del furgone del suo compagno a causa di un guasto al motore? “Filippo P.” ci ha comunicato che Patrizia D.B. parlò soltanto dopo due ore del furgone «perché inizialmente il Marco Accetti le aveva “consigliato di mentire” per affrettare i tempi del fermo data la notte alta, e quindi di evitare di parlare del furgone accidentato e di dire semplicemente che “erano una coppia in cerca di intimità”».

Se sono corretti i sospetti di MFA e Peronaci sulla vera identità di tale Filippo P., bisognerebbe riflettere sul perché Patrizia D.B. (suonatrice di flauto traverso, come Emanuela), legata sicuramente a MFA proprio nel periodo in cui sparì la Orlandi, voglia cercare di screditare in modo così forte e determinato l’attendibilità dell’uomo. Nel fascicolo della Procura si legge: Accetti «ha contratto matrimonio con Eleonora Cecconi il 25 maggio 1982 dalla quale si è separato di fatto nell’estate 1983; dal 1979 fino al giorno del matrimonio con la Cecconi ha intrattenuto una relazione con Patrizia D.B., relazione che poi è proseguita dopo la separazione dalla Cecconi, tanto che si trovava in sua compagnia in occasione dell’arresto per l’investimento di José Garramon. Che MFA e Patrizia D.B. fossero in ottimi rapporti nel periodo dell’incidente nella pineta è la stessa donna a dichiararlo nel primo interrogatorio in qualità di testimone: «Escludo nel modo più assoluto che Marco abbia tendenze omosessuali, lui ha sempre avuto molto successo con le donne. Io gli sono particolarmente affezionata. Siamo riusciti a mettere una pietra sulla sua esperienza matrimoniale e siamo tornati a stare insieme, anche se come amici, non come amanti» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Patrizia D.B. cercò dunque di allontanare da lui i sospetti di pedofilia verso Garramon, una testimonianza che produrrebbe soltanto una persona in buoni rapporti. E che lo rimasero, almeno fino al novembre 1983, è dimostrato da un altro fatto: agli atti compare di nuovo il nome di Patrizia D.B. come la ragazza che, assieme a Accetti, fermò Stefano Coccia: «Ennesima menzogna», afferma MFA, «fui io a fare quel nome perché non potevo dire chi fosse la ragazza bionda, e nominai la Patrizia perché già era comparsa nell’inchiesta, ripromettendomi in un secondo tempo, nel caso, di ritrattare». Dunque Accetti fa il nome di Patrizia D.B. per coprire la bionda Ulrike, eppure non esiste alcuna querela per calunnia da parte di Patrizia D.B. nei suoi confronti. Erano dunque d’accordo? (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).

Come è stato fatto notare da alcuni membri del gruppo Facebook in cui è comparso tale “Filippo P.”, l’utente è molto preoccupato che non venga fatto il nome di PDB mentre è meno preoccupato di se stesso. Eppure se si digita “Filippo Picchetti” su Google, compare l’articolo di Accetti in cui Picchetti viene accusato di non essere un profilo reale ma di nascondere il complice di un rapimento. Certamente PDB avrebbe tutto l’interesse per querelare per diffamazione Marco Fassoni Accetti, ma anche Picchetti dovrebbe farlo poiché c’è una chiara lesione del suo diritto di onore e reputazione. Eppure non lo ha mai fatto, aumentando i sospetti verso la sua vera identità. Il 24/03/16 ha tuttavia sostenuto di aver querelato Accetti, ma quest’ultimo ha smentito e infatti Picchetti non ha mostrato la copia della presunta denuncia. Il fatto che tale Filippo Picchetti non abbia mai agito in sede legale contro Marco Accetti certamente è un elemento che rafforza i sospetti che si tratti di un profilo falso, così come lo stesso Accetti ha più volte ribadito.


 

Il teschio e le lettere del 2012-2013.

Tre mesi prima della comparsa di MFA, il 21 dicembre 2012 sul colonnato di San Pietro a Roma è stato rinvenuto un teschio, mentre pochi giorni dopo la sua comparsa, Raffaella Monzi e Antonietta Gregori hanno ricevuto una lettera anonima contenente una minaccia: “Non cantino le due belle more per non apparire come la baronessa e come il ventuno di gennaio martirio di S. Agnese con biondi capelli nella vigna del Signore”. I riferimenti sono alla baronessa de Rothschild e a Caterina Skerl, entrambe persone che MFA ha collegato nelle sue deposizioni con il caso Orlandi (facendo notare che il telgramma arrivato alla baronessa, seppur già scomparsa, era firmato Roland, anagramma di Orlandi, e che a Grottaferrata, luogo di morte della Skerl il 21/01/83, aveva sede l’associazione Pro Fratribus di monsignor Hnilica, anticomunista, attiva nel finanziamento a Solidarnosc). C’è anche la foto di un teschio umano con la scritta “Eleonora De Bernardi, Morta in Campagna, Lì 23 agosto 1854”, stesso nome della ex moglie di MFA, Eleonora C, che Accetti ha indicato come colei che spediva le lettere da Boston (dove si recò effettivamente in quel periodo a trovare il fratello, cfr. Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Il teschio è custodito (e fotografato) nei sotterranei di Santa Maria dell’Orazione e Morte, in via Giulia. Accetti ci ha riferito che è la stessa via in cui avrebbe abitato proprio Eleonora (cfr. telefonata del gennaio 2016). I magistati hanno concluso che l’autore delle lettere è lo stesso che ha lasciato il teschio a San Pietro. E’ stato lo stesso MFA per prepararsi la scena? Lui ha negato, sospettando che a scriverle potrebbe essere state spedite dalla persona che lo ha minacciato nel 1998 -a causa di questo fatto MFA ha imitato Benigni sulla Rai chiamandosi Alì Estermann-, riconducibile agli ambienti di monsignor Bruno della diocesi di New York, il quale cercherebbe di imitare il suo modo di parlare, «forse è sempre lui ad aver scritto le due lettere anonime che minacciavano le ragazze testimoni, lettere che riconducono ai codici da noi adottati negli anni ‘80 ed al mio stilema fotografico».

Effettivamente è inverosimile che MFA abbia voluto davvero preannunciarsi in modo tanto plateale per accreditarsi come testimone credibile, guarda caso proprio due giorni prima la sua apparizione, facendo credere che vi sia qualcuno intimorito dalle sue rivelazioni tanto da intimare “le due belle more” a non parlare. Un’idea controproducente, se fosse lui l’autore: un mitomane ossessionato dal caso Orlandi fin dal 1983 (testimoniato dai familiari), aspetterebbe 30 anni nell’anonimato costruendo un’intricata ma comunque verosimile storia (tant’è che non è stato subito liquidato dai magistrati, che hanno impiegato diverso tempo a studiare le sue rivelazioni senza però mai arrivare ad accertarle, anche a causa della mancanza di altri testimoni) per poi apparire nel 2013, cadendo nella colossale ingenuità di farsi anticipare due giorni prima dalle lettere e, tre mesi prima, da un teschio. Oltretutto, ci ha fatto notare proprio lui: «Nel 2013 qualcuno ha lasciato un altro teschio sotto il colonnato di San Pietro, un mese prima che io mi presentassi [in realtà si tratta del 21/12/12, tre mesi prima, nda], un luogo altamente monitorato dalle telecamere. Loro [gli inquirenti, nda] hanno quindi l’immagine di chi ha deposto quel fardello e non se n’è mai saputo niente. Colui che ha posto il teschio certamente sa delle due lettere. C’è un’omissione, una copertura» (telefonata del gennaio 2016). Se non è stato Accetti a lasciare teschio e lettere, come effettivamente sembra, esiste allora qualcuno che teme il suo racconto e intima ai testimoni di non parlare? Perché questo qualcuno cita tutti gli elementi chiave (sottoforma di codice, nello stile della fazione di Accetti) del racconto che farà Accetti di lì a poco? La morte della baronessa e della Skerl; la testimone Eleonora (citando il suo nome e fotografando il teschio posizionato nella stessa via in cui lei viveva, almeno secondo quanto ci ha riferito Accetti); la parola “fiume” cioè l’Avon; via Frattina cioè la camicia della Skerl; il numero 4 che spesso ritorna nei codici verso Agca (seppur non lo abbiamo ritenuto significativo), il 4 dicembre 1979 fu la data dell’uccisione da parte delle forze armate saudite degli assaltatori della Mecca; l’Amerikano attraverso la citazione degli spartiti fatti da lui ritrovare; la foto con l’attentato al Papa, elemento centrale per Accetti. Se non è stato Accetti, è possibile che l’autore abbia reso pubblici gli elementi chiave della ricostruzione che avrebbe fatto Accetti di lì a poco, tentando così di far credere che sia stato proprio il supertestimone a scrivere le lettere, per rendersi credibile? Un modo dunque per screditarlo?

Una cosa non è comunque chiara: il teschio fatto ritrovare a San Pietro il 21 dicembre 2012, è stato posizionato presumibilmente nella notte tra il 20 e il 21, esattamente come lui nella notte tra il 20 e il 21 dicembre 1983 ha investito Garramon ed è stato arrestato. Tuttavia, Accetti, ha sempre dichiarato di essersi deciso a presentare soltanto nel marzo 2013, dopo l’elezione pontificia del non curiale Papa Francesco. Il presunto minacciatore come faceva a sapere che Accetti si sarebbe presentato nel marzo 2013? Nessuno poteva sospettare che Benedetto XVI avrebbe rinunciato al ministero petrino nel febbraio. E’ stata una coincidenza? Accetti voleva già presentarsi, anche prima del cambio di pontefice, e il minacciatore ne è venuto a conoscenza? Oppure, ipotesi inquientante, l’autore del gesto sapeva che Accetti era pronto a presentarsi già nel 2005 se non fosse stato eletto un pontefice curiale, è poi venuto a conoscenza delle intenzioni di Benedetto XVI di “dimettersi” di lì a poco (segreto pontificio rivelato soltanto a tre persone) e ha minacciato Accetti preventivamente, temendo l’elezione di un pontefice non curiale nel conseguente conclave? In ogni caso, alla fine del ragionamento, riteniamo che la comparsa di quelle lettere sia una prova a suo favore.


 

Il camper.

In più occasione Marco Accetti ha sostenuto che Emanuela, dopo il finto sequestro, sarebbe stata spostata da un luogo all’altro e ospitata a bordo di un camper in varie aree di Roma.

«Il camper per noi era un elemento strategico, ci consentiva di agire senza destare sospetti», ha dichiarato615in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014.

La targa del camper sarebbe stata «riferibile alla Germania occidentale e a bordo due tedeschi, muniti di falsi passaporti degli Stati Uniti»616in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 135, 136. Una dei due tedeschi era la ragazza bionda della Stasi, nome in codice Ulrike.

Al momento non c’è modo di provarlo, tuttavia c’è un dettaglio a favore di questa tesi di cui nessuno ha mai parlato (siamo i primi a farlo).

Nella relazione della polizia scientifica del 30/07/1983 sull’audiocassetta fatta ritrovare dai presunti sequestratori con le (presunte) sevizie rivolte ad una donna da parte di tre uomini, verranno analizzati in maniera dettagliata i rumori di sottofondo.

All’inizio dell’audio i periti della polizia percepiscono il rumore di un motore di un’auto Diesel nelle vicinanze oppure, affermano, tale rumore d’auto si troverebbe già nella ripresa cinematografica «perché effettuata in un camper con motore diesel».

Ritennero questa seconda ipotesi la più probabile rispetto alla registrazione dell’audio nella stanza di un’abitazione, in quanto «dopo l’accelerazione dell’auto vi è il rumore di un oggetto che cade, dovuto allo spostamento del camper (o roulotte)». Un’altra prova fornita è l’assenza di rumori di passi.

Accetti ha letto questo dettaglio di questa relazione e l’ha usato per inserire il camper nel suo racconto inventato? Non si può escludere, tuttavia il reo-confesso dopo la sua comparsa raramente ha parlato dell’audiocassetta e mai ha citato questo particolare di questa relazione per rispondere alle tante richieste da parte degli inquirenti e dei giornalisti di comprovare la sua testimonianza.

E’ un dettaglio apparentemente così insignificante che nessun giornalista o studioso del caso Orlandi se n’è mai accorto fino ad oggi, oltre a noi. Lo riteniamo per questo un punto a favore dell’autenticità delle parole di Accetti.

Una nota relativa a questa audiocassetta è contenuta nelle parole di Accetti, il quale riferì che la voce di un prelato vicino a Marcinkus fu registrata e inserita nell’audio come “montaggio” con la voce della Orlandi. Tuttavia, la voce del monsignore, montata ad arte, sarebbe stata esclusa dalla copia resa pubblica alla stampa ed inquirenti italiani, mentre la copia originale sarebbe stata usata esclusivamente per pressioni “interne”617M. Accetti, Memoriale, 2014.

 

I PUNTI DEBOLI DELLA TESI DI MARCO FASSONI ACCETTI


 

Le conclusioni della Procura di Roma.

Il 30 settembre 2015 la Procura ha archiviato il caso sentenziando che il racconto di Accetti sarebbe «frutto di un lavoro di sceneggiatura scaturito dallo studio attento di atti e informazioni scaturite negli anni da parte di un soggetto con spiccate smanie di protagonismo»618G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 51.

I magistrati ritennero infatti che Accetti avrebbe consultato ed esaminato in maniera puntuale e dettagliata le carte del caso Orlandi e le pubblicazioni esistenti sull’argomento, risultando preciso nella descrizione degli elementi oggetto di pubblicazioni e decisamente più vago rispetto a ciò che non è mai emerso pubblicamente.


 

Rimorsi di coscienza.

Nella sua ricostruzione Accetti, seppur facendo pochi nomi, coinvolge decine e decine di persone, tra ecclesiastici, arcivescovi, faccendieri, ex 007 deviati, monaci, sacerdoti lituani (vicini a mons. Bačkis) e francesi, membri laici della giunta del Governatorato, vicini al defunto marchese Sacchetti, una serie di ragazze, italiane e non, amiche e compagne di scuola delle scomparse, le fidanzate del supertestimone, l’ex compagno di classe di Accetti del San Giuseppe De Merode, figlio di un diplomatico in cordiali rapporti con monsignor Silvestrini (che avrebbe messo a disposizione un appartamento in pieno centro dove incontrare Agca alla vigilia dell’attentato), la bionda Ulrike fiancheggiatrice della Stasi, il ragazzo svizzero con cui si sarebbe allontanata Mirella, l’infiltrato nella redazione de “Il Tempo” ribattezzato Ecce Homo, le guardie penitenziarie corrotte che mandavano messaggi ad Agca, qualche esponente della Magliana, l’idealista turco che avrebbe incontrato Mirella ed Emanuela il giorno della scomparsa, la guardarobiera di Palazzo Barberini, pagata dalla sua fazione ecc. Di molti personaggi Accetti ha descritto abitudini, ruoli, fatti biografici dunque loro si sono riconosciuti, ma noi non possiamo riconoscerli. Molti sono morti, altri sono in vita. La maggior parte non sarebbe accusata di nulla, non ha commesso reati gravi e potrebbe solo confermare parti del racconto, quelle che lo riguardano. Sarebbe un piccolo contributo di verità.

Eppure, tra tutti essi, nessuno/a -a parte lui- leggendo le rivelazioni di Accetti, riconoscendo l’utilità del suo piccolo o grande ruolo all’interno di un complesso scenario di pressioni e ricatti, ha avuto un rimorso di coscienza, -come mai lo ha avuto in questi trent’anni-, decidendo di autodenunciarsi o, semplicemente, corroborando i racconti di Accetti, impietosendosi davanti alle famiglie delle giovani che sono rimaste vittime di questo ganglio occulto. Parlando delle amiche e delle sodali di Accetti, l’uomo ci ha criticato: «Voi scrivete che poiché queste donne, oggi, poiché sono madri di famiglia non malavitose dovrebbero sentire ancor di più la voce della coscienza. E’ invece vero il contrario: la donna di cinquant’anni, madre di famiglia con figli, non va ad esporsi facendo sapere che quando aveva 18-20 anni partecipò alla scomparsa di due ragazze, mettendo a repentaglio i figli e il loro futuro. Il vostro è un parallogismo terribile» (telefonata del gennaio 2016). L’obiezione è valida, è un altro punto di vista. Rimane da spiegare il mancato rimorso di coscienza di tutte le altre persone, sopratutto quelle che hanno avuto ruoli minori, assolutamente secondari e limitatissimi nel tempo. Sono sottoposti a minacce? Al “non cantino le belle more”? Perché allora MFA non ha avuto paura? A lui non è accaduto nulla, eppure non è certo introvabile.


 

Porta Sant’Anna.

In tutto il racconto di Marco Accetti ci sono alcuni elementi assolutamente poco credibili che minano l’autenticità delle sue parole.

Il primo tra questi è il fatto che dopo essere stata prelevata dal Senato, Emanuela assieme a una sua compagna sarebbero state portate su un’auto di lusso davanti a Porta Sant’Anna e la stessa Orlandi sarebbe entrata all’interno per recarsi al cortile Sisto V e chiedendo a quante più persone possibili dove rintracciare un certo ecclesiastico vicino a mons. Marcinkus.

Se davvero fosse accaduto è impossibile che nessuno l’abbia vista, lo stesso Pietro Orlandi ha giustamente osservato: «Bisogna passare davanti alle guardie svizzere, poi alla parrocchia di Sant’Anna, salire la scala e arrivare in cima, all’ingresso dello Ior, dove la sua presenza sarebbe stata notata. È matematicamente impossibile che in un paesetto come il Vaticano nessuno l’abbia vista».

La sensazione è che l’episodio non sia vero e Accetti l’abbia inserito nel racconto per giustificare le parole riferite dal card. Silvio Oddi nel 1993, quando raccontò di aver visto entrare in Vaticano Emanuela Orlandi a bordo di un’auto di lusso: «L’ho vista andare a casa, tornare e risalire in automobile…»619citato in P. Orlandi, Mia sorella Emanuela, p. 282. Successivamente il prelato smentì: «Erano chiacchiere ascoltate per strada, da qualcuno che parlava della scomparsa di Emanuela Orlandi, come in quei giorni facevano un po’ tutti dalle parti di San Pietro».

Se il fatto fosse vero avrebbe certamente generato decine di testimoni, anche perché proprio quello sarebbe stato lo scopo. Sorprende che Accetti abbia potuto inserire nel suo elaboratissimo racconto un elemento così oggettivamente e palesemente impossibile.


 

La lettera di Alessia Rosati.

Nel descrivere le vicende legate alla scomparsa di Alessia Rosati, Accetti ha sostenuto che, dopo la sua scomparsa, a scrivere all’amica Claudia sarebbero stati i rapitori: «Ho sempre pensato che i responsabili di tale scomparsa abbiano scelto come destinataria della lettera proprio tale amica, per farci comprendere che sapevano di quel nostro primo incontro»620M. Accetti, L’esistenza di un’altra Emanuela Orlandi, 22/10/2015.

Poco tempo dopo tale affermazione, in un secondo articolo, Accetti ha sostenuto di aver invitato lui la Rosati ad inviare tale lettera: «Insieme ad Alessia ed altri, concordammo il suo andarsene di casa, spiegato da una lettera fatta pervenire alla stessa amica che fu presente nel momento in cui non fece ritorno presso la sua famiglia»621M. Accetti, Alessia Rosati giudiziariamente, 09/11/2015.

Si tratta di due versioni incompatibili e su un elemento tutt’altro che marginale. Come può essersi semplicemente confuso o dimenticato? Quella lettera era il fulcro di tutto il presunto finto rapimento.


 

Regista e sceneggiatore.

Le competenze artistiche di Marco Accetti come regista e sceneggiatore, oltre a essere un argomento a favore, possono essere lette anche come punto a suo sfavore in quanto, effettivamente, potrebbe averle sfruttate per “inventare” un racconto abbastanza solido attingendo notizie da articoli, pubblicazioni e atti processuali aggregandovi fantasia, variazioni personali e dati inediti, appositamente inverificabili, proprio per non sembrare semplicemente un forte appassionato del caso.

D’altra parte è stata anche la conclusione della Procura di Roma con l’archiviazione nel 2015622G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, pp. 50, 51: da un canovaccio (articoli e atti processuali) ad un copione.

Certo, l’obiezione non riesce a spiegare l’enorme mole di coincidenze (punto 2 degli argomenti a favore), collegamenti e dati, a volte inediti, portati alla luce da Accetti, tuttavia ciò viene ridimensionato se si tiene conto che l’uomo dal 2008 al 2010 ha frequentato assiduamente, due o tre volte la settimana, la postazione internet della biblioteca di Villa Leopardi, a pochi metri da casa sua, in compagnia della sua collaboratrice, Dany Astro623P. Nicotri, Mistero Orlandi. Silvana Fassoni madre di Marco Accetti: Come si fa a credergli?, BlitzQuotidiano, 05/05/2014.

Occorre anche dire che Accetti ha voluto rispondere a ciò: «E’ un falso che io potessi frequentare quel luogo tanto assiduamente, e se mai esiste un qualunque testimone che possa smentirmi, si presenti in procura come già detto, e lo dichiari. Dimostrerò con le mie testimonianze che frequentavo quel luogo sporadicamente, e non certo tutti i mesi. Consultavo, come ho sempre fatto, vari testi storici di cui avvalermi per le ricostruzioni altrettanto storiche dei miei lavori foto-cinematografici»624M. Accetti, Strategia di Pietro Orlandi, 27/11/2014.

Per quanto riguarda l’uso dei computer, «fui io a dichiarare innanzi a molteplici persone e rivolgendomi proprio al suddetto responsabile della struttura, che ero solito usare anche la postazione internet, allo scopo di avere alcuni contatti con persone, la cui traccia non desideravo restasse presso il mio personale computer»625M. Accetti, Strategia di Pietro Orlandi, 27/11/2014.


 

Parola d’onore.

Marco Accetti non ha mai voluto rivelare i nomi dei suoi complici e delle persone che hanno preso parte della vicenda (in particolare coetanee di Emanuela usate per conquistarne la fiducia e prelati qualificabili come officiali maggiori di seconda classe), limitandosi a fare loro un appello a presentarsi spontaneamente.

Ha giustificato questo comportamento così: «Esistono pochi valori sacri nella vita, e la parola è tra questi. Quando uno l’ha data, anche in tempi remoti, deve mantenerla»626in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 18.

Il non tradire la parola data è certamente una virtù, anche se rivelare nomi e dati concreti significherebbe risarcire -seppur parzialmente- la vita di due ragazze scomparse a causa sua (secondo il suo racconto). Ha contribuito a tradire due (e molte più) vite di innocenti e ora si fa scrupoli a tradire la parola data ai suoi complici (malfattori, oltretutto, poiché complici di un crimine)? Voleva tenerle lontane solo qualche ora? Eppure il gioco diventò un incubo e queste ragazze hanno perso la loro vita, anche per colpa dei suoi piani.

A livello morale non c’è paragone tra il tradire la parola da a complici di un misfatto e mantenere due famiglie (Orlandi e Gregori) schiacciate sotto il macigno della frustrazione per il totale buio sulla sorte delle due ragazze, accrescendo inoltre la loro sofferenza per un uomo che dice di sapere e non vuole parlare per “rispettare la parola data”. Possibile che la parola d’onore “tra gentiluomini” valga più della possibile fine della straziante situazione di tutte queste persone (compresa la madre di Emanuela)?

Infine, la parola data vale forse per i suoi sodali. Non certo per la presunta fazione nemica, quella “conservatrice” e patteggiante per Marcinkus, Gelli, Ortolani, elementi del SISDE e i vari ecclesiastici anticomunisti e filo-americani. Secondo il suo racconto, la fazione nemica avrebbe provocato l’omicidio di José Garramon e lo avrebbe fatto incarcerare e perseguire dalla giustizia. Perché non rivela i loro nomi? Certamente non ha alcuna parola d’onore con loro.


 

Prove materiali e fotografiche.

Pur evitando di fare nomi dei suoi sodali per rispettare la parola data, Marco Accetti potrebbe produrre almeno una delle innumerevoli fotografie che disse di aver scattato, anche senza mostrare persone che vuole evitare di coinvolgere. Ad esempio le fotografie di Emanuela Orlandi mentre entra a Porta Sant’Anna dopo la sparizione o una foto del camper nella pineta di Castel Porziano ecc..

Queste sarebbero prove determinati e non chiamerebbero in causa nessun complice. Ha fatto ritrovare quello che dice essere il flauto di Emanuela, sul quale però è stato impossibile risalire alle tracce di Dna. Potrebbe sapere dove sono i vestiti di Mirella Gregori, che li cambiò nel bagnò dei De Vito il giorno della sparizione?

Accetti a questo ha risposto: «Tenere foto o altro sarebbe stato folle, era materiale compromettente, alla prima perquisizione lo avrebbero trovato. Mi sono liberato di tutto, eccetto il flauto, che ho conservato per usarlo nei miei allestimenti e nascosi in un trovarobe dell’ex stabilimento De Laurentis, in quanto se fosse stato trovato sarebbe stato scambiato per un oggetto di scena»627in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 100.

Sappiamo che non è vero in quanto lui stesso ha sostenuto di aver sotterrato «documenti, atti, carte compromettenti su qualche prelato» in alcune scatole metalliche presso il sito archeologico medievale nei pressi di Santa Maria di Galeria628in F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014, p. 169. E’ impossibile pensare che non abbia tenuto alcuna inedita prova documentale, flauto a parte, di tutta la pluridecennale attività ricattatoria che avrebbe imbastito dagli anni ’70.


 

Sensazione del collage.

Leggendo le lunghe dichiarazioni di Marco Accetti non si può negare ciò che i magistrati hanno concluso. Ovvero la netta sensazione in determinati momento di essere di fronte a un enorme collage, ovvero che l’abile sceneggiatore sia stato in grado di unire i fili di tutte le piste investigative e le notizie di cronaca che sono emerse in questi anni, aggiungendo qua e là numerosi dettagli precisi impossibili da verificare, con lo scopo di dare credibilità al tutto.

Ecco quindi che Accetti ha raccolto nel suo racconto la pista sessale (“una copertura”), quella internazionale (Agca, la Stasi e i bulgari), la Banda della Magliana (De Pedis e i suoi uomini come manovalanza), la testimonianza del card. Oddi (Emanuela rientra in Vaticano), la Bmw verde metallizzato riferita dal vigile Sambuco, il tascapane (azzurro, però) mostrato a Emanuela, i sospetti su Raoul Bonarelli, la Mercedes targata Città del Vaticano di cui ha parlato la Minardi ecc.

Un lavoro enorme, piuttosto improbabile, lo riconosciamo. Ma, d’altra parte, come attestano i suoi familiari, il suo interesse (o “ossessione”) per questo caso a partire dal 1983 (quindi ha avuto 30 anni per assemblare il collage).

Infine, è bizzarro e manicheo gioco delle parti che Accetti attribuisce alle due contrapposte fazioni vaticane. Una sostanzialmente “buona”, la sua, quella “progressista”, che semplicemente avvicinava i vari adolescenti e li fotografava e l’altra, quella “cattiva”, che puntualmente li uccideva. Così sarebbe avvenuto, ad esempio, per José Garramon e Catherine Skerl.


 

L’opinione su di lui dei suoi famigliari.

Secondo la deposizione del padre, Aldo Accetti, e della sorella, Laura Accetti, Accetti sarebbe stato particolarmente colpito dalla sparizione della Orlandi, tanto da essere stato visto scrivere lettere anonime, effettuare telefonate e ritagliare articoli di giornale in merito, giustificandosi dicendo di farlo solo per gioco. I familiari parlano di “ossessione”629G. Giorgianni, Sentenza di archiviazione, Tribunale di Roma, 20/10/2015, p. 47.

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Il padre Aldo, la sorella Laura Accetti e la madre, Silvana Fassoni, hanno ritenuto tutto il racconto frutto della fantasia di Marco.

I famigliari lo avrebbero semplicemente coperto per non farlo condannare? Non si può escludere, tuttavia queste opinioni provennero da intercettazioni di telefonate private ed è davvero poco probabile che i suoi familiari siano stati tutti così abili (e coraggiosi, perché avrebbero dichiarato il falso in Procura) a sapere di essere intercettati e gestire le varie telefonate in modo da non far trapelare la verità, dipingendolo solo come mitomane.

 

 

5.3 Conclusioni sulla pista di Marco Accetti.

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Dopo questa approfondita analisi delle rivelazioni di Marco Accetti, riteniamo errata la volontà della Procura ad archiviare il caso, decisione a cui si è opposto Giancarlo Capaldo, magistrato che ha seguito le indagini e ha interrogato a lungo Accetti, almeno prima di essere estromesso dal caso nel 2015.

Il reo-confesso ha fornito una complessa, stratificata e intricata ricostruzione dei fatti, offrendo collegamenti inediti (ad esempio, in alcun comunicato o atto processuale viene collegata la morte di Paola Diener con il comunicato del 28/10/83 in cui si parlò di una “cittadina soppressa il 5-10-83”).

Pur con tutti i limiti e le contraddizioni del suo racconto, evidenziate nei “punti deboli”, riteniamo che Accetti abbia fornito la pista più verosimile mai emersa finora sulla sparizione di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori.

Liquidare Accetti come una persona semplicemente ossessionata dal caso Orlandi che negli anni ha elaborato tale racconto studiando libri, articoli e carte processuali si scontra con il suo completo silenzio pubblico e mediatico fino al 2013.

Certamente la sua ricostruzione manca di elementi comprovanti, tuttavia la sua biografia personale presenta troppe coincidenze storiche con la vicenda oggetto del suo racconto, tanto da aiutarlo facilmente a smarcarsi dall’accusa rivoltagli dai magistrati e da tutti coloro che lo ritengono un mitomane.

 
 

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7. L’IPOTESI DELLA REGIA UNICA

Ci sono pochi argomenti a sostegno e contro la tesi della regia unica, ovvero l’ipotesi secondo cui dietro a tutto -anche a Marco Fassoni Accetti- vi sia una regia occulta che detta i tempi, che porta inizialmente gli inquirenti e i media verso la pista del terrorismo manovrando e ricattando Alì Agca, il quale collabora e poi improvvisamente farnetica per rendersi inattendibile. Stratifica il depistaggio con sigle e comunicati, con incidenti e morti misteriose. Quando il processo del caso Orlandi-Gregori va verso l’archiviazione (1997), ecco che nel 1995 tenta -seppur senza successo- di aprire il filone della Banda della Magliana con un’informativa sulla tomba di De Pedis nella Basilica di Sant’Apollinare. Nel 1998 avviene la morte misteriosa della guardia svizzera Alois Estermann in Vaticano, nell’aprile 2005 riesce a gettare l’attenzione sul coinvolgimento di De Pedis tramite la sua tomba nella Basilica a fianco della scuola di musica di Emanuela. Nel marzo 2008 fa comparire Sabrina Minardi, “supertestimone” che si autoaccusa di complicità nella sparizione della Orlandi, mischiando secondo il grande copione, racconti verosimili ad altri platealmente sbagliati, rendendosi inattendibile e inaccusabile proprio come fece Agca, ma, tuttavia, portando il caso nuovamente sulle prime pagine dei giornali.

L’attenzione si esaurisce verso la fine del 2012, spegnendosi dopo l’infruttuosa perquisizione della tomba di De Pedis e della Basilica di Sant’Apollinare. Ed ecco all’inizio del 2013 la comparsa di Marco Fassoni Accetti, che riaccende di nuovo i riflettori sul caso con un racconto verosimile e inverosimile, che impedisce di verificare le dichiarazioni fatte portando quindi all’archiviazione del caso nel 2015, dopo due anni di spasmodica attenzione mediatica al caso Orlandi. Anche lui sarebbe una pedina di questa regia occulta (come la Minardi, come Luigi Gastrini e i tanti che in questi anni si sono accusati o hanno accusato qualcuno), che da 30 anni tiene aperto questo caso e tuttavia ne impedisce la soluzione, come se avesse l’interesse ad utilizzarlo come un mezzo di pressione e ricatto. E’ lo stesso MFA infatti a citare l’esistenza di suoi responsabili o superiori a cui obbediva durante i depistaggi post-sparizione: «I vertici, a noi elementi operativi, chiesero quindi di interrompere le pressioni in corso nella pineta…».

Certamente il comportamento di Agca va in questa direzione: perché l’attentatore turco continua a farsi passare come pazzo a distanza di anni dalla fine del processo, anche dopo la sua scarcerazione, anche oggi che non ha più interessi personali da ottenere. Continua ad obbedisce ad una regia nascosta? Se si pensa inoltre alle lettere arrivate a Raffaella Monzi e Maria Antonietta Gregori il 25 marzo 2013, potrebbe essere un messaggio in codice proprio a Marco Fassoni Accetti, invitandolo a presentarsi con il flauto: lo si deduce dal riferimento nella lettera agli spartiti del musicista Hugues, che vennero trovati il 4/09/83 grazie ad una telefonata dell”Amerikano”, il quale li fece trovare in una busta in via Porta Angelica. Su una pagina c’è il riferimento alla basilica di Santa Francesca Romana, dove «il pontefice celebra la Via crucis». Fassoni Accetti racconterà alla Procura che il flauto allora venne nascosto in quella basilica, ma non fu trovato dagli agenti di polizia che vi andarono. Sempre che il racconto corrisponda alla verità, potrebbe essere che l’autore della lettera del 25 marzo 2013 citi gli spartiti di Hugues per alludere al messaggio dell'”Amerikano” del settembre 1983 attraverso il quale si voleva portare alla luce il flauto di Emanuela, indicando a Fassoni Accetti -autore di questo messaggio- il momento adatto per comparire con il flauto? Potrebbe essere che lui abbia obbedito, facendolo trovare sotto una formella della Via crucis -parola citata nel messaggio dell’Amerikano del 04/09/83- utilizzando a sua volta questo particolare come un possibile codice di risposta? Potrebbe essere il teschio di tal “Emanuela De Bernardi”, che compare nel negativo della lettera arrivata il 25/03/13, una forma di minaccia a Emanuela Cecconi, ex moglie di Fassoni Accetti, perché non riferisca notizie che lo coinvolgano con certezza nel caso?

L’uomo che in questi tredici anni ha seguito passo dopo passo le indagini sul caso è Nicola Cavaliere, che all’epoca dei fatti lavorava alla squadra mobile di Roma. Il dirigente di polizia ritiene che questa enorme incertezza sul “caso Orlandi” sia voluta: «Gli organizzatori hanno probabilmente ancora oggi interesse a tirare fuori la vicenda in determinati momenti per tenere sulle corde certi ambienti. Si vuole che qualcuno resti sempre allertato sul caso, nonostante sia passato così tanto tempo». Nell’agosto 2008 Cavaliere dirà che tutti i messaggi e le rivendicazioni accumulatesi nel corso degli anni «ebbi il sospetto che in prevalenza provenissero da uno stesso ambiente, la cui attività sembrava tesa sopratutto ad intralciare il nostro lavoro. Chi non conosce quegli anni, quelle realtà, difficilmente può capire cosa si muovesse dietro le quinte di questa vicenda, quali e quanti fossero gli intrecci e le compromissioni» (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 24)

Ovviamente è una ipotesi assolutamente teorica e inverosimile che tuttavia potrebbe essere avanzata da coloro che sono convinti dell’esistenza di una regia occulta interessata a tenere sotto i riflettori il caso Orlandi-Gregori senza però giungere alla sua soluzione, muovendo i fili attraverso messaggi in codice e apparizioni di personaggi-pedine che si autoaccusano (probabilmente anche loro sotto ricatto o minacce) e che rivelano racconti mischiando parti di verità -utili a rendere il racconto verosimile, minimamente corroborato da piccole prove, ed eventualmente utilizzabile per mandare messaggi e codici a terzi- a elementi che rendano la persona inattendibile, anche a causa dell’impossibilità a dimostrare fino in fondo quanto raccontano. Noi non riteniamo che sia così, tuttavia finché non ci sarà la parola “fine” è bene non perdere di vista nemmeno questa ipotesi, seppur remota e complottista.

Accetti ha letto migliaia di articoli, sentenze e documenti sul caso Orlandi, sull’attentato al Papa e su tutti i filoni paralleli di cui ha parlato (Alessia Rosati, Katy Skerl, la baronessa Rotschild ecc.) per poi impadronirsene e inventare il racconto delle fazioni vaticane, porsi al centro di esso e autodenunciarsi alla Procura?

Sarebbe un comportamento a dir poco patologico e, pur ci sia a volte la sensazione che possa aver preso spunto dagli atti e da vari articoli giornalistici sui diversi casi, bisogna considerare una cosa importante. Noi stessi abbiamo cercato di documentarci su tutto questo per la redazione di questo dossier, l’indagine è stata svolta in equipe, abbiamo impiegato moltissimo tempo e lo abbiamo fatto in un contesto storico totalmente digitalizzato.

Accetti, invece, avrebbe dovuto studiarsi da solo migliaia di pagine a vari gradi di attendibilità, cercando elementi a lui utili per creare un racconto infinitamente complesso, all’interno del quale collegare creativamente tra loro i vari dettagli (codici, luoghi ecc.) e, con capacità logiche fuori dal normale, trasformare a proprio vantaggio centinaia di particolari appartenenti a vari casi di cui ha parlato. Il tutto non essendo un nativo digitale e in un’epoca molto meno informatizzata rispetto ad oggi.

Possiamo assicurare che è quasi impossibile studiare tutte le fonti dei casi contenuti all’interno del racconto di Accetti e, anche ammettendo che il reo-confesso abbia effettivamente potuto farlo, ci sarebbe sempre stata la possibilità di un fatale errore, di aver tralasciato una o più fonti che lo avrebbe platealmente smentito. Nemmeno un ricercatore universitario o un cosiddetto “topo d’archivio” riuscirebbe a inventare un racconto tanto originale, tanto stratificato e così complesso studiando migliaia di carte e inglobandole genialmente in un racconto totalmente inedito.

Tutto questo, inoltre, avendo anche la “fortuna” di avere un timbro di voce sovrapponibile a quello di due telefonisti e tutti i dati biografici di cui abbiamo parlato.

PISTA DELL’ALLONTANAMENTO VOLONTARIOI

 

1) Cinismo.

Per chi sostiene l’allontanamento volontario delle ragazze, pur con l’inganno, dovrebbe spiegare come hanno potuto restare lontane da casa, osservare indifferenti la sofferenza della famiglia, ignorare gli innumerevoli e strazianti appelli, apprendere dai media la morte dei genitori (il padre di Emanuela e la madre di Mirella) senza mai dare una minima notizia.

Si sarebbero spaventate nel veder catapultata la loro “scappatella” in mondovisione? Può essere vero nel primo periodo, ma questo non giustifica la lunga lontananza. Non ci sono elementi per ritenere che Emanuela e Mirella fossero un mostro di insensibilità e nulla accadde all’interno delle loro famiglie per giustificare l’assenza trentennale.

Non regge l’ipotesi che siano rimaste lontane da casa per lungo tempo in maniera volontaria.

 

2) Il lungo periodo di assenza.

E’ possibile che la loro lunga assenza sia dovuta al ricatto, magari con la minaccia di colpire i familiari in caso di loro ritorno?

Anche in questo caso è possibile sostenerlo nel primo periodo ma è poco credibile che entrambe le giovani, oggi donne adulte, non siano mai riuscite in oltre trent’anni a mettersi in contatto in maniera nascosta con qualche amico, parente o giornalista. La cronaca riporta talvolta casi di totale segregazione durata anche diversi anni ma sono casi rarissimi in Italia e bisognerebbe sostenerli per due persone sparite nello stesso periodo di tempo.

Anche in questo caso non regge l’ipotesi che nel lungo periodo siano rimaste lontane da casa per paura di ricatti o minacce.

 
 

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8. CONCLUSIONI

E’ difficile tirare conclusioni di fronte allo scenario descritto in questo dossier. Il maggior problema che è emerso è che tutte le ipotesi principali, come si è visto, hanno abbastanza luce da non poter essere messe da parte e abbastanza buio da non poter essere avvalorate con certezza. Parliamo della (1) ipotesi dell’allontamento volontario seguito da una probabile morte delle ragazze, probabilmente legata al successivo inserimento di elementi esterni, autori del depistaggio, intenzionati a sfruttare il caso e intenzionati affinché a Emanuela e Mirella accadesse davvero qualcosa perché rimanessero lontane da casa. Non può essere esclusa l’ipotesi (2) della Banda della Magliana, interessata a ricattare il Vaticano per recuperare il denaro investito nel Banco Ambrosiano (che escluderebbe però Mirella Gregori), più interessante (3) l’ipotesi della “pista internazionale”, legata alla ostpolitik vaticana e all’intervento dei servizi segreti dell’Est affinché Agca ritrattasse le accuse di complicità dell’attentato verso i bulgari./p>

Abbiamo dato ampio spazio sopratutto (4) alla tesi di Marco Fassoni Accetti che ha in qualche modo riunito tutte e tre le precedenti tesi: allontanamento volontario, seppur sotto inganno, delle ragazze -la cui sorte è sconosciuta anche a lui stesso-, con la complicità degli uomini di De Pedis a causa di interessi comuni (lo Ior), il cui obiettivo principale era la ritrattazione di Agca e la politica estera del Vaticano verso i Paesi comunisti. Quest’ultima, come si è capito leggendo il dossier, per tutti i motivi che abbiamo presentato la riteniamo l’ipotesi più verosimile in quanto il racconto organico dell’uomo riesce effettivamente a resistere ai “punti deboli” che, comunque, non mancano nemmeno alla sua ricostruzione. Per ultimo non ci sentiamo nemmeno di escludere (5) l’ipotesi della “regia unica”, sopratutto osservando la puntualità della comparsa di tesi e supertestimoni proprio nel momento in cui il caso Orlandi perdeva di attenzione mediatica.

Questo dossier rimarrà in continuo aggiornamento e seguirà l’evolversi della vicenda e la comparsa di nuove rivelazioni o precisazioni su quanto sopra esposto. Nell’augurio comune che si raggiunga una definitiva verità, qualunque verità sia, su questo caso che da trent’anni addolora i familiari di Emanuela e Mirella e sconcerta chiunque provi ad approfondirlo.

 

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