Emanuela Orlandi: analisi dettagliata di tutte le piste investigative
Quali sono le ipotesi maggiormente accreditate per spiegare il caso Orlandi, la sparizione della giovane cittadina vaticana, divenuto oggi un “cold case” italiano. Dal ruolo del Vaticano alla Banda della Magliana, da De Pedis ai “supertestimoni”, fino alla controversa rivelazione di Marco Fassoni Accetti. In questo dossier l’analisi delle varie piste d’indagine..
Il caso di Emanuela Orlandi è uno dei più grandi misteri italiani, una cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno 1983 di cui non si sa più nulla. Una delle tante sparizioni che purtroppo avvengono ogni anno, ma si tratta dell’unico caso caratterizzato da una fitta rete di rivendicazioni di presunti rapitori attraverso telefonate e comunicazioni anonime, ritrovamenti di oggetti ed effetti personali di Emanuela -ma mai una prova certa e indubitabile della sua detenzione-, contenenti minacce incrociate tra diversi autori delle missive, richieste assurde ma, allo stesso tempo, anche dettagli effettivamente precisi sulla ragazza. Il tutto in mezzo a chiari depistaggi, altre ragazze morte o scomparse in circostanze misteriose nello stesso arco temporale, inserimento di sciacalli in cerca di vantaggi personali (visibilità mediatica, vendita libri ecc.) e super testimoni dei fatti che si sono auto-accusati avanzando responsabilità personali. Un “grande teatro” che prosegue senza soluzione di continuità da oltre trent’anni.
Due volte archiviata dalla Procura (1997 e 2015), la vicenda ha sofferto anche della inadempienza degli organi giudiziari e investigativi durante questi anni e dall’invadente e morbosa presenza dell’opinione pubblica e della stampa. Legata da sempre (o almeno dall’agosto 1983) a quella di Emanuela c’è la vicenda di Mirella Gregori, cittadina italiana, alla quale è sempre stata data purtroppo meno attenzione. Le due donne sono vive? Perché sono sparite? Cosa giustifica l’enorme depistaggio che ne è seguito? Gli interrogativi sono molti e in questo dossier -che rimarrà in continuo aggiornamento- parleremo di tutto ciò, analizzando tutte le tesi e ipotesi principali che sono state avanzate in questi trent’anni. Tutte con abbastanza punti forti e altrettanti punti deboli, un’altra caratteristica incredibile di questa misteriosa vicenda.
Questo dossier segue uno precedente sul caso Orlandi, già pubblicato, in cui abbiamo esposto una approfondita cronologia dei fatti.
1. Aspetti controversi
— a) Le amiche
— b) I testimoni oculari
— c) Il ruolo di Giulio Gangi e del Sisde
— d) L’avv. Gennaro Egidio
— e) La zia Anna Orlandi
— f) I telefonisti Pierluigi, Mario e l’Amerikano
— g) Gli appelli di Giovanni Paolo II
— h) Il ruolo del Vaticano
2. La pista della sparizione strumentalizzata
4. La pista della Banda della Magliana
6. La tesi di Marco Fassoni Accetti
— a) Punti forti
— b) Punti deboli
7. L’ipotesi della regia unica
8. Conclusioni
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1. ASPETTI CONTROVERSI
a) LE AMICHE
Nella vicenda di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori compaiono tre amiche sulle quali non si è mai riuscita a fare vera luce: si tratta di Raffaella Monzi (compagna di Emanuela), Sonia De Vito (amica di Mirella) e una terza ragazza, che sarebbe stata vista accanto a Emanuela prima della sua sparizione.
Le amiche di Emanuela. Dalla sentenza istruttoria del giudice Adele Rando del 12/12/1997, nella deposizione di Natalina Orlandi del 23/6/83 e dalla testimonianza di Raffaella Monzi, sappiamo che il 22/6/83 quest’ultima, finita la lezione di musica all’Istituto da Victoria, è salita sull’autobus 70 vedendo Emanuela avvicinata da una ragazza dai capelli ricci. Sempre la Monzi, nell’interrogatorio del 9/07/83 alla sezione omicidi di Roma, affermò che Emanuela le disse che non poteva prendere l’autobus perché «ho un appuntamento per lavoro, devo incontrare una persona […] [E’] un lavoro da fare solo dalle 16 alle ore 18:30 e per una volta». A quel punto era sopraggiunta un’altra loro amica e compagna, Maria Grazia Casini, con la quale aveva preso l’autobus n°70, salutando Emanuela. Il 28/07/83 davanti al pubblico ministero Domenico Sica, la Monzi ha affermato di essere uscita dalla scuola assieme ad Emanuela, «ricordo che Emanuela corse per le scale mentre io mi trattenni a parlare con altre compagne. Ritrovai poi Emanuela e parlammo un po’. La ragazza mi disse (aveva visto giungere l’autobus 26): “che faccio, lo prendo o no?”. Ciò in riferimento al fatto che avrebbe dovuto percorrere solo una fermata, per andare a prendere l’autobus 64 diretto al Vaticano. Le risposi: “fai un po’ te!”. Allora Emanuela aggiunse: “sai, perché ho trovato un lavoro”, e poi di seguito: “si tratta di distribuire volantini dell’Avon (società di vendita di cosmetici) per due ore». La Monzi ha anche aggiunto che a Emanuela «l’offerta di lavoro per la Avon le era stata fatta mentre era in compagnia di un’amica».
In un’intervista del 1993 ha dichiarato: «La lezione era finita, ci incamminammo in gruppo verso l’uscita della scuola. Per raggiungere la fermata dell’autobus si doveva fare un pezzetto a piedi. Non so come, quel tratto di strada mi ritrovai a percorrerlo assieme con Emanuela. Sono passati dieci anni e non so più bene di cosa parlammo lungo il cammino. Stranamente, rammento ancora perfettamente come era vestita Emanuela: una maglietta bianca, i jeans e sulle spalle aveva uno zaino di cuoio. Dentro c’era il flauto. Emanuela mentre aspettavamo il bus mi fece quello strano discorso su cui poi tanto ha insistito la polizia. Mi disse, cioè, che poche ore prima mentre veniva a scuola, era stata avvicinata da un tale, un uomo, il quale le aveva offerto un lavoro. Le avrebbero dato 375mila lire al mese, per distribuire voltanini o qualcosa del genere. Insomma, mi chiedeva un consiglio. Non sapeva se accettare, era in dubbio […]. Dopo un po’, poiché l’autobus 70 non arrivava, Emanuela disse: “Che dici? Vado in largo Argentina a prendere il 64?” […]. Poi, il 70 è arrivò. Ma era strapieno. Salii sul predellino. Sentii Emanuela, dietro di me, dire: “Aspetto il prossimo”».
Il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi, ci ha comunque comunicato nel febbraio 2016 che la Monzi «non fu sempre molto chiara. Alla Monzi, Emanuela disse che era indecisa se aspettare, non l’autobus, ma l’uomo dell’Avon per dargli una risposta visto che lui le aveva detto che l’avrebbe aspettata all’uscita per sapere quale era stata la risposta dei genitori nell’accettare o meno il lavoro. Emanuela arrivò alla fermata non per prendere l’autobus (quella è ormai una delle tante leggende un questa vicenda), ma perché lì avvenne l’incontro con l’uomo e lei tornò li perché, forse, non vedendolo fuori dalla scuola pensò di recarsi nel posto dove l’aveva incontrato». Questo significa che la Monzi nella deposizione del 9/07/83 e nell”intervista del 1993 ha cambiato completamente versione, inventandosi un dialogo con Emanuela sull’autobus da prendere? Certamente la versione descritta da Pietro Orlandi, al contrario di quella della Monzi del 1993, è coincidente con le testimonianze del 13/07/83 e del 28/07/83 di Maria Grazia Casini, un’altra studentessa della scuola, la quale (il 13/07) ha riferito della presenza di una ragazza bassina, con i capelli corti e ricci, vicino ad Emanuela alla fermata dell’autobus: «L’ultima volta che ho visto Emanuela è stata il 22 giugno alle ore 19 all’uscita dalla scuola Ludovico da Victoria. Emanuela era ferma con una sua amica ad una fermata dell’autobus 70. Quando è arrivato il 70 io sono salita mentre Emanuela e l’amica sono rimaste ferme dove si trovavano […]. Sembrava che le due ragazze fossero in attesa di qualcuno, l’atteggiamento di Emanuela era molto teso» (testimonianza di Maria Grazia Casini al Reparto operativo dei carabinieri di Roma, 13 luglio 1983). L’amica citata potrebbe essere la Monzi? No, perché nell’interrogatorio del 28/07/83 riferì di essere uscita dalla scuola assieme ai compagni Tina Vasaduro e Maurizio Cappellari, ai quali si aggiunse anche la Monzi (che quindi la Casini ben conosceva), aveva poi visto Emaneula alla fermata del 70 assieme ad un’altra ragazza, di cui non ricordava il nome, ma che «frequentava la scuola di musica. Questa ragazza ha circa quindici anni, è poco più bassa di Emanuela, con i capelli corti, ricci e di colore nero […]. Emanuela era impaziente, in attesa dell’arrivo di una persona o di un mezzo pubblico, tanto che rispose distrattamente al saluto della Casini» (testimonianza di Maria Grazia Casini al Reparto operativo dei carabinieri di Roma, 28 luglio 1983). La sera del 22/06/83 Federica Orlandi parlò al telefono con Maria Grazia Casini, la quale le conferò che Emanuela era con una ragazza al momento in cui si erano salutate (testimonianza di Federica Orlandi al Reparto operativo dei carabinieri di Roma, 29 luglio 1983).
Si evince che le due testimonianze (più la telefonata alla sorella di Emanuela) di Maria Grazia Casini sono coerenti e si allineano alla versione fornita da Pietro Orlandi. Al contrario, risultano discordanti con la testimonianza di Raffaella Monzi la quale ha riferito invece di aver accompagnato lei Emanuela alla fermata dell’autobus, citando anche l’intenzione di Emanuela di voler prendere il mezzo pubblico, senza citare la presenza a quella fermata di un’amica dai capelli ricci. Chi racconta il vero? La Casini o la Monzi? Indubbiamente entrambe citano una terza amica. La quale addirittura diventa dai capelli rossi, secondo Rita di Giovacchino: «La donna dai capelli rossi sarebbe uscita da un negozietto all’angolo di via de’ canastrari in cui si vendeva antiquariato e strumenti musicali, Emanuela si fermava spesso a quella vetrina. Il piccolo emporio aveva accesso a un cortile retrostante dove potevano essere parcheggiate un paio di macchine. Al tempo era intestato a un’impresa di cui era socio maggioritario un personaggio legato alla Banda della Magliana, condannato anni dopo a quattro anni e otto mesi nell’ambito del processo sul crack dell’Ambrosiano» (“Storie di alti prelati e gangster romani” pag. 16,17). Affermazioni, tuttavia, prive di riscontri.
Suor Dolores, la direttrice dell’istituto, svegliata la notte dal padre Ercole, telefonò a tutte le allieve e ritenne che la persona descritta dalla Monzi vicina a Emanuela quella sera fosse Laura Casagrande, ma questa ha negato la sua presenza. Nel pomeriggio si sarebbero comunque scambiate il numero di telefono perché il 29/6 avrebbero dovuto partecipare assieme ad un concerto (l’8 luglio 1983 i presunti rapitori telefoneranno a casa sua dicendo di aver avuto il numero da Emanuela). Né lei né Raffaella Monzi, dopo quel giorno, frequentarono più la scuola di musica. La Monzi nel tempo ha ricevuto strani messaggi e telefonate minatorie, ha raccontato: «cominciarono le telefonate anonime. Ne arrivarono tante, tantissime, a casa. Ero terrorizzata. Più di una volta, un uomo al telefono disse: “Raffaella farà la fine di Emanuela, e anche una bella ragazza”». Si è trasferita per qualche tempo a Bolzano, sua città d’origine, per gli inquirenti sa più cose di quante ne abbia mai raccontante e ancora oggi versa in uno stato di ansia (“Storie di alti prelati e gangster romani”, Fazi Editore 2008, pag. 12). Anche queste ultime sono affermazioni da verificare. Nel 2013 Marco Fassoni Accetti ha detto a Pietro Orlandi: «le amiche più coinvolte sono state almeno due, una compagna di scuola del Convitto nazionale e una di musica. Poi c’era una ragazza di una associazione cattolica, in Vaticano, che anche voi familiari conoscevate e noi usavamo come tramite» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Il giornalista Fabrizio Peronaci ha scritto che nell’aprile 2012, il giudice Fernando Imposimato (convinto che il doppio rapimento sia stato opera premeditata della Stasi) gli ha riferito che tale ragazza sarebbe Fabiana Valsecchi («Ho svolto indagini serie, che lasciano pochi margini di dubbio»). Peronaci ha citato il nome della Valsecchi ad Accetti, mentre quest’ultimo raccontava lo svolgimento dei fatti di fronte al Senato, il quale colto di sorpresa ha risposto: «Da chi l’hai saputo? Chi te l’ha detto?» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
L’amica di Mirella Gregori. L’amica di Mirella Gregori si chiama Sonia De Vito, vicina di casa e figlia dei proprietari del bar sopra cui viveva Mirella. Proprio il 7 maggio 1983, giorno della sparizione, Mirella fu vista nel locale dei De Vito dove si chiuse in bagno assieme a Sonia per almeno un quarto d’ora. Interrogata dagli inquirenti Sonia disse che Mirella andava con degli amici a suonare la chitarra a Villa Torlonia. Quattro mesi dopo, nel settembre 1983, i sedicenti sequestratori telefonarono al bar del padre di Mirella descrivendo minuziosamente gli indumenti che la ragazza indossava il giorno della sparizione, compresa la marca della biancheria intima.
L’avvocato degli Orlandi (ed in seguito dei Gregori), Gennaro Egidio (morto nel 2005), ha riferito: «In effetti per esempio la sua amica, la Sonia, sapeva molto bene quello che aveva indosso la Mirella. Perché in effetti le scarpe sapeva che le aveva comprate lei in quel negozio, il maglione glielo aveva prestato lei. La Sonia è stata sempre un elemento molto difficile, i carabinieri ci hanno provato in tutti i modi, la polizia anche. L’hanno interrogata, stra-interrogata fino al punto che diviene poi maggiorenne, non c’era più nulla da fare. La Sonia era quella che le cose… la confidente della Mirella. Ed è strano che la Sonia… Ecco, la Sonia ha avuto sempre paura di parlare». Effettivamente dopo quella telefonata molti sospettarono che Mirella, nel bagno con lei, abbia rivelato dove si stava effettivamente recando (sempre che Sonia non lo sappesse già). Interrogata più volte dagli inquirenti dirà che Mirella le aveva confidato che quel giorno aveva un appuntamento a Porta Pia con un uomo che però lei non conosceva, ed emerse anche che spesso Mirella e l’amica parlavano nel bar di quest’ultima con un’uomo di circa 35 anni. Sonia De Vito venne inizialmente accusata di falsa testimonianza e reticenza, accusa poi archiviata. Maria Antonietta Gregori, sorella di Mirella ha affermato a proposito di Sonia De Vito: «Da quel maledetto giorno non si è mai più fatta viva con noi, proprio lei che mia madre trattava come un’altra figlia. Mai una telefonata, una visita. E per la mia famiglia è stato un grande dolore: lei e Mirella erano sempre insieme. Questo comportamento ci è sempre sembrato strano». Fabrizio Peronaci ha scritto che «Sonia De Vito abbia tenuto per sé molti segreti è una possibilità concreta: fu indagata a lungo e minaccia da sempre denunce contro chi tenti di avvicinarla» (F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
b) I TESTIMONI OCULARI
Emanuela è stata rapita? E in che modo? Sembra davvero si possa escludere sia stata fatta salire a forza su un’auto davanti a Palazzo Madama, una scena così in un luogo del genere non sarebbe certo passata inosservata. Aveva un appuntamento con la sorella Cristina, che la aspettava vicino alla sede del Tribunale della Cassazione (7 minuti a piedi da piazza Sant’Apollinare) la quale, però, non l’ha mai vista arrivare. Si è quindi allontanata volontariamente dalla fermata dell’autobus (dove è stata vista l’ultima volta)? Si è diretta verso la sorella e poi ha incontrato qualcuno? E’ salita di sua spontanea volontà su un’auto oppure è stata attirata in un luogo poco frequentato? Certamente ha telefonato a casa dicendo di aver incontrato qualcuno che le ha proposto di promuovere prodotti cosmetici Avon, per una somma (spropositata) di 350.00 lire, durante una sfilata di moda nell’atelier delle Sorelle Fontana (lo stesso ha raccontato all’amica Monzi). Le sorelle Fontana hanno smentito la notizia della sfilata di moda e la Avon ha dichiarato che i suoi rappresentati erano soltanto donne.
Le telecamere del Senato non erano in funzione (cfr. Rapporto di polizia, luglio 1983, allegato agli atti d’inchiesta del giudice Rando) e ci sono due presunti testimoni oculari di quanto sarebbe accaduto prima dell’entrata nella scuola di musica, i quali riferiscono un incontro tra Emanuela e un uomo che guidava una BMW (sembra di colore verde), il quale le avrebbe fatto vedere qualcosa (sembra dei cosmetici) da qualche contenitore (una borsa, un cofanetto o un tascapane militare) con scritto sopra qualcosa (sembra la scritta Avon o solo la A).
Il vigile Alfredo Sambuco. Il vigile in servizio a Palazzo Madama, il giorno della scomparsa della Orlandi, si chiama Alfredo Sambuco, deceduto dopo il 2002. E’ stato interrogato da Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, poche ore dopo la scomparsa ed è stato anche il primo a parlare di Emanuela avvicinata da un uomo che guidava una Bmw. Una testimonianza che va tenuta in considerazione poiché conferma effettivamente il racconto che Emanuela fece al telefono con la sorella Federica, prima ancora che ne parlasse qualunque organo di informazione e prima che la polizia indagasse. Ancora oggi il fratello di Emanuela considera attendibili le affermazioni del vigile: «reputo attendibile e genuino quello che mi disse il vigile per il semplice fatto che ci descrisse le cose che effettivamente aveva detto Emanuela al telefono. Se lui ci avesse raccontato una storia diversa diversa non gli avrei creduto visto che sarebbe stata poi smentita da quanto detto da Emanuela».
Sambuco è stato interrogato una seconda volta da Giulio Gangi, amico di famiglia degli Orlandi nonché agente del SISDE, il 25/6/83, al quale disse (con davanti la foto di Emanuela) di averla vista attorno alle 17 parlare con un uomo sui 40-45 anni, proprietario di una Bmw vecchio tipo colore verde chiaro, che le stava mostrando una borsa con la scritta “Avon” contenente cosmetici. All’invito del vigile a spostare l’auto, l’uomo avrebbe risposto “Vado via subito”. Dopo un’ora uno sconosciuto avrebbe domandato al vigile dove si trovasse la Sala Borromini, ma Sambuco non ricordava se si trattava dello stesso uomo della Bmw (sentenza istruttoria del giudice Adele Rando, 19/12/97 e “Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 21). Nella deposizione ufficiale del vigile, rilasciata il 2/7/83, si legge che la scena si sarebbe svolta davanti al civico 57, la Orlandi andava in direzione opposta rispetto alla scuola e interloquiva con un uomo sceso da una Bmw verde metallizzato attorno alle 17. Nel dicembre 1993, intervistato dal programma televisivo “Telefono Giallo”, il vigile Sambuco disse che erano le 19:00 (salvo poi correggersi pochi giorni dopo in un’intervista su “L’Indipendente”), che si avvicinò all’uomo poiché l’auto era in divieto di sosta, venendo rassicurato che l’avrebbe spostata subito. In quel momento la ragazza gli avrebbe domandato dove fosse la sala Borromini.
Nel 2002, una volta in pensione, Sambuco, parlando con lo scrittore e giornalista Pino Nicotri, ha raccontato anche che lui conosceva Emanuela, dato che “la vedevo passare tutti i giorni” e una volta la avrebbe accompagnata alla Tappezzeria del Moro, per far riparare la custodia del flauto. Ha detto anche che «io non ho mai parlato di “Avon” o di scritte “Avon”, né di borse con la scritta “Avon”…forse da qualche parte ho ancora la copia del verbale della mia dichiarazione ai carabinieri di via Selci, ma mi ricordo benissimo che non ho mai parlato di “Avon” né con loro né con il magistrato Domenico Sica quando mi ha interrogato» (“Mistero Vaticano”, pag. 23 e 29). Tuttavia, sempre a Nicotri, Ercole Orlandi ha smentito: Emanuela si recava alla scuola di musica solo tre giorni a settimana, inoltre «se Sambuco dice che conosceva Emanuela, o mente o dice una cosa nuova. La faccenda della riparazione del flauto è un’invenzione: ce l’abbiamo portata noi» (“Mistero Vaticano”, pag. 31). Di fronte a queste diverse versioni, il vigile Sambuco dirà a Nicotri: «sa, quella gente era così giù di corda che non me la sono sentita di non dargli nessuna speranza» (“Emanuela Orlandi, la verità”, Baldini Castoldi Dalai 2008, pag. 38,39). A nostro avviso rimane da considerare attendibile soltanto la prima testimonianza di Sambuco, quella fatta a Pietro poche ore dopo la scomparsa, mentre tutto il resto sembra contraddittorio e inficiato nella sua attendibilità.
Il poliziotto Bruno Bosco. Un secondo testimone oculare sarebbe il poliziotto Bruno Bosco, anch’egli in servizio davanti al Senato quel giorno. Il 25/6/83, interrogato da Giulio Gangi, ha affermato anche lui di aver visto Emanuela assieme ad un uomo, ricordando anche la scritta a grandi caratteri sul cofanetto mostrato dall’uomo a Emanuela, con solo la lettera “A” (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 21). Il 28/6/83 ha messo a verbale il suo racconto: l’uomo era alto un metro e ottanta, capelli castano chiari, corti, camicia e pantaloni chiari, mostra un tascapane di colore militare con la scritta Avon, la scena sarebbe avvenuta davanti al civico n°3 di piazza Madama (Sambuco parla del civico 57), la ragazza aveva uno zainetto sulle spalle (Pietro Orlandi nel suo libro parla invece di «una cartelletta con gli spartiti» e «il flauto traverso nello zainetto», “Mia sorella Emanuela”, pag. 13 e 45). Nel 2002 lo scrittore Pino Nicotri ha cercato di intervistarlo, ma alla sola evocazione del cognome Orlandi, ha reagito minacciando querele (“Mistero Vaticano”, pag. 30).
La posizione dei due presunti testimoni oculari, Sambuco e Bosco, rimane contraddittoria e poco chiara se si entra nel dettaglio. Come già detto, siamo portati a ritenere importante la prima testimonianza del vigile Sambuco in quanto confermava ciò che Emanuela disse al telefono, senza che quest’ultima telefonata fosse stata ancora resa pubblica. Una descrizione generale della scena, inoltre, avvalorata in modo indipendente da un secondo testimone, il poliziotto Bosco, seppur non vi sia sovrapponibilità nei dettagli. Tuttavia Margherita Gerunda, l’ex pubblico ministero che indaginò nelle prime ore che seguirono il rapimento, ha affermato: «Non credo che quel giorno Emanuela Orlandi sia andata alla scuola di musica passando per corso del Rinascimento, dove si usa credere che sia stata vista da un vigile e da un poliziotto. Ho maturato la convinzione che i testimoni si siano prestati a dire o a confermare cose che permettevano loro di andare sui giornali, dare interviste, insomma avere il loro piccolo momento di fama se non di gloria. Per uscire almeno una volta nella vita dall’anonimato e sentirsi protagonisti, alla ribalta, partecipi di una storia che interessa molta gente». E’ certamente possibile, tuttavia va ricordato che al tempo delle testimonianze dei due testimoni, la vicenda Orlandi non era il grande giallo conosciuto oggi ma un fatto di cronaca abbastanza abituale (la sparizione di una adolescente), del quale ancora non si occupava nessuno, né la polizia né la stampa locale (Sambuco dà per la prima volta la sua versione poche ore dopo la sparizione di Emanuela, interrogato dai familiari e da Giulio Gangi).
Opportuna anche la considerazione di Marco Fassoni Accetti, rispondendo a coloro che non tengono in considerazione le versioni del vigile e del poliziotto: «un vigile urbano ed un poliziotto riprenderebbero la bugia della Orlandi e la farebbero propria? Quindi due pubblici ufficiali mentono agli investigatori ed ai giudici senza nulla averne in cambio. Se tra l’altro riferiscono più o meno la stessa circostanza, se ne deduce che si saranno concordati su quanto falsamente raccontare. Per cui ben due pubblici ufficiali si accordano tra loro per mentire riguardo alla grave scomparsa di una minorenne, rischiando di avere conseguenze giudiziarie e di essere espulsi dai rispettivi corpi, perdendo il lavoro. Tutto questo lo avrebbero fatto solo per apparire, senza neanche dover scrivere tre libri sul caso». Eppure, dalle deposizioni, sappiamo che «non vi è stato accordo tra loro, altrimenti avrebbero prodotto versioni omologhe», tuttavia vi è una somiglianza «con gli aspetti fondamentali di quel che si racconta. Infatti ambedue testimoniano che un uomo mostrava del materiale ad una ragazza, la quale corrispondeva alle fattezze dell’Emanuela».
Se vanno dunque ritenute attendibili queste testimonianze oculari, seppur soltanto nei termini generali, ha ragione Giulio Gangi quando afferma: «tutto fa pensare che l’uomo della BMW voleva essere notato: dal colore squillante della sua auto al fatto che avesse parcheggiato la vettura in direzione contraria al senso di marcia, al posto prescelto, cioè proprio di fronte all’ingresso del Senato» (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 22).
c) IL RUOLO DI GIULIO GANGI E DEL SISDE
Abbiamo già citato Giulio Gangi, arrivato a casa Orlandi il giorno dopo la scomparsa di Emanuela, il 24/6/83, come amico di famiglia. E’ anche un agente del SISDE. Si è interessato «inizialmente a titolo personale e in quanto legato da un pregresso rapporto di amicizia con Monica Meneguzzi, cugina di Emanuela» (cfr. sentenza istruttoria Adele Rando, pag. 82), dicendo di avere il sospetto di sequestro per prostituzione. Gangi ha affermato di aver conosciuto gli Orlandi a Torano dove lui e la famiglia di Emanuela si recavano in villeggiatura (luogo confermato da Pietro Orlandi in “Mia sorella Emanuela”, pag. 59). Tuttavia in tutte le interviste rilasciate, Ercole Orlandi -padre di Pietro ed Emanuela- ha sempre sostenuto che Gangi era per lui uno sconosciuto, anzi venne colpito dal fatto che a un certo punto disse che usava trascorrere le vacanze estive a Torano, proprio dove si recavano gli Orlandi. Gangi, amico dei Meneguzzi, era o non era un estraneo? Aveva o no conosciuto gli Orlandi in vacanza? Pino Nicotri ha fatto queste domande a Ercole e sostiene di averlo messo in imbarazzo: il papà di Emanuela rispose di aver capito che Gangi e Meneguzzi si conoscevano da come si erano salutati (“Emanuela Orlandi, la verità”, pag. 52). La cosa rimane controversa e non è secondario identificare bene i rapporti tra Gangi e gli Orlandi in quanto le prime indagini, le più importanti, vennero svolte proprio dall’agente del Sisde. Un altro particolare strano, riportato sempre da Nicotri, è che la magistratura venne a conoscenza dell’esistenza e del ruolo di Ganci soltanto nel 1993-1994. La famiglia non disse mai nulla dunque delle prime ricerche svolte da lui?
Pietro Orlandi nel suo libro “Mia sorella Emanuela” riporta che fu Gangi a riferire che dietro a “Phoenix”, una delle sigle comparse dopo la sparizione di Emanuela, ci sarebbero stati i servizi segreti italiani. Il 30 maggio 2013 Pino Nicotri informa di aver ricevuto questa risposta da Gangi: «Mi sono limitato a dire “Boh, forse sono i nostri che cercano di muovere le acque” quando si seppe della prima lettera firmata Phoenix. Oltretutto, io al Sisde ero già stato allontanato dalle ricerche riguardanti Emanuela». Anche Marco Fassoni Accetti ha ricondotto “Phoenix” ad alcuni membri del Servizio di Informazioni della Sicurezza Democratica (Sisde).
Il 01 settembre 2008 Giuglio Gangi ha precisato rispetto alla sua presenza in casa Orlandi negli immediati giorni successivi alla sparizione: «Fu una mia iniziativa perché ero molto amico dei cugini, conoscevo anche il fratello. Fui io a presentarmi a casa degli Orlandi, la sera dopo, insieme ad un amico comune, Marino Vulpiani, che è medico e dunque fa tutt’altro mestiere. Anche lui era preoccupatissimo perché viveva a Torano, lo stesso paese della famiglia. L’unico agente del SISDE a occuparsi della vicenda, fin dai primi giorni, sono stato io» (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 23). Nell’autunno 2005 disse: «Bisogna che io sfati una leggenda inventata da voi giornalisti. Cominciamo col dire che io conoscevo gli Orlandi da prima della scomparsi di Emanuela: ero giovane, avevo poco più di vent’anni. Mario Meneguzzi, lo zio della Orlandi, aveva una figlia e proprio di questa ragazza mi innamorai. Mi piaceva tantissimo, era riservata, educata, elegante nel comportamento. Una brava ragazzi che conobbi perché l’estate dell’82 andai con un amico a fare una gita fuori porta nel paesino dove gli Orlandi avevano una casetta di villeggiatura (Torano). Fu così che la vidi per la prima volta. Quindi non è vero che il Sisde mi ordinò di infiltrarmi nella famiglia Orlandi per chissà quale scopo. Ad ogni modo, non mi fidanzai mai con la ragazza in questione, ci conoscemmo e diventammo amici. Ci frequentammo tra il 1982 e il 1983 perché le facevo la corte. La sera che scomparve Emanuela lei mi telefonò e mi diede la notizia. Poi mi richiamò due giorni dopo -il 25 giugno 1983- e mi chiese se potevo dare una mano a cercarla perché le avevo detto che ero della polizia, non del Sisde. La sera del 25 andai a casa Orlandi, in Vaticano. Mi accompagnò il collega amico col quale quella volta andai a fare la gita, lui rimase in strada io salii a casa loro e parli coi genitori e lo zio. In quel momento al Sisde non importava un accidenti di Emanuela Orlandi» (“Dodici donne un solo assassino?”, Koiné 2006, pag. 184,185).
Perché allora risultava un estraneo a Ercole Orlandi? Ci sarebbe anche da chiarire il motivo per cui, rivelato sempre dal padre di Emanuela, il SISDE si è occupato di pagare le spese dell’avv. Egidio, da loro suggerito, senza dire nulla alla famiglia (cfr. “Mistero Vaticano”, pag. 69). Facciamo anche presente che nella requisitoria del 1997 il giudice Malerba stigmatizzerà il “non lineare comportamento” di Giulio Gangi (“Mia sorella Emanuela”, pag. 1242,143), il cui ruolo nella vicenda -nonostante le precisazioni del diretto interessato- rimane controverso e meritorio di chiarimento.
Aggiungiamo un particolare: la famiglia nell’agosto 1983 pose una domanda al “gruppo Turkesh” su suggerimento degli agenti del Sisde: dove cenò Emanuela il 20 giugno (3 giorni prima della sparizione)? La risposta fu corretta: con “parenti molto stretti”. Pietro Orlandi ha spiegato che questo dettaglio era conosciuto soltanto in famiglia (“Mia sorella Emanuela”, pag. 106), oltre che agli agenti del SISDE che suggerirono la domanda.
d) L’AVVOCATO GENNARO EGIDIO
Un aspetto controverso della vicenda è come l’avvocato Egidio Gennaro (morto nel 2005), sia arrivato a difendere legalmente la famiglia Orlandi. E’ un piccolo dettaglio che però sarebbe bene chiarire.
Il 22 luglio 1983 durante una conferenza stampa, lo zio di Emanuela, Mario Meneguzzi, annunciò la nomina dell’avvocato Gennaro Egidio. Il 12/7/93 Ercole Orlandi, padre di Emanuela, ha sostenuto che la scelta di questo legale era stata “suggerita” loro dal funzionario del Sisde Gianfranco Gramendola, il quale aveva provveduto anche a presentarglielo. Gramendola tuttavia smentirà la circostanza (“Mistero Vaticano”, pag. 69). Gramendola si recò anche lui a casa Orlandi, accompagnando Gangi, presentandosi come “Leone”. Gangi più avanti dirà che si trattava del suo capo sotto falso nome (“Emanuela Orlandi, la verità”, pag. 67) e sospetterà fortemente del suo operato domandandosi: «e se fosse stato un complice del rapimento?» (“Dodici donne un solo assassino?”, pag. 54)
Nel 2002 il padre di Emanuela, Ercole Orlandi, ha tuttavia ribadito: «noi a Egidio non abbiamo mai pagato neppure una lira, la questione economica era già stata sistemata prima che mi facessero firmare il documento preparato dal Sisde per la nomina del legale. Per giunta solo dopo vari anni mi hanno comunicato che con quella firma avevo nominato un altro avvocato, Massimo Krogh, come sostituto di Egidio in caso di suo impedimento» (“Mistero Vaticano”, pag. 69). Massimo Kogh è ancora oggi il legale di Pietro Orlandi. Anche secondo i ricordi di Pietro Orlandi l’avvocato fu loro consigliato pochi giorni dopo la scomparsa di Emanuela, da uno 007 in contatto con la famiglia: «Fu Gianfranco Gramendola, carabiniere del Sisde, nome in codice Leone, a presentarcelo esclamando: “Tranquilli, quest’avvocato è la mano di Dio!”. Poi fu lo stesso Egidio a dirci che si era occupato dei Rothschild e, mi pare, del caso Calvi».
Infatti, l’avv. Egidio fu anche legale della famiglia della baronessa Rothschild. Curioso che pochi giorni dopo il 29 novembre 1980, giorno della sparizione della baronessa, arrivò un telegramma a lei indirizzo firmato “Roland”. Anagramma di Orlandi (cognome di Emanuela, che sparì tre anni dopo). Marco Fassoni Accetti ha affermato: «Uno dei miei sodali mi raccontò di aver spedito dei telegrammi riportanti dei codici, che già contemplavano la possibilità di scegliere una o due ragazze nella palazzina abitata dagli Orlandi; si citava il luogo 3, così indicando la palazzina degli Orlandi, ma non ricordo il motivo, e inoltre, si citava l’anagramma: Roland» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Accetti ha anche confermato indirettamente le parole del padre di Emanuela, Ercole Orlandi, sostenendo che la fazione avversa alla sua era composta anche da alcuni membri del SISDE: scrivendo: «Alcuni membri della parte a noi avversa credettero di ravvisare in noi i responsabili della morte della baronessa Rothschild, per cui nel 1983, dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, suggerirono alle famiglie delle ragazze la nomina legale dell’avvocato Gennaro Egidio, già legale della famiglia Rothschild in ordine alla scomparsa della baronessa». In realtà per la famiglia Gregori non andò così, in quanto i genitori di Mirella il 6 agosto 1983 decisero autonomamente di farsi difendere dall’avv. Egidio in seguito al primo Komunicato del gruppo “Turkesh”, nel quale per la prima volta si citò Mirella e si abbinò la sua scomparsa a quella di Emanuela. Durante una telefonata da noi avuta nel gennaio 2016, Accetti ha specificato: «Il Fronte Turkesh era qualcuno dei servizi segreti, o l’altra parte o l’avv. Egidio, che poi è la stessa cosa». Scusi, in che senso l’avv. Egidio? «Mah, l’avv. Egidio era un ruolo un po’ dell’altra parte, un ruolo un po’…faceva capo ai vertici dello IOR per cui sapevamo che era persona dell’altra parte. Tutte le telefonate a lui non significavano nulla, era solo affinché le riferisse poi ai giornalisti. Non avevamo niente da chiedere all’avv. Egidio e lui niente da darci».
Facciamo presente che l’avv. Egidio nel 2001-2002 fece capire al giornalista Pino Nicotri di propendere per una spiegazione “più semplice”, come verso una pista che portava a Torano, alla zia Anna e al suo amante, accennando all’età adolescenziale di Emanuela e al fatto che i genitori conoscono poco i ragazzi a quell’età. Quelle dell’avv. Egidio -pagato dal Sisde- erano convinzioni o dubbi autentici oppure stava indirizzando un giornalista che si stava dando molto da fare sul caso verso una pista falsa, lontana da quella reale? Che magari coinvolgeva proprio i servizi? Anche in questo caso ci sono dettagli controversi, decisioni strane, smentite e poi conferme. Perché i servizi consigliarono proprio l’avv. Egidio? Perché si occuparono di pagarlo a loro spese? Come vanno interpretate le smentite di Gramegnola/SISDE? Come vanno interpretati i dubbi di Gangi su Gramegnola? Ci sono persone che potrebbero aiutare a fare luce su questo, ad esempio l’avv. Massimo Krogh, che venne nominato allora come sostituto dell’avv. Egidio, ancora oggi difensore di Pietro.
e) LA ZIA ANNA ORLANDI
La zia di Emanuela, Anna Orlandi, è stata coinvolta più volte nella vicenda. Il primo a parlarne fu l’avv. Gennaro Egidio, legale degli Orlandi e dei Gregori, rispondendo alle domande del giornalista Pino Nicotri, che domandava se fosse possibile che Emanuela si sia allontanata di sua iniziativa: «tutto è possibile», rispose l’avvocato, collegando subito a questa risposta una vicenda inedita: «C’è tutta la questione dove loro passavano le vacanze, nel paesino, lì a Torano eccetera eccetera. Tutta gente che era intorno alla zia dell’Emanuela, cioè… Anna mi pare che si chiami. Questa donna che veniva seguita addirittura e nonostante la sua età…e non vorrei aggiungere altro. Che è una santa donna, una bravissima donna. E perché c’era una persona che era diventato un amico addirittura dell’Anna e compagnia bella, e lei quindi parlava liberamente, perché parlava sempre molto bene, con orgoglio dei suoi… della nipote e degli altri, cioè… E quindi non si è mai capito questo tizio chi fosse, come mai poi dopo alla fine è scomparso proprio dopo che Emanuela era scomparsa […]. Il nome… lui dette un nome falso all’Anna. Questo è il punto. Questo tizio magari successivamente potrebbe avere a che fare, per l’amor del cielo […] Questo qui accompagnava, questo qui accompagnava e conosceva molto bene l’Anna, che l’aveva conosciuto mi sembra, mi sembra di ricordare, se ricordo bene, che in via Cola di Rienzo c’era quest’uomo, mentre lei era in un negozio, che poi lei conobbe. E poi questo cominciò a conoscerla, a seguirla, a frequentarla… e delle volte uscivano anche con l’Emanuela insieme […] Ci sono state tante di quelle persone che volevano seguire questa storia che veniva adoperata per altri fini, per altre questioni». Nicotri afferma: «E anche gli Orlandi credo non sapessero in realtà chi era e che faceva la figlia», risposta: «Sono pienamente d’accordo con lei».
Occorre ricordare che la zia Anna (morta a novembre 2011 a 80 anni) ha sempre abitato in casa Orlandi, crescendo Pietro, Emanuela e gli altri figli assieme a Maria e Ercole Orlandi. Dopo la scomparsa di Emanuela, la zia Anna ha smesso di abitare in Vaticano per trasferirsi nel paesino di Torano. Per essere stata una persona molto vicina agli Orlandi effettivamente si può comprendere la perplessità del giornalista Pino Nicotri sul fatto che in tutte le interviste alla famiglia (e anche nel libro scritto da Pietro Orlandi) si parli quasi mai di lei, tanto che ne ha «scoperto l’esistenza solo parlando con l’avvocato Egidio, nel corso di una telefonata». Ha scritto Nicotri, parlando di se stesso: «Secondo il cronista che vi scrive e segue il caso Orlandi da dieci anni, la rilettura di vecchi appunti in effetti fa apparire la zia Anna come un personaggio che potrebbe diventare centrale».
Nicotri ha dato anche ampio risalto, non risparmiando delle critiche, al lavoro della fotografa Roberta Hidalgo, autrice del libro “L’affaire Emanuela Orlandi” (Croce 2012) in cui, dopo essersi procurata del materiale biologico di vari esponenti della famiglia Orlandi, sostiene che Emanuela Orlandi sarebbe in realtà figlia di Anna Orlandi (quella che è sua zia) e di Paul Marcinkus, e che oggi viva con Pietro a Roma, mentre la vera moglie, Patrizia Marianucci, vive in campagna. Una tesi decisamente estrema che analizzeremo più sotto. Rispetto ad Anna Orlandi, la Hidalgo sostiene che avrebbe avuto una relazione con un uomo sposato, il cui cognome era Giuliani e che abitava con la propria moglie nel paesino di Torano, dove gli Orlandi andavano a passare le vacanze. La relazione adulterina tra Anna e Giuliani sarebbe stata ben nota in paese, poco dopo la scomparsa di Emanuela aveva smesso di colpo di abitare in casa dagli Orlandi (forse contrariati dall’adulterio), e si ritirò a vivere proprio a Torano, dove accolse in casa e curò Giuliani quando questi rimase paralizzato e andò a vivere con lei fino alla morte. Da allora Anna Orlandi si sarebbe fatta chiamare Giuliana Giuliani, cognome al quale aveva anche intestato il telefono di casa.
Il paesino di Torano è entrato nella vicenda anche in seguito a quel che disse il primo telefonista, Pierluigi, il quale disse di aver visto Emanuela (chiamata Barbarella) che vendeva collanine in piazza Campo de’ Fiori e voleva degli occhiali Ray Ban. Il padre Ercole si ricordò che effettivamente due estati prima, proprio a Torano, Emanuela e alcune amiche avevano venduto ad un banchetto di strada delle collanine e ricordò che proprio un discorso sui Ray Ban venne fatto durante l’estate precedente, sempre a Torano, tra la mamma di Emanuela, Emanuela e una sua amica, Ines Giuliani, «figlia non ricordo se di un vigile urbano o di un poliziotto che comunque si chiamava Nicola e abitava a Roma in via Portinari» (“Mistero Vaticano”, pag. 33). Curioso il cognome dell’amica, lo stesso dell’uomo che, secondo Roberta Hidalgo, avrebbe avuto una relazione adulterina a Torano con la zia di Emanuela, Anna Orlandi. Da dove ha preso questo cognome la Hidalgo?
Intervistata da Pino Nicotri, la zia Anna ha risposto che l’uomo conosciuto in via Cola Di Rienzo le aveva dato un nome falso (confermato anche da Ercole Orlandi) e che quando lei scoprì che era sposato decise di non vederlo più. Lo stesso ha detto anche ai magistrati, che non riuscirono a rintracciare quest’uomo né ad interrogarlo.
Non ci risulta che gli Orlandi abbiano mai chiarito definitivamente questa vicenda della zia, rispondendo ai dubbi dell’avv. Egidio o al libro della Hidalgo. La ritengono comprensibilmente una vicenda offensiva, che tocca vicende private di una loro intima parente, tuttavia mettere luce su tutto ciò aiuterebbe a togliere ogni minimo sospetto. Anche la fotografa Hidalgo dovrebbe chiarire le fonti delle sue affermazioni e, sopratutto, da dove abbia reperito che il cognome dell’uomo che ebbe una relazione con Anna Orlandi era Giuliani.
f) I TELEFONISTI MARIO, PIERLUIGI E L’AMERIKANO
Con i primi telefonisti entriamo direttamente nel cuore della vicenda di Emanuela, ci riferiamo a coloro che chiamarono casa Orlandi (e non solo) già pochi giorni dopo la sparizione di Emanuela: “Pierluigi” e “Mario” e, qualche giorno dopo, l’Amerikano. Si citarono a vicenda quindi il loro intervento era collegato, tuttavia i primi due volevano più che altro sostenere che Emanuela si era allontanata volontariamente, a causa di una vita troppo piatta (parole di Mario), citando contemporaneamente dei particolari che avvaloravano la testimonianza di aver avuto a che fare che Emanuela (come quello della Avon o del fatto che Emanuela avrebbe dovuto suonare al matrimonio della sorella), prima della divulgazione di qualsiasi notizia.
L’entrata in scena del terzo telefonista, l'”Amerikano” (o “Amerikano”), il 5/7/83, segnerà la svolta: telefonò prima alla Santa Sede e, dopo un’ora, a casa Orlandi. Venne chiamato così perché parlava (o, meglio, simulava) con l’accento italo-americano. Agli Orlandi disse che “Pierluigi” e “Mario” erano membri dell’organizzazione, rivendicò di essere il rapitore e collegò il rapimento di Emanuela alla liberazione del terrorista turco Alì Agca, attentatore di Giovanni Paolo II in piazza San Pietro il 13 maggio 1981. Diede l’ultimatum al 20 luglio 1983. Da lì susseguirono diversi contatti tra lui e, in particolare, l’avv. Gennaro Egidio, legale degli Orlandi. Il direttore del Sisde, Vincenzo Parisi, fece un’identikit dell'”Amerikano” (rimasta riservata fino al 1995), osservando che sarebbe un profondo conoscitore della lingua latina, addirittura conoscerebbe meglio la lingua latina di quella italiana. Dunque uno straniero che ha acquisito prima il latino dell’italiano in quanto, un italiano, «non utilizzerebbe mai il verbo “translare” al posto di “trasferire”, “novello” al posto di “nuovo”». Le caratteristiche: 1) straniero (anglosassone), di età superiore ai 45/50 anni; 2) livello intellettuale e culturale elevatissimo, profondo conoscitore della lingua latina, meglio dell’italiano; 3) appartenente (o inserito) nel mondo ecclesiale; 4) formalista, ironico, preciso e ordinato nelle sue modalità comportamentali, freddo, calcolatore, pieno di sé, sicuro del proprio ruolo e della propria forza, sessualmente amorfo; 5) ha domiciliato a lungo a Roma. Conosce bene soprattutto le zone della città che rappresentano qualche cosa per la sua attività; 6) ben informato sulle regole giuridiche italiane e sulla struttura logistica del Vaticano. Per quanto riguarda il linguaggio e l’uso di alcuni verbi ricercati piuttosto che i sinonimi più utilizzati si può spiegare ipotizzando che il soggetto sapeva di essere intercettato e registrato e simulava intelligentemente il background anglosassone.
Il prof. Francesco Bruno, docente di psicologia forense alla Sapienza di Roma e funzionario dal 1978 al 1987 della divisione tecnico-scientifica del SISDE, ha condiviso l’identikit affermando che con quella descrizione si voleva individuare Monsignor Paul Casimir Marcinkus, direttore dello IOR. Pietro Orlandi, conoscendo Marckicus per via del suo impiego allo IOR, ha chiarito che la persona non era, ovviamente, il famoso e controverso Monsignore, aggiungendo: «Il telefonista doveva essere mediorientale: aveva la cadenza tipica rapida e accelerata alla fine delle frasi, tipica dei popoli di quell’area» (“Mia sorella Emanuela”, pag. 213).
Il 10/04/94 il padre di Emanuela, Ercole Orlandi, ha dichiarato: «Siamo vittime di un’oscura ragion di stato. […] Quel personaggio con l’accento americano, sapendo che il nostro apparecchio era sotto controllo, non faceva durare la telefonata più di sei minuti. Doveva avere un timer. Spaccava il secondo e agganciava». Quanto alle telefonate, Ercole Orlandi ricordò che l'”Amerikano” gli aveva detto che era inutile tentare di registrarle perché, se avesse voluto, avrebbe potuto far apparire le chiamate in quindici posti diversi. Secondo indiscrezioni una volta gli investigatori riuscirono ad isolare le prime quattro cifre delle telefonate, che risultarono essere partite dall’Ambasciata Americana di via Veneto. La polizia scoprì infatti che le telefonate partivano da una cabina della stazione Termini, ma una volta messa sotto controllo si scoprì che mentre le chiamate risultavano effettivamente in partenza dall’apparecchio pubblico, dentro la cabina non c’era nessuno. L’Amerikano aveva dunque un apparecchio per la triangolazione delle telefonate capace di far rimbalzare su un’altra utenza la chiamata iniziale proteggendo il numero di partenza.
Marco Fassoni Accetti nel 2013 si è accusato di aver ideato l’allontanamento di Emanuela e Mirella, autoaccusandosi anche di essere stato il principale telefonista, cioè l'”Amerikano”. Ha scritto: «di questo ne feci una battuta con l’avvocato Egidio nel corso delle note telefonate». Soltanto l’Amerikano fece “note telefonate” con l’avv. Egidio. In un’altra occasione: «Io sono il telefonista che ha fatto ritrovare lo spartito» di Emanuela, e a farlo ritrovare fu appunto l'”Amerikano”, invitando ad ascoltare le telefonate paragonandole con la sua voce. Effettivamente c’è una forte somiglianza. In una telefonata del gennaio 2016 all’autore principale di questo dossier, MFA ha rivelato di essere stato anche il telefonista “Mario” usando appositamente un accento romanesco, spiegando: «L’ha capito anche Egidio che fece fare delle perizie assieme a Nicola Cavaliere, allora capo della Mobile, e hanno capito che era la stessa persona». Nel Memoriale ha spiegato: «“In seguito chiamerà un certo ‘Mario’ (sapevamo dell’esistenza di un latitante appartenente alla criminalità di origine mafiosa, e identificabile con lo pseudonimo di ‘Mario Aglialoro’. Di costui si vociferava potesse essere il mandante dell’omicidio del presidente del Banco Ambrosiano, dottor Calvi). Questo riferimento avrebbe dovuto contribuire ulteriormente ad allarmare le persone vicine a monsignor Marcinkus. Essendo il riferimento, in senso lato, quello di un ‘malavitoso’, il parlare dovrà apparire ‘sporco’ e illetterato. Costui dichiara di essere proprietario di un bar, riferimento al bar Gregori, che colloca accanto a ponte Vittorio Emanuele II, nei cui pressi si trova il negozio del padre di Stefano Coccia. Per cui Mario, nella stessa telefonata, cita la Orlandi, la Gregori e Stefano. Dichiara altresì di avere 35 anni, e questa età posta assieme all’età dichiarata dal sedicente Pierluigi, ricompone ulteriormente la nota data di Fatima, 13-5-17». Nell’estate 2013, il giornalista Fabrizio Peronaci ha assistito all’imitazione di Marco Fassoni Accetti della voce del telefonista “Mario”, così l’ha descritta: «quel giorno in terrazza, mi chiese di posare il telefonino a terra, per essere certo che non registrassi, tirò il fiato più volte, allargò il diaframma, si sfregò il naso soffiando, chiuse gli occhi per concentrarsi e cominciò a parlare velocemente. “Allora, signor Orlandi, me stai a sentì?… Tu fija ha detto che se chiama Barbarella, che è stufa de ’sta vita piatta, che vole annassene pe’ conto suo pe’ quarche tempo”. Impressionante. Stesso timbro. Identico intercalare del sedicente Mario, la cui voce registrata ho ascoltato più di una volta» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Il telefonista “Pierluigi”, invece, sarebbe stata una ragazza: «Pierluigi era una mia amica, certo: valutammo che la sua voce si avvicinasse di più a quella di un diciassettenne e funzionò» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). E nel Memoriale: «Fui io personalmente a registrare il rumore di sottofondo nel locale Pippo l’Abruzzese. Nel caso la telefonata potesse essere registrata e sottoposta al giudizio di un esperto, le caratteristiche specifiche di alcuni rumori potevano far risalire proprio a quell’ambiente».
A prescindere da Fassoni Accetti, il ruolo dei telefonisti rimane controverso: mitomani? Reali rapitori? Depistaggio? Ebbero a che fare con Emanuela? Perseguivano interessi loro approfittando della sparizione della ragazza? Non si può negare che, seppur non diedero mai prova indubitabile di aver rapito Emanuela e di tenerla in ostaggio -quando bastava una sua fotografia con un quotidiano a fianco (come fecero i rapitori di Aldo Moro)-, rivelarono tuttavia particolari precisi della ragazza e fecero ritrovare (l’Amerikano) documenti da lei posseduti il giorno della sparizione (seppur in fotocopia), spartiti musicali con scritte di Emanuela, uno scritto della ragazza (riconsciuto dai familiari) nonché inviarono alcune sue parole registrate sulla scuola frequentata. Un’altra prova discussa, c’è chi sostiene che la voce di Emanuela poteva essere stata carpita prima della sparizione: obiezione debole, Emanuela rilascia un’intervista e non lo dice alla famiglia? Se fosse stata fatta alla scuola, nessuno ne sa nulla? Perché solo a lei e non agli altri compagni? Ne parleremo comunque più sotto. Nelle conclusioni della Commissione parlamentare Mitrokhin si legge: «è certo che i telefonisti, gli autori dei messaggi o i loro ispiratori avessero, o avessero avuto, contatti con Emanuela, con la famiglia o con conoscenti di Emanuela o della famiglia». Questo lo «conferma una valutazione in audizione del dottor Imposimato, che pure ha idee molto nette in proposito, avendo seguito il caso per conto dei familiari di Emanuela, allorché dichiara che “le lettere sono, almeno in parte, una prova dei collegamenti tra chi le scriveva e la ragazza scomparsa”, come riconosciuto anche dai magistrati, che però non hanno ritenuto provato che costoro effettivamente avessero rapito la ragazza – e la tenessero segregata – – al momento in cui recapitavano, per un ampio lasso di tempo, i messaggi». Nella requisitoria del Procuratore generale della Corte di Appello, Giovanni Malerba, si legge: «Né si dica che i primi “telefonisti” fossero persone non soltanto estranee al progetto criminoso, ma altresì all’oscuro di esso; nei successivi messaggi del gruppo che rivendicava il sequestro, più di una volta è dato rinvenire riferimenti ai “nostri elementi Pierluigi e Mario”; e per di più il Pierluigi, nei colloqui telefonici, si mostrava al corrente di particolari rivelatisi esatti (flauto, occhiali con montatura bianca non graditi alla giovane, astigmatismo ad un occhio, imminente matrimonio della sorella ecc.). Tutto questo dimostra lo stretto collegamento tra Pierluigi e Mario e coloro che rivendicavano il sequestro». (requisitoria del pm Malerba, 6/08/97).
Molti citano una prova che dimostrerebbe come l'”Amerikano” non avesse ottenuto i dettagli di Emanuela da lei stessa, in quanto in una telefonata del 7/07/83 affermò che la ragazza non era nata in Vaticano. Un errore, come ha confermato il padre Ercole, che certamente non poteva arrivare da Emanuela. Abbiamo domandato questo ad Accetti, che si accusa di essere stato l’Amerikano (ed effettivamente la sua voce è sovrapponibile a quella del telefonista): «non me lo ricordo. Molte volte noi volevamo passare per balordi davanti all’opinione pubblica, le telefonate dell’Amerikano servivano solo per i giornali, per fare cassa di risonanza, pressione. Per esempio, c’è un nastro registrato in cui c’è anche l’Amerikana, non sono l’Amerikano. Ho detto a Capaldo: “lei lo vuole il nome e cognome di questa ragazza? Lei la può chiamare e questa le conferma”. Mi ha risposto: “Ah no, non voglio sapere niente, per carità”. C’è una ragazza che ha fatto l’Amerikana: in questo nastro, in cui finge di essere americana, pronuncia male la parola “States” dicendo letteralmente states. Ma quando mai un’americana sbaglierebbe così? Io so chi è questa persona, una ragazza romana di estrema sinistra. Nessuno mi ha mai chiesto nulla». I telefonisti riveleranno altri particolari, anche molto privati, di Emanuela, i quali -dicono alcuni- potrebbero essere stati ottenuti dalle sue amiche e compagne o dai suoi familiari: ma non è un’obiezione pertinente, come possono delle amiche o dei familiari rivelare dettagli privati di Emanuela ad un estraneo, venire poi a conoscenza della sparizione di Emanuela e leggere quei particolari sui giornali, forniti come prove dai rapitori, senza collegare le cose? Avrebbero subito informato la polizia di aver riferito loro quei dettagli. A meno che fossero in complicità con i telefonisti. Ovviamente non va nemmeno preso in considerazione che i telefonisti abbiano raccolto dettagli privati di Emanuela dopo la sua sparizione. Dunque, o i telefonisti hanno hanno avuto a che fare con Emanuela, oppure hanno avuto a che fare con suoi amici e/o parenti, e questo comporta o la loro complicità nella sparizione oppure l’aver subito delle minacce, le quali avrebbero peso anche oggi, dopo trent’anni.
g) APPELLI DI GIOVANNI PAOLO II
Il 3/7/83 Giovanni Paolo II lancia, in modo sorprendente, un appello pubblico perché Emanuela possa tornare «non perdendo la speranza nel senso di umanità di chi abbia responsabilità in questo caso». Un chiaro accenno al rapimento, anche se fino ad allora le autorità ritenevano si trattasse di una scappatella volontaria. Seguirono altri 7 appelli.
Per lo scrittre Pino Nicotri questa dichiarazione, oltre a quelle dell’allora presidente della Repubblica Pertini, sarebbe stata fatale in quanto fece capire al mondo intero, e sopratutto ai comunisti sovietici e alla Stasi, un suo punto debole di cui approfittarsi. Nicotri parla anche di “ingenuo passo falso”, di fatto una “condanna a morte” per Emanuela, ma sospetta anche che il Pontefice sapesse già della morte di Emanuela e quindi non avesse timore di aggravare la situazione con i suoi appelli. Sono affermazioni prive di alcuna prova o dimostrazione.
Pietro Orlandi ha invece apprezzato l’intervento del Papa: «Si rivolse a chi aveva “responsabilità in questo caso”, quando le autorità italiane non si erano praticamente mosse». Wojtyla, scrive, doveva avere buoni motivi per esporre la Chiesa a un prezzo tanto alto: assedio mediatico sulla “ragazzina cara al pontefice”, l’oscuramento dei suoi successi come capo di Stato, subbuglio internazionale e dei servizi di sicurezza (“Mia sorella Emanuela”, pag. 87). Secondo la sentenza del giudice istruttore Adele Rando, le parole del Papa sarebbero l’epilogo di un vertice segretissimo, al quale partecipano Casaroli, Somalo e Battista Re.
Il 27/07/83, ha rivelato Pietro Orlandi, Giovanni Paolo II convocò i genitori e, in lacrime, parlò per la prima volta di “un`organizzazione terroristica”. Altrettanto fece il 24/12/83 quando visitò gli Orlandi per gli auguri natalizi e disse: «Cari Orlandi, voi sapete che esistono due tipi di terrorismo, uno nazionale e uno internazionale. La vostra vicenda è un caso di terrorismo internazionale». Per Marco Fassoni Accetti il Papa non fu informato correttamente e chi preparò l’appello del 3 luglio lo portò su piste confondenti, volendo, scrive, «sottrarsi alla nostra minaccia di rivelare pubblicamente la “realtà” relativa al “sequestro”, rendendolo a loro volta pubblico. Ci anticipano nella nostra intenzione, sia pur virtuale, rendendolo di pubblico dominio. Dichiarano in questo modo che trattasi di un qualcosa di “esterno”, un rapimento qualunque, cosicché la Città del Vaticano risulta esserne estranea, senza responsabilità alcuna. È anche un modo di dichiarare che non accettano le nostre istanze».
h) IL RUOLO DEL VATICANO
Il periodo in cui avvenne la sparizione di Emanuela Orlandi fu importante per l’Europa, la quale viaggiava verso la caduta del muro di Berlino e la posizione del Vaticano era determinante in tutto questo. Nello Stato Pontificio infatti c’era una fazione -guidata dal card. Casaroli, segretario di Stato- che intendeva dialogare col comunismo e un’altra -quella del Papa- che sosteneva la dura contrapposizione, finanziando direttamente la resistenza polacca formata dal sindacato Solidarnosc. Occorre dunque necessariamente contestualizzare la sparizione di una cittadina vaticana, mai avvenuta prima o dopo, in questo contesto temporale, a meno che si propenda per un allontanamento volontario.
Molti, compresi i parenti di Emanuela e Mirella, criticano il Vaticano per l’eccessiva prudenza e gli eccessivi silenzi, secondo Pietro Orlandi, infatti, il Vaticano sembra aver mostrato un «eccesso di cautela e l’eccessivo attaccamento alla ragion di Stato. Il Vaticano è la mia seconda famiglia, mi sento legato a questo mondo e mi dispiace. Vorrei da loro un aiuto a rafforzare la mia fede. E vorrei che la mia venisse considerata una critica costruttiva» (“Mia sorella Emanuela”, pag. 278, 279). Più concretamente il giudice istruttore Adele Rando ha scritto: «L’apporto istruttorio delle rogatorie introdotte davanti all’Autorità Giudiziaria della citta del vaticano, lungi dal soddisfare i quesiti per i quali le stesse erano state proproste, si traduce nella conferma di alcuni interrogativi che hanno imposto la scelta processuale dello stralcio». L’allora prefetto Vincenzo Parisi, capo della Polizia dal 1987 al 1994, scrisse invece: «L’intera vicenda Orlandi fu caratterizzata da costante riservatezza da parte della Santa Sede che, pur disponendo di contatti telefonici e probabilmente diversi, non rese partecipi dei contenuti dei suoi rapporti la Magistratura e le autorità di Polizia. Ritengo che le ricerche conoscitive sulla vicenda siano state viziate proprio per il diaframma frapposto fra lo Stato Italiano e la Santa Sede».
Nella rogatoria inviata nel marzo 1995, le autorità vaticane risposero di non avere mai avuto né alcuna registrazione, né alcuna trascrizione delle telefonate provenienti dall’”Amerikano”. Tuttavia agli atti dell’archiviazione del 1997 compare la testimonianza di mons. Francesco Salerno, consulente legale presso la Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede, il quale «in ordine alle telefonate pervenute sull’utenza riservata (al caso Orlandi, ndr) nonché agli inutili tentativi di identificare gli sconosciuti interlocutori, riteneva che proprio quest’ultima circostanza provasse l’esistenza di qualche informatore interno alla Segreteria di Stato». Non solo, ma sulla vicenda di Emanuela Orlandi, in particolare, mons. Salerno «esprimeva inoltre – scrive il giudice Adele Rando – la personale convinzione che negli archivi della stessa segreteria fossero custoditi documenti inerenti al caso» (pag. 85). Pino Nicotri riporta anche una sua frase: «Dato che grazie al mio occuparmi delle finanze avevo conoscenze in molti ambienti, pochi giorni dopo la scomparsa della Orlandi offrii a monsignor Re la mia disponibilità a cercare notizie, ma monsignor Re rifiutò. Mi disse che era meglio lasciare le cose come stavano» (“Emanuela Orlandi, la verità” pag. 18).
Il magistrato Gianluigi Marrone, giudice unico della Città del Vaticano 1991 al 2009, ha risposto alle accuse del giornalista Pino Nicotri di essere il dirigente del parlamento italiano che inviava in Vaticano le rogatorie e contemporaneamente, dal Vaticano, rispondeva (rivelando che la segretaria di Marrone al Parlamento italiano era Natalina Orlandi, cioè una delle sorelle di Emanuela): «Quando il Vaticano mi ha offerto quell’incarico ho chiesto all’allora presidente della Camera, Nilde Jotti, se potevo accettare o no, e la Jotti mi diede il permesso. Io in Vaticano non potevo fare altro che firmare ciò che mi veniva detto di firmare, senza poter fare mie indagini. Se poi lei, Nicotri, mi chiede se il Vaticano sul caso Orlandi ha detto tutto quello che sa, allora io le rispondo che no, non ha detto tutto quello che sa». Affermazioni che tuttavia contraddicono in parte quanto il giudice Marrone disse nel luglio 2008: «in questi anni ci sono state insistenti richieste di rogatorie da parte di autorità di altri Stati, accompagnate sempre da false polemiche, il più delle volte montate dai media in mancanza di notizie; ma, badi bene, per notizie che si voleva costruire a tutti i costi anche se non c’era nulla da rendere noto. Posso personalmente assicurare, perché moltissime volte sono stato parte in causa, che il Vaticano non ha mai risposto negativamente a una richiesta di rogatoria. Ciò anche nel penoso fatto di cronaca tornato prepotentemente alla ribalta in questi giorni: mi riferisco alla vicenda Orlandi. Sono stato coinvolto spesso nella preparazione di queste rogatorie e, per quel che mi compete, le assicuro che tutte hanno avuto regolare risposta. Altro è, naturalmente, se la risposta viene ritenuta soddisfacente o no. Questo è un altro tipo di discorso. Se a me si chiede di interrogare una persona, io la interrogo. Ma se poi le risposte fornite non corrispondono alle aspettative, perché magari si pensava che la persona potesse dare altre risposte, questo non si può imputare al tribunale; e in ogni caso non si può dire che il Vaticano non ha collaborato o, peggio ancora, continuare a dire che non c’è mai stata collaborazione con la magistratura italiana».
Anche secondo la sentenza di proscioglimento del 2015, la Procura afferma che «l’esistenza o meno di un fascicolo vaticano relativo ad Emanuela Orlandi risulta smentita dalle indagini per altro verso svolte: il riferimento, in particolare, è alle dichiarazioni rese in data 25/05/2005 nel procedimento n. 34016/2002 R.G.N.R. in sede di indagini difensive da mons. Bruno Bertagna che, in qualità di addetto presso la Segreteria di Stato prima e di Segretario Generale del Governatorato poi, escluse l’espletamento di indagini sulla vicenda all’interno della Città del Vaticano».
Un cardinale entrato nella vicenda è Silvio Oddi, il quale nel luglio 1993 ricordò in un’intervista di aver ascoltato una conversazione in Vaticano dieci anni prima: «Mi trovavo in un gruppo di persone delle quali faceva parte anche un laico. Eravamo a qualche giorno dalla sparizione della Orlandi, e la conversazione inevitabilmente cadde sull’argomento. Sentendo parlare del sequestro il laico intervenne esclamando “ma se lo sanno tutti! Quel giorno vidi io stesso arrivare Emanuela a porta Angelica, a bordo di una macchina. L’ho vista andare a casa, tornare e risalire in automobile…”». Era «un’ auto di lusso», ha precisato il cardinale. A bordo «c’era il guidatore, e forse anche un’altra persona. Penso che l’automobilista non sia entrato per evitare di essere riconosciuto dalle guardie svizzere». Pochi giorni dopo, ha però precisato: «Erano solo chiacchiere ascoltate per strada, da qualcuno che stava parlando della scomparsa di Emanuela Orlandi, come in quei giorni facevano un po’ tutti dalle parti di San Pietro», aggiugendo: «Non ho nessuna idea di che cosa possa essere successo alla ragazza ma è noto che molte fanciulle occidentali che spariscono vanno a finire negli harem e nei bordelli dei paesi orientali». La sorella di Emanuela, Federica, ha comunque smentito questa ricostruzione affermando di essere rimasta a casa e di non aver mai visto Emanuela tornare (“Mia sorella Emanuela”, pag. 282).
Un altro collegamento diretto con il Vaticano è quello in cui è protagonista il sovrastante maggiore della polizia vaticana, Raoul Bonarelli: il 15 dicembre 1985 Maria Vittoria Arzenton, madre di Mirella Gregori, durante la visita del Papa alla parrocchia romana di San Giuseppe, lo avrebbe riconosciuto tra gli agenti del Papa come uno degli uomini che si intratteneva con la figlia e l’amica Sonia De Vito: «si trattava della stessa persona che avevo visto intrattenersi in un bar vicino la nostra abitazione, assieme a Sonia De Vito, la figlia dei gestori, e a mia figlia Mirella. Nel vedermi ebbe come un moto di stizza e di imbarazzo […]. Nei giorni di chiusura settimanale del bar dei De Vico, l’uomo era solito sedere ad altro bar, ubicato all’incrocio tra via Nomentana e via Reggio Emilia». Da successivi accertamenti, risultò effettivamente che Bonarelli abitava in quella zona, in via Alessandria (“Mia sorella Emanuela”, pag. 204, 205). Interrogato dagli inquirenti, Bonarelli confermò di essere stato presente alla visita del Papa, ma negò di essere cliente del bar de De Vico. Dopo otto anni, il 13 ottobre 1993, la signora Arzenton, nel confronto diretto, confermò le precedenti dichiarazioni ma non riconobbe Bonarelli né di persona né nel filmato sulla visita pontificia (“Mia sorella Emanuela”, pag. 205). La cosa particolare è che il 12 ottobre 1993, giorno precedente all’interrogatorio con i magistrati (e al confronto con la signora Arzenton), verso le ore 19:53 Borarelli riceve una telefonata, intercettata dagli inquirenti, partita dal Vaticano, nella quale l’interlocutore lo invita a «non dire che la Segreteria di Stato ha indagato. Di’ che siccome la ragazza è scomparsa in territorio italiano, la competenza delle indagini è della magistratura italiana e non del Vaticano». L’autore della telefonata potrebbe essere mons. Bertani, “cappellano di Sua Santità”, oppure Camillo Cibin, il comandante della Gendarmeria vaticana (“Emanuela Orlandi, la verità” pag. 19 e 203). Bonarelli, incalzato dai magistrati che gli chiedevano spiegazioni su questa telefonata, non ne seppe dare, motivo per cui venne indiziato del reato di concorso in sequestro di persona dal giudice istruttore Adele Rando. Poi in seguito prosciolto. Onestamente, leggendo senza malizia le indicazioni ricevute dal sovrastante Bonarelli, esso possono essere anche sincere, spiegazioni sulla effettiva realtà che probabilmente Bonarelli non conosceva. Il 13 ottobre 1993, alle 14:27, mentre Bonarelli usciva dal tribunale viene intercettata una seconda telefonata, questa volta con la moglie Angela: «Te l’ ho detto che ti trovavi in mezzo ai guai», dice lei. Lui spiega: «É uscito sul giornale di uno della sicurezza del Papa, quello che aveva adescato la figlia al bar, pensa un po’… Il parroco deve aver fatto il mio nome…Per me è uno di quelli che stava lì intorno in quel periodo… che ce ne ha avuti 3 o 4 di questi praticoni il prete, no?».
Nel febbraio 2012 un “corvo” del Vaticano, probabilmente Paolo Gabriele maggiordomo di Benedetto XVI, ha reso pubblico un appunto riservato scritto da padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede e probabilmente destinato a mons. Georg, segretario di Ratzinger, in cui si avanzano alcune perplessità su alcuni «aspetti di comportamento umano e cristiano probabilmente criticabili o imprudenti». La nota, datata gennaio 2012, prosegue: «Restano dei punti su cui non è facile dare oggi risposta definitiva e documentabile», come il mancato avvertimento della famiglia Orlandi da parte del Vaticano sull’allarme sequestro lanciato dagli 007 francesi poco prima della scomparsa della ragazza, la non collaborazione con le autorità italiane (le rogatorie), gli aiuti economici della Santa Sede a Solidarnosc (una circostanza che se fosse emersa avrebbe provocato una reazione militare dell’Urss in Polonia), che potrebbero aver messo Giovanni Paolo II nella condizione di essere ricattato e, infine, la presenza “inspiegabile” di spie e informatori Oltretevere.
Evidentemente, in seguito a questo, padre Lombardi ha svolto una personale indagine interna al Vaticano per sincerarsi dell’esistenza o meno di documenti o testimoni, pubblicando i risultati il 4 aprile 2012: da diverse voci sulla stampa viene avanzato il dubbio che le istituzioni vaticane hanno fatto il possibile per contribuire all’emergere della verità. Nonostante la maggior parte di chi aveva ruoli di responsabilità è oggi scomparsa, è possibile tramite testimonianze attendibili e alla documentazione disponibile, «verificare nella sostanza con quali criteri e atteggiamenti i responsabili vaticani procedettero ad affrontare quella situazione». Il Vaticano collaborò con le autorità italiane? Vi sono elementi nuovi e non rivelati ma conosciuti in Vaticano? Oltre all’interessamento di Giovanni Paolo II, premette padre Lombardi, va ricordato che «il cardinale Agostino Casaroli, segretario di Stato e quindi primo collaboratore del papa, seguì personalmente la vicenda, tanto che, com’è noto, si mise a disposizione per i contatti con i rapitori con una linea telefonica particolare. Come ha attestato già in passato e attesta tuttora il cardinale Giovanni Battista Re – allora assessore della segreteria di Stato e oggi principale e più autorevole testimone di quel tempo –, non solo la segreteria di Stato stessa, ma anche il Governatorato furono impegnati nel fare tutto il possibile per contribuire ad affrontare la dolorosa situazione con la necessaria collaborazione con le autorità italiane inquirenti, a cui spettava evidentemente la competenza e la responsabilità delle indagini, essendo il sequestro avvenuto in Italia. La piena disponibilità alla collaborazione da parte delle personalità vaticane che a quel tempo occupavano posizioni di responsabilità, risulta da fatti e circostanze. Solo per fare un esempio, gli inquirenti (e soprattutto il SISDE) avevano avuto accesso al centralino vaticano per un possibile ascolto di chiamate dei rapitori, e anche in seguito in alcune occasioni autorità vaticane ricorsero alla collaborazione con autorità italiane per smascherare ignobili forme di truffa da parte di presunti informatori. Risponde perciò a pura verità quanto affermato con nota verbale della segreteria di Stato N. 187.168, del 4 marzo 1987, in risposta vaticana alla prima richiesta formale di informazioni presentata dalla magistratura italiana inquirente in data 13 novembre 1986, quando dice che “le notizie relative al caso… erano state trasmesse a suo tempo al PM dottor Sica”. Atteso che tutte le lettere e le segnalazioni pervenute in Vaticano furono prontamente girate al Dott. Domenico Sica e all’Ispettorato di P.S. presso il Vaticano, si presume che siano custodite presso i competenti uffici giudiziari italiani. Anche nella seconda fase dell’inchiesta – anni dopo – le tre rogatorie indirizzate alle autorità vaticane dagli inquirenti italiani (una nel 1994 e due nel 1995) trovarono risposta (note verbali della segreteria di Stato N. 346.491, del 3 maggio 1994; N. 369.354, del 27 aprile 1995; N. 372.117, del 21 giugno 1995). Come domandato dagli inquirenti, il Sig. Ercole Orlandi (papà di Emanuela), il Comm. Camillo Cibin (allora comandante della vigilanza vaticana), il Card. Agostino Casaroli (già segretario di Stato), S.E. Mons. Eduardo Martinez Somalo (già sostituto della segreteria di Stato), Mons. Giovanni Battista Re (allora assessore della segreteria di Stato), S.E. Mons. Dino Monduzzi (allora prefetto della Casa Pontificia), Mons. Claudio Maria Celli (già sottosegretario della sezione per i rapporti con gli Stati della segreteria di Stato), resero ai giudici del Tribunale Vaticano le loro deposizioni sulle questioni poste dagli inquirenti e la documentazione venne inviata, per il tramite dell’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, alle autorità richiedenti. I relativi fascicoli esistono tuttora e continuano a essere a disposizione degli inquirenti. È anche da rilevare che all’epoca del sequestro di Emanuela, le autorità vaticane, in spirito di vera collaborazione, concessero agli inquirenti italiani ed al SISDE l’autorizzazione a tenere sotto controllo il telefono vaticano della famiglia Orlandi e ad accedere liberamente in Vaticano per recarsi presso l’abitazione degli stessi Orlandi, senza alcuna mediazione di funzionari vaticani. Non è quindi fondato accusare il Vaticano di aver ricusato la collaborazione alle autorità italiane preposte alle indagini. Ciò dà occasione di ribadire che è prassi costante della Santa Sede di rispondere alle rogatorie internazionali, ed è ingiusto affermare il contrario. Il fatto che alle deposizioni in questione non fosse presente un magistrato italiano, ma che si fosse richiesto alla parte italiana di formulare con precisione le questioni da porre, fa parte della prassi ordinaria internazionale nella cooperazione giudiziaria e non deve quindi stupire, né tantomeno insospettire (si veda anche l’art. 4 della Convenzione Europea di assistenza giudiziaria in materia penale, del 20 aprile 1959). La sostanza della questione è che purtroppo non si ebbe in Vaticano alcun elemento concreto utile per la soluzione del caso da fornire agli inquirenti. A quel tempo le autorità vaticane, in base ai messaggi ricevuti che facevano riferimento ad Ali Agca – che, come periodo, coincisero praticamente con l’istruttoria sull’attentato al papa – condivisero l’opinione prevalente che il sequestro fosse utilizzato da una oscura organizzazione criminale per inviare messaggi od operare pressioni in rapporto alla carcerazione e agli interrogatori dell’attentatore del papa. Non si ebbe alcun motivo per pensare ad altri possibili moventi del sequestro. L’attribuzione di conoscenza di segreti attinenti al sequestro stesso da parte di persone appartenenti alle istituzioni vaticane, senza indicare alcun nominativo, non corrisponde quindi ad alcuna informazione attendibile o fondata; a volte sembra quasi un alibi di fronte allo sconforto e alla frustrazione per il non riuscire a trovare la verità. In conclusione, alla luce delle testimonianze e degli elementi raccolti, desidero affermare con decisione i punti seguenti: -Tutte le autorità vaticane hanno collaborato con impegno e trasparenza con le autorità italiane per affrontare la situazione del sequestro nella prima fase e, poi, anche nelle indagini successive. -Non risulta che sia stato nascosto nulla, né che vi siano in Vaticano “segreti” da rivelare sul tema. Continuare ad affermarlo è del tutto ingiustificato, anche perché, lo si ribadisce ancora una volta, tutto il materiale pervenuto in Vaticano è stato consegnato, a suo tempo, al P.M. inquirente e alle autorità di Polizia; -inoltre, il SISDE, la Questura di Roma ed i Carabinieri ebbero accesso diretto alla famiglia Orlandi e alla documentazione utile alle indagini. Se le autorità inquirenti italiane – nel quadro dell’inchiesta tuttora in corso – crederanno utile o necessario presentare nuove rogatorie alle autorità vaticane, possono farlo, in qualunque momento, secondo la prassi abituale e troveranno, come sempre, la collaborazione appropriata […]. Per terminare, vorremmo riprendere spunto e ispirazione dall’intensa partecipazione personale di Giovanni Paolo II alla tragica vicenda della giovane e alla sofferenza della sua famiglia, rimasta finora nell’oscurità sulla sorte di Emanuela. Ancor più perché questa sofferenza purtroppo si ravviva al sorgere di ogni nuova pista di spiegazione, finora senza esito. Se le persone che scompaiono ogni anno in Italia e di cui non si sa più nulla nonostante le inchieste e le ricerche sono purtroppo numerose, la vicenda di questa giovane cittadina vaticana innocente scomparsa continua a tornare sotto i riflettori. Non sia questo un motivo per scaricare sul Vaticano colpe che non ha, ma sia piuttosto occasione per rendersi conto della realtà terribile e spesso dimenticata che è costituita dalla scomparsa delle persone – in particolare di quelle più giovani – e opporsi, da parte di tutti e con tutte le forze, ad ogni attività criminosa che ne sia causa».
Riteniamo che padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, abbia risposto in modo documentato, completo e credibile a tutti i sospetti sul ruolo del Vaticano in questo drammatico caso, tanto che anche il capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, ha apprezzato la nota vaticana: «Accolgo con soddisfazione le dichiarazioni di padre Lombardi».
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2. LA PISTA DELLA SPARIZIONE STRUMENTALIZZATA
Cominciamo ad analizzare le varie ipotesi di soluzione proposte in questi anni. La prima e più semplice è quella sessuale sia per Emanuela che per Mirella, a sostenerla è stata per prima il magistrato Margherita Gerunda, che si occupò del caso nel primo periodo. «Mi feci subito l’idea», disse in un’intervista, «come del resto tutti gli investigatori, che la ragazza fosse stata attirata in un agguato, violentata e uccisa, comunque morta in seguito alle violenze». Venne poi sostituita nell’83 da Domenico Sica, «interpretai il mio essere tolta dal caso Orlandi come la precisa volontà di assecondare i clamori e sposare in pieno la pista del rapimento politico per lo scambio con Agca».
A questa pista possiamo abbinare quella dell’allontanamento volontario. Ma, alla luce dei fatti, è molto più verosimile tuttavia quella che abbiamo definito la pista della “sparizione strumentalizzata”: un allontanamento volontario delle ragazze, magari fidandosi di persone amiche, seguita da una loro morte criminale non necessariamente preceduta da violenza sessuale, ed infine una strumentalizzazione della loro scomparsa da parte degli stessi omicidi o da persone a loro contigue, per motivi oscuri dal sapore ricattatorio. Questa pista è sostenuta in particolare dal giornalista e scrittore Pino Nicotri: «l’unica pista che oggi è rimasta in piedi e che all’epoca era comunque la più ragionevole: la pista del sequestro a fini di libidine o vendetta personale […]. Decenni e decenni di cronaca nera dimostrano che la pista del sequestro a fini di libidine o di vendetta personale non ha molto a che fare con i “maniaci sessuali”, ma ha invece moltissimo a che fare con i vicini di casa, i parenti, gli amici dei parenti e quelli di famiglia». Verso essa è sembrato orientarsi anche l’avv. Egidio, legale degli Orlandi e dei Gregori, nelle telefonate (una e due) avute con lo stesso Nicotri.
L’avv. Egidio ad esempio ha affermato: «Ma no, non è stato un rapimento. La verità è molto più semplice e banale, la fine di Emanuela è più banale. La ragazza godeva di molta più libertà di quanto è stato fatto credere». Nella prima telefonata con Nicotri è proprio l’avv. Egidio ad introdurre dicendo: «non c’è nulla da escludere, anche le cose le più semplici, perché forse nella semplicità vi è la realtà. Non so se lei riesce ad afferrare quello che io dico, eh?». Parlando dei genitori di Emanuela, Nicotri afferma: «sono due genitori che insistono a dire che la loro figlia non accettava passaggi in auto neanche dal prete che suonava il pianoforte in chiesa […]. Ecco io so che tutti i genitori le figlie di quell’età non le conoscono in realtà», trovando il legale d’accordo.
Nella seconda telefonata Nicotri ritorna sul punto: «E anche gli Orlandi credo non sapessero in realtà chi era e che faceva la figlia». «Sono pienamente d’accordo con lei. […] Tutto è possibile nella vita», la risposta dell’avv. Egidio. «Se mi sono fatto un’idea? Io propendo più per cose semplici, normali […]. Quello che rimane forse potrebbe essere quello che appare così semplice, potrebbe essere la verità. E cioè un caso molto semplice che però strumentalizzato, adoperato dagli altri per altri motivi, successivamente». E ancora: «Guardi per rispondere brutalmente i genitori anche se a volte si trovano di fronte all’evidenza, sono capaci di andare oltre la realtà perché loro credono nei loro figli. O magari vi è un senso di ritegno. Ritengono di voler salvare la dignità e il nome della famiglia. Ma i figli, come lei ben diceva prima, ma chi li conosce? A quell’età poi…».
Per quanto riguarda Mirella Gregori, invece, l’avv. Egidio sembrò considerare l’ipotesi di qualche traffico, probabilmente di prostituzione anche se non dice tale parola. Lo si intuisce da una famosa frase detta dalla stessa Mirella alla madre: «Mamma, tu dici che hai difficoltà, enormi difficoltà, che non si può acquistare una casa. Non ti preoccupare, ai soldi penso io». L’avvocato commenta: «Sì, questa è una frase che veramente ha colpito me, ha colpito la mamma […]. Penserei che il caso della Gregori potrebbe essere sempre un caso che rientra in quello che era magari un traffico…e allora quindi caduta nell’inganno e avrà ripetuto dentro di sé quello che le avevano promesso, per ingannarla. E quindi avrebbe avuto chi potesse magari un giorno avere denaro e aiutare quindi la mamma e la famiglia. E invece magari cadde in un inganno. Successivamente, cioè altri che avevano chissà quali altri interessi, per pressioni magari nelle sedi al di là del Tevere o anche qui in Italia […], quando vi è stato l’interesse per il caso Gregori, che fu poi collegato al caso Orlandi, […] questa gente quando hanno visto che appariva sui giornali a questo punto si sono innestati nella storia dicendo…». Ma questa gente come faceva allora a conoscere la biancheria intima di Mirella il giorno in cui sparì? Risponde l’avvocato: «per esempio la sua amica, la Sonia, sapeva molto bene quello che aveva indosso la Mirella. Perché in effetti le scarpe sapeva che le aveva comprate lei in quel negozio, il maglione glielo aveva prestato lei […]. Chissà che magari la Sonia non dovesse andare anche lei e che in effetti è andata avanti la Mirella e Mirella è caduta nell’inganno. […]. Ed è strano che la Sonia… Ecco, la Sonia ha avuto sempre paura di parlare».
Questa tesi dunque sostiene che Emanuela, (a) sarebbe stata rapita per fini libidinosi; oppure (b) che Emanuela non era proprio la ragazzina che i genitori pensavano di conoscere, era più libera (o libertina) di quanto si credesse ed è finita in un giro sporco; oppure (c) Emanuela si sarebbe fidata di persone sbagliate, legandosi a strane amicizie che portano alla zia Anna e a Torano, la località turistica degli Orlandi (si legga il paragrafo relativo). Dopo uno di questi eventi l’allontanamento e/o morte di Emanuela sarebbe stato strumentalizzato dagli stessi autori del fatto criminale o da persone estranee e a loro contigue che, inserendosi nella vicenda, avrebbero fatto credere di essere i responsabili della sparizione per perseguire loro interessi/ricatti. Mirella invece sarebbe caduta con l’inganno in un traffico, probabilmente sessuale (sembra alludere l’avv. Egidio), fatta sparire e anche in questo caso ci sarebbe stata la strumentalizzazione di persone estranee che hanno collegato la sua scomparsa a quella della Orlandi. Valutiamo la credibilità di queste ipotesi.
I PUNTI FORTI DELLA PISTA DELLA SPARIZIONE STRUMENTALIZZATA
1) Nessun rapimento forzato. Né per Mirella né per Emanuela ci sono testimoni di un prelevamento forzato delle ragazze, nonostante siano entrambe scomparse non in orari notturni e in zone molto trafficate. Quindi o si sono allontanate volontariamente dal luogo in cui sono state viste per l’ultima volta (il bar dei De Vito per Mirella e la fermata dell’autobus per Emanuela), oppure si sono allontanate fidandosi di qualcuno, anche tramite l’inganno. Non vediamo altra soluzione e questo porta ad escludere che siano state rapite da estranei, confermando l’impianto della pista.
2) Sostenuta dall’avv. Egidio e dal magistrato Gerunda. Quella della sparizione strumentalizzata è effettivamente una tesi semplice e verso la quale sembrano essersi orientati sia l’avv. Egidio, che ebbe un ruolo principale nella vicenda, tanto che a lui si riferiva il principale telefonista, l'”Amerikano”, che il magistrato Gerunda.
3) Nessuna prova certa. La pista risolve anche il mistero per cui i sedicenti rapitori non hanno mai saputo (o voluto) dare prova certa di avere Emanuela e Mirella: come già scritto, sarebbe bastata una loro foto con a fianco un quotidiano, come d’altra parte chiese la famiglia Orlandi. Si limitarono invece a dettagli della biografia di Emanuela, fotocopie di alcuni suoi effetti personali e fecero trovare la registrazione di alcune sue parole copiate più volte sul nastro. Piccole prove e mai decisive o soddisfacenti: o queste persone non potevano dare prova di avere le ragazze, perché erano già morte (come sostiene la pista della “sparizione strumentalizzata”), oppure non erano interessati a farlo (e quest’ultima pare l’ipotesi più convincente, lo vedremo dopo). Non si possono tuttavia liquidare in fretta alcune precise informazioni che seppero comunque dare su Emanuela, alcune che conoscevano soltanto pochissime amiche e altre soltanto i familiari più stretti. Come già appurato sopra, va escluso che le amiche abbiano riferito qualcosa (a meno che fossero complici) a degli estranei, poiché si sarebbero insospettite e, una volta sparita Emanuela, avrebbero denunciato la cosa (impossibile che abbiano invece fornito queste informazioni dopo la sparizione). Tanto più va escluso che a raccontare particolari di Emanuela, poi pubblicati sui quotidiani una volta usati dai sedicenti rapitori, sia stato un familiare. Questo è un punto debole dell’ipotesi, elencato più sotto.
4) Scarso collegamento tra Emanuela e Mirella. Le sparizioni di Emanuela e Mirella sono diverse, seppur le due ragazze avevano la stessa età, e non sono state collegate dai primi telefonisti che chiamarono a casa Orlandi né da nessun investigatore, tanto meno dalla famiglia. Nessuno rinvedicò la scomparsa di Mirella. Il primo collegamento tra i due casi avvenne soltanto due mesi dopo la sparizione di Emanuela, il 4 agosto 1983, quando si citò Mirella all’interno del “Komunicato 1” del “Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh”. Curioso che proprio di Mirella si parlò nell’ultima settimana del mese precedente in un’inchiesta della rivista “Panorama” (“Mistero Vaticano”, pag. 75). Oltre all’età esiste un altro collegamento tra le due ragazze: Mirella ha lavorato per la Avon (riferito dalla sorella Antonietta Gregori) ed Emanuela è stata avvicinata da un uomo che le ha parlato della Avon (che lo abbia fatto è contenuto nella deposizione dell’amica di Raffaella Monzi del 09/07/83, l’ultima persona a vedere la Orlandi). Non è un collegamento importante, tantissime ragazze ebbero a che fare con la Avon e si può parlare tranquillamente di coincidenza.
5) Sentenza archiviazione 1997. Nella sentenza di archiviazione del giudice ispettore Adele Rando del 1997 si conclude rilevando effettivamente che quello della Orlandi non è stato un rapimento ma una messa in scena depistatrice, parlando di una «strumentale connessione della scomparsa di Mirella con il caso di Emanuela, probabilmente allo scopo di accrescere la complessità del quadro investigativo di quest’ultima vicenda, rendendolo, se possibile, ancora più inestricabile».
I PUNTI DEBOLI DELLA PISTA DELLA SPARIZIONE STRUMENTALIZZATA
1) Cinismo. Per chi sostiene un allontanamento volontario delle ragazze, dovrebbe spiegare come hanno potuto restare lontane da casa, osservare indifferenti la sofferenza della famiglia, ignorare gli innumerevoli e strazianti appelli, apprendere dai media la morte dei genitori (il padre di Emanuela e la madre di Mirella) senza mai, in trent’anni, dare una minima notizia? Si sono spaventate nel veder catapultata la loro scappatella in mondovisione? Può essere vero nel primo periodo, ma questo non giustifica la lontananza tutti questi anni. Nulla era accaduto in famiglia da giustificare questo comportamento e non ci sono elementi per ritenere che Emanuela e Mirella fossero un mostro di insensibilità. Questo porta a scartare questa ipotesi a meno che si sostenga che, dopo l’allontanamento volontario, qualcosa di criminale sia effettivamente loro accaduto, ipotizzando l’intervento omicida di qualcuno, oppure l’interessamento da parte di estranei al fatto che le ragazze rimanessero lontane da casa tramite la minaccia. Sembra l’unica strada per sostenere tale ipotesi.
2) Respinta dalla famiglia. A respingere l’ipotesi dell’allontanamento volontario, in particolare, sono gli stessi familiari, le persone che hanno visto crescere Emanuela e Mirella, che le conoscono meglio di tutti. I sostenitori di questa ipotesi, invece, non le hanno mai conosciute. «Mia sorella non si è allontanata spontaneamente, su questo non deve esistere il minimo dubbio. La sua scomparsa, direttamente o indirettamente, ha attivato forze occulte su scala internazionale e noi siamo capitati in mezzo a questo casino!», ha scritto Pietro Orlandi (“Mia sorella Emanuela”, pag. 85). Anche Nicola Cavaliere, della squadra mobile di Roma all’epoca dei fatti, ha affermato: «Non credo proprio che sia fuggita volontariamente», ha detto, «e non esiste alcuna prova certa della sua esistenza in vita fin dal primo momento successivo alla scomparsa, così come, d’altra parte, non esiste alcuna prova certa della sua morte» (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 24).
3) Prove dei telefonisti. Questa è la prova principale contro la pista dell’allontanamento volontario e della pista sessuale: è vero che i telefonisti non seppero (o non vollero) mai dare prova certa di avere Emanuela e Mirella, come mostriamo nei “punti forti”, tuttavia -come già scritto- seppero comunque dare informazioni di particolari precisi e autentici che non possono essere liquidati in fretta. Il 25 giugno, tre giorni dopo la sparizione di Emanuela, arriva la telefonata di “Pierluigi”: non è un mitomane, dice che la sua fidanzata ha visto la foto di Emanuela sui giornali e si è ricordata di averla vista, si faceva chiamare Barbarella mentre vendeva collane in piazza Campo dei Fiori. Aggiunge che la ragazza aveva con sé un flauto riposto in una custodia nera (non sappiamo se i giornali ne avessero parlato) ma aveva vergogna a suonarlo in pubblico anche perché «per leggere avrebbe dovuto mettersi un paio di occhiali con la montatura bianca che la imbruttivano», preferendo la marca Ray Ban. “Pierluigi” richiamerà più tardi dicendo: «mi sono ricordato che Barbara aveva detto di avere l’astigmatismo ad un occhio, per questo doveva portare gli occhiali». I dati forniti da “Pierluigi” sono veri (e, curiosamente, riportano a Torano, come abbiamo approfondito nel capitolo dedicato alla zia Anna). Il giorno dopo “Pierluigi” richiama e parla della “Avon” (nessuno ne ha ancora parlato pubblicamente), dice che Emanuela-Barbarella avrebbe dovuto suonare il flauto al matrimonio della sorella e la sorella maggiore ha portato per un periodo gli occhiali. Entrambi dettagli veri (“Mistero Vaticano”, pag. 32). Sono informazioni che nessun onesto testimone darebbe, l’uomo sta evidentemente accreditandosi come persona informata dei fatti sostenendo, però, che si tratta di una scappatella volontaria. Stesso copione per “Mario” che telefonerà il giorno successivo, farà capire di avere un legame con “Pierluigi”, parlerà di Barbarella assicurando in un allontanamento volontario dettato dall’avere “una vita piatta”.
I telefonisti faranno ritrovare la fotocopia della facciata anteriore (con foto) della tessera d’iscrizione di Emanuela alla scuola di musica e una fotocopia della ricevuta del versamento della rata scolastica per la scuola di musica da 5000 lire datata 6/5/83 (poche settimane prima della scomparsa), la fotocopia del retro della tessera della scuola di musica e la fotocopia del frontespizio di un album con gli spartiti per flauto del compositore Hugues (con tanto di scritte di Emanuela e numeri di telefono delle compagne di corso), che Emanuela aveva con sé il giorno del rapimento. Se non dalla borsa di Emanuela, dove possono aver recuperato questi documenti? Sono tutti collegati alla scuola di musica, ma chi mai darebbe ad un estraneo fotocopie di documenti degli alunni? Li hanno rubati? E nessuno della scuola se n’è accorto? Sull’istituto Da Victoria caddero inevitabilmente molti sospetti, Pietro Orlandi tuttavia ricorda che sia polizia che i servizi segreti si presentarono dalla direttrice suor Dolores chiedendo la lista completa delle allieve e lei comunicò la cosa in questura (“Mia sorella Emanuela”, pag. 94). Anche fosse: come facevano a sapere cosa aveva con sé Emanuela quel giorno, quali documenti e spartiti rubare? Senza contare che gli spartiti di Hugues avevano scritte di Emanuela, come numeri di telefono e nomi delle sue amiche (usati dai telefonisti per chiamarle e dettare loro i comunicati). L’“Amerikano” il 7/07/83 telefonò dando altri dettagli: il sacerdote che deve celebrare il suo matrimonio è un amico di famiglia, il cantante preferito da Emanuela è Claudio Baglioni e lei è innamorata di Alberto, ora a militare. Bisogna anche considerare che un telefonista chiamò anche al bar dei Gregori elencando nel dettaglio le marche dei vestiti che indossava Mirella il giorno della sparizione. Non erano dunque estranei inseritisi nel caso successivamente per i loro interessi, come sostengono i promotori di questa pista.
Dunque: o i telefonisti ebbero a che fare direttamente con Emanuela e Mirella, oppure ebbero contatti con chi avevano o avevano avuto a che fare con loro. O chiesero a Emanuela e Mirella i dettagli su di loro, oppure li chiesero a chi aveva con loro a che fare. Le informazioni biografiche (ma non le fotocopie e gli spariti) avrebbero potuto chiederle a qualche amica o familiare? No, si sarebbero insospettiti di queste attenzioni da parte di estranei e avrebbero collegato le cose. Erano complici dei telefonisti, oppure vennero da loro minacciati (e lo sarebbero ancora ora)? E’ ipotizzabile pensarlo per l’amica di Mirella, Sonia De Vito, la quale conosceva gli indumenti elencati dai presunti rapitori e che l’amica indossava quel giorno: si è dimostrata inizialmente reticente con gli inquirenti. Tra le amiche di Emanuela, invece, solo Raffaella Monzi sembra aver subito minacce e ripercussioni nel tempo (ha raccontato: «cominciarono le telefonate anonime. Ne arrivarono tante, tantissime, a casa. Ero terrorizzata. Più di una volta, un uomo al telefono disse: “Raffaella farà la fine di Emanuela, e anche una bella ragazza”»), non si è mai verificato però se si fosse trattato di persone disturbate o reali minacciatori. Lei dunque è l’informatrice di tutti questi dettagli su Emanuela? Ha quindi mentito agli inquirenti? Se furono minacciate trent’anni fa, comunque, oggi sarebbero sufficientemente protette se venissero allo scoperto, anche grazie al rilievo mediatico della vicenda. Ma tutto questo è improbabile: non solo perché i telefonisti fecero trovare (seppur in fotocopia) documenti e spartiti posseduti quel giorno da Emanuela, ma anche certe informazioni non erano note alle amiche. Ad esempio, la famiglia nell’agosto 1983 -su suggerimento degli agenti del Sisde-, pose una domanda al “gruppo Turkesh”: dove cenò Emanuela il 20 giugno (3 giorni prima della sparizione)? La risposta fu corretta: con “parenti molto stretti”. Pietro Orlandi ha spiegato che questo dettaglio era conosciuto soltanto in famiglia (“Mia sorella Emanuela”, pag. 106).
Nelle conclusioni della Commissione parlamentare Mitrokhin si legge: «è certo che i telefonisti, gli autori dei messaggi o i loro ispiratori avessero, o avessero avuto, contatti con Emanuela, con la famiglia o con conoscenti di Emanuela o della famiglia». Nella requisitoria del Procuratore generale della Corte di Appello, Giovanni Malerba, si legge: «Né si dica che i primi “telefonisti” fossero persone non soltanto estranee al progetto criminoso, ma altresì all’oscuro di esso; nei successivi messaggi del gruppo che rivendicava il sequestro, più di una volta è dato rinvenire riferimenti ai “nostri elementi Pierluigi e Mario”; e per di più il Pierluigi, nei colloqui telefonici, si mostrava al corrente di particolari rivelatisi esatti (flauto, occhiali con montatura bianca non graditi alla giovane, astigmatismo ad un occhio, imminente matrimonio della sorella ecc.). Tutto questo dimostra lo stretto collegamento tra Pierluigi e Mario e coloro che rivendicavano il sequestro». (requisitoria del pm Malerba, 6/08/97). L’ex magistrato Ferdinando Imposimato, giudice istruttore del processo per l’attentato a Giovanni Paolo II del 1981, avendo seguito il caso per conto dei familiari di Emanuela, ha riferito che «le lettere sono, almeno in parte, una prova dei collegamenti tra chi le scriveva e la ragazza scomparsa, come riconosciuto anche dai magistrati, che però non hanno ritenuto provato che costoro effettivamente avessero rapito la ragazza – e la tenessero segregata – – al momento in cui recapitavano, per un ampio lasso di tempo, i messaggi». I telefonisti ebbero diretto contatto con Emanuela oppure con chi aveva a che fare con lei, non c’è altra soluzione. Lo stesso giornalista Pino Nicotri, sostenitore di questa tesi, riconosce tuttavia implicitamente la responsabilità del telefonista l'”Amerikano” quando si sofferma a lungo nei suoi libri sul fischio del treno che si ascolta alla fine di una telefonata da lui fatta. Il giornalista ha collegato questo dettaglio ad una rivelazione che gli è stata fatta in passato, ovvero che Emanuela sarebbe stata portata (e uccisa) la sera stessa del rapimento in via Monte del Gallo, proprio nei pressi della stazione di S. Pietro. Nicotri dunque riconosce attendibilità alle telefonate dell’Amerikano, individuandolo non come un mero depistatore senza legami con la Orlandi, ma un vero responsabile dei fatti.
4) Comunicati con elementi attendibili. Legato al punto precedente c’è anche una considerazione sui comunicati del “Fronte Turkesh”. L’ex colonnello della Stasi, Gunther Bohnsack, ha riferito che erano loro gli autori di questi messaggi e di quelli firmati “Phoenix”: «Ci divertivamo a scriverli in un italiano molto scorretto. Cercavamo così di aiutare i bulgari assurdamente accusati per l’attentato di Agca». E ancora: «Si, li facevamo noi, insieme a colleghi dei servizi segreti bulgari che incontravamo qui a Berlino», comprese le missive spedite da Boston (cfr. telefonata del 3/7/02 citata in “Emanuela Orlandi: la verità”, pag. 109). Stesse cose che l’ex colonnello ha riferito in un’intervista: «Il senso era questo. Chiedevamo la liberazione di Ali Agca, l’attentatore del Papa. E uno scambio con la ragazza. Volevamo far credere di essere dei nazionalisti turchi, interessati alla sorte del loro compagno. Ma lo scopo vero era naturalmente quello di stornare l’attenzione dalla Bulgaria». L’ex agente rivelò anche che usarono il “caso Orlandi” per minacciare il giudice Ilario Martella, allora istruttore sull’attentato a Wojtyla e sul rapimento della Orlandi, dicendogli di smetterla di diffamare i “loro amici” (i bulgari legati all’attentato al Pontefice) e di pensare ad Emanuela Orlandi.
Va bene l’italiano scorretto per simulare di essere nazionalisti turchi preoccupati del loro sodale Agca, tuttavia non si capisce perché rendere i comunicati anche così farneticanti, tanto che nessuno li prese mai sul serio né li attribuì mai realmente a nazionalisti turchi. Pensavano davvero di passare per fondamentalisti islamici usando il nome “Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh” e “Nuova organizzazione musulmana per la lotta anticristiana”? Davvero la Stasi non capì che era un’azione controproducente che portava l’attenzione proprio laddove tale gruppo cercava di allontanarla, cioè sui bulgari e sull’Est? Oltretutto erano in contrasto con il comportamento dello stesso Agca il quale, come è stato rilevato, produsse infinite dichiarazioni deliranti «con l’effetto chiaro di inficiare le acquisizioni sul “livello” turco delle indagini». Inoltre, va considerato che tali comunicati erano sì sconclusionati, ma contenevano particolari che Bohnsack non ha spiegato come poteva conoscere: come sapeva che due giorni prima di sparire “Emanuela formulò una frase che rese di ghiaccio suo padre”? Questo particolare venne rivelato nel Komunicato del 22/11/83, confermato allora dal padre Ercole: «si, mia figlia reagì in modo inconsueto, con una frase pesante nei miei riguardi poco prima della scomparsa». In che modo, inoltre, Bohnsack è venuto in possesso della fotocopia della tessera scolastica con la foto di Emanuela e la ricevuta di versamento, dato che vennero fatti ritrovare allegati ad un comunicato di “Phoenix” il 13/11/83? E’ vero che erano già stati fatti ritrovare il 6/7/83 da un anonimo, ma non era certo materiale reso pubblico e disponibile dalla polizia italiana.
Nessun funzionario della Stasi o della polizia italiana ha oltretutto mai confermato dichiarazioni di Bohnsack. Anche nella relazione del Sisde, si legge che «nei quattro comunicati del Turkesh e negli altrettanti di Phoenix, infatti, portano ad acclarare l’ipotesi che gli estensori siano a conoscenza di fatti inerenti a Emanuela Orlandi o relativi alla sua vicenda, sconosciuta sia agli organi di stampa che agli stessi presunti rapitori». Nella requisitoria del Procuratore generale della Corte di Appello, Giovanni Malerba, si legge: «Alcuni dei comunicati del Fronte Turkesh evidenziano rilevanti connotazioni di autenticità e genuinità in quanto accompagnati da prove foniche e documentali riferibili a Emanuela Orlandi -registrazione di frasi pronunciata dalla giovane, fotocopia di documenti quali la tessera scolastica di Emanuela e lo spartito di esercizi per il flauto, fotocopia di parole e frasi vergate di pugno della medesima ed altresì a Mirella- descrizione dell’abbigliamento anche intimo, della giovane, con dettagli estremamente precisi, noti solamente a chi avesse avuto contatto con costei. Questi i dati certi che andavano al di là della varietà delle sigle di rivendicazione, il cui unico scopo era di sviare le indagini sulla pista fascista e sulla CIA». Inoltre, di fronte «all’inspiegabile (se non nell’ottica azione di depistaggio) fiorire di gruppi e sigle rivendicanti la paternità dell’operazione Orlandi (l’Americano, il Fronte Turkesh, i Lupi Grigi, il Nomlac, gli anonimi in lingua tedesca, il gruppo che da Boston si pose in contatto con il corrispondente romano della CBS Richard Roth), ovvero, come nel caso della sigla “Phoenix”, discesi in campo per minacciare apertamente i soggetti implicati nella vicenda Orlandi, ivi compresi Pierluigi e Mario, è davvero singolare, in tale apparentemente intricato intreccio, la circostanza che le “prove documentali” della disponibilità dell’ostaggio (messaggi autografi, tessera di iscrizione scolastica) fossero in possesso non soltanto di taluno dei gruppi che ne rivendicavano il sequestro, ma anche del contrapposto gruppo Phoenix […]. Tuttavia, al di là delle incoerenze e dei contrasti apparenti, dall’analisi dei messaggi provenienti da coloro che fornivano le più convincenti prove, foniche e documentali, di effettiva disponibilità dell’ostaggio (segnatamente del messaggio recuperato in un furgone RAI in Castelgandolfo), con buona pace dei Lupi Grigi e affini, il contenuto di tali messaggi denota un livello di cultura, di conoscenze, di capacità valutativa di situazioni politiche, diplomatiche e giuridiche italiane e vaticane, per un verso decisamente fuori dalla portata intellettuale delle formazioni che pur si contendevano la rivendicazione dei sequestri e per l’altro riconducibile ad ambiente italiano, o meglio romano» (requisitoria del pm Malerba, 6/08/97)
Opportuna l’osservazione di Marco Fassoni Accetti: «Non solo alcun documento né testimonianza attesta» che l’autore fu la Stasi, ma anche gli intenti del gruppo “Phoenix” erano differenti da quelli citati dall’ex colonnello: «La ”Stasi”, secondo Bohnsack, scrisse delle lettere spacciandole per opera dei cosiddetti “Lupi Grigi”», volendo allontanare sospetti e accuse dai bulgari, invece, «coloro che si presentavano come gruppo “Phoenix”, si qualificavano come una certa entità mafiosa che minacciava i sequestratori della Orlandi e li esortava a liberarla. E di ciò la “Stasi” non ne aveva chiaramente alcun interesse, in quanto, lo ripeto, l’unica loro motivazione era accusare i terroristi turchi di aver compiuto l’attentato al Pontefice». Secondo lui dietro a Phoenix c’erano alcuni membri del Sisde.
5) Scuse troppo complesse. Pino Nicotri nel libro “Triplo inganno” scrive rispetto alla spropositata cifra (375mila lire) offerta a Emanuela: «Sembra quasi la scusa ingenua di una ragazzina che vuole poter stare fuori casa per un po’ per i fatti suoi» (p. 53). Effettivamente è calzate l’obiezione a lui rivolta da Marco Fassoni Accetti: «Quindi una quindicenne per restare un po’ fuori casa, non solo inventa che un uomo l’ha fermata e le ha proposto un lavoro, ma specializza la bugia coinvolgendo la maison delle sorelle Fontana, ed elaborando ulteriormente ambienta il luogo dove si terrà la sfilata, nella sala Borromini. Addirittura stabilisce la cifra esatta pattuita. Ed una scusa del genere tanto sofisticata, il giornalista la definisce “ingenua”, attribuendola oltretutto ad una semplice quindicenne. Se così fosse questa ragazzina sarebbe più che smaliziata, quasi diabolica». Questo particolare è uno dei tanti esempi di poca credibilità dell’allontanamento volontario di Emanuela, la quale non avrebbe inventato una storia simile.
6) Testimoni oculari. Seppur controverse, non si possono liquidare troppo in fretta le testimonianze del vigile Sambuco e del poliziotto Bosco in servizio davanti al Senato quel giorno. Ne abbiamo già parlato sopra: poche ore dopo la sparizione della ragazza Sambuco rilascia la sua versione a Pietro Orlandi dell’incontro tra Emanuela e l’uomo della BMW che le mostra del materiale, confermando ciò che Emanuela disse nella telefonata a Federica senza che nessuno ne abbia ancora parlato. Testimonianza confermata dal poliziotto Bosco nei termini generali, ma in contraddizione nei dettagli a conferma che non vi fu accordo tra loro. Non lo fecero per “finire sui quotidiani”, come affermato dal magistrato Gerunda, poiché era allora si configurava come un abituale caso di sparizione di un’adolescente non l’incredibile giallo di oggi, non lo fecero perché si impietosirono della famiglia perché entrambi diedero una versione simile nei termini generali (seppur non nei particolari), confermata in più deposizioni (anche ufficiali). Si misero d’accordo? Furono istruiti a testimoniare in questo modo? Questo però dimostra una complicità con i rapitori. E’ l’unica soluzione, oppure videro davvero quello che dissero, confermando la telefonata di Emanuela.
7) Requisitoria del 1997. La sentenza di archviazione della Rando del 1997 contrasta con la requisitoria del procuratore generale Giovanni Malerba del 5 agosto 1997, il quale avvalora l’ipotesi del sequestro: «pur in assenza di prove sicure della vita o della morte di Mirella Gregori e di Emanuela Orlandi, non vi è motivo di revocare in dubbio che le stesse siano state realmente private della libertà personale; la prolungata assenza, ormai protraentesi da oltre quattordici anni, valutata unitamente ai messaggi scritti e telefonici pervenuti ed alle prove foniche e documentali concernenti Emanuela Orlandi, rendono più che evidente che le due giovani, pur inizialmente seguendo spontaneamente i sequestratori in quanto verosimilmente tratte in inganno (un duplice sequestro attuato in pieno giorno sulla pubblica via con violenza o minaccia sarebbe stato in ogni caso notato e riferito da più persone), siano state in seguito trattenute contro la loro volontà».
Conclusione. L’ipotesi dell’allontanamento volontario o la pista sessuale, seppur molto semplici, vanno escluse: gli argomenti contrari, sopratutto quella dei telefonisti e dei comunicati, sono decisive. Ci sarebbe anche da considerare il riconoscimento di alcuni uomini legati alla malavita romana che alcuni amici di Emanuela fecero sulle persone che pedinarono la ragazza nei giorni antecedenti alla sparizione (ne parleremo più sotto). E’ invece più verosimile sostenere che Emanuela si sia allontanata volontariamente accettando di far parte di un finto sequestro, oppure che sia stata sequestrata -allontanandosi con l’inganno- e che tale scomparsa sia stata strumentalizzata dalle stesse persone o da loro complici diretti. Questo porta ad escludere il rapimento per puro libidine, la pista sessuale e l’allontamento volontario. Entrambe le versioni non si discostano molto da quella raccontata nel 2013 da Marco Fassoni Accetti, di cui parleremo sotto.
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3. L’IPOTESI DELLA PISTA INTERNAZIONALE
Una delle ipotesi più sostenute per spiegare il caso della sparizione delle due ragazze è quella della pista internazionale, secondo la quale il rapimento si verificò per allontanare i sospetti dell’attentato a Giovanni Paolo II dai “Lupi Grigi” e da i bulgari, chiamati in causa da Alì Agca. I rapitori delle ragazze, infatti, attraverso la loro azione avrebbero cercato di ricattare e/o condizionare il terrorista turco portandolo a ritrattare le sue accuse e a interrompere la collaborazione con gli inquirenti oppure, secondo un’altra versione, avrebbero cercato di ricattare i capi di Stato vaticano e italiano inducendo il primo, Giovanni Paolo II, a “perdonare” Agca e il secondo, Sandro Pertini, a concedergli la grazia presidenziale. Che è poi quello che volevano (almeno apparentemente) anche i telefonisti e le sigle post-sparizione. Questa è stata l’ipotesi più valutata dalla prima indagine sul caso, che si è conclusa con l’archiviazione del 1997. L’ipotesi è sostenuta ancora oggi da tanti autorevoli protagonisti della vicenda ma osteggiata da diversi altri, presenta punti di forza e notevoli punti deboli.
I PUNTI FORTI DELL’IPOTESI DELLA “PISTA INTERNAZIONALE”
1) Comportamento di Agca. Il principale argomento a sostegno di questa tesi è l’effettivo comportamento di Alì Agca: come riportano le cronache di allora, dal dicembre 1981 fino al 22 giugno — data del sequestro di Emanuela — l’idealista turco collaborava attivamente con il giudice istruttore, Ilario Martella, incolpando per l’attentato la “famosa pista bulgara” su ordini del KGB (avvalorata anche dalla maggioranza dei componenti della commissione Mitrokhin). Aveva elencato diversi particolari che avrebbero dovuto provare la corresponsabilità del bulgaro Sergei Antonov (che gli avrebbe fornito l’arma) e dei servizi segreti bulgari. «Ma improvvisamente», si legge, «nell’interrogatorio del 29 giugno il killer turco comincia a ritrattare tutto. Dice di non aver mai visto l’abitazione di Antonov, di non aver mai conosciuto la moglie Rosizca, di non aver saputo (prima del riconoscimento fotografico) dell’attività di Antonov come caposcalo della Balkan Air, di non essere mai stato nemmeno nella sede della compagnia aerea. Tutte informazioni, queste, fornite in precedenza con dovizia di particolari». Tanto che il giudice istruttore non tentennò nel firmare il mandato di cattura contro Antonov.
Nel giugno 1984 il PM dell’inchiesta sull’attentato al Papa, Antonio Albano, completò la requisitoria contro Agca ed Antonov e, citando l’interrogatorio ad Agca del 28 giugno, scrisse testualmente: «a coincidenza vuole che proprio in quei giorni scompare la giovane Emanuela Orlandi». Anche Antonio Marini, il Pm che allora indagava su Agca, ebbe un forte sospetto che il terrorista turco abbia fatto di tutto per screditare la sua persona facendo naufragare il suo processo e che sia stato ricattato o condizionato dal rapimento di Emanuela Orlandi, che potrebbe essere servito per lanciargli messaggi in modo che ritrattasse le accuse ai Lupi grigi e ai bulgari. Effettivamente la ritrattazione arrivò dopo cinque giorni dalla sparizione della Orlandi. Lo stesso Agca nel 1985 durante un interrogatorio disse: «Ho dato tante versioni contraddittorie, ho parlato di Pazienza che non c’entra, perché “lupi grigi” e bulgari hanno rapito la ragazza, perché io ritrattassi e confondessi e screditassi la stampa che aveva parlato di Urss e Bulgaria. Ho visto dai giornali gli ultimi messaggi dei rapitori di Emanuela Orlandi e ho riconosciuto la calligrafia di Oral Celik». E ancora: «Sì, bulgari vogliono condizionarmi […] Ho pensato, la potrebbero uccidere, appesantirebbero la mia situazione…C’è una posizione morale, mi dispiace se la uccidono…». L’attendibilità di Agca nel 1985 era già apertamente compromessa, per cui non si sa quanto sia vero quel che dice. Non si capisce in ogni caso perché tornò, dopo poco tempo, a sostenere la “pista bulgara” se temeva che i rapitori bulgari avrebbero potuto uccidere Emanuela per questo.
Da notare che Agca parlerà sempre di Emanuela e mai di Mirella Gregori, evidentemente ritenendo che i due casi fossero indipendenti e separati. Il giudice istruttore Martella ha anche ricordato che il turco tre giorni dopo la condanna rinunciò formalmente a proporre appello: «un fatto incredibile: una persona che è stata condannata all’ergastolo rinuncia all’appello, e non perché ha fatto scadere i termini per la sua presentazione ma per sua espressa decisione. Gli chiesi quale ne era il motivo e mi rispose che era sicuro di essere liberato con una azione di forza o eventualmente con un sequestro di persona. Mi ha raccontato questo molto prima del sequestro della Orlandi. Non si è mai pensato, neanche per un solo momento, che Agca fosse un cretino autolesionista. Se una persona rinuncia all’appello, significa che deve nutrire una fiducia illimitata sul fatto che prima o poi qualcuno lo libererà, o che comunque esiste la possibilità di avviare un negozio con lo Stato per arrivare ad una soluzione». Tuttavia Agca giustificherà la sua ritrattazione anche dicendo di essere stato minacciato da magistrati bulgari (Markov Petkov, in particolare), dunque per motivazioni indipendenti dal sequestro Orlandi. Lo stesso confidò anche all’ex giudice Ferdinando Imposimato, non esiste comunque alcun riferimento al fatto che i due giudici, venuti in Italia per svolgere la prima rogatoria da parte della Bulgaria, fossero in realtà agenti del servizio bulgaro. In un’altra occasione dirà invece di essere stato minacciato dai servizi occidentali che lo avevano visitato in prigione (in particolare Francesco Pazienza e Aldrich Ames, il primo lo ha querelato e del secondo si è appurato che «non risulta si trovasse neppure in Italia» nell’ottobre 1992, quando Agca dice di essere stato da loro minacciato, «né che si sia mai incontrato con Agca»). Infine, come ha precisato la Commissione Mitrokhin, il 16 gennaio 1985 Agca è tornato nuovamente ad accusare i bulgari e nell’interrogatorio svolto da Antonio Marini nel novembre 1997 ha confessato che non vi furono minacce da parte del giudice bulgaro, ma che si trattò solo di uno scambio di opinioni. Rimane il fatto oggettivo che Agca decise di rendersi totalmente inaffidabile esattamente 5 giorni dopo la sparizione della Orlandi.
2) Tesi sostenuta da autorevoli persone. Questa tesi è sostenuta dall’ex magistrato Ilario Martella, giudice istruttore dell’inchiesta sull’attentato a Giovanni Paolo II, il quale ha affermato: «Mi sono occupato della scomparsa delle ragazze [Emanuela e Mirella] nella fase iniziale. Ritengo si possa con certezza affermare che ambedue i delitti siano stati ideati da una ben ramificata organizzazione criminale, che più volte ha dato notizia di sé con messaggi e comunicati volti a richiedere in ogni sede (tra cui Vaticano e presidenza della Repubblica italiana) lo scambio della libertà di Emanuela con quella di Agca e talora dei suoi amici Bagci e Celebi […]. Mi giunsero messaggi di intimidazione che minacciavano me e i miei familiari della stessa sorte di Emanuela. Chiusa l’istruttoria, a fine 1984, cessarono». Anche l’attuale legale degli Orlandi, Massimo Krogh, ha affermato: «Noi come difesa abbiamo sempre pensato che fosse stata rapita per uno scambio con Agca».
A sostegno della pista internazionale anche Ferdinando Imposimato, giudice istruttore del caso dell’attentato al Papa, istruttore del processo alla Banda della Magliana e poi legale della famiglia Orlandi. Nel 2008 ha scritto che il rapimento di Emanuela Orlandi fu l’epilogo di un vasto complotto tra servizi segreti di vari Paesi, gli agenti della Stasi lo definirono “Operation Papstâ” e venne elaborato prima del 13 maggio 1981, giorno dell’attentato a Giovanni Paolo II. Fallito l’attentato, si ripiegò su attacchi trasversali al Papa, come sequestri di cittadini vaticani in età adolescenziale. Il Papa sarebbe stato colpito molto più di un attacco diretto contro di lui o contro un sacerdote della chiesa (avrebbe capito che «quegli ostaggi erano vittime innocenti della sua politica temeraria verso i paesi socialisti». Lo scopo era duplice: colpire il Papa e conquistare la fiducia di Ali’ Agca, facendogli capire che volevano aiutarlo per indurlo a distruggere il processo contro i bulgari ed i lupi grigi (quindi contro l’Unione Sovietica e la Bulgaria). I sequestri di persona, ha sostenuto Imposimato, erano strumenti abituali di lotta politica per il Kgb e per i bulgari. Quello della Orlandi avvenne grazie ad agenti infiltrati: il monaco benedettino Eugen Brammertz, agente della Stasi, il capitano delle guardie svizzere Alois Estermann, presunto agente della Stasi (uno dei tre morti misteriosi del 4 maggio 1998 in Vaticano), due agenti del Kgb infiltrati nell’entourage del cardinale Agostino Casaroli (il nipote Marco Torretta e la moglie Irene Trollerova, ceca) e denunziati dai servizi cechi dopo la caduta del muro di Berlino, e due giornalisti dell’Osservatore Romano appartenenti anch’essi alla Stasi. Che Brammertz e Estermann fossero al servizio di Berlino Est, scrive il giudice Imposimato, lo disse anche Markus Wolf, capo della Stasi, anche se poi cercò di ritrattare. In un’intervista del 2005 Wolf ha infatti negato che Estermann fosse un loro agente, confermando la smentita del Vaticano e di Johann Legner, portavoce della “Gauck Behorde”, la commissione berlinese incaricata di conservare ed esaminare gli archivi della Stasi.
Anche Imposimato ha ricevuto conferma dal colonnello della Stasi, Gunther Bohnsack, che diverse missive che facevano riferimento alla Orlandi e alla liberazione di Ali Agca erano state da loro prodotte. Come già scritto più sopra, tuttavia, ci sono diversi elementi che mettono in serio dubbio le affermazioni dell’ex colonnello della Stasi. La ricostruzione di Imposimato sembra comunque verosimile poiché presenta un racconto organico anche sul depistaggio post-sparizione di Emanuela, ma è priva di dimostrazioni e corroborazioni, non spiega come e dove venne prelevata Emanuela, perché i rapitori non dimostrarono chiaramente di averla rapita (le pressioni sarebbero potute risultare più efficaci) e stride inoltre con il fatto che fallirono gli obiettivi: Giovanni Paolo II non mutò affatto la sua dura politica nei confronti del comunismo ed Alì Agca non solo tornò ad accusare i bulgari, ma rispose ai rapitori negando ogni trattativa e affermando di stare bene nelle carceri italiane. A quest’ultima obiezione, tuttavia, si potrebbe rispondere che, per l’appunto, proprio per questo Emanuela Orlandi non è mai tornata. Sono tutte affermazioni puramente ipotetiche. L’attendibilità dell’ex giudice Imposimato, infine, viene inficiata quando sostiene che Emanuela si sarebbe convertita all’islam e integrata in una comunità musulmana (citato in “Mia sorella Emanuela”, pag. 24).
Per ultimo, anche Giovanni Paolo II ritenne trattarsi di un “complotto internazionale” e nel 2012 padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, ha raccontato che si riteneva «che il sequestro fosse utilizzato da una oscura organizzazione criminale» che voleva fare pressioni in favore di Alì Agca, e «non si ebbe alcun motivo per pensare ad altri possibili moventi del sequestro».
4) Tecnologia utilizzata. Un altro argomento a favore è l’alta tecnologia usata dai telefonisti per evitare di essere rintracciati dagli inquirenti. Il padre di Emanuela, Ercole Orlandi, ha ricordato che una volta l’”Amerikano” gli aveva detto che era inutile tentare di registrare le telefonate perché poteva farle partire da quindici posti diversi, ed effettivamente una cabina della stazione Termini venne messa sotto controllo scoprendo che, mentre le chiamate risultavano effettivamente in partenza dall’apparecchio pubblico della stazione, dentro la cabina non c’ era nessuno. Alla fine gli specialisti della polizia si resero conto che il telefonista si serviva di un apparecchio per la triangolazione delle telefonate: un piccolo gioiello dell’elettronica capace di far rimbalzare su un’altra utenza la chiamata iniziale proteggendo il numero di partenza. Difficilmente poteva essere posseduto da criminali locali e sembra confermare l’interessamento dei servizi segreti.
5) Movente e contesto temporale. E’ innegabile che la sparizione delle due ragazze avvenga esattamente due anni dopo l’attentato a Giovanni Paolo II da parte di Alì Agca, il finanziamento a Solidarnosc (il sindacato cattolico polacco e anticomunista), un anno dopo il fallimento del Banco Ambrosiano (da cui probabilmente partirono alcuni dei finanziamenti vaticani verso Solidarnosc) e l’omicidio-suicidio del suo presidente, Roberto Calvi. E’ anche innegabile che la sparizione di Emanuela avvenne nel giorno in cui Giovanni Paolo II si trovava a visitare proprio la Polonia. Se si vuole contestualizzare la sparizione, dunque, è legittimo farlo proprio in questo contesto e certamente le possibili rivelazioni di Agca preoccuparono diversi Stati e servizi esteri. Il voler influenzare le sue dichiarazione è perciò un movente solido.
6) Interesse reale dei rapitori all’inchiesta su Agca. Gli autori dei comunicati erano effettivamente interessati alle indagini su Alì Agca, lo dimostra un caso accaduto il 20 ottobre 1983: il giudice istruttore Ilario Martella ordinò riscontri sul racconto fattogli da Alì Agca in due punti precisi di Roma (l’ambasciata canadese di via della Conciliazione 30 e un bar vicino in via Traspontina 9). Qualche ora dopo, proprio nelle stesse vie, verranno fatti trovare due messaggi riguardanti il rapimento di Emanuela Orlandi, in cui si chiedeva la liberazione di Agca in cambio della ragazza. «Singolare coincidenza!» –ha detto nel 2011 Martella, «me ne accorsi quando mi venne affidata anche l’indagine sulla Orlandi. C’è quell’ispezione, alla presenza di magistrati italiani e bulgari, della polizia e dello stesso Agca e poco dopo, negli stessi luoghi, si trovano volantini sul caso Orlandi…». Un secondo esempio: il 12/06/84 all’ANSA arriva una lettera da Francoforte con scritto: «Non avete adempiuto alla nostra richiesta di liberare subito Agca, Celebi e gli altri nostri amici. Emanuela Orlandi non è tornata», si legge.. Pochi giornali riprendono la notizia, e nessuno cita la parte finale, dove i misteriosi mittenti minacciano i familiari del giudice Ilario Martella, al quale spetta la decisione di liberare o meno il bulgaro Serghej Antonov. La cosa sospetta è che la moglie ed i figli del magistrato proprio in quei giorni rientravano a Roma, pur vivendo abitualmente all’estero. Chi ha scritto la lettera sapeva anche questo. Sembra dunque che l’interesse dei sequestratori per il processo ad Agca non fosse soltanto apparente, un semplice depistaggio, ma si attuava anche attraverso collegamenti e minacce occulte, nascoste alla stampa.
Questo effettivo interesse al processo sull’attentato al Papa è identificabile anche nel comportamento di Marco Fassoni Accetti, auto-accusatosi di essere stato il regista dell’allontanamento di Emanuela e Mirella, nonché uno dei telefonisti principali. Ha avvalorato la pista internazionale spiegando che il suo progetto era (anche) indurre Agca a ritrattare le accuse ai bulgari. Al di là della verità del suo racconto, che analizzeremo più sotto, dimostra effettivamente di essere ben informato di date, luoghi, orari e istruttorie relative al processo, e non essere affatto indifferente all’ex magistrato Ilario Martella, istruttore del processo, lasciando emergere un pregresso rancore nei suoi confronti come si nota durante un confronto televisivo tra i due, così come in post che pubblica sul suo blog nei quali accusa l’ex magistrato per gli errori del passato, tra cui aver “sequestrato” persone poi assolte, come il bulgaro Antonov, accusato da Ali Agca di aver organizzato l’attentato a Giovanni Paolo II.
7) Avvertimento del Sdece. Dopo l’attentato a Giovanni Paolo II (13/05/81) alla segreteria di Stato Vaticano arrivò un’informativa da parte ddel direttore dei servizi segreti francesi (Sdece), il marchese Alexander De Marenches, del progetto del Kgb di un possibile sequestro di una cittadina vaticana in cambio della liberazione dell’attentatore Alì Agca.
I PUNTI DEBOLI DELL’IPOTESI DELLA PISTA INTERNAZIONALE
1) Archiviazione. Il principale punto debole è la prima archiviazione del caso Orlandi, datata 19 dicembre 1997, nella quale il giudice ispettore Adele Rando concluse le indagini mettendo per iscritto che quello della Orlandi non fu rapimento ma una messa in scena depistatrice ed evidenziando che il movente politico-terroristico è risultato essere privo di fondamento. Nella sentenza di archiviazione del 2015, la Procura ha segnalato che, nonostante le ripetute richieste dei familiari di Emanuela Orlandi negli anni 2004, 2005, 2006 di riapertura indagini per il riconoscimento del fine terroristico del sequestro e il collegamento con l’attentato a Giovanni Paolo II del 1981, la risposta è stata negativa in quanto «né la documentazione allegata, né quella acquisita dalla Procura (reperita dalla sentenza n.2675 del 21/03/98 relativa al proscioglimento dei presunti complici di Ali Agca nell’attentato al Papa), né la documentazione dei lavori svolti dalla Commissione Parlamentare Mithrokin, apportavano quegli elementi di novità necessari per far luogo alla riapertura delle indagini rispetto alla matrice terroristica del sequestro». Si ricordano anche le conclusioni a cui si pervenne con la sentenza di proscioglimento il 19 dicembre 1997 secondo cui il movente politico-terroristico fu «un’abile operazione di dissimulazione dell’effettivo movente del rapimento di Emanuela Orlandi, destinato probabilmente a rimanere sconosciuto». Si conclude, quindi, anche nel 2015 per «l’inesistenza del fine terroristico».
2) Agca ritrattò ma Emanuela non è tornata. Chi sostiene tale ipotesi dovrebbe spiegare perché Emanuela non è stata rilasciata quando Ali Agca ha iniziato -cinque giorni dopo- a ritrattare le accuse verso i bulgari, inficiando la sua attendibilità e rovinando il processo. Se questo era l’obiettivo dei presunti rapitori, perché non l’hanno rilasciata una volta ottenuto quel che volevano? Forse volevano davvero la sua liberazione? Perché allora non hanno mai dimostrato in modo inoppugnabile di avere la Orlandi (una fotografia, ad esempio), preferendo decine di komunicati con ambigue e mai totalmente soddisfacenti “prove”? Certo, i documenti fatti ritrovare erano di Emanuela, così come erano precisi alcuni suoi particolari, ma non si capisce tutto questo sforzo quando sarebbe bastato molto meno per dimostrare di avere la ragazza. Agca ha comunque ricevuto la grazia, è stato scarcerato nel 2001 e tuttavia di Emanuela non c’è traccia.
3) Si concentra solo sul post-sparizione. La tesi della pista internazionale può semmai avvalorare che al caso della sparizione della Orlandi si siano interessati successivamente numerosi estranei alla vicenda, desiderosi di approfittare della situazione per perseguire i loro interessi nei confronti nell’ambito dell’attentato a Giovanni Paolo II. Tuttavia non riesce affatto a dimostrare che Emanuela sia stata rapita proprio da chi chiedeva la sua liberazione.
4) “Pierluigi” e “Mario” non interessati ad Agca. Questa tesi si scontra anche con il fatto che i primi due telefonisti, “Pierluigi” e “Mario”, che hanno dimostrato di conoscere comunque dei particolari inediti su Emanuela a poche ore dalla sua scomparsa, non erano minimamente interessati ad Agca o all’attentato del Papa, ma a far passare la vicenda come una scappatella. La connessione tra Emanuela e la liberazione di Agca verrà fatta per la prima volta nella prima telefonata dell'”Amerikano”, avvenuta il 05 luglio 1983.
5) Comportamento di Agca. Se la ritrattazione improvvisa di Agca subito dopo la sparizione della Orlandi è effettivamente un punto a favore, tuttavia Agca ritornò ben presto ad accusare i bulgari e ad affermare di essere stato da loro minacciato, comportandosi in modo opposto dal volere degli autori dei comunicati. Inoltre, non si capisce perché l’attentatore turco abbia continuato a farsi passare come pazzo a distanza di anni dalla fine del processo, anche dopo la sua scarcerazione. Nel corso del primo dibattimento sull’attentato al Papa la difesa contò 107 versioni diverse e contraddizioni nelle dichiarazioni rese e il turco ha proseguito fino ai giorni attuali ad affermare che Emanuela è viva e in diverse località, accusando la Cia, il Vaticano e tutta una serie di istituzioni, scrivendo alla famiglia e facendo viaggiare il fratello Pietro per raccontargli le solite bugie. Perché proseguire nel depistaggio se non ha più interessi personali da ottenere (come la grazia o il trasferimento in Turchia)? Oscure ragioni? E’ realmente pazzo? Obbedisce ad una regia nascosta? Forse teme che, una volta caduto nel dimenticatoio, gli possa succedere qualche spiacevole incidente? Tutto ciò che lo riguarda e ogni sua dichiarazione ormai è priva di ogni credibilità (tanto che nemmeno la Procura ha più interesse per le sue affermazioni). Il suo comportamento non è mai sembrato in linea con le ragioni di chi sostiene la “pista internazionale”.
6) Comunicati controproducenti. Appare evidente che gli autori dei Komunicati volessero passare per amici e solidali di Alì Agca, tentando ingenuamente di portare l’attenzione sugli idealisti turchi e sui Lupi Grigi. Un’operazione plateale fin dai nomi che si diedero: “Fronte Liberazione Turco Anti Cristiano Turkesh” che richiama il colonnello nazionalista turco Arsaplan Turkesh, l’ideologo dei “Lupi Grigi” (in una occasione si firmarono anche “Nuova organizzazione musulmana per la lotta anticristiana”): un’idea controproducente, come abbiamo già osservato, è impossibile che davvero pensassero di essere creduti. Oltretutto, gli autori agirono in contrasto con il comportamento dello stesso Agca il quale, come è stato rilevato, produsse infinite dichiarazioni deliranti «con l’effetto chiaro di inficiare le acquisizioni sul “livello” turco delle indagini». Il “Fronte Turkesh” voleva portare l’attenzione sui turchi e Alì Agca voleva toglierla, oltretutto arrivando a dire l’8/07/1983 di non capire cosa stiano dicendo queste persone e «rifiuto ogni scambio con qualcuno, sto bene nelle carceri italiane» (“Mia sorella Emanuela”, pag. 91). E’ possibile comunque che il “Fronte Turkesh” volesse risultare appositamente e controproducente (ma anche questo tentativo risulta banale e prevedibile) o, molto più probabilmente, era uno dei tanti strati della grande azione depistatrice, utile a tenere il caso sotto i riflettori, inviare messaggi o codici a Alì Agca, tenere la stampa occupata su di esso e, contemporaneamente, perseguire ipotetici obiettivi in modo sotterraneo. Non si può escludere che all’interno di questi comunicati -ampiamente divulgati dai media- vi siano anche codici non rivolti (soltanto) ad Agca ma ad altre persone, magari proprio i protagonisti della reale sparizione della Orlandi.
Conclusione. L’ipotesi della pista internazionale, sostenuta da autorevoli personalità, effettivamente contestualizza in modo opportuno la vicenda nello scenario internazionale che in quegli anni vedeva gli Stati dell’est e i loro servizi segreti molto sensibili alle posizioni politiche del Vaticano, così come riesce a spiegare l’improvvisa ritrattazione dell’attentatore turco, Ali Agca, pochi giorni dopo la sparizione di Emanuela Orlandi. E’ impensabile, tuttavia, che puntassero davvero alla sua liberazione: avrebbero dato prova certa della detenzione della ragazza, non avrebbero realizzato comunicati così controproducenti e certamente sapevano bene che il Vaticano nulla può su una condanna della magistratura italiana, il cui Stato non avrebbe mai rilasciato l’attentatore del Papa in cambio di una adolescente (con tutto il rispetto per la sacralità della sua vita) che, oltretutto, non avevano mai dimostrato di aver rapito. E’ più sostenibile che volessero solamente indurlo a ritrattare le accuse ai bulgari, minacciando di uccidere la ragazza (creando in Agca un dilemma morale), ma gli “argomenti deboli” ridimensionano la credibilità di questa ipotesi. Non a caso gli investigatori, dopo oltre dieci anni di studio della pista internazionale, hanno concluso (nel 1997) sostenendo che non si trattò di rapimento ma soltanto di un depistaggio il quale, semmai, potrebbe avvalorare l’interesse di Stati esteri e servizi segreti internazionali ad Alì Agca e alle sue deposizioni, non certo dimostrare che i rapitori della Orlandi siano gli stessi autori dei comunicati. Nell’archiviazione del 2015 si parla chiaramente dell’«l’inesistenza del fine terroristico».
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4. L’IPOTESI DELLA BANDA DELLA MAGLIANA
La pista della Banda della Magliana si è aperta ufficialmente l’11 luglio 2005 con una telefonata anonima a “Chi l’ha visto?”: «Riguardo al fatto di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso, andate a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant’Apollinare, e del favore che Renatino fece al cardinal Poletti, all’epoca, e chiedete al barista di via Montebello, che pure la figlia stava con lei..l’altra Emanuela….e i genitori di Emanuela sanno tutto. Però siccome siete omertosi, non direte un cazzo come al solito!». E’ chiaro che l’anonimo si riferisca anche a Mirella Gregori e citi anche l’amica Sonia De Vito, accusata inizialmente di falsa testimonianza e reticenza. Chi sostiene questa tesi ritiene che la Banda della Magliana, guidata da Enrico De Pedis (detto Renatino), avrebbe rapito Emanuela Orlandi nel tentativo di ricattare il Vaticano per ottenere la restituzione dei soldi che, assieme alla mafia siciliana facente capo Pippo Calò, avrebbe investito nello IOR/Banco Ambrosiano. Altri invece sostengono che la Magliana abbia avuto soltanto un ruolo di “manovalanza” collaborando con servizi segreti deviati, collegandosi così alla “pista internazionale”.
Nonostante la telefonata del 2005, tuttavia, gli inquirenti erano già a conoscenza della salma di De Pedis nei sotterranei della Basilica di Sant’Apollinare, tanto che il 12 dicembre 1995 -dieci anni prima- era già stato interrogato in merito mons. Pietro Vergari, allora rettore della Basilica, il quale aveva confermato la sua amicizia con De Pedis da prima del 1993, quando era cappellano del carcere di Regina Coeli. Il prelato ha attestato, come d’altraparte confermano i documenti di sepoltura, che De Pedis fu molto generoso con i poveri della parrocchia (più sotto un approfondimento). La moglie di Renatino, Carla Di Giovanni, ha eseguito i lavori di risanamento della cripta sotterranea che si trovava in pessimo stato: ascoltata in Procura il 9 giugno 1995 ha spiegato di aver sostenuto lei le spese, assieme a Marco De Pedis, che ammontarono a 37 milioni di lire. Gli inquirenti hanno accertato le dichiarazioni, osservando dai documenti del Comune di Roma che la sepoltura avvenne il 24 aprile 1990 e rilevando il nulla osta alla sepoltura rilasciato dal Vicario di Roma, Ugo Poletti, del 10 marzo 1990. Nonostante la spropositata campagna mediatica promossa dalla trasmissione “Chi l’ha visto”, altrettanto massicciamente osteggiata dal giornalista Pino Nicotri, la pista della Magliana si è chiusa verso la fine del 2012, dopo la infruttuosa perquisizione della tomba di De Pedis e della basilica di Santa Apollinare e il successivo proscioglimento di mons. Vergari. Il Vaticano ha più volte ribadito la completa disponibilità all’ispezione della Basilica di Sant’Apollinare, padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede ha infatti precisato nel 2012: «si ribadisce che da parte ecclesiastica non si frappone nessun ostacolo a che la tomba sia ispezionata e che la salma sia tumulata altrove, perché si ristabilisca la giusta serenità, rispondente alla natura di un ambiente sacro».
Prima di soppesare le argomentazioni pro e contro, è bene fare un approfondimento sui personaggi che sono stati collegati alla vicenda:
SABRINA MINARDI. Sabrina Minardi entra in scena tra il 2006 e il 2008. Il 14 marzo 2008 si presenta in Procura offrendo ufficialmente la sua testimonianza: dice di essere stata l’amante di De Pedis dal 1982 al 1984 il quale, assieme a Sergio Virtù, una sera le mise in macchina una ragazza, che lei riconobbe essere Emanuela Orlandi, che consegnò ad un uomo vestito da prete con un’auto targata Città dell Vaticano, alla fine di via delle Mura Aurelie. In successive interrogazioni racconterà che Emanuela venne sequestrata da tre uomini della Magliana (ricorda solo Angelo Cassani), portata all’EUR e consegnata a De Pedis. In un’altra occasione racconterà che venne invece consegnata da due donne e non dai tre uomini. La Orlandi sarebbe stata segregata, dopo il rapimento, prima in una sua casa a Torvajanica e poi al n°13 di via Antonio Pignatelli, quartiere Monteverde, appartamento di proprietà di Daniela Mobili. Attorno al 1993, disse ancora, vide De Pedis e Sergio Virtù buttare due sacchi dentro una betoniera capendo che in uno c’era la Orlandi, in un’altra occasione disse che glielo riferì De Pedis, mentre nell’altro sacco ci sarebbe stato il bambino Domenico Nicitra (morto in realtà dopo la morte di De Pedis). La mattina dopo De Pedis avrebbe negato la presenza della Orlandi nel sacco. Il 5 novembre 2008 ha sostenuto che la ragazza sarebbe stata portata in un paese arabo, mentre nell’ultima audizione del 18 marzo 2010 ha detto che il corpo sarebbe stato gettato in mare da De Pedis e Virtù.
Il 30 settembre 2015 nel fascicolo sull’archiviazione del caso Orlandi, si legge che la Procura la ritiene «un testimone difficile a causa della sua tossicodipendenza e delle pessime condizioni di salute, fisiche e mentali. Le sue dichiarazioni appaiono e sono del tutto inverosimili, oltre che contraddittorie nelle versioni succedutesi nel tempo». Dubbi anche sull’appartamento-prigione di Emanuela di via Pignatelli in quanto viene citata anche la presenta di Danilo Abbrucciati (compagno della Mobili), morto però prima della sparizione di Emanuela. Anche il racconto del presunto disfacimento del cadavere della Orlandi nel cantiere da parte di De Pedis e Virtù è contraddittorio e intervallato da una richiesta di ottenere una casa dal Comune, ed è impossibile che nel’altro sacco vi fosse Domenico Nicitra poiché morì nel 1993, dieci anni dopo il rapimento Orlandi e due anni dopo la morte di De Pedis. La Minardi, inoltre, non è mai riuscita ad indicare il luogo esatto del cantiere. Falsa anche la partecipazione agli eventi di Daniela Mobili, in quanto al tempo era detenuta. Confusa la chiamata in causa di Angelo Cassani e Sergio Virtù, segnata da contraddizioni e precisazioni discordanti. Il 18 gennaio 2010, in un’informativa della polizia, si segnalò che la Minardi cercava di ottenere a tutti costi un guadagno dalle sue dichiarazioni mediatiche, volendo creare pubblicità al suo libro. Concludendo, la Procura afferma: «le incongruenze evidenziate sono talmente numerose e macroscopiche da compromettere in toto la credibilità della dichiarante, senza che sia ravvisabile una plausibile spiegazione delle molteplici incoerenze e dei vari contrasti con dati certi». Nell’istruttoria di archiviazione del 2015 non si tiene però conto del comunicato firmato “Dragan” arrivato il 17/10/83 che invitava ad indagare, in merito alla Orlandi, su un giocatore della Lazio, Arcadio Spinozzi (si certificò in seguito la sua estraneità). Al termine venne disegnato il nome “Sergio” seguito dalla parola “morte”. Coincidenza vuole che Sabrina Minardi è la ex moglie proprio di un giocatore della Lazio, Bruno Giordano ed è lei nel 2008 ad accusare Sergio Virtù di aver ucciso, assieme a De Pedis, Emanuela Orlandi.
Secondo Pino Nicotri la donna non sarebbe stata nemmeno amante di De Pedis, poiché dall’1984 all’1988 l’uomo era in carcere e ai colloqui si recava solo la futura moglie, Carla Di Giovanni. Più probabilmente, ha rilevato ancora lo scrittore, De Pedis poteva essere stato uno dei suoi clienti (o un’avventura) in quanto, se fossero stati davvero amanti e/o conviventi, la polizia per trovare l’uomo non avrebbe avuto bisogno di pedinare la donna “per mesi”, come hanno dichiarato gli inquirenti.
MARCO SARNATARO. Secondo le rivelazioni di Salvatore Sarnataro, il figlio Marco Sarnataro (deceduto nel 2007) gli avrebbe rivelato di aver pedinato e sequestrato Emanuela, senza però essere a conoscenza della sua sorte. I dubbi della Procura si basano sulla pessima condizione di salute di Salvatore Sarnataro e sul fatto che rilascia informazioni di seconda mano (ricevute dal figlio), contenenti inoltre delle contraddizioni. Tuttavia «non ravvisano motivi per i quali costui avrebbe dovuto attribuire al figlio una così grave condotta» e per questo lo ritiene «certamente attendibile» quando rivela il racconto fattogli dal figlio. Non sapendo però indicare con certezza chi furono gli altri autori del sequestro e del pedinamento («uno fra Gigetto e Ciletto, oppure anche tutti e tre») risulta debole l’accusa verso costoro. Non c’è stato riscontro sufficiente alle sue accuse. Ricordiamo tuttavia che Marco Sarnataro è stato riconosciuto con alta probabilità da Angelo Rotatori e Paola Giordani, due amici di Emanuela, come uno dei giovani che pedinavano la Orlandi nei giorni antecedenti al sequestro, altri amici invece hanno individuato soltanto Sergio Virtù (Gabriella Giordani) o nessuna delle fotografie mostrate. I racconti dei vari amici, tuttavia, mostrano delle contraddizioni e non appaiono completamente sovrapponibili, per cui si riscontrano «limiti di attendibilità derivanti innanzitutto dal considerevole lasso di tempo tra il momento dell’osservazione e quello che in cui l’indagine è stata effettuata (oltre 20 anni)». Senza contare, oltretutto, il possibile condizionamento sui ricordi a causa dell’elevata esposizione mediatica del caso.
GIUSEPPE E CARLO ALBERTO DE TOMASI. Secondo una comparazione di voci disposta dalla Procura il 1 luglio 2008, la voce del telefonista che chiamò “Chi l’ha visto” l’11 luglio 2005, indicando la presenza del corpo di De Pedis nella Basilica Sant’Apollinare e aprendo di fatto la pista della Banda della Magliana, ha una similitudine con la voce di Carlo Alberto De Tomasi, stesso responso di una seconda consulenza, quella del 5 dicembre 2008. Una terza consulenza, sempre del 5 dicembre 2008, ha indicato un’elevata probabilità che il telefonista “Mario” sia Giuseppe De Tomasi (detto Sergione), figlio di Carlo Alberto. Ascoltati in procura nell’aprile 2010, padre e figlio hanno negato di aver effettuato quelle telefonate. Nel 2011 è emersa una sentenza del 1994, in cui si afferma che il 21/06/1983, giorno prima della sparizione di Emanuela, Giuseppe De Tomasi (detto Sergione) veniva tratto in arresto con mandato di cattura n. 6932/81 A Gi, per riciclaggio di denaro, dunque non può aver rapito Emanuela e non può essere stato il telefonista “Mario”.
SERGIO VIRTU’, ANGELO CASSANI E GIANFRANCO CERBONI. Per quanto riguarda Sergio Virtù, Angelo Cassani e Gianfranco Cerboni, l’attività di intercettazione telefonica, seppur prolungata per diverso tempo, non ha offerto elementi di decisiva rilevanza. Per quanto riguarda Sergio Virtù vi è una intercettazione telefonica interessante tra lui e l’amante Maria Lldiko Kiss, durante la quale la donna chiede a Virtù se la polizia ha elementi su di lui per quanto riguarda la Orlandi. «Orlandi, Orlandi, Orlandi, Orlandi…», risponde l’uomo, «io me le volevo scordà queste cose dopo 23 anni», dicendo che però ne vuole parlare di persona. «Purtroppo quando ero giovane…stavo in un ambiente un po’ particolare, eravamo tutti scapestrati…però mica me pento di quello che ho fatto, l’ho fatto per i soldi e non me ne frega niente di quello che ho fatto…me interessa andamme a prendere dei permessi lontano, magari ce potrei avè dei problemi che me se ripercuotono contro…». Secondo la Procura Virtù «è certamente a conoscenza di particolari compromettenti della vicenda», in quanto durante l’intercettazione afferma alla donna di volergliene parlare di persona e rivela di cambiare spesso utenze telefoniche: «ti perseguitano tutta la vita questi». Virtù ha negato questa conversazione telefonica, nonostante l’intercettazione alla sua utenza, mentre la donna ha ammesso di aver affrontato il discorso con lui. Ma nonostante questo e nonostante l’accusa di Salvatore Sarnataro (padre di Marco), per la procura «il quadro probatorio rimane insufficiente e troppo incerto per sostenere l’accusa in giudizio nei confronti di Virtù». Secondo gli inquirenti l’intercettazione accerterebbe al massimo la conoscenza di particolari compromettenti da parte di Virtù, non certificando però la sua colpevolezza nell’evento.
Inoltre, se le accuse della Minardi sono inattendibili, il riscontro fotografico da parte di un’amica di Emanuela (Gabriella Giordani) ha una minima attendibilità (lo ha identificato come “vagamente somigliante” dopo un periodo di vent’anni dai fatti, mentre altri amici non hanno identificato lui come uno dei pedinatori). A riconoscerlo vagamente (“sembrava” riconoscerlo) anche Marta Szepesvari, allieva della scuola di musica, nel biondino che fissava la scuola il giorno prima della sparizione della Orlandi. Abbiamo già citato, infine, il comunicato firmato “Dragan” del 17/10/83 che invitava ad indagare, in merito alla Orlandi, su un giocatore della Lazio, Arcadio Spinozzi (si certificò in seguito la sua estraneità). Al termine venne disegnato il nome “Sergio” seguito dalla parola “morte”. Coincidenza vuole che Sabrina Minardi è la ex moglie proprio di un giocatore della Lazio, Bruno Giordano ed è lei nel 2008 ad accusare Sergio Virtù di aver ucciso, assieme a De Pedis, Emanuela Orlandi.
Proscioglimento meno controverso quello invece per Gianfranco Cerboni (chiamato in causa solo dall’inattendibile Sabrina Minardi), così come quella nei riguardi di Angelo Cassani, chiamato in causa da Salvatore Sarnataro -accusa non verificabile- e individuato fotograficamente da qualche amico di Emanuela, ma -come si è detto- senza costituire un sufficiente quadro probatorio di colpevolezza. La Procura ha osservato solamente che mentre i due hanno negato di conoscere Virtù, non riuscendo nemmeno a riconoscerlo fotograficamente, in un’intercettazione telefonica dell’11/03/10 parlano di lui in modo molto amichevole, dimostrando invece di conoscerlo bene: “Pensa a Sergio, poveretto, quello lo hanno bevuto!”.
ANTONIO MANCINI E MAURIZIO ABBATINO. Nel 2015 la Procura ha annotato che tra i componenti della Banda della Magliana che sono stati interrogati, oltre a Antonio Mancini, soltanto il pentito Maurizio Abbatino ha dichiarato di aver appreso da altri componenti della banda il coinvolgimento di De Pedis. Una notizia però di seconda mano (de relatio), non verificabile direttamente e coinvolgente, semmai, il solo De Pedis.
DON VERGARI E LA BASILICA DI SANT’APOLLINARE. La Procura nel 2015 ha concluso che la perquisizione della Basilica Sant’Apollinare, compresi gli accertamenti tecnici nella cripta in cui è sepolto De Pedis e lo studio delle ossa prelevate dagli ambienti circostanti, non è stata in grado di trovare indizi utili. Questo «ha escluso il coinvolgimento di mons. Vergari nella vicenda, coinvolgimento ipotizzato in considerazione dell’amicizia con De Pedis». Nessun teste ha accusato don Vergari e, anche se nelle sue dichiarazioni ci rilevano piccole incongruenze con quelle riferite da Carla Di Giovanni, moglie di De Pedis, queste non hanno alcuna significativa valenza. Lo stesso mons. Vergari, ha precisato di aver accolto la richiesta della moglie di De Pedis di seppelirlo nei sotterranei di S. Apollinare della salma. La salma venne posta appunto nei sotterranei della basilica dove non sono sepolti né Papi né cardinali, in un corridoio abbandonato da oltre un secolo e, contrariamente a quanto si crede, non situato in terra consacrata. Il 3/10/05 don Vergari ha scritto: «Nel carcere mai ho domandato a nessuno perché De Pedis era là o che cosa aveva fatto. Tra le centinaia di persone incontrate dei più diversi stati sociali, parlavamo di cose religiose o di attualità; Enrico De Pedis veniva come tutti gli altri, e fuori dal carcere, ci siamo visti più volte: normalmente nella chiesa di cui ero rettore, sapendo i miei orari e altre volte fuori, per caso. Mai ho veduto o saputo nulla dei suoi rapporti con gli altri, tranne la conoscenza dei suoi familiari. Aveva il passaporto per poter andare liberamente all’estero. Mi ha aiutato molto per preparare le mense che organizzavo per i poveri. Quando seppi dalla televisione della sua morte in Via del Pellegrino, ne restai meravigliato e dispiacente. Qualche tempo dopo la sua morte i familiari mi chiesero, per ritrovare un po’ di serenità, poiché la stampa aveva parlato del caso e da vivo aveva espresso loro il desiderio di essere un giorno sepolto in una delle antiche camere mortuarie, abbandonate da oltre cento anni, nei sotterranei di S. Apollinare, di realizzare questo suo desiderio. Furono chiesti i dovuti permessi religiosi e civili, fu restaurata una delle camere e vi fu deposto. Anche in questa circostanza doveva essere valido come sempre il solenne principio dei Romani “Parce sepulto”: perdona se c’è da perdonare a chi è morto e sepolto. Restammo d’accordo con i familiari che la visita alla cappella funeraria era riservata ai più stretti congiunti. Questo fu osservato scrupolosamente per tutto il tempo in cui sono rimasto rettore, fino al 1991».
Lo scrittore e giornalista Pino Nicotri ha spiegato che l’allora rettore della basilica, mons. Vergari, dopo la richiesta della vedova De Pedis, pensò alla possibilità di utilizzare come cripte private anche il resto dei sotterranei abbandonati: «In totale vi si potevano ricavare 60-70 cripte private», ha detto mons. Vergari. «In totale, un bell’investimento da parte di famiglie che avrebbero contribuito a rendere ancor più frequentata la basilica. Dal degrado iniziale di quando mi è stata affidata, quasi sempre chiusa, l’ho portata ad essere un punto di riferimento per moltissimi fedeli».
ENRICO DE PEDIS. Per quanto riguarda Enrico De Pedis, la sua accusatrice principale è Sabrina Minardi, giudicata non attendibile, oltre che Maurizio Abbatino e Antonio Mancini, ex banda della Magliana, riportanti però notizie di seconda mano, non verificabili e non attendibili. Non essendo emerso nulla di probatorio nemmeno nella perquisizione della Basilica Sant’Apollinare e non essendoci nulla di rilevante nella sua sepoltura in quel luogo, non sono apparsi motivi consistenti per accusarlo di aver avuto un ruolo nella vicenda Orlandi e/o Gregori. Il giornalista Pino Nicotri, oltretutto, ha ricordato che De Pedis è morto con la fedina penale pulita (con regolare patente, carta di identità valida e passaporto valido), assolto dall’appartenenza alla Magliana (21 gennaio 1988) e scagionato per l’unica condanna ricevuta (per la quale è stato in carcere). Lo riportano effettivamente anche i quotidiani dell’epoca, qui e qui, seppur gli inquirenti, il giorno della sua morte, hanno accertato il suo passato, ovvero un pregiudicato per numerose rapine, inquisito per omicidio, ex appartenente alla Banda della magliana e uno degli elementi di spicco della malavita organizzata romana. De Pedis è stato sepolto in modo regolare (confermato dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, dal magistrato Andrea De Gasperis e dal ministro Cancellieri) per volontà della famiglia, con permesso dal Vaticano e dal Comune di Roma, in una basilica dove -lo ribadiamo- non ci sono Papi o Cardinali (ma gente del quartiere) in terra non consacrata e -come ricordato dalla vedova e da mons. Vergani- per aver fatto beneficenza ai poveri del quartiere.
A coinvolgere De Pedis è stato anche Marco Accetti, il quale ha rivelato di averlo inserito nel caso ingannandolo sul fatto che il sequestro di due ragazzine fosse una strada efficace per convincere i vertici dell’istituto a saldare il debito che avevano con la Magliana per i soldi persi nel crack dell’Ambrosiano (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Ha anche riferito che alcuni uomini di De Pedis, in particolare “Ciletto” e “Giggetto”, si recano nel bar dei Gregori il giono dell’inaugurazione, il giorno prima della sparizione di Mirella. Coincidenza vuole che il 21 ottobre 1986, su indicazione del cameriere Giuseppe Calì, venne eseguito un identikit del volto di una persona vista dal teste nel bar dei Gregori una settimana prima della scomaprsa di Mirella. L’identikit assomiglia notevolmente al volto di Angelo Cassani, detto “Ciletto”.
I PUNTI FORTI DELL’IPOTESI DELLA BANDA DELLA MAGLIANA
1) Movente e contesto temporale. La tesi della Magliana ha -come quella sulla “pista internazionale”- un forte movente e un’opportuna collocazione temporale: una cittadina vaticana sparisce esattamente un anno dopo il fallimento del Banco Ambrosiano, rapita dalla Banda della Magliana nel tentativo di ricattare il Vaticano ed ottenere la restituzione dei soldi che, assieme alla mafia siciliana facente capo Pippo Calò, avrebbe investito nello IOR e nell’Ambrosiano. Ancora una volta, però, non si capisce perché non dimostrare chiaramente la detenzione di Emanuela e perché orientare l’attenzione su Alì Agca, che nulla c’entra con questa ipotesi, tramite vari e farneticanti comunicati. Forse dopo il sequestro realizzato dalla Magliana si inserirono elementi esterni, rovinando i progetti della criminalità romana? Oppure c’era una trattativa nascosta con il Vaticano mentre l’opinione pubblica veniva distratta dai vari comunicati?
2) Intercettazione di Virtù. Come già descritta sopra nel paragrafo relativo a Sergio Virtù, importante è l’intercettazione telefonica tra lui e l’amante Maria Lldiko Kiss, durante la quale l’uomo fa capire alla donna che il caso Orlandi appartiene al suo passato giovanile quando stava «in un ambiente un po’ particolare», pieno di «scapestrati», ma non se ne pente perché lo ha fatto per soldi. L’uomo «è certamente a conoscenza di particolari compromettenti della vicenda», scrive la Procura, anche perché vuol parlarne solo di persona e ammette di cambiare spesso, a causa di questo, utenza telefonica. Inoltre, Virtù ha negato questa conversazione telefonica, nonostante l’intercettazione alla sua utenza, mentre la donna ha ammesso di aver affrontato il discorso con lui. Gli inquirenti tuttavia ritengono insufficiente il quadro probatorio. Virtù viene anche riconosciuto come “vagamente somigliante” da un’amica di Emanuela, Gabriella Giordani, come uno dei pedinatori, riconoscimento avvenuto però dopo vent’anni dai fatti. A Marta Szepesvari, allieva della scuola di musica, è sembrato essere il biondino che fissava la scuola il giorno prima della sparizione della Orlandi.
3) Riconoscimento degli amici di Emanuela. Il riconoscimento con “alta probabilità “di Marco Sarnataro da parte di Angelo Rotatori e Paola Giordani, due amici di Emanuela, come uno dei giovani che pedinavano la Orlandi nei giorni antecedenti al sequestro è un indizio, ma sarebbe stato determinante solo se tutti gli amici, non solo due, avessero riconosciuto lo stesso uomo della Magliana, mentre una ragazza ha individuato solo Sergio Virtù (Gabriella Giordani) e altri nessuno dei fotografati presentati dai magistrati. Il riconoscimento è avvenuto dopo oltre 20 anni dai fatti, tuttavia va tenuto comunque in considerazione non dimenticando i «limiti di attendibilità» sottolineati dalla Procura.
4) Comunicato sul giocatore della Lazio. Come abbiamo riferito nel paragrafo relativo a Sabrina Minardi e Sergio Virtù, nell’istruttoria di archiviazione del 2015 non si è tenuto conto del comunicato firmato “Dragan” arrivato il 17/10/83 che invitava ad indagare, in merito alla Orlandi, su un giocatore della Lazio, Arcadio Spinozzi (si certificò in seguito la sua estraneità). Al termine venne disegnato il nome “Sergio” seguito dalla parola “morte”. Coincidenza vuole che Sabrina Minardi è la ex moglie proprio di un giocatore della Lazio, Bruno Giordano ed è lei nel 2008 ad accusare Sergio Virtù di aver ucciso, assieme a De Pedis, Emanuela Orlandi.
5) Telefonisti “Pierluigi” e “Mario”. Non è mai sfuggito il fatto che il telefonista “Pierluigi” disse di telefonare da un ristorante sul mare, un’allusione al locale “Pippo l’abruzzese” di Torvaianica, frequentato notoriamente dalla Magliana. Vi sono altri collegamenti fatti notare da Marco Fassoni Accetti: “Pierluigi” parla anche della piazza Campo de Fiori, luogo in cui aveva il negozio Edoardo Balducci, esponente della Magliana, nel quale praticava l’usura per conto di Pippo Calò, noto durante la latitanza come Mario Aglialoro, lo stesso nome usato dal secondo telefonista, “Mario”.
I PUNTI DEBOLI DELL’IPOTESI DELLA BANDA DELLA MAGLIANA
1) Archiviazione. Il principale punto debole rimane la decisione della Procura di archiviare il caso, non rilevando un quadro probatorio sufficiente a carico degli esponenti della Banda della Magliana. Si legge infatti: «le indagini svolte non hanno permesso di pervenire ad un risultato certo in merito al coinvolgimento di Enrico De Pedis, di Sabrina Minardi, di Sergio Virtù, di Angelo Cassani, di Gianfranco Cerboni, di Marco Sarnataro e di Don Vergari nel rapimento e nella morte di Emanuela Orlandi […]. Gli elementi emersi hanno trovato alcuni riscontri sul coinvolgimento della Banda della Magliana nella vicenda […] che non possiedono senz’altro, per nessuno degli indagati iscritti, quella consistenza tale da imporre l’esercizio dell’azione penale».
2) Piano troppo sofisticato. La Banda della Magliana era costituita da killer professionisti, criminali legati alla droga, alla mafia calabrese. E’ inverosimile che gente del genere abbia potuto architettare un piano tanto sofisticato e genialmente stratificato: distrarre la stampa con telefonate e comunicati riguardanti Agca e la sua liberazione e, dall’altra, mantenere una trattativa interna con il Vaticano sui soldi investiti nel Banco Ambrosiano. Oltretutto, utilizzando tecnologia d’avanguardia capace di impedire il rintracciamento delle telefonate, facendole rimbalzare in posti diversi, non proprio alla portata della criminalità romana di allora.
Conclusione. Il movente di questa ipotesi, come già detto, è senza dubbio molto forte e verosimile. Ci sono due argomenti importanti oltretutto: l’intercettazione di Sergio Virtù, dalla quale si intuisce la sua conoscenza di particolari compromettenti e il riconoscimento degli amici di Emanuela di uomini legati alla Magliana. Nella richiesta di archiviazione, infatti, Giuseppe Pignatone, capo della Procura di Roma, ha scritto: «Gli elementi indiziari emersi hanno tuttavia trovato alcuni riscontri in ordine al coinvolgimento della Banda della Magliana nella vicenda». Tuttavia è inverosimile che un piano tanto sofisticato sia stato ideato e attuato da killer violenti e rozzi come i testaccini: rapire Emanuela per ottenere la restituzione dei soldi investiti nel Banco Ambrosiano e, nel frattempo, distrarre la stampa e gli inquirenti tramite comunicati e telefonate anonime, utilizzando tecnologia d’avanguardia, spostando l’attenzione sulla liberazione di Agca e fingendo di essere interessati al giudice Martella e alle accuse verso i bulgari dell’attentato al Papa. E’ piuttosto più argomentabile che la Magliana abbia avuto soltanto un ruolo di manovalanza, permettendo dunque un legame tra questa tesi e quella della “pista internazionale”. Una ipotesi, quella della Magliana, che ha avuto più valore di quanto in realtà ne meriti, colpa senz’altro dell’opinione pubblica e della trasmissione “Chi l’ha visto?”, che ha sposato tale pista divulgandola ossessivamente, crogiolandosi nella possibilità di coinvolgere fantomatici alti prelati e monsignori in traffici di sesso e denaro. Di fatto il tutto è terminato con un grande flop mediatico e la nota trasmissione è passata tranquillamente oltre, come se nulla fosse accaduto.
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5. LA TESI DI ROBERTA HIDALGO
La tesi della fotografa Roberta Hidalgo è emersa nel 2012 nel suo libro “L’affaire Emanuela Orlandi L’affaire Emanuela Orlandi”. L’ha raccontata la stessa autrice sostenendo di aver riconosciuto Emanuela Orlandi in una fotografia da lei scattata in Piazza San Pietro, la quale comparve anche sullo sfondo di una seconda foto che la Hidlago scattò tempo dopo a sua figlia davanti ad un gelataio, sempre nei dintorni di piazza San Pietro. Avrebbe incontrato infine la stessa donna anche in un supermercato della zona. La tesi parte malissimo: è evidente quanto possa essere poco credibile che la stessa persona compaia casualmente due volte sullo sfondo in due fotografie scattate in tempi diversi in una delle zone più affollate di Roma, e poi -per un’altra coincidenza- la si incontra anche al supermercato. Per non parlare dell’insostenibilità che la Orlandi gironzoli tranquillamente in piazza San Pietro e venga riconosciuta solo dalla fotografa romana a causa della forte somiglianza con le fotografie di Emanuela. Ma allora perché non è stata riconosciuta da nessun altro in tutti questi anni?
Come se non bastasse, la fotografa sostiene anche di aver pedinato “Emanuela” che sarebbe entrata nell’appartamento di Pietro Orlandi. Dopo numerosi appostamenti e indagini personali, iniziate nel 1999, la Hidalgo ha sostenuto anche che Anna Orlandi non sarebbe la zia ma la vera mamma di Emanuela, avuta dalla relazione con monsignor Paul Marcinkus, alludendo in modo abbastanza chiaro che anche la stessa Anna non sia figlia di Pietro Orlandi, nonno di Emanuela, ma figlia di papa Pio XII. Lo avrebbe capito, ha detto, confrontando le fotografie e grazie ai suoi studi di anatomia del volto. La “scomparsa” di Emanuela, ha detto la Hidalgo, sarebbe stata studiata a tavolino da Marcinkus che aveva bisogno di spostare l’attenzione mediatica dal Banco Ambrosiano, Ior, Calvi, Sindona, ecc., dirottandola su altre piste in grado di colpire l’opinione pubblica. E non è finita: Emanuela vivrebbe assieme al fratello Pietro e ai suoi figli, fingendo di essere sua moglie, mentre Patrizia Marianucci, vera moglie di Pietro, vivrebbe lontano, in una casa in campagna. Lo avrebbe scoperto prelevando materiale biologico di vari esponenti della famiglia Orlandi, tesi che sarebbe confermata da una perizia del Dna di nove anni fa del noto criminologo Francesco Bruno, la quale conclude: «In sintesi si può dire che la donna che convive con Pietro Orlandi da almeno 10 anni non presenti molti elementi in comune con Patrizia Marinucci, ma che al contrario presenta numerose somiglianze con la sorella di Pietro, la scomparsa Emanuela». Il Dna della donna, che secondo la Hidalgo sarebbe Emanuela Orlandi, parrebbe compatibile con quello di Anna Orlandi. Un’altra prova sarebbe che Emanuela verrebbe soprannominata “Mandi” da Pietro e dai figli, scoperto grazie ad una cimice che la Hidalgo ha posizionato in casa di Pietro Orlandi.
Una tesi quasi identica è stata pubblicata successivamente nel libro “La Figlia del Papa” del portoghese Luis Miguele Rocha, secondo il quale la Orlandi sarebbe però figlia di Giovanni Paolo II (e non di Marcinkus), sostenendo anche di averla incontrata personalmente. Pietro Orlandi ha querelato, senza successo, la Hidalgo chiedendo anche il ritiro del libro. Nell’archiviazione del caso Orlandi del 2015, la Procura ha affermato di aver acquisito le immagini fornite dalla Hidalgo e fotografie meno recenti della Marinucci al fine di compararle con quelle di Emanuela Orlandi, e di aver respinto la tesi poiché «la comparazione ne escludeva l’identità».
I PUNTI FORTI DELLA TESI DI ROBERTA HIDALGO
1) Perizia. La perizia sul Dna del criminologo Bruno è un dato oggettivo di cui dover tener conto, la quale andrebbe però replicata da altri professionisti. Meglio ancora se non si siano mai occupati del caso Orlandi (come invece ha fatto il dott. Bruno) e se non siano stati consulenti del Sisde (come invece è stato il dott. Bruno), servizi segreti italiani il cui ruolo in questa vicenda è ancora da chiarire.
2) Mancata replica. E’ comprensibile che gli Orlandi non abbiano voluto replicare alla Hidalgo poiché è una tesi chiaramente scandalistica che li coinvolge nel loro intimo e alla quale non vogliono dare pubblicità gratuita. Hanno denunciato la fotografa, tuttavia una mancata replica sopratutto alla perizia potrebbe essere usata come segno di imbarazzo. Chiarire ogni minimo dubbio è sempre un bene, sopratutto in questa vicenda, anche perché perplessità sulla zia Anna -indipendentemente dalla loro fondatezza- vengono avanzate anche nella cosiddetta “pista della sparizione strumentalizzata” da parte di Pino Nicotri e dall’avv. Egidio, ex legale degli Orlandi.
I PUNTI DEBOLI DELLA TESI DI ROBERTA HIDALGO
1) Assurdità. Affermazioni sconvolgenti necessitano di prove sconvolgenti, mentre qui c’è soltanto una complessa e assurda tesi da cui si dipana un infinito corollario di altrettante apocalittiche conseguenze, il tutto basato su qualche fotografia, qualche somiglianza (la moglie di Pietro assomiglia davvero a Emanuela), un soprannome e una perizia di un criminologo (che la Procura nemmeno ha voluto considerare dato che non ne parla). Sostenere che Emanuela sia figlia della zia (e di un famoso arcivescovo), la quale sarebbe figlia di un Papa, che Pietro Orlandi passi la vita con sua sorella, fingendo che sia sua moglie e non vedendo la sua vera compagna se non per poche ore al mese, oltretutto facendo crescere i suoi figli lontani dalla vera madre. Senza che, peraltro, nessuno se ne sia mai accorto di nulla. Una donna -Emanuela- che, infine, girerebbe tranquillamente per piazza San Pietro nonostante sia ricercata da trent’anni, implicando che la famiglia Orlandi stia mentendo da decenni agli inquirenti e a tutto il mondo…siamo ben al di là di ipotesi accertabili.
2) Fotografie. Oltre al fatto che la Procura ha respinto le prove fotografiche prodotte dalla Hidalgo, la stessa fotografa ha ammesso che la presunta Emanuela da lei fotografata è, si casualmente molto simile a Emanuela, ma i lobi delle orecchie sono completamente diversi. Giustificando però la differenza con il fatto che «se li può essere tagliati!». Una risposta tanto incredibile da essere al livello della tesi sostenuta. In realtà sono proprio le fotografie (si trovano pubbliche su Facebook) di Patrizia Marinucci, moglie di Pietro Orlandi, vicina ai (suoi) figli a smentire questa ipotesi: è evidente somiglianza (anche dei lobi delle orecchie!).
Conclusioni. La tesi è stata qui presentata solamente perché anche la Procura della Repubblica ha scelto di dedicarvi del tempo, ma si tratta di uno scenario apocalittico basato su deboli argomenti. L’obiettivo era il successo editoriale, tanto che l’identico tentativo stato subito imitato dallo scrittore portoghese Luis Miguele Rocha con il suo libro “La figlia del Papa”. Una tesi, quella della Hidalgo, da scartare senza ombra di dubbio.
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6. LA TESI DI MARCO FASSONI ACCETTI
Marco Fassoni Accetti è un fotografo e autore cinematografico, nato a Tripoli il 7 novembre 1955, comparso pubblicamente nel caso Orlandi il 27 marzo 2013 recandosi in Procura per riaprire un caso giudiziario che lo ha riguardato nel passato, l’omicidio di José Garramon, sostenendo di aver patito all’epoca accuse ingiuste «e la conseguente assoluzione non mi aveva affatto acquietato e volevo chiudere moralmente quel caso, che all’epoca non potevo delucidare pienamente in quanto avrei dovuto motivare la mia presenza in quell’area». Indagando nuovamente sul caso Garramon, e identificando gli autori del messaggio a firma “Phoenix”, (arrivato alla redazione del TG2 il 19/09/83), nel quale si minacciavano i telefonisti “Mario” e “Pierluigi” (“vogliamo ricordare loro che nella pineta c’è tanto spazio per la vegetazione”), secondo lui, si potrebbe giungere a far luce anche sulla sparizione di Emanuela e Mirella. Due allontanamenti volontari, ha rivelato, anche se le ragazze furono da lui (e dal suo gruppo) indotte a farlo tramite l’inganno, il tutto all’interno di un grande scontro tra due fazioni che tentavano di influire in modo occulto sulla politica estera ed economica del Vaticano. Si è anche autoaccusato di essere stato il telefonista principale, l'”Amerikano”. L’elezione di un Papa non curiale, Papa Francesco, lo ha indotto a presentarsi dopo trent’anni poiché avrebbe fatto venir meno certe coesioni interne alla Curia romana, aiutando a far venire allo scoperto i responsabili delle sparizioni: «Eravamo pochi laici che aiutavano pochi ecclesiastici», ha scritto, invitandoli «a presentarsi e contribuire con la testimonianza, coscienti che non si trattò di fatti ferali». Oltre a loro, l’appello è rivolto ad alcune donne che parteciparono come suoi complici perché si presentino a confermare le sue dichiarazioni.
Per dare forza al suo appello, il 3 aprile 2013 ha fatto anche ritrovare alla trasmissione “Chi l’ha visto?” il flauto che sarebbe appartenuto a Emanuela Orlandi, posizionato sotto una formella della Via Crucis all’interno di un capannone dell’ex studio cinematografico De Laurentis (dove avrebbe dormito la ragazza la notte del 21/12/83, quando lui fu arrestato dopo aver accidentalmente investito il piccolo José). Marco Fassoni Accetti (d’ora in poi MFA) ha sostenuto in Procura che quel flauto fu nascosto nell’ipogeo della chiesa di Santa Francesca Romana dopo la telefonata dell'”Amerikano” del 4/09/83 in cui diceva: “Mi hanno detto di riferirvi che nelle vicinanze della basilica di Santa Francesca Romana il pontefice celebra la Via crucis. La scelta della basilica è inerente il giorno della scadenza del 20 luglio”. I carabinieri non lo trovarono e lo strumento rimase lì fino al 1987 fino a quando una donna glielo consegnò e venne da lui custodito nel luogo dove lo ha fatto ritrovare. Dai rilievi scientifici sul flauto non si è tuttavia riusciti a stabilire una corrispondenza certa con quello usato da Emanuela Orlandi (seppur la famiglia lo abbia vagamente riconosciuto).
Lettere di minaccia. La comparsa di MFA è stata anticipata (o preparata) dal ritrovamento il 21 dicembre 2012 di un teschio umano, sul colonnato di San Pietro, contenuto in una busta con scritto in inglese “non toccare”. Il 25 marzo 2013, due giorni prima dell’uscita allo scoperto di MFA, due missive sono arrivate a Raffaella Monzi e a Antonietta Gregori, sorella di Mirella, in esse alcune parole in rima: “Non cantino le due belle more per non apparire come la baronessa e come il ventuno di gennaio martirio di S. Agnese con biondi capelli nella vigna del Signore”. Compaiono due numeri: “193” e “103” e una foto del giuramento di una guardia svizzera sopra una didascalia in tedesco la cui traduzione è: “Durante il giuramento ogni recluta si posiziona davanti alla bandiera della Guardia e promette di servire fedelmente, lealmente e onorevolmente il Pontefice e i suoi legittimi successori”. Accanto alla foto c’è scritto a penna ”4 – FIUME” (nella lettera arrivata alla Gregori invece c’è “V – FIUME”). Vi sono anche scritte a mano: “SILENTIUM” e “V. FRATTINA 103”, sul retro “MUSICO 26/OTT/1808 – 5/3/1913 – 2013”: si tratta del musicista Hugues, morto il 5/3/1913 (ma nato il 27/10/1836 e non il 26/10/1808!). Quando Emanuela sparì aveva nello zaino proprio gli spartiti di Hugues, fatti ritrovare dall'”Amerikano” in fotocopia il 4/09/83. Nella bustina ci sono anche dei capelli, un fiore colorato di merletto, frammenti di terriccio e un brandello di tessuto scuro, due negativi fotografici: l’attentato al Papa e un teschio umano con la scritta “Eleonora De Bernardi, Morta in Campagna, Lì 23 agosto 1854”. Il teschio si trova nella cripta in Santa Maria dell’Orazione e Morte, in via Giulia. Solo nella lettera giunta alla sorella di Mirella compare un riferimento al marito Filippo Mercurio: “Mercurio vola in sella del suo ciclomotore dal caffè alla via Nomentana all’altro caffè”. I riferimenti alla baronessa e al 21 gennaio indicherebbero la scomparsa di Jeanette de Rothschild, ex moglie del finanziere miliardario (trovata morta nelle Marche nel gennaio ’82), e l’omicidio di un’altra ragazza, Catherine Skerl (trovata morta a Grottaferrata il 21 gennaio ’84). Per la Procura l’autore delle due lettere sarebbe lo stesso che ha fatto trovare il teschio a San Pietro, tuttavia non è stata trovata alcuna impronta utile.
La comparsa di MFA è certamente legata alle due lettere: mai erano state spedite in tutti questi anni e compaiono proprio due giorni prima dell’uomo che si auto-accusa di essere il regista della sparizione di Mirella e di Emanuela. MFA ha negato di essere l’autore di queste missive, sospettando: «si tratti di un tentativo della parte avversa di inquinare la situazione». Qualcuno dunque sapeva che sarebbe uscito allo scoperto? E’ dunque ancora in contatto con membri della sua fazione o con quella avversa? Oppure sta mentendo e voleva semplicemente prepararsi il terreno per autenticare quello che avrebbe rivelato? Lui stesso ha scritto che avrebbe voluto comparire anche 10 anni fa, alla morte di Giovanni Paolo II, se non fosse stato eletto un pontefice curiale: «della mia intenzione resi partecipi in quel mese di Aprile del 2005, alcuni sodali con cui condivisi le responsabilità per i suddetti fatti degli anni 80. Seppi che alcuni di costoro, temevano io potessi fare i nomi dei responsabili dell’omicidio di Catherine Skerl». Sottolineiamo anche nel suo racconto MFA dirà di aver incontrato Emanuela ventiquattr’ore prima della sua sparizione «nel giardinetto limitrofo alla sua scuola del convitto, ed una seconda volta nell’ipogeo della chiesa di Sant’Agnese in Agone». Quest’ultima chiesa è dedicata appunto a Sant’Agnese, citata nelle due lettere.
Ritenendolo una persona davvero informata dei fatti, vogliamo dargli spazio e sintetizziamo quello che MFA ha raccontato in Procura (oltre alla comparsa volontaria del 27/03/13, MFA è stato ascoltato 11 volte: 5,6,18 e 24 aprile 2013, iscritto nel registro notizie di reato il 6/5/13 e ascoltato come indagato il 15/05/13, il 18 e 28/06/13, l’1, il 24 e il 25/7/13) e le verifiche che la Procura ha fatto, integrandolo con il suo Memoriale e ciò che ha pubblicato sul suo blog personale.
Fazioni contrapposte. MFA ha frequentato le scuole medie presso l’istituto Giuseppe De Merode nel 1967, il cui direttore spirituale era don Pierluigi Celata, dopo poco diventato diplomatico in Vaticano, attraverso il quale dice di aver conosciuto ecclesiastici della Curia romana di origine lituana e francese, tra i quali mons. Audrys Juozas Backis. E’ stato arrestato nel 1972 in seguito ad un assalto fascista ai danni del liceo Tasso, accusato di incendio doloso, danneggiamento aggravato e resistenza a pubblico ufficiale. Venne arrestato nel 1979 per un presunto pestaggio nei confronti di “Cavallo pazzo” (ovvero Mario Appignani) in piazza Navona, i magistrati tuttavia conclusero appurando che il “fatto non sussiste” assolvendo MFA (e gli altri due), condannando Appignani per calunnia e simulazione di reato (MFA ha sostenuto che il trambusto provocato con Appignani era comunque legato all’attività che conduceva nella sua fazione, anche se poi l’esito, l’arresto, andò oltre alle sue aspettative). Nel 1982 venne arrestato per possesso di arma da fuoco.
Nel 1976 uno dei sacerdoti conosciuto, scrive, gli avrebbe proposto di filmare (e poi eventualmente ricattare) altri sacerdoti mentre riferivano notizie del Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa a «certi circoli d’interesse “occidentale”». Sarebbe entrato dunque in una lotta tra due fazioni contrapposte sulle politiche della Segreteria di Stato in materia economica e di politica estera (blocco sovietico e Solidarnosc), militando nella fazione filo-comunista contraria alla dura politica del Papa nei confronti dei poteri sovietici. Scrive: «I nostri intenti erano di smascherare e neutralizzare le realtà diplomatiche e politiche della Città Stato del Vaticano che volessero danneggiare la cultura dialogica diplomatica con le nazioni del Patto di Varsavia, ed estensivamente ogni operazione di propaganda a nocumento delle suddette nazioni». Nel 1979 «si forma una sorta di ganglio interno che cerca di ispirare le scelte della Segreteria diretta da monsignor Silvestrini. Questo nucleo si avvale di pochi elementi, generalmente lituani e francesi […] e si avvantaggia dell’ausilio di alcuni laici nella Giunta guidata dal Marchese Sacchetti nel Governatorato». Tuttavia, ha precisato, «le azioni della mia parte erano tese a favorire la linea politica dei suddetti ecclesiastici, senza che questi ne fossero assolutamente a conoscenza». Nel memoriale ha scritto: «La verità va cercata all’interno del Consiglio per gli Affari pubblici, che era diviso in opposte fazioni, una delle quali, quella dei francesi, pensò di servirsi di noi come braccio operativo» ( Il Ganglio, Fandango Libri 2014). E in un’altra occasione, parlando dei finti sequestri e delle morti che accaddero: «Ma non si pensi che degli ecclesiastici possano compiere tali misfatti. Erano solo alcuni e pochi laici a loro contigui ad adoperasi in tal senso, per interessi finanziari od altro. E quasi sempre gli ecclesiastici in oggetto erano assolutamente estranei ed inconsapevoli di quanto accadeva in pro o contro di loro». Il finanziatore di questa attività (macchine fotografiche, microspie ecc.), ha dichiarato, «era la massoneria inglese, quella importante, la Grande Loggia di Londra, che aveva interesse che nella Curia si rafforzasse la componente progressista, per contrastare le componenti più retrive e conservatrici» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014)
Baronessa de Rothschild. Tra gli obiettivi della fazione di MFA c’era quello di allontanare mons. Marcinkus (capo dello Ior da cui partivano i finanziamenti) tramite false testimonianze di molestie sessuali, usando ad esempio la baronessa Rothschild, ma che non fu mai contattata e morì improvvisamente per motivi estranei ai fatti. «Alcuni membri della parte a noi avversa», ha scritto MFA, «credettero di ravvisare in noi i responsabili di tale scomparsa, per cui nel 1983, dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, suggerirono alle famiglie delle ragazze la nomina legale dell’avvocato Gennaro Egidio, già legale della famiglia Rothschild in ordine alla scomparsa della baronessa». La sparizione di Jeannette May, ex baronessa de Rothschild (e della sua amica, Gabriella Guerin), avvenne il 29 novembre 1980, il 27 gennaio 1982 vennero ritrovati i loro scheletri calcificati tra i monti del Maceratese. Il giorno prima della scomparsa, a Roma venne svaligiata la casa d’aste Christie’s a cui arrivò un telegramma in cui si indica dove ritrovare la refurtiva appena svaligiata: via Tito Livio 76 (abitazione di Pippo Calò). Nel libro Il Ganglio di F. Peronaci, che cita un articolo dell’Ansa risalente al 27/01/82 intitolato “Caso Rothschild, la vicenda”, si riferisce che quest’ultimo telegramma diceva: “Se volete ritrovare la refurtiva recatevi in via Tito Livio 130, interno 3”. 3 o 76, quindi? Qualche giorno dopo, un altro telegramma spedito da Roma -con la stessa firma e dallo stesso ufficio postale- giunse all’hotel di Sarnano in cui la baronessa -già scomparsa- si trovava per seguire i lavori di ristrutturazione del suo casolare, indirizzato a “Jeanine May”. Il testo, riportato da Philip Willan nel suo L’Italia dei poteri occulti, recitava: “Ti aspettiamo giovedì in via Tito Livio 130, appartamento 130. Roland”.
Sempre nel libro Il Ganglio, citando l’articolo dell’Ansa del 1982, si legge che un terzo telegramma arrivò anche ai familiari di Valerio Ciocchetti, rapito il 3/12/1980 e trovato morto il 27/02/1981 (c’è chi scrive il 02/03/1981), ucciso da colpi di pistola e gettato in fondo al Tevere (la morte risale ad un mese prima del ritrovamento). Il telegramma era firmato con il nome Cespedes, prometteva notizie sul sequestrato a chi si fosse recato all’indirizzo di via Tito Livio, nell’appartamento 3C di un residence (dove si trovarono un gruppo di sudamericani e portoghesi) (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). MFA afferma nel suo Memoriale: «Uno dei miei sodali mi raccontò di aver spedito dei telegrammi riportanti dei codici, che già contemplavano la possibilità di scegliere una o due ragazze nella palazzina abitata dagli Orlandi; si citava il luogo 3, così indicando la palazzina degli Orlandi, ma non ricordo il motivo, e inoltre, si citava l’anagramma: Roland». E ancora: «Il colpo da Christie’s fu una iniziativa a noi non estranea, certo. La baronessa a Londra aveva intensi rapporti con collezionisti. Le opere d’arte dopo essere state fotografate, venivano poste in casa di qualche prelato, in modo che, se fossero state ritrovate, avrebbe creato scandalo l’ipotesi della ricettazione compiuta da uomini di Chiesa. Ricordo che nell’abitazione di un diplomatico del Consiglio per gli Affari pubblici, una casa museo al secondo o terzo piano del Palazzo dell’Arciprete, di tele rubate ne collocammo parecchie» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014)
Attentato a Giovanni Paolo II. La fazione di MFA, una volta scoperto il finanziamento vaticano a Solidarnosc, avrebbe diffuso in Vaticano numerose notizie di un possibile attentato al Papa, vittime di ricatti e dossieraggi sarebbero stati cardinali anticomunisti (card. Caprio) e monsignori (mons. Hnilica). Quest’ultimo, in particolare, a causa del suo acceso anticomunismo e dell’amicizia personale con Papa Wojtyla, «era in cima alla nostra lista», di persone da sottoporre a pressioni, ricatti. «era la nostra bestia nera» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014)
Nell’estate 1980 la sua fazione venne a conoscenza della preparazione di un attentato al Papa, da parte di idealisti turchi di estrema destra (i Lupi Grigi), grazie ad agganci con ambienti del servizio diplomatico della Turchia, ad Ankara, paese in cui fu nunzio mons. Backis a loro molto vicino. L’informazione partì da un sindacato di polizia con orientamento a sinistra, il Pol-Der. «Una nostra persona contattò detti idealisti qualificandosi come appartenente a un gruppo cultista sudamericano, in polemica con il pontefice per la troppo flebile opposizione ai paesi del Patto di Varsavia. Non ricordo il nome, ma era una specie di setta con radici a destra. Proprietà, Tradizione e Famiglia, qualcosa del genere. Fingemmo di esserne seguaci e ci facemmo avanti, dando la nostra disponibilità. Loro mettevano gli uomini, noi avremmo fornito. Insistemmo nel dire ai turchi che il Papa andava colpito in quanto poco anticomunista. Loro accettarono il contatto, fidandosi, e di certo non hanno mai saputo chi fossimo». Legami tra cattolici ultraconservatori di destra e l’integralismo islamico sono stati rilevati dal giudice Carlo Parlermo davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta Mitrokhin il 6/07/05, quando ricordò un rapporto di polizia del marzo-aprile 1983 che stabiliva connessioni tra l’attentato al Papa del 1981 e quello che subì l’anno successivo, quando il prete ultraconservatore spagnolo Juan Fernandez Krohn tentò di accoltellarlo in occasione della visita di Giovanni Paolo II al santuario di Fatima, nel giorno del primo anniversario dell’attentato subito. Krohn militava proprio in “Tradizione, famiglia e proprietà”, gruppo che non riconsoceva alcun papa dopo Pio X (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Il legame tra fondamentalisti cattolici e islamici c’è, effettivamente, anche se è possibile che MFA ne sia venuto a conoscenza successivamente, inserendo il tutto nel grande filone del caso Orlandi.
Arrivato Agca a Roma, MFA ha affermato di aver prenotato direttamente lui l’albergo Archimede in via dei Mille e l’albergo Ymca di piazza Indipendenza, «su richiesta dei miei referenti». All’Archimede, hanno verificato i giudici, Agca alloggiò nel novembre 1980, mentre all’Ymca il 10 maggio 1981. «I nostri contatti-tramite con il signor Agca furono condotti da due persone della Congregazione De Propaganda Fide, costoro conducevano lineamenti fisici orientali, per confondere il signor Agca. Si incontravano con lui presso un appartamento in via Belsiana, nelle pertinenze di una persona conosciuta presso il collegio San Giuseppe De Merode. I due religiosi erano asiatici, uno aveva prestato servizio diplomatico in Brasile. Lo incontrò tre volte, a Roma, Perugia e a Milano». Fu questo religioso asiatico a spacciarsi per membro della setta sudamericana Tradizione, famiglia e proprietà: «Fu bravissimo, parlava bene il portoghese. A me sembrava un azzardo, ma Agca ci credette». MFA afferma di aver prenotato lui anche l’ultimo albergo in cui soggiornò Agca prima dell’attentato, Isa di via Cicerone. Effettivamente il titolare dell’albergo, Maurizio Paganelli, disse nell’estate 1981 che a prenotare la camera il giorno prima fu una persona che parlava in italiano corretto, mentre la Corte d’Assise del secondo processo escluse che a fare quella telefonata fu il bulgaro Kolev, come invece ritenne il giudice Ilario Martella. Dice MFA: «venne deciso che fossi io a prenotare la stanza per il signor Agca per dare una certa impronta al cosiddetto attentato, far capire che l’azione nasceva da ambienti italiani, e per esteso vaticani. Come può il giudice Martella aver avuto l’ardire di sostenere che fu il bulgaro a telefonare? Se il Kgb e i bulgari avessero voluto far credere che all’origine dell’attentato vi fossero stati solo gli idealisti turchi, non avrebbero fatto parlare il telefonista in italiano, ma in inglese. Io sono qui, non fuggo. Se si vuole disporre un confronto con il titolare della pensione Isa sanno dove trovarmi» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
La fazione di MFA avrebbe comunque cercato di indurre i turchi a semplici minacce o a spari in aria. MFA rivela di aver gestito la presenza di Agca a Roma (seppur senza mai conoscerlo personalmente, ha precisato), introducendolo anche in alcune udienze prima dell’attentato, in veste di studente universitario. Il giudice Rosario Priore accreditò questa ipotesi ed effettivamente il 10/05/81, tre giorni prima dell’attentato, un giovane mediorientale dai tratti somiglianti a quelli di Agca comparì in una foto dell’evento a pochi passi dal Pontefice, dunque in un’area riservata a una cerchia ristretta di personalità (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Spiega Accetti: «Qualcuno si è mai chiesto perché, nei mesi precedenti, è venuto in Italia? Nessuno, sul serio. Eppure è strano. Se uno deve compiere un’azione criminale eclatante, arriva cinque giorni prima, trova la logistica pronta, fa qualche sopralluogo, spara e torna indietro. Invece il signor Agca era stato in Italia più volte. Doveva essere presentato come uno studente indiano dell’università di Perugia, e poi fotografato assieme a prelati, tra i quali alcuni membri della Congregazione per la dottrina della fede, che non sapevano chi fosse il giovanotto, certo, ma se le foto fossero arrivate a un giornale, dopo l’attentato, sarebbe stato comunque un problema serio, imbarazzante» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
Tuttavia gli idealisti turchi non accettarono i patti e Agca sparò al Papa: «abbiamo sempre pensato a due ipotesi: la prima che vede gli idealisti venir meno autonomamente al patto. La seconda, che possa esserci stato il suggerimento da parte di interessi terzi», ha commentato MFA.
Progetto del sequestro di cittadini italiani e vaticani. Dal 1981 in poi, rivela ancora MFA, si volle evitare la collaborazione tra Alì Agca e gli inquirenti decidendo di rassicurare l’attentatore facendogli credere che si stava organizzando un sequestro di cittadini vaticani da contraccambiare con la sua scarcerazione. Si pedinarono le figlie di Gugel (aiutante Papa) e Cibin (sicurezza Papa): «A seguire la prima fu un membro dei Focolari Idealisti, mentre per la seconda se ne occupò un membro della Staatssicherheit. Questi pedinamenti dovevano necessariamente essere “notati” dalle due ragazze». Il nome dell’idealista turco, afferma MFA, «è negli atti del processo per l’attentato. Non intendo fare chiamate di correità, ma gli organi inquirenti, volendo, arriverebbero a lui facilmente» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Nel 1982, inoltre, seppero che il SISDE -servizi segreti italiani- promise ad Agca la grazia presidenziale e il perdono del Pontefice entro due anni, in cambio della collaborazione. Si riferisce a quanto avvenne il 29/12/81 nel colloquio tra Agca e i funzionari Luigi Bonagura e Alessandro Petruccelli (Sismi): il giudice Rosario Priore, apprenderà che in quell’occasione “i servizi segreti promisero ad Agca la revisione del processo e la grazia presidenziale, sottolineando che sarebbero intervenuti in tal senso anche presso le autorità vaticane, e una detenzione meno dura presso altro carcere”. Due anni dopo il 1981 si arriva al 1983, «avremmo fatto credere», spiega MFA nel memoriale, «che il sequestro poteva essere stato concepito dai Servizi italiani, che in questo modo corrispondevano ad Agca per le sue “confessioni”» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
Nel febbraio 1982, scrive MFA nell’allegato al Memoriale intitolato “Mio arresto 1982”, avuta la notizia che Agca intende collaborare con i giudici incolpando la delegazione bulgara, «cercammo di fargli credere, fittiziamente, che un servizio dell’Unione sovietica stesse mandando un neofascista a compiere un omicidio nei suoi confronti. Agca sapeva essere prassi d’oltrecortina usare elementi di destra». Si decise che proprio MFA avrebbe dovuto farsi arrestare per una breve detenzione «usando un’arma del padre di mia moglie, la quale me l’avrebbe consegnata senza conoscerne l’uso. Quindi il semplice reato era porto abusivo». Il 1 marzo 1982 scende in piazza Sant’Emerenziana e «mi posizionai nel giardinetto prospiciente, cercando di far notare al vigilante privato, posizionato innanzi ad una banca, che recavo con me, sotto al giubbotto, una rivoltella», di tipo P38. Venne avvisata la polizia e MFA, arrestato a Rebibbia, «nell’interrogatoio di rito simulai un trascorso nell’ambiente del neofascismo, citando fatti inesistenti e inserendo, all’interno degli essi, luoghi ecclesiastici a mo’ di codice». MFA finisce in carcere a Rebibbia, mentre Agca è nelle Marche: «la minaccia non doveva essere fisica, non potevamo pensare che ci avrebbero messo in cella con lui. L’importante era creare una suggestione, far girare l’allarme su un emissario del Kgb entrato nelle carceri e incaricato di ucciderlo. Sarebbe bastato per spaventarlo. Al sig. Agca fu fatta leggere una copia del verbale». Dopo tre settimane Accetti viene scarcerato e il 29 aprile 1982, un mese dopo, Agca inizia a collaborare con la giustizia italiana, indica nei Focolari idealisti i mandanti dell’attentato, mentre l’8 novembre 1982 chiamerà in correità i bulgari Antonov, Vassilev e Ayvazov (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
Oltre a questo, dopo la morte di Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, nell’estate 1982 la fazione di MFA avrebbe iniziato a collaborare con Enrico De Pedis per interessi comuni, ovvero “defenestrare” mon. Marcinkus (e il Dott. Macioce, poiché influente su di lui): loro, oltre a condizionare Agca perché ritrattasse le accuse ai bulgari, volevano interrompere il finanziamento a Solidarnosc mentre «l’interesse del signor De Pedis sarebbe stato quello di recuperare quanto prestato al Calvi, ma a questa operazione si sarebbe opposto monsignor Marcinkus». Qui e qui MFA approfondisce lo scopo del suo operato in questo contesto.
Dunque MFA unisce così sia la “pista internazionale” che quella locale della Banda della Magliana. In questo contesto, scrive, è maturato l’interesse verso Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi. Far circolare voci di sequestri di cittadine italiane e vaticane serviva per tranquillizzare Agca, un deterrente per una eventuale collaborazione con i magistrati. Tuttavia nel maggio 1982 il terrorista turco iniziò ad accusare i bulgari come complici dell’attentato al Papa, così la fazione di MFA avrebbe deciso di passare all’azione tramite un finto sequestro, convincendo tramite l’inganno le ragazze ad allontanarsi di casa e si decise di prelelevare anche una cittadina italiana. Infatti, «prima del dicembre 1981 i pedinamenti furono effettuati solo nei confronti di cittadine vaticane», ha scritto. «Emanuela serviva a fra credere ad Agca che il Vaticano sotto ricatto non si sarebbe opposto alla sua liberazione, e la Gregori a spingere il presidente della Repubblica, allora era Pertini, a concedergli la grazia. Ma a noi delle sorti del detenuto non importava nulla, noi volevamo solo che credesse a queste promesse e scagionasse i bulgari, era una questione politica» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014) . «Facemmo il finto sequestro», precisa MFA, «esattamente dopo due anni» dalla promessa del SISDE ad Agca di ottenere in due anni il perdono del Papa e la grazia presidenziale in cambio della sua collaborazione, «per far credere agli inquirenti che potessero essere stati proprio i servizi ad eseguirlo in quanto volevano a loro volta far credere ad Agca che questo sequestro era stato effettuato per sollecitare la grazia nei suoi confronti per corrisponderlo della sua collaborazione già in atto. Perdono del Papa significa cittadina vaticana: la Orlandi – La grazia presidenziale significa una cittadina italiana: la Gregori. Nel senso che il Pontefice, preoccupato per la sorte di una cittadina vaticana avrebbe dovuto chiedere riservatamente, e non ufficialmente, al Presidente della Repubblica Italiana di concedere la grazia al detenuto Agca (del resto si era trattato di un solo ferimento ed il detenuto stava collaborando con le autorità). Ed il Presidente della Repubblica Italiana, tra l’altro preoccupato della sorte della cittadina italiana Gregori, avrebbe potuto assecondare la richiesta del Pontefice. Tutto ciò chiaramente poteva verificarsi esclusivamente in modo riservato, e mai se fosse stato a conoscenza pubblica. Ma in verità era assolutamente virtuale. Noi volevamo semplicemente far credere ad Agca che ciò fosse possibile in modo da ottenere la sua ritrattazione sulle calunnie ai membri bulgari, e al tempo stesso far credere agli inquirenti ed all’opinione pubblica che i responsabili potevano anche essere i Servizi, che avevano prodotto quella iniziale promessa ad Agca nel 1981. Ma eravamo consapevoli del fatto che tutto ciò non si sarebbe mai verificato. A noi era sufficiente la sua ritrattazione». Inoltre, ha aggiunto, «attraverso due quindicenni, avremmo evocato scenari di pedofilia, non concreti e reali, ma tali da spaventare certi nostri avversari, non estranei a vicende del genere» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014)
Tuttavia, ha scritto, «l’evento è degenerato ed io me ne sono assunto ogni responsabilità presentandomi in procura». Ovvero: le due ragazze sono sparite davvero, al di là delle sue/loro intenzioni.
FINTO SEQUESTRO DI MIRELLA GREGORI
Mirella fu scelta, afferma MFA, «dopo lunghe ricerche, per l’età, la stessa di Emanuela, utile a richiamare suggestioni di pedofilia; per le caratteristiche fisiche, anche queste non lontane da quelle della Orlandi; per una certa vivacità caratteriale; e per la sua riconducibilità ad ambienti della gendarmeria» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Oltre alla vicinanza con la casa del sovrastante vaticano Bonarelli e la vicinanza della linea d’autobus che all’epoca conduceva dalla Nomentana alla piazza della Stazione di San Pietro (vicina alla Orlandi), scrive MFA, «scegliemmo Mirella Gregori per l’aspetto finanziario del padre e la temperatura caratteriale della stessa. Inoltre, oltre a voler fare pressoni al capo dello Stato per la grazia ad Agca, la sparizione di Mirella servì per mettere sotto pressione alcune persone dell’ex gendarmeria per far credere che questi avessero un rapporto di connivenza con il dottor Gugel». La pressione era di poter rivelare il nome della persona dell’ex-gendarmeria (Bonarelli), «uno scandalo che noi ci riservavamo di creare, (ma non lo avremmo mai messo in atto, era solo una spada di Damocle sospesa) […]. Volevamo essere a conoscenza dell’identità degli ecclesiastici venuti dalla Polonia per le udienze e volevamo, al tempo stesso, inserire alcuni nostri ecclesiastici polacchi nelle stesse udienze». Coincidenza vuole che qualche giorno prima della sparizione, Mirella venne fotografata accanto a Giovanni Paolo II al quale aveva fatto visita con la sua scuola, immagine che rimase affissa per qualche giorno nella bacheca dell’ufficio stampa dell’Osservatore Romano, dentro il Vaticano.
Il 6 maggio 1983, giorno prima della sparizione, Mirella partecipa all’inaugurazione del bar del padre, appena ristrutturato. Durante il rinfresco si intrufolano due sconosciuti, che scattano fotografie e suscitano apprensione nella madre. Sono gli stessi personaggi identificati nell’identikit e accusati tempo dopo all’interno del filone della Banda della Magliana, “Ciletto” e “Giggetto”, gli stessi che secondo gli investigatori pedineranno Emanuela nei giorni antecedenti alla sparizione. La loro truce apparizione, spiega MFA, serviva a confermare a «Mirella che il padre è realmente in pericolo per i debiti contratti, inoltre per produrre testimonianza presso gli astanti, che confermerebbe, nel caso la ragazza in futuro dovesse raccontare su monsignor Marcinkus, come gli stessi figuri apparsi siano proprio uomini vicini all’imprenditore, il quale agirebbe in appoggio a monsignor Marcinkus. Infine come trait de union con il futuro evento della Orlandi, in quanto sono gli stessi uomini che l’hanno “pedinata”». Durante l’inaugurazione Mirella discute animatamente con il fidanzato, litigio che verrà ricordato dall’Amerikano nella sua telefonata all’avv. Egidio. La litigata sarebbe servita per giustificare una scappatella d’amore con un altro ragazzo. «Noi avevamo già presentato un bel ragazzo», svizzero, « alla Mirella tempo prima. Costei si era innamorata al punto che voleva lasciare il precedente ragazzo, ma noi glielo impedimmo perché ci serviva la litigata da verificarsi al bar come pretesto per il tutto. Questo ragazzo straniero, la incontra “casualmente” in via Nomentana, dicendole di averla vista nel paese di vacanza dell’estate prima, e le chiede di non raccontare a nessuno della sua presenza in quanto lui non è con i documenti in regola». Sia per il “prelevamento” di Mirella, che per quello della Orlandi, MFA dirà di aver avuto come complici «ragazzi e ragazze della Germania Occidentale, in tutto tre persone, ben retribuite. Devi considerare che questa era una prassi della Staatssichereit per ottenere, attraverso l’amore o il sesso, informazioni o quant’altro» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
Il coinvolgimento di De Pedis avvenne in seguito alla morte di Roberto Calvi, in quanto «venne meno la compattezza di quell’insieme di persone che a lui prestava i soldi. L’interesse del signor De Pedis sarebbe stato quello di recuperare quanto prestato al dottor Calvi, ma a questa si sarebbe opposto monsignor Marcinkus. Questo si fece presente all’imprenditore: che era necessaria la rimozione del Monsignore o la sconfitta della sua linea politica». La fazione di MFA gli fece credere che il sequestro di due ragazzine fosse una strada efficace per convincere i vertici dell’istituto a saldare (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Qualcuno vicino a De Pedis, in modo autonomo aiutò economicamente il padre e Mirella fu indotta a credere che la sua scomparsa avrebbe tolto suo padre dai guai. Un falso sacerdote della parrocchia San Giuseppe -assieme ad una ragazza tedesca (Ulrike) fingeva di essere dell’Azione Cattolica- disse a Mirella dei debiti del padre a certi malavitosi e, per fermare il ricatto, bisognava «aiutare un prelato vicino monsignor Marcinkus, che deve anche lui adoperarsi contro di loro in quanto gli stessi usurai pretendono la restituzione di denaro anche dalla sua persona». A Mirella si disse che il finto sequestro sarebbe stato organizzato da Marcinkus con l’aiuto degli uomini di De Pedis, per poter operare pressione sui malavitosi e che il padre sarebbe stato d’accordo. Allo stesso tempo si voleva esercitare pressioni su alcune persone dell’ex gendarmeria vaticana, dando l’impressione che il sovrastante Bonarelli -in connivenza con l’addetto di anticamera papale, Gugel- conoscesse la storia e avesse organizzato il “finto sequestro”, minacciando di far emergere la cosa.
A citofonare a casa Gregori il 7 maggio 1983 sarebbe stata Sonia De Vito mentre veniva ripresa filmicamente (con sonoro) da MFA («come accadrà, solo fotograficamente, con la compagna di scuola del Convitto della Orlandi alla fermata del bus alle 19»). Filmati e fotografie, spiega servivano «per avvalorare la presenza di testimoni e al tempo stesso per far sentire le ragazze come coinvolte, compromesse, vincolandole al silenzio». La Gregori si sarebbe recata con Sonia De Vito nel bar dei suoi genitori dove sarebbe cambiata gli abiti -concordati tempo prima e portati il giorno precedente alla De Vito- poiché erano conosciuti dalla madre che li avrebbe descritti agli inquirenti. I vecchi vestiti vennero consegnati alla ragazza dell’Azione Cattolica, in realtà una fiancheggiatrice tedesca della Stasi di nome Ulrike, per usarli in possibili ricatti. La Gregori avrebbe quindi incontrato sul piazzale Porta Pia alle 15:30 (anagramma 13-05, che abbinato alle ore 7 della sera in cui sparì la Orlandi avrebbe completato la data del 13-5-1917, apparizione di Fatima) De Pedis, autista di una una BMW verde (incontro fotografato da MFA) e, subito dopo, un’estremista turco. Avrebbe poi raggiunto il ragazzo svizzero in un appartamento in via di Santa Teresa restandoci, ha affermato MFA, «fino al gennaio 1984. Se imbocchi la stradina dal lato di corso Italia, l’edificio in cui abitò si trova sulla sinistra, l’appartamento l’avevamo avuto in affitto. Io andai a trovarla un paio di volte, con lei c’era sempre lo svizzero. Uscivano il meno possibile, lui si era lasciato prendere dalla storia, e lo si può capire, perché anche Mirella era bellina, molto, aveva un gran portamento» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Prese il nome di Rosy per richiamare Rossitza Antonov, moglie del bulgaro Antonov accusato da Agca come collaboratore per l’attentato al Papa. «Insieme con il ragazzo uscirono dall’Italia, a inizio 1984», ha affermato MFA (Il Ganglio, Fandango Libri 2014)
Occorre sottolienare che dopo l’arresto di MFA nel 1983, a seguito dell’omicidio Garramon, la polizia perquisì casa sua trovando diversi foglietti con nomi di ragazzi e ragazze e numeri di telefono, tra cui uno con scritto “Rosy” (il cognome è secretato), con numero di telefono, la via Santa Teresa d’Avila n°23, interno 13. Nel marzo 1984 gli investigatori trovarono nell’appartamento l’attore americano Robert Jorge Sommer, il quale negò qualunque conoscenza con “Rosy” e MFA (nel 1983 è uscita l’opera La Traviata di Franco Zeffirelli, dove Sommer ha partecipato come attore). La sorella di Mirella, Maria Antonietta Gregori, ha rivelato: «La nostra parrocchia era un’altra però mia sorella frequentava anche quella chiesa, per il cineforum. Ricordo che ci andava abbastanza spesso, si chiamava teatro Avila».
Mirella sarebbe stata fatta rientrare incontrare alla madre nel 1993 per evitare che quest’ultima riconoscesse Roaul Bonarelli, vicino di casa dei Gregori, come l’uomo visto assieme a Mirella e Sonia De Vito nel bar di quest’ultima, rischiando di indirizzare le indagini sulla gendarmeria vaticana. «Era la fine del 1993», ha affermato Accetti, «un pomeriggio, attorno alle 15,30. Io ero presente, ma in lontananza, non visto. Ci trovavamo nei pressi del galoppatoio di Villa Borghese. La ragazza era nel camper, parcheggiato a ridosso della recinzione. L’incontro durò circa tre quarti d’ora, serviva a tranquillizzare la signora Arzenton, per le dichiarazioni da lei fatte contro la gendarmeria. Si salutarono e Mirella fu riportata all’estero» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014) Scettica la sorella, Antonietta Gregori: «Non ci credo assolutamente. Sta dicendo che mia madre, riabbracciata mia sorella dopo dieci anni, tenne per sé il segreto? Continuò a fingere di cercarla, fino a morirne, di dolore e di malattia, mentre sapeva che era viva e dove si trovava? Impossibile. Mamma era sicura che fosse lui l’uomo visto con mia sorella. Lo ricordo bene, non aveva dubbi. La Procura impiegò otto anni a chiamarla per un confronto con questo signore, nel frattempo diventato misteriosamente cittadino vaticano, e quando la convocarono era ormai stanca e malata, morirà di lì a poco. Si confuse, forse si spaventò» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). MFA ha replicato: «La sorella ha diritto di pensare ciò che vuole, ci mancherebbe. Sappia che dico la verità. E che la signora poteva aver un ottimo motivo per non raccontare: salvaguardare sua figlia». E questo può significare salvaguardare Mirella o anche la stessa Antonietta, la madre potrebbe essere stata costretta ad obbedire, altrimenti potevano far fuori Mirella o Antonietta.
Il racconto di MFA è assolutamente convincente quando riflette su chi potesse aver citofonato a Mirella il giorno in cui sparì. Mirella disse che era stato l’amico Alessandro De Luca ma lui negò ed infatti risulterà essere da tutt’altra parte (a casa di amici in viale Libia). Allora chi citofonò? Due ipotesi: o un rapitore che fingeva di essere Alessandro o Mirella mentì. Ma un rapitore davvero citofonerebbe a casa, con il rischio che a rispondere possa essere la madre, innescando dei sospetti e vanificando i piani? Ma anche se avesse risposto Mirella ci sarebbero stati rischi enormi: «perché mai un sequestratore avrebbe dovuto adottare una tecnica tanto contorta ed aleatoria», spiega MFA, «nel qual caso la ragazza non avesse riconosciuto la voce si sarebbe potuta insospettire ed allarmare, ed il primo tentativo del sequestratore vanificato ed in parte bruciato. Ma anche se la ragazza, imprevedibilmente, avesse riconosciuto la voce del compagno, avrebbe anche potuto declinare l’invito perché già impegnata o chiedergli di salire in casa. Ma se comunque si fosse recata nel piazzale di Porta Pia, luogo dell’appuntamento, non avrebbe trovato alcun Alessandro, ma degli adulti che comunque avrebbero dovuto giustificare l’assenza di Alessandro e infine sequestrarla. Per cui tanto conveniva non produrre alcuna citofonata ed attendere il momento in cui la ragazza si sarebbe recata in strada. Tra l’altro, per chi ne ha conoscenza, sia il luogo di Corso Rinascimento dinanzi al Senato che il piazzale di Porta Pia, sono luoghi aperti e frequentati, non certo idonei ad operare un qualunque sia sequestro». Se si è portati dunque escludere che a citofonare sia stato il rapitore, se è stato escluso che possa essere stato Alessandro De Luca, chi ha citofonato? Sonia De Vito, ha detto MFA. Perché Mirella ha mentito? Aveva un’intesa (ingannata o meno), come racconta MFA? Al di là della verità, la storia sta in piedi.
FINTO SEQUESTRO DI EMANUELA ORLANDI
Anche Emanuela sarebbe stata ingannata e convinta ad allontanarsi di casa facendole credere che il padre era sotto ricatto in quanto avrebbe agevolato (inconsapevolmente) la presenza di Agca alle udienze del Papa prima dell’attentato e per tale motivo era a rischio il suo lavoro e la loro abitazione all’interno del Vaticano. Ha scritto MFA: «La ragazza fu tratta in inganno raccontandole che il padre era sotto ricatto, e dunque necessitava della sua partecipazione a tale finto sequestro. Non significa affatto che la ragazza fosse “consenziente” ma che la sua minima partecipazione fu “estorta” e forzata. Quindi non era consenziente “in toto” e al tempo stesso non prelevata secondo i metodi convenzionali».
Emanuela, una volta rientratata a casa avrebbe dovuto raccontare che l’uomo della Avon aveva mandato, finita la lezione di musica, un’amica della sorella la quale l’avrebbe portata nel suo appartamento per mostarle dei cosmetici e nel quale si sarebbe fermata a dormire. Nel frattempo MFA avrebbe fatto pressioni su prelati vicino a Marcinkus facendo credere che quella della Orlandi potrebbe essere una menzogna per coprire la verità: un prelato la avrebbe condotta in una villetta dove Marcinkus le avrebbe fatto velate e gentili avances da lei respinte, offrendo aiuto al padre che si trovava sotto ricatto tramite un finto sequestro della figlia. Il sacerdote le avrebbe detto che i genitori erano d’accordo.
La ricerca della cittadina vaticana sarebbe iniziata nel 1981 da parte di una giovane laica che, sotto mentite spoglie, lavorava in Vaticano e diceva di essere dell’Azione Cattolica (in realtà si chiamava Ulrike ed era una fiancheggiatrice della Stasi), scelsero Emanuela per il carattere aperto (disponibile a collaborare) e perché frequentava la scuola di musica nel palazzo di Sant’Apollinare, «feudo storico del Card. Caprio, nostra controparte. All’interno della scuola fu attenzionata tale Giuliana, che credo fosse nel Consiglio direttivo», scrive MFA. Rispetto a tale Giuliana, presenza confermata da Pietro Orlandi nel ruolo di segretaria della scuola, MFA ha precisato: «Mi sembra di cognome facesse Lollo, o Di Lollo. Facemmo finta di corteggiarla per assumere informazioni sul cardinale Caprio, ma lei non se ne accorse, non fece collegamenti tra noi e la vicenda Orlandi» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). La scuola di musica di Emanuela fu importante, tanto che la ragazza portò con sé la tessera personale della scuola così «da far attenzionare ulteriormente dagli inquirenti italiani e dagli organi di stampa il suddetto palazzo». La “giovane laica” si fece conoscere gradualmente da Emanuela, promettendole di favorirla come musicista tra le sue conoscenze ma chiedendole di non rivelarlo a nessuno per non inficiare la sua iniziativa. MFA, nel primo incontro con Pietro Orlandi, avvenuto nel 2013, ha affermato: «Tua sorella l’ho vista tantissime volte, la prima quando la contattai all’uscita di scuola» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). MFA ha affermato di aver incontrato Emanuela «nel giardinetto limitrofo alla sua scuola del convitto, ed una seconda volta nell’ipogeo della chiesa di Sant’Agnese in Agone». Quest’ultima volta ventiquattr’ore prima della sua sparizione, colloquio che servì a istruire la ragazza, a definire tempi e modalità dell’azione del giorno successivo.
Il 22 giugno 1983 Giovanni Paolo II si sarebbe recato al Senato Accademico polacco per cui la fazione di MFA scelse di “allontanare” Emanuela davanti al Senato italiano, sapendo anche che le telecamere non erano in funzione (non ricorda però se le disattivarono loro). La Orlandi sarebbe dovuta pervenire dal Palazzo di Giustizia ma non lo fece e si imbatté così in una complice, «nella compagna dell’Istituto Convitto Nazionale, che stazionava in Corso Rinascimento, e la quale la corresse indirizzandola a percorrere l’interno di piazza Navona per poi riprendere Corso Rinascimento dalla parte opposta». Emanuela dunque giunse dalla parte opposta a quella attesa, non da via Zanardelli, nel qual caso avrebbe trovato la facciata del Senato sulla sua sinistra, ma da corso Vittorio. Il mutamento di percorso coincide con l’ipotesi, sostenuta da Pietro Orlandi, che Emanuela abbia preso il 64 al capolinea, vicino casa, e sia scesa a corso Vittorio, nei pressi di Sant’Andrea della Valle, per poi imboccare corso Rinascimento. Contravvenendo alle indicazioni ricevute forse sperava di far saltare tutto? Il fratello Pietro ha sempre ricordato come quel giorno Emanuela insistette molto per farsi accompagnare da lui in moto. Le domande di Fabrizio Peronaci sono opportune: non è che, quando implora il fratello di accompagnarla a Sant’Apollinare, Emanuela sta tentando di dirgli qualcosa? La sua insistenza non potrebbe indicare una ricerca quasi inconscia di protezione? Conta forse di parlargli, a Pietro, durante il viaggio in moto? Di confessargli che strani figuri le ronzano attorno? (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Secondo il giudice Fernando Imposimato, la cui convinzione è che il doppio rapimento sia stato opera premeditata della Stasi, la ragazza di corso Rinascimento sarebbe Fabiana Valsecchi (nel primo incontro tra Peronaci e Accetti, mentre quest’ultimo ricostruiva l’accaduto di fronte al Senato, Peronaci ha domandato: “conosci la Valsecchi?”, cogliendo di sorpresa l’uomo: “Da chi l’hai saputo? Chi te l’ha detto?”)
Alle 16, fermatasi al punto prefissato in precedenza (al centro della strada che mette in comunicazione Corso Rinascimento con piazza Navona) venne raggiunta dalla Bmw verde metalizzato (codice che indicava la Germania Federale), in contromano ed in doppia fila al centro della suddetta stradina, guidata da De Pedis. Questa manovra, con un’autovettura inconsueta e dal colore sgargiante era proprio per attirare l’attenzione e far credere che il sequestro fosse opera della criminalità romana. L’uomo le mostra un tascapane azzurro con dei cosmetici che avrebbe dovuto ricordare l’areonautica italiana, «in quanto alcuni membri della stessa collaboravano con la parte a noi avversa», così come la scritta “A” poteva ricordare la ditta newyorkese Avon (la diocesi di New York era legata al dottor Macioce, influente sullo IOR), che in celtico significa “fiume” (ricordiamo che “fiume” compare anche nelle lettere anonime del 2013 arrivate alla Monzi e Maria Antonietta Gregori). MFA è nascosto e fotografa l’incontro tra Emanuela e De Pedis, rullino che consegnò allo stesso De Pedis prima del suo allontamanento. Nel frattempo Emanuela simula un incontro -fotografato- anche con un esponente dei Focolari Idealisti, Agca avrebbe ricevuto queste foto da un secondino corrotto riconoscendo l’idealista turco e credendo che il “sequestro” fosse stato organizzato con l’aiuto di questa organizzazione idealista turca. E’ lo stesso vicino al quale venne fotografata anche Mirella, MFA ha specificato: «si trattava di un estremista islamico tra i tanti rifugiati in Europa, ce n’erano in Germania, Svizzera, Francia, che aveva orientamento diverso, rispetto ai vari Agca o Celebi si poteva considerare di sinistra. Fecero da tramite i nostri referenti della nunziatura in Turchia e il sindacato di polizia Pol-Der, lo stesso che aveva intercettato le voci di attentato. Fu lui a pedinare la Gugel due anni prima. Agca, riconoscendolo nelle foto accanto a Mirella ed Emanuela, si sarebbe convinto che i sequestri erano stati realmente eseguiti da un’organizzazione filosovietica, quindi con l’intento dimostrato di ottenere da lui la ritrattazione delle calunnie sui bulgari, di cui avrebbe beneficiato grazie al tentativo di liberarlo» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). In una telefonata che abbiamo avuto con Accetti nel gennaio 2016, ci ha spiegato che andati via De Pedis e il turco, «mi presentai io a chiedere dove fosse la Sala Borromini per confondere le acque e la possibilità di un identikit». I due agenti (Bosco e Sambuco), «avevano assistito a questa scena dove c’era il cosiddetto “imprenditore”, andato via “l’imprenditore” mi sono sostituito io -chiaramente loro non è che avessero l’occhio fisso sulle nostre mosse- per incidere meglio nella memoria, mi sono presentato io e gli ho chiesto: “dov’è la Sala Borromini?”. Non ricordo se al vigile o al poliziotto, oltretutto c’erano anche altri impiegati, credo del Senato»
Il piano era che Emanuela avrebbe dovuto telefonare a casa e l’assenza dei genitori era il segnale che avevano accettato la proposta del finto sequestro, avrebbe anche parlato alle compagne della proposta di lavoro usando i codici “Sala Borromini” (indicava la casa di Fancesco Pazienza, collaboratore del direttore del SISMI, che si diceva incontrasse De Pedis), “Avon”, “375” (anagramma della data della prima apparizione di Fatima: 13-5-1917) e “Sorelle Fontana” (segnalava l’abitazione di monsignor Celata posta un portone prima della sede dell’atelier). Il codice composito avrebbe dovuto dire, secondo MFA: una sfilata – azione di monsignor Celata con il Pazienza, nel senso che da questo connubio si otterrà un risultato contro la politica dell’Istituto Opere di Religione. Accostare l’industria commerciale Avon all’attività di un atelier di Alta Moda era per dare un maggior senso di “improbabilità”, come la cifra spropositata offerta. Venne tuttavia segnalato che a casa Orlandi c’era inaspettatamente la sorella Federica così, tramite una compagna di scuola, MFA avrebbe così comunicato alla Orlandi di telefonare a casa, usando verso la sorella i codici che erano previsti anche per le compagne di musica (la telefonata avvenne alle 18:45).
Finita la lezione la Orlandi avrebbe attraversato, assieme alla compagna d’istituto del Convitto, Corso Rinascimento salendo su una Mercedes targata Città del Vaticano con alla guida un autista ed, a fianco, «il sosia di un monsignore appartenente alla fazione a noi avversa, segretario del Comitato Organizzativo per l’Anno Giubilare della Redenzione del 1983», ovvero moms. Liberio Andreatta. Un dettaglio, quest’ultimo, che ricorda molto il racconto di Sabrina Minardi. L’auto avrebbe sfialto davanti al Senato arrivando a Porta Sant’Anna, la Orlandi sarebbe entrata a piedi mentre l’amica la avrebbe aspettata cercando di distrarre i parenti di Emanuela nel caso fossero passati (MFA nel frattempo fotografava la scena). Il card. Oddi riferirà proprio di aver sentito dire che la Orlandi venne vista entrare dalla Porta Sant’Anna: «La Orlandi non venne sequestrata all’uscita dalla scuola di musica, ma quella sera tornò a casa a bordo di un’automobile di lusso, sulla quale ripartì. L’ignoto accompagnatore attese la ragazza a Porta Sant’Anna, probabilmente per non farsi vedere dalle guardie svizzere che avrebbero potuto riconoscerlo. Questo lo appresi da un testimone oculare dell’episodio». Salvo poi precisare: «erano chiacchiere ascoltate per strada, da qualcuno che parlava della scomparsa di Emanuela Orlandi, come in quei giorni facevano un po’ tutti dalle parti di San Pietro». Le due versioni coincidono quasi perfettamente (compresa l’auto di lusso). Ma MFA non vi crede: «la testimonianza a posteriori del Card. Oddi la ritengo non veritiera, in quanto la ragazza era sempre accompagnata dall’altra compagna del Convitto e di questo non vi è traccia nel resoconto di Sua Eminenza. Comunque il Cardinale era quindi a conoscenza del reale episodio, e lo avrà menzionato per un suo qualche motivo personale di cui non sono a conoscenza», ha scritto. Nel cortile Sisto V Emanuela avrebbe chiesto a diverse persone (futuri testimoni) dove rintracciare un monsignore amico di Marcinkus, sarebbe poi risalita in auto e condotta nei pressi di Villa Lante della Rovere, dove l’amica sarebbe invece tornata a casa. Lì sarebbe stata quattro giorni, fino a domenica 26 giugno. «Indossava una salopette, una camicia bianca, scarpe da ginnastica basse. Una collanina e dei braccialetti», ha affermato MFA. «La facemmo cambiare, le procurammo una tuta leggera turchese, a mo’ di abbigliamento indiano. Ricordo un particolare: dalle scarpe ritagliammo la parte di tessuto dove, con una biro, c’era scritto il nome, Emanuela». Il testo dei manifesti parlava di jeans (anche l’amica Raffaella Monzi ne parla), non di una salopette, Pietro Orlandi ha confermato: «Mia sorella indossava una salopette, certo. Anzi, precisamente, dei jeans con delle bretelline. Il nome sulle scarpe, onestamente, non lo ricordo» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
MFA ha raccontato che dopo “l’allontanamento volontario”, «mi è capitato di passeggiare con lei nel centro di Roma, una volta andammo nella zona del Ghetto e parlammo di un progetto di film. Quando usciva dal luogo in cui l’avevamo portata, le facevamo indossare una parrucca. La incontrai con una certa regolarità dal 22 giugno fino alla fine di quell’anno, il 1983. Non si spostò mai da Roma e dal litorale, dove abitò in due appartamenti. Molte volte dormì in un camper. Le consentivamo di suonare il flauto, le comprammo un pianoforte. Lei sapeva che suo padre era d’accordo con non tornasse a casa, perché aveva avuto dei problemi che, grazie al suo momentaneo allontanamento, sarebbero stati risolti. All’inizio si sentiva un po’ come un’eroina, tra noi si era instaurato anche un certo affetto» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Ha precisato di aver girato con lei a Roma nel luglio e agosto 1983 facendole indossare una parrucca con i capelli tagliati a caschetto, e la ragazza sarebbe stata nascosta a Villa Lante al Gianicolo per quattro giorni, «luogo scelto perché vicino all’abitazione della giornalista Sterling, che tutti ritenevano responsabile della costruzione fasulla delle accuse ai bulgari», ha spiegato MFA. «La presentammo come Fatima, una giovane iraniana» , Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
Il giorno seguente la scomparsa arrivò la copia della denuncia ma anche la notizia che «la Commissione Bilaterale, voluta dal Segretario di Stato Card. Casaroli, e composta anche da personalità appartenenti alla Repubblica Italiana per indagare sulle gravi discrasie economiche verificatesi all’interno dell’Istituto Opere di religione, non avrebbe consegnato, così come da impegno preso, il proprio parere il 30 giugno 1983. E non si conoscevano le reali motivazioni di tale rinvio. A tal’uopo si decise di trattenere la ragazza, la cui “scomparsa” si poteva “gestire” anche in rapporto a tale possibile necessità». Saputa l’intenzione della famiglia di pubblicare un trafiletto con la scomparsa, l’uomo sostiene che simularono la caduta volontaria di una Fiat 127 nel fiume (codici: ponte della Magliana e suicidio dott. Calvi) da pubblicare sullo stesso quotidiano del trafiletto, “Il Tempo”. Sempre su questo quotdiano il 25 giugno 1983 faranno anche pubblicare, tramite una persona vicina alla Stasi dal nome fittizio “Ecce Homo” che vi lavorava, la lettera che Agca scrisse un anno prima al card. Oddi riportante la frase “spero che qualcosa accadrà in futuro, che qualcuno mi risponda dal Vaticano”, ovvero sollecitava «un nostro intervento per la sua liberazione». Un modo di comunicare ad Agca che avevano risposto: il sequestro è stato compiuto ora toccava a lui rimangiarsi le accuse. Ed effettivamente tre giorni dopo (dopo una collaborazione iniziata nel dicembre 1981) il 28 giugno, Agca ritratta parzialmente, inficiando comunque il processo.
Il 25 giugno 1983 era il giorno della “sfilata”, come disse Emanuela al telefono alla sorella Federica, MFA sotiene che avrebbe indicato il giorno della trattativa tra la sua fazione e la controparte: i primi fecero un gesto di volontà facendo dichiarare al telefonista “Pierluigi” che si trattava, non di un sequestro, ma una scappatella. Dice di chiamare da un ristorante di Torvajanica (frequentato, come l’ambiente di Marcinkus era a conoscenza, da persone dell’ambiente del signor De Pedis). Nella “riunione-sfilata”, tuttavia, la fazione di MFA e la controparte non si misero d’accordo e le cose iniziarono a dilatarsi nel tempo, in un crescendo di comunicati contrapposti. Il 26 giugno 1983 Emanuela viene trasferita: «la facemmo salire sul camper, in compagnia di due ragazze, e dal Gianicolo la portammo nella località sul litorale. Voleva capire, certo, chiedeva cosa ne pensassero i genitori. Noi le ripetevamo che la famiglia sapeva. D’altra parte non è che le fu detto: dovrai stare fuori mesi. Doveva essere una cosa breve, che poteva concludersi da un’ora all’altra». Prima venne portata in un appartamento a Torvajanica, poi in uno a Monteverde. Vennero scelti questi domicili, ha spiegato, in quanto «in caso la polizia l’avesse trovata, ella sarebbe stata in case della malavita romana, incolpandola del sequestro. In cambio, la Banda della Magliana avrebbe ottenuto entrature in Vaticano. L’appartamento nel quartiere Monteverde era l’unico disponibile vicino alla residenza di Mons. Franco, ecclesiastico alle direttive del card. Oddi e e di Mons. Marcinkus, ambedue residenti a Villa Stricht in via della Nocetta. Questo alludeva al fatto che i monsignori in questione potessero avere la disponibilità di tale appartamento e di essere a conoscenza della segregazione della Orlandi nello stesso. L’appartamento in Torvajanica, anche questo di proprietà della malavita romana, era non distante dalla villa del giudice Santiapichi e nelle vicinanze della pineta dove, presso la Villa di Plinio, la Orlandi fu condotta». L’obiezione di Pino Nicotri, sul fatto che i due appartamenti non fossero di pertinenza della malavita romana è sbagliata: la Procura ha accertato che l’immobile di via Pignatelli n°13 è stato acquistato proprio da Daniela Mobili, donna di Abbruciati, uno dei boss della Banda della Magliana morto al momento dei fatti, nel 1981 e rivenduto dalla stessa nel 1984, ha anche un sotterraneo con una piccola grotta ricavata dal sottosuolo. Mentre la stessa Minardi possedeva un appartamento a Torvajanica.
Il 28 giungo 1983, mentre la Orlandi si troverebbe a Torvajanica, arrivò la ritrattazione di Agca su uno dei bulgari che aveva accusato. Una ritrattazione parziale, rileva MFA, «alternare una versione a quella opposta consentiva ad Agca di tenere il piede in due staffe, per ottenere la grazia attraverso il Sismi che appoggiava le accuse ai bulgari o, al contrario, attraverso le nostre pressioni su Pertini». La fazione di MFA è comunque soddisfatta e produce la «prima telefonata di Mario a rafforzare la trattativa in corso all’interno, fornendo nuovi codici di pressione». Cioè l’ipotesi della scappatella. Mario (cioè in codice “Mario Aglialoro”, possibile mandante dell’omicidio Calvi, quindi pressione su Marcinkus) dice che è proprietario di un Bar (codice Greogori), cita Torvajanica e il quartiere Monteverde (gli appartamenti della Orlandi, quello a Monteverde vicino a Villa Stricht, dove abitava Marcinkus), la piazza “Campo de’ Fiori” (luogo in cui aveva il negozio Edoardo Balducci, dove praticava l’usura per Pippo Calò e si dice fosse ucciso da De Pedis).
La ritrattazione di Agca avvenne e la Orlandi avrebbe dovuto tornare, se non che il 30 giugno 1983 l’esito della Commissione per lo IOR venne ufficialmente rinviato sine die. Il 3 luglio 1983 arrivò l’appello del Papa: «Coloro che hanno prodotto l’appello intendevano sottrarsi alla nostra minaccia di rivelare la ‘realtà’ relativa al ‘sequestro’, rendendolo a loro volta pubblico. Ci anticipano nella nostra intenzione, sia pur virtuale. Dichiarano in questo modo che trattasi di un qualcosa di ‘esterno’, un rapimento qualunque, cosicché il Vaticano risulta estraneo, senza alcuna responsabilità. È anche un modo di dichiarare che non accettano le nostre istanze», ovvero si smarcarono dalle pressioni ricevute tentando di accollare il sequestro a entità “esterne” (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Sempre in tale data la Orlandi sarebbe stata trasferita dalla casa di Torvajanica ad un appartamento nel quartiere di Monteverde. Luoghi che compaiono anche nella testimonianza di Sabrina Minardi, la quale ha parlato sia della casa di Torvajanica appartenente alla sua famiglia, sia di un immobile a Monteverde in via Pignatelli, collegato all’ospedale San Camillo tramite un cunicolo. «Per trasferirla da un nascondiglio all’altro usavamo il camper, con targa riferibile alla Germania occidentale e a bordo due tedeschi, muniti di falsi passaporti degli Stati Uniti» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Il 5 luglio 1983, entra in scena l’Amerikano (voce che simulava Macioce dello IOR): «fummo costretti ad ufficializzare il finto sequestro, ma lo facemmo gradualmente, avvisando l’altra parte. Il nostro intervento si esprimeva con tre livelli di minaccia. Se non avessero accettato le richieste nel primo grado, si passava al secondo. Il primo grado consisteva nel riferirlo solo alla Sala Stampa Vaticana, e chi di dovere era al corrente che, se si fosse promesso di accettare anche solo una parte delle richieste, non si sarebbe avvisata la famiglia. Ciò non avvenne, per cui fu effettuata la telefonata presso casa Orlandi. La nuova minaccia, anche in questo caso, fu respinta, e si passò a comunicarlo alla stampa italiana». In Vaticano si fissa l’ultimatum del 20 luglio per lo “scambio” di Emanuela con Agca e si citano i precedenti telefonisti per creare una connessione (definiti “elementi dell’organizzazione”), poi l’Amerikano chiamò casa Orlandi: «facemmo sentire un nastro con la voce della ragazza che, citando il Convitto nazionale, chiamava in causa l’altra compagna-testimone dello stesso Convitto. Ed inoltre, dicendo ‘il prossimo anno dovrei fare il liceo’, si intendeva: accettate le richieste che devo tornare alla mia vita civile». La telefonata, spiega MFA, fu fatta dai Parioli, la registrazione fu eseguita dopo il 22 giugno e il rumore del treno, registrato in precedenza, serviva a depistare gli inquirenti (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Il giorno dopo venne contattata l’agenzia Ansa. Il 6 luglio di fronte a Montecitorio viene fatta trovare la tessera della scuola di musica e il foglietto con la frase: “Con tanto affetto, la vostra Emanuela” (scrittura riconosciuta dai familiari).
L’8 luglio 1983 hanno telefonato a casa di Laura Casagrande, compagna di musica di Emanuela, riferendo che Emanuela è fuori dal territorio italiano: «è per alludere che possa trovarsi in territorio della Città del Vaticano», spiega MFA (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Lo stesso giorno Agca rilancia le accuse ai bulgari, «forse perché a conoscenza del fatto che la trattativa non è più occulta e non può avere successo», Emanuela viene trattenuta ancora sperando di usarla per influire nel processo ad Antonov, «i giudici popolari avrebbero dovuto comprendere come la vita e la restituzione della Orlandi fossero legate ad un’opportuna assoluzione del bulgaro». MFA dichiara: «io ero contrario a proseguire, avrei preferito rimandarle a casa. Non era bontà. Temevo che saremmo stati scoperti, arrestati» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). La Orlandi rimane nell’appartamento a Monteverde, «parlavamo di fotografia e di musica, suo grande interesse. Le promettemmo che l’avremmo aiutata a coronare un sogno, suonare nella cappella Giulia. E poi pensava alla ripresa della scuola, studiava sui libri che ci chiedeva e le portavamo, suonava il flauto e un piccolo pianoforte verticale, che le mettemmo a disposizione. Ricordo anche che ricamava, la vidi più volte con ago e filo. La Orlandi e la Gregori non conoscevano i fatti reali, i nostri nomi, le nostre fattezze. Io indossavo sempre una parrucca, portavo lenti a contatto marroni. Una volta ero Paolo, un’altra Ivan, nome un po’ sinistroide, o Fabio, a seconda delle esigenze. Paolo perché così mi chiamò una volta un prelato, conoscendo la mia predilezione per l’immagine carismatica di papa Paolo VI». Come ha rilevato Fabrizio Peronaci, Sabrina Minardi riferì che De Pedis le caricò in macchina una ragazza che «disse di chiamarsi Emanuela. Era frastornata, confusa. Piangeva, rideva. Le avevano tagliato i capelli in maniera oscena. Trascinava le parole, nominava un certo Paolo e mi chiese se la stessi portando da lui». Molti pensarono che la Minardi si fosse confusa tra Paolo e Pietro, fratello di Emanuela (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
Il 4 agosto 1983 viene nominato Martinazzoli, il nuovo Ministro di Grazia e Giustizi, che sarà vittima di pressioni per ottenere il proscioglimento di Antonov. Compare anche il primo comunicato del gruppo Turkesh, «la cui analisi ci portò a ritenere che fosse espressione ‘dell’altra parte’. Il fatto che chiedessero informazioni riguardo la cittadina italiana Gregori, lo interpretammo che, se non avessimo più coinvolto attraverso la cittadina vaticana Orlandi lo Stato del Vaticano, ma ci fossimo occupati solo di trattare rendendo pubblico il ‘sequestro’ di Mirella, cittadina italiana, ci avrebbero favorito per quanto riguarda la condizione del detenuto Antonov. Ecco quindi spiegarsi l’aver reso pubblico il loro comunicato lo stesso giorno dell’elezione del Ministro. La nostra controparte, che si era finta gruppo Turkesh ed era a conoscenza del prelevamento di Mirella, tirandola in ballo ci mandava a dire: smettetela con la Orlandi, che crea troppo subbuglio in Vaticano, ora parliamo dell’altra ragazza… Ci invitavano ad abbassare il livello di scontro» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
In quel periodo MFA avrebbe decise di prevenire, raccontando menzogne, la confessione delle sue sodali: «se una avesse rivelato quanto saputo da me, sarei stato classificato come mitomane per le bugie nel racconto. In alcune occasioni ho detto anche che avevo fatto tutto da solo e le avevo ammazzate; in altre che erano vive in qualche parte del mondo. Ad Eleonora raccontai di avere ucciso la Gregori e le chiesi di aiutarmi a eliminare il corpo. Ci recammo con una Volvo station wagon sulla Salaria. Fermai l’auto prima di Monterotondo, ai piedi di una collina chiamata Empireo. Nel portabagagli posi una scatola, dentro la quale le dissi falsamente di avere messo il corpo di Mirella, in realtà un manichino, che lasciammo ai piedi della collina, ovviamente non aveva assistito al momento in cui avevo inserito il manichino e io non aprii la scatola in sua presenza. Più tardi tornai a riprendermi il tutto, con un’altra mia amica» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Verso fine settembre ’83, spiega MFA, «compilammo dei comunicati, facendoli scrivere a una ragazza. Un’altra ragazza li spedì da Boston. L’intento era spostare l’attenzione dalla Repubblica Bulgara al territorio statunitense. Alcuni elementi del Servizio d’Informazione della Sicurezza Democratica sono a conoscenza di questo nostro interesse di suggestionare con gli Stati Uniti, e crearono a loro volta un fantomatico gruppo denominato Phoenix, minacciandoci con il codice 158 e citando la pineta e il ristorante» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
Sempre nel settembre 1983 vollero ottenere l’appello del presidente Pertini, per vincere le resistenze avrebbero fatto circolare un video nella pineta di Castel Porziano, mettendo in evidenza che il luogo è prospiciente l’entrata della tenuta presidenziale italiana, nel quale Mirella Gregori veniva minacciata da un’arma calibro 357: «La scena non era così drammatica. Si faceva vedere la pistola, poi la ragazza, la targa di Castel Porziano, in modo da rendere riconoscibile l’obiettivo. Alla fine c’era lo sparo, sì, ma fuori campo. La Gregori sapeva che era una finta». Il 24 settembre l’Amerikano elencò i vestiti di Mirella telefonando al bar: maglieria Antonia, jeans con cintura, maglietta intima di lana, scarpe con tacco nero lucido, marca Saroyan di Roma. «Tutto esatto», disse la madre di Mirella. «Quando sparì era vestita in quel modo e solo io ne ero a conoscenza». Ma anche Sonia De Vito. I vecchi vestiti di Mirella «li collocammo in certi posti, come messaggi dalla valenza intimidatoria nei confronti di prelati avversi. Ricordo che un capo d’abbigliamento della Gregori fu nascosto nei locali della Pontificia commissione dei Migranti, ove vi era la segreteria del pro-presidente monsignor Cheli. Questa collocazione risale al 1985. Ricordo altresì che un secondo capo d’abbigliamento della Gregori fu posto nell’edificio di via dell’Erba, dove aveva sede una organizzazione in passato presieduta dal cardinale Sergio Pignedoli e poi da monsignor Jadot. I vestiti della Gregori furono collocati in quattro sedi: due religiose, come ho messo a verbale, e due laiche». Il 20 ottobre arrivò l’appello presidente Pertini, il quale disse: «Ho sempre sostenuto una linea di estrema fermezza nella lotta al terrorismo, contro ogni trattativa o cedimento. Oggi, senza allontanarmi da questa linea, di fronte all’angosciata richiesta delle famiglie, e in particolar modo della signora Gregori, madre di Mirella, rivolgo l’invito ai rapitori a rilasciare immediatamente queste giovani e formulo l’auspicio che un raggio di pietà illumini il loro animo». Quel “in particolar modo” dice tutto: il capo dello Stato, dopo che per mesi si era prevalentemente parlato di Emanuela, fu costretto a spostare l’attenzione sull’altra ragazza (F. Peronaci, Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
COLLEGAMENTO CON IL CASO GARRAMON
Emanuela sarebbe stata condotta ei pressi dell’abitazione del giudice Santiapichi, all’Infernetto, nella pineta tra Ostia e Castel Porziano. Giudice che si sapeva essere in predicato per presiedere la prossima Corte d’Assise per il cosiddetto attentato al Papa. «Il camper per noi era un elemento strategico, ci consentiva di agire senza destare sospetti. Alla Orlandi, senza spiegare il motivo, facemmo delle foto nelle quali si rendeva riconoscibile il luogo. Più che Santiapichi, ci interessavano i familiari, in particolare la figlia Arianna, con la quale io stesso scambiai qualche parola, senza farle intendere nulla» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Ha precisato: «La Orlandi era con alcune nostre ragazze in un camper da tempo posizionato nei pressi della villa. Le avevamo fatto delle fotografie, senza spiegarle il reale motivo. Le pressioni, più che alla persona del giudice, erano rivolte ai suoi familiari, in particolare la figlia, e a funzionari del ministero di Giustizia, con riferimento alla composizione della futura giuria di Corte d’assise». Tali pressioni– foto, pedinamenti, lettere di minaccia – dovevano essere nel frattempo giunte a conoscenza di elementi del Sisde, che formavano il gruppo Phoenix, i quali in un comunicato inviato al Tg2 il 27 settembre 1983, minacciarono i telefonisti del caso Orlandi parlando proprio di una “pineta”: «”Pierluigi” è assai pericoloso stare in quella trattoria con le spalle verso la porta perché ci sono troppe “correnti d’aria”: un nostro vecchio “amico” ha fatto una brutta fine davanti ad un piatto di spaghetti, vogliamo generosamente ricordare a Mario che nella pineta c’è tanto posto per aumentare la vegetazione“». Occorre tuttavia sottolienare che Xavier Santiapichi, fratello di Arianna, da noi contattato nel frebbraio 2016 ha riferito che «mia sorella non si è mai interessata di queste cose, fra l’altro aveva un fidanzatino in Sicilia e stava sempre in Sicilia con il suo fidanzatino».
Tre mesi dopo questa minaccia, il 20 dicembre 1983 era la vigilia dell’uscita dal carcere di Antonov, arrestato nell’ambito della cosiddetta “pista bulgara”, quindi un successo per la fazione di MFA: «I vertici, a noi elementi operativi, chiesero quindi di interrompere le pressioni in corso nella pineta», perché la decisione non venisse revocata. Ha spiegato: «Dentro al camper c’era Emanuela Orlandi con una nostra ragazza incaricata di controllarla. Io salutai tutte e due e me ne andai». Sul furgone, ha scritto, assieme a lui c’era Ulrike, fiancheggiatrice della Stasi. Sulla strada della pineta che porta ad Ostia avvenne però l’incidente: il furgone investì, uccidendolo, il piccolo José Garramon, figlio dei coniugi Maria Laura Bulanti e Carlos Juan Garramòn, ingegnere specializzato in progetti agricoli per l’Ifad, agenzia delle Nazioni Unite. Nel 2013 ha spiegato che allora non poteva dichiarare la vera ragione per cui si trovava sul luogo dell’incidente, dovette così mentire al processo che lo riguardò. Quella notte, «ragionammo a lungo, ogni scelta fu ponderata», ha raccontato. «Alla fine fu deciso che mi sarei costituito in quanto responsabile dell’incidente, ma, volendo sfruttare per le nostre finalità il tragico fatto, spostammo l’azione nei pressi della villa di Santiapichi. Era lì che mi sarei fatto arrestare alle 4 di notte, per cui Agca avrebbe dovuto sapere che il Kgb mandava a Rebibbia un uomo che aveva ammazzato un ragazzo e si era consegnato all’ora corrispondente con il codice pattuito. Essendo questo killer un semplice investitore, molto presto, riacquistata la libertà, si sarebbe indirizzato verso il villaggio dove viveva la sorella Fatma e l’avrebbe assassinata come fatto con il Garramòn, simulando un incidente, se Agca avesse fornito informazioni riservate al pontefice e, in futuro, non avesse rovinato il processo ai bulgari».
Così, «io e la ragazza tedesca ci dividemmo. Lei raggiunse di corsa, passando per la pineta, il camper dove Emanuela era sorvegliata da un’altra nostra ragazza, di poco più grande. Temeva di non trovarle, invece non si erano accorte di nulla. La tedesca si mise al volante e portò via il camper, subito. Non andò a Monteverde, ma negli ex stabilimenti De Laurentis, un posto che noi conoscevamo bene, lo stesso dove anni dopo nascosi il flauto. Tra i due teatri di posa c’era una struttura con i camerini, comodi, arredati, perfetti per dormire. Noi avevamo appoggiato una scala all’esterno. Bisognava solo stare attenti al sistema d’allarme, azionato nell’atrio, ma non nei corridoi. Emanuela passò lì quella notte, mi fu detto, poi fu portata a Roma. Io ero già in carcere, da allora il mio racconto va preso con beneficio d’inventario» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Lui invece ha preso un autobus per il centro (fu ritrovato il biglietto), racconta di essere passato da casa sua, di aver telefonato all’amica Patrizia D.B. e con lei, a notte fonda, sulla 127 di suo padre, di essere tornato sul luogo del misfatto, precisamente in via Francesco Cilea: «Ci posizionammo davanti a una scuola pubblica, che si trovava lungo il consueto percorso di ronda della pattuglia dei carabinieri che controllava la villa di Santiapichi. Volevo dare l’idea che potessimo essere dei ladri, penetrati nella segreteria dell’istituto. Per questo avevo portato con me una busta dell’immondizia con dentro circa 200 mila lire, in biglietti di piccolo taglio. Il piano prevedeva che il mio arresto fosse legato all’incidente, in modo da non comportare una pena troppo alta, e che fossero le autorità inquirenti ad arrivarci, dopo un nostro apparente negare e depistare. Non a caso tenni addosso il giubbotto macchiato di sangue, altrimenti l’avrei tolto, no? Inoltre, eravamo preoccupati che i testimoni oculari della controparte mi denunciassero. Vedendomi già arrestato, forse avrebbero fermato l’intenzione di produrre indizi fasulli nei miei confronti. Bisognava che mi facessi arrestare prima che ciò si verificasse dietro impulso di altri. Necessitavo di un’immediata imputazione di omicidio colposo, ed è per questo che non tolsi i frammenti [del parabrezza in frantumi, nda] dalla ventola». A questo proposito, Pino Nicotri ha spiegato che nella sentenza non è citato il giudice Severino Santiapichi né la presenza della sua abitazione vicino dove i due furono fermati mentre cercavano il furgone venendo sospettati di essere estremisti di sinistra. «Non trova così nessun riscontro», commenta Nicotri, «che a bloccare MFA sulla 127 fu la scorta di Santiapichi preoccupata per la vicinanza della casa del magistrato». Oltre al fatto che il figlio di Santiapichi, l’avvocato Xavier Santiapichi, ce lo ha confermato in un’intervista del febbraio 2016, i riscontri si trovano nelle cronache di allora, dove viene citata proprio la scorta del giudice Santiapichi come coloro che fecero scattare l’arresto di MFA.
Nell’interrogatorio, l’amica ed ex fidanzata Patrizia D.B., in qualità di testimone, disse: «Escludo nel modo più assoluto che Marco abbia tendenze omosessuali, lui ha sempre avuto molto successo con le donne. Io gli sono particolarmente affezionata. Siamo riusciti a mettere una pietra sulla sua esperienza matrimoniale e siamo tornati a stare insieme, anche se come amici, non come amanti» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). La storia del furgone saltò fuori perché Patrizia D.B. si tradì, lui stava ancora raccontando una calcolata bugia «Stavo andando ad Ostia per fotografare un’amica conosciuta la scorsa estate allo stabilimento balneare Piceno, ma ho sbagliato strada e quel ragazzino me lo sono trovato sotto le ruote». Al processo l’accusa punterà sull’omicidio preterintenzionale – la tragedia causata da un tentativo di fuga del ragazzino, vittima di molestie sessuali – ma prevarrà la tesi dell’omicidio colposo, aggravato dall’omissione di soccorso. La Corte d’Assise, il 30 maggio 1986, condannerà Marco Fassoni Accetti a 26 mesi di reclusione e, siccome la carcerazione era già stata superiore (oltre un anno in cella, altrettanto ai domiciliari), ne disporrà l’immediata liberazione (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Non risulta nell’istruttoria che MFA si sarebbe recato nelle settimane precedenti l’investimento presso l’abitazione di Garramon travestito da prete e poi come fotografo, come invece hanno affermato la sig.ra Garramon, madre di José e la sua domestica. E’ stato accertato invece che Accetti frequentò la stessa scuola che al tempo frequentava Garramon.
Emanuela sarebbe stata anche tenuta in un camper nella pineta vicino all’abitazione del giudice Santiapichi, all’Infernetto, giudice che avrebbe dovuto presiedere la Corte d’Assise per il cosiddetto attentato al Papa. Ha precisato: «La Orlandi era con alcune nostre ragazze in un camper da tempo posizionato nei pressi della villa. Le avevamo fatto delle fotografie, senza spiegarle il reale motivo. Le pressioni, più che alla persona del giudice, erano rivolte ai suoi familiari, in particolare la figlia Arianna con la quale io stesso scambiai qualche parola, senza farle intendere nulla, e a funzionari del ministero di Giustizia, con riferimento alla composizione della futura giuria di Corte d’assise» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Accetti ritiene che tali pressioni– foto, pedinamenti, lettere di minaccia – sarebbero giunte a conoscenza di alcuni elementi del Sisde che avrebbero formato il gruppo Phoenix, i quali in un comunicato del 27 settembre 1983 minacciarono i telefonisti del caso Orlandi parlando proprio di una “pineta”: «”Pierluigi” è assai pericoloso stare in quella trattoria con le spalle verso la porta perché ci sono troppe “correnti d’aria”: un nostro vecchio “amico” ha fatto una brutta fine davanti ad un piatto di spaghetti, vogliamo generosamente ricordare a Mario che nella pineta c’è tanto posto per aumentare la vegetazione“».
Tre mesi dopo la minaccia, il 20 dicembre 1983, era la vigilia dell’uscita dal carcere di Antonov, arrestato nell’ambito della cosiddetta “pista bulgara”, un successo per la fazione di MFA: «I vertici, a noi elementi operativi, chiesero quindi di interrompere le pressioni in corso nella pineta», perché la decisione non venisse revocata. Ha spiegato: «Dentro al camper c’era Emanuela Orlandi con una nostra ragazza incaricata di controllarla. Io salutai tutte e due e me ne andai». Sul furgone, ha scritto, assieme a lui ci sarebbe stata una ragazza, Ulrike, fiancheggiatrice della Stasi. Tornando dalla pineta verso Ostia il furgone di Accetti ha investito e ucciso il dodicenne José Garramon, figlio dei coniugi Maria Laura Bulanti e Carlos Juan Garramòn, ingegnere dell’agenzia delle Nazioni Unite. Nel 2013 ha spiegato ai giudici che allora non poteva dichiarare la vera ragione per cui si trovava sul luogo dell’incidente per non far emergere i fatti della Orlandi, dovette così mentire al processo che lo riguardò. Quella notte, dice, «ragionammo a lungo, ogni scelta fu ponderata. Alla fine fu deciso che mi sarei costituito in quanto responsabile dell’incidente, ma, volendo sfruttare per le nostre finalità il tragico fatto, spostammo l’azione nei pressi della villa di Santiapichi. Era lì che mi sarei fatto arrestare alle 4 di notte, per cui Agca avrebbe dovuto sapere che il Kgb mandava a Rebibbia un uomo che aveva ammazzato un ragazzo e si era consegnato all’ora corrispondente con il codice pattuito. Essendo questo killer un semplice investitore, molto presto, riacquistata la libertà, si sarebbe indirizzato verso il villaggio dove viveva la sorella Fatma e l’avrebbe assassinata come fatto con il Garramòn, simulando un incidente, se Agca avesse fornito informazioni riservate al pontefice e, in futuro, non avesse rovinato il processo ai bulgari».
Ulrike sarebbe andata al camper e lo avrebbe portato negli ex stabilimenti De Laurentis, «un posto che noi conoscevamo bene, lo stesso dove anni dopo nascosi il flauto. Tra i due teatri di posa c’era una struttura con i camerini, comodi, arredati, perfetti per dormire. Noi avevamo appoggiato una scala all’esterno. Bisognava solo stare attenti al sistema d’allarme, azionato nell’atrio, ma non nei corridoi. Emanuela passò lì quella notte, mi fu detto, poi fu portata a Roma. Io ero già in carcere, da allora il mio racconto va preso con beneficio d’inventario» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Accetti invece ha preso l’autobus per tornare a casa (fu ritrovato il biglietto), ha telefonato all’amica Patrizia D.B. e con lei, a notte fonda, sulla 127 di suo padre, è essere tornato sul luogo del misfatto, precisamente in via Francesco Cilea: «Ci posizionammo davanti a una scuola pubblica, che si trovava lungo il consueto percorso di ronda della pattuglia dei carabinieri che controllava la villa di Santiapichi. Volevo dare l’idea che potessimo essere dei ladri, penetrati nella segreteria dell’istituto. Per questo avevo portato con me una busta dell’immondizia con dentro circa 200 mila lire, in biglietti di piccolo taglio. Il piano prevedeva che il mio arresto fosse legato all’incidente, in modo da non comportare una pena troppo alta, e che fossero le autorità inquirenti ad arrivarci, dopo un nostro apparente negare e depistare. Non a caso tenni addosso il giubbotto macchiato di sangue, altrimenti l’avrei tolto, no? Inoltre, eravamo preoccupati che i testimoni oculari della controparte mi denunciassero. Vedendomi già arrestato, forse avrebbero fermato l’intenzione di produrre indizi fasulli nei miei confronti. Bisognava che mi facessi arrestare prima che ciò si verificasse dietro impulso di altri. Necessitavo di un’immediata imputazione di omicidio colposo, ed è per questo che non tolsi i frammenti [del parabrezza in frantumi, nda] dalla ventola». A questo proposito, Pino Nicotri ha spiegato che nella sentenza non è citato il giudice Severino Santiapichi né la presenza della sua abitazione vicino dove i due furono fermati mentre cercavano il furgone venendo sospettati di essere estremisti di sinistra. «Non trova così nessun riscontro», commenta Nicotri, «che a bloccare MFA sulla 127 fu la scorta di Santiapichi preoccupata per la vicinanza della casa del magistrato». Le cronache di allora, tuttavia, citano proprio la scorta del giudice Santiapichi come coloro che fecero scattare l’arresto di MFA.
Nell’interrogatorio l’amica ed ex fidanzata Patrizia D.B., in qualità di testimone, disse: «Escludo nel modo più assoluto che Marco abbia tendenze omosessuali, lui ha sempre avuto molto successo con le donne. Io gli sono particolarmente affezionata. Siamo riusciti a mettere una pietra sulla sua esperienza matrimoniale e siamo tornati a stare insieme, anche se come amici, non come amanti» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). La storia del furgone saltò fuori perché Patrizia D.B. si tradì, lui stava ancora raccontando una calcolata bugia: «Stavo andando ad Ostia per fotografare un’amica conosciuta la scorsa estate allo stabilimento balneare Piceno, ma ho sbagliato strada e quel ragazzino me lo sono trovato sotto le ruote». Al processo l’accusa punterà sull’omicidio preterintenzionale – la tragedia causata da un tentativo di fuga del ragazzino, vittima di molestie sessuali – ma prevarrà la tesi dell’omicidio colposo, aggravato dall’omissione di soccorso. La Corte d’Assise, il 30 maggio 1986, condannerà Marco Fassoni Accetti a 26 mesi di reclusione e, siccome la carcerazione era già stata superiore (oltre un anno in cella, altrettanto ai domiciliari), ne disporrà l’immediata liberazione (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Non risulta nell’istruttoria che MFA si sarebbe recato nelle settimane precedenti l’investimento presso l’abitazione di Garramon travestito da prete e poi come fotografo, come invece hanno affermato la sig.ra Garramon, madre di José e la sua domestica. E’ stato accertato invece che Accetti frequentò la stessa scuola che al tempo frequentava Garramon.
Accetti ritiene che la fazione opposta alla sua sia responsabile per la presenza di Garramon in quella pineta, facendo riferimento al comunicato di “Phoenix”: «Se io devo fare una minaccia di morte posso dire: ti strozzo, ti accoltello, ti sparo, ti infilo in un pilone di cemento… Ma nella pineta mai, non ci penso proprio! Loro l’hanno nominata, cosa che poteva sembrare peregrina, e guarda caso dopo tre mesi io mi trovo a investire una persona, quando loro già a settembre sapevano che noi stavamo operando su Santiapichi, per ottenere dei favori per quanto riguarda l’assoluzione dei bulgari» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Ha precisato di non aver mai detto che lo abbiano buttato sotto le ruote, «lo trovo alquanto improbabile. Ho chiesto solo d’indagare sulla sua presenza più che sospetta in quella pineta». La sentenza ha chiarito che il bambino non stava scappando dal furgone, d’altra parte il mezzo correva a 70km/h e sarebbe bastato che il bambino si spostasse sul ciglio della carreggiata o entrasse nei campi. Inoltre, non sono state trovate sue impronte digitali sul veicolo di MFA e la Corte D’Assise ha concluso che il pedone si trovava al centro della carreggiata, come se stesse attraversadola. Come ha fatto allora un bambino, abituato a girare da solo per strade trafficate di Roma (era andato dal barbiere a piedi, da solo), ad attraversare una strada non trafficata (tant’è che il corpo del piccolo è restato sul ciglio della strada diverso tempo), al buio della sera, non accorgendosi del sopraggiungere di un furgone con i fari accesi in una zona quasi deserta?
Perché si trovava in quella pineta, lontanissimo da casa? Nessun segno di violenza sessuale, né tracce e reperti sotto le unghie, tuttavia aveva qualcosa in comune con chi lo ha investito: frequentava lo stesso collegio frequentato in passato da MFA (la George’s school, ex collegio Sant’Eugenio); aveva dodici anni anni, stessa età del ragazzino fermato un mese prima da Accetti, Stefano Coccia; abitava in viale dell’Aeronautica all’Eur, nei pressi dell’abitazione di Enrico de Pedis; era figlio di Carlos Garramòn, che lavorava in un ente internazionale, il che potrebbe ricondurre alla promessa fatta ad Agca di liberarlo tramite il sequestro di un figlio di diplomatico; a Montevideo, la famiglia Garramòn viveva attaccata alla villa di Licio Gelli, capo della loggia P2 (la madre ha raccontato che il bambino si introduceva nel giardino della villa di Gelli). senza contare il già citato comunicato di “Phoenix” e la vicinanza della villa del giudice Santiapichi. Nella sua seconda intervista a Radio Radicale, MFA ha detto: «Oggi, trent’anni dopo, conosco i motivi della mia assoluzione. So che quel ragazzino è stato portato. Uscito dal carcere, ho conosciuto tutti i motivi che legano i Garramòn a una certa abitazione. Vada a vedere in Uruguay chi abita accanto a lui. Il giovane Josè riportava, come la Orlandi, come la Gregori, numerosi codici. La sua presenza in pineta era più che motivata». Ha anche lasciato intendere che il “lavoro sporco” di rapire il bambino all’Eur, all’uscita dal barbiere è stato affidato alla malavita romana: «Non ho mai pensato che potessero essere stati i funzionari del Sisde estensori della lettera a prelevare il ragazzo, ma che gli stessi avessero raccontato le nostre attività a personaggi a loro contigui, e che questi, autonomamente, abbiano deciso di usare il Garramòn» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
Come spiegare allora la dinamica dell’impatto tra il bambino e il furgone? Una fatale coincidenza? Se Garramon non è stato “scagliato” contro le ruote del furgone (lo afferma MFA e lo conferma la Corte d’Assise nel 1983), come fu possibile indurlo ad attraversare volontariamente la carreggiata proprio al passaggio del furgone? Stava forse scappando da qualcuno e non si è accorto del sopraggiungere del veicolo? E come faceva questo qualcuno a sapere che proprio in quell’istante sarebbe passato il furgone? Come è stato “prelevato” dopo l’uscita dal barbiere? Secondo i riscontri della Procura Garramon è uscito da casa alle 17:30 per andare dal barbiere vicino alla sua abitazione, arrivandovi alle 18:15 (40 minuti dopo!), uscito da lì se ne perdono le tracce fino alle 20:30 quando viene investito dal furgone di MFA in viale Castel Porziano. 40 minuti per compiere mezzo chilometro (la distanza tra casa e il barbiere), cosa ha fatto in quel tempo? Nessun testimone ha osservato un sequestro o sentito grida d’aiuto, eppure il bambino si trovava in un centro abitato alle 19 di sera. E’ salito volontariamente sull’auto che lo ha allontanato da casa (magari con la scusa di un passaggio)? Oppure era già in qualche modo d’accordo con chi lo ha poi portato alla pineta? Quest’ultima ipotesi spiegherebbe le dichiarazioni della mamma, la signora Garramon, sul comportamento strano del bambino nei giorni precedenti, riluttante ad andare a scuola, con tanto di crisi di pianto.
Gli allontanamenti di Mirella ed Emanuela, ha scritto MFA, sarebbero dovuti durare soltanto poche ore, il tempo di far presentare la denuncia di scomparsa ai famigliari, presentando codici ad Agca per costringerlo a ritrattare la pista bulgara. Tuttavia, come spiegato sopra, circostanze non dipendenti dalla volontà degli organizzatori dei finti sequestri avrebbero fatto rimandare il rientro delle ragazze. Sulla sorte delle due ragazze, MFA ha affermato di aver avuto la responsabilità della Orlandi fino alla notte del suo arresto (20-21 dicembre 1983). «”Non possiamo più tenerle, è una questione di sicurezza. Facciamole riparare all’estero”», gli venne detto mentre era in prigione. «Mi fu detto in modo lapidario: “stanno bene fuori, meglio non farle rimpatriare, si creerebbe uno scandalo inutile”».
Racconta Accetti: «Emanuela partì in macchina, direzione Francia. Ad accompagnarla fu un turco, di orientamento di sinistra, lo stesso che partecipò all’azione davanti al Senato. Si avvalse di un appoggio a Milano, dove fu fatta una prima tappa. Ospitò la ragazza un italiano convertito all’Islam, che in casa aveva allestito una piccola comunità, con un luogo di preghiera. Emanuela restò qualche giorno e poi fu portata vicino Parigi, a Neauphle-le-Château». precisando che «aveva risieduto in questa località solo per gli anni ’84-’85» con un passaporto iraniano. «Mirella invece lasciò l’Italia in aereo, dallo scalo dell’Urbe, sulla Salaria, a bordo di un velivolo privato. Andò in Francia, ma non Parigi, un’altra città che non ricordo». Entrambe sotto i falsi nomi di Fatima e Rosi. Emanuela, «nel 1984, in Olanda fu albergata in pertinenza Cardinal Felici, che in Francia operava in modo reazionario contro i prelati ‘indipendenti’ francesi. Fu posizionata, ospitata. Il fatto risale ai primi mesi del 1984. Io ero in carcere, lo venni a sapere dopo. Per fare una pressione sul cardinale Felici, che era un reazionario tremendo, si collocò la Orlandi in una residenza provvisoria, di laici a lui riferibili, Non ricordo in che città, ma immagino fosse la capitale. Basta andarsi a vedere la biografia del cardinale. Però, onestamente non sono sicurissimo che fosse proprio Emanuela, anzi… Quasi certamente era una sosia… Ma la sostanza non cambia. A noi per sollevare uno scandalo bastava poter dire: la Orlandi ha dormito qui, in una pertinenza di quel monsignore che ci sta dando fastidio, e abbiamo le foto che lo attestano» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
«Escludo siano state uccise», afferma Accetti. «L’omicidio comporta un rischio immenso, perché se si trova il corpo l’assassino può pentirsi o essere individuato, e non vedo il movente. L’unico potrebbe essere la tacitazione testimoniale, ammazzarle per impedire che rivelino chi furono i sequestratori… Ma anche questo è improbabile, laborioso, perché le giovani coinvolte sono state molte. Io stesso conducevo 5 o 6 ragazze, e poi c’erano le amiche di Emanuela e Mirella. Per stare tranquilli bisognava sopprimerne 1 5 o 1 6, un po’ troppe, no? Ci sono tanti modi per tenere lontana una persona, ad esempio dire che un tuo ritorno potrebbe significare la morte di tua sorella, di tua madre. Con il trascorrere degli anni mi sono convinto che ci sia stata una forzatura, un farle stare bene, un usare una pressione perché dimenticassero il proprio nucleo familiare, il contesto sociale, e si abituassero alla nuova vita» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
ALTRE PERSONE CITATE DA ACCETTI
Paola Diener. Per influire sui lavori della Commissione dello IOR la fazione di MFA avrebbe “attenzionato” nel settembre ’83 anche Paola Diener, figlia del responsabile dell’archivio segreto vaticano, abitante in via Gregorio VII. La donna morì il 5 ottobre 1983 a causa di un incidente domestico ma la morte venne comunque sfruttata dalla fazione di MFA, citandola in uno dei comunicati, spedito da Boston a fine novembre dove si parlava di una “cittadina soppressa il 5 ottobre, a causa della reprensibile condotta vaticana”. Fecero anche vedere la foto del corpo in camera ardente ad Agca, minacciando sua sorella Fatima se non avesse ritirato le accuse ai bulgari. Ha quindi aggiunto che il ritrovamento nel 2001 del teschio nella Chiesa di San Gregorio VII voleva essere un messaggio in codice che richiamava tale accadimento. Singolare che il teschio venne fatto ritrovare il 13 maggio 2001, anniversario della prima apparizione di Fatima. Effettivamente la morte della Diener venne rivendicata in una lettera spedita da Boston il 28/10/83: «Comunicheremo al Segretario di Stato cardinal Casaroli il nominativo della cittadina soppressa il 5-10-83 a causa della reprensibile condotta vaticana». Che il comunicato parlasse proprio di Paola Diener non è scritto in nessun atto giudiziario, in nessun libro e in nessun articolo, MFA è stato il primo a rivelarlo.
Stefano Coccia. Verso fine novembre 1983, MFA ha fermato anche Stefano Coccia: determinante nella scelta sarebbe stato il numero civico del negozio del padre, 351, che richiamava apparizione di Fatima, e il fatto che abitava vicino alla fermata dell’autobus con capolinea la Stazione di San Pietro, che collegava la Orlandi, la Gregori e Caterina Gillespie. MFA ha precisato: «come già verbalizzato in Procura raccontai che verso la fine del novembre 1983 io e la ragazza tedesca fermammo tale Stefano di 12 anni in Corso Vittorio Emanuele, cinefotografandolo nascostamente e facendo credere ad un ecclesiastico che il minorenne ci avesse rilasciato alcune confidenze riguardo il comportamento del prelato in questione», ovvero si parla di mons. Marcinkus. Coccia ha confermato: «nel novembre 1983, mentre nei pressi della gioielleria di mio padre guardavo una vetrina di giocattoli, fui avvicinato da due giovani, un uomo e una donna. Erano le sette di sera. Mi dissero che lavoravano per una rivista e chiesero se ero disposto a farmi fotografare, perché ero bellino. Lei era bionda». Agli atti compare il nome di Patrizia D.B., ex fidanzata. L’ennesima menzogna, spiega Marco Fassoni Accetti: «Fui io a fare quel nome perché non potevo dire chi fosse la ragazza bionda, e nominai la Patrizia perché già era comparsa nell’inchiesta, ripromettendomi in un secondo tempo, nel caso, di ritrattare» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Così proseguiva il racconto di Stefano: «Mi chiesero il numero di telefono e lo scrissi su un pezzo di carta. Il giovane mi diede il suo. Poi andai nel negozio e raccontai quel che era successo. Mio padre strappò il foglietto e mi raccomandò di non dare ascolto agli estranei. Non vidi mai più quella coppia. Successivamente ricevetti una telefonata da voce maschile e matura, che mi chiese se ero Stefano e io risposi di sì. Lui abbassò il ricevitore» (il suo contatto venne trovato nella casa di MFA quando fu perquisita in seguito all’omicidio di Garramon).
Caterina Gillespie. Il 18 dicembre 1983 viene fermata anche Caterina Gillespie (16 anni). La donna ha confermato nel 2013 di averlo conosciuto all’età di 15 o 16 anni insieme a sua sorella, di avergli presentato i genitori i quali hanno poi posato per lui per delle fotografie. Secondo MFA avrebbe dovuto affermare di aver riconosciuto la Orlandi, la Gregori e Stefano Coccia in una villetta vicino alla stazione di San Pietro, insinuando la responsabilità di mons. Marcinkus. Tuttavia avvenne l’incidente nella pineta in cui perse la vita Garramon e, scrive MFA, questo fatto «ci fece sospendere qualunque iniziativa e attività riguardanti persone minorenni». Nel marzo 2013 MFA ha cercato la Gillespie dicendo di voler organizzare una mostra in Svizzera e di volere l’autorizzazione all’utilizzo della foto dei suoi genitori.
Sosia della Orlandi. Una volta uscito di prigione, MFA ha proseguito la sua attività. Nonostante, come dice, non sapesse nulla sulla sorte della Orlandi e della Gregori (se non che erano all’estero), nel 1987-1988 usò delle sosia die Emanuela con lo scopo, ha scritto di esercitare pressioni perché Thomas Macioce non diventasse presidente dello IOR (poiché avrebbe proseguito l’operato di Marcinkus).
Una di queste sosia della Orlandi, Flaminia Cruciani, venne portata nel maggio 1987 ad un convegno nella sala del Campidoglio, evento frequentato «da molti esponenti legati alla società sportiva di calcio Lazio, tra cui mio zio Agostino D’Angelo, che della stessa società fu un alto dirigente». Lo scopo era proporre alla controparte, in cambio della rinuncia di Macioce, di far testimoniare la Orlandi che la sua sparizione non riguardava il Vaticano ma la malavita romana, «inerente a certi infinitesimali ambienti della società Lazio». Per questo la sosia venne fotografata «con determinati personaggi presenti, e le stesse immagini poi prodotte a chi di dovere». Curioso che lo zio di MFA fosse legato alla Lazio considerando il comunicato del 17/11/83 in cui si chiamava in causa proprio un calciatore di questa società calcistica.
Un’altra, Priscilla Morini, effettivamente molto somigliante ad Emanuela, venne fotografata nel 1988 davanti al collegio San Giuseppe Istituto De Merode, accanto alla Maison delle Sorelle Fontana. «Vi era il processo d’appello del cosiddetto attentato al Papa, per cui la stessa fu fotografata in un locale ubicato in una traversa di via Veneto, a ricordare l’agenzia di stato bulgara Balkan Air, nella quale operava il Dot. Sergej Antonov». La Morini è stata interrogata in Procura confermando di aver incontrato MFA in quel periodo e confermando i luoghi in cui l’uomo ha detto di averla fotografata.
In ultimo, nel 1993, un’ulteriore controfigura della Orlandi, Ornella Carnazza, compagna di Accetti dal 1990 al 1996, «fu adoperata in quanto vi era in atto il coinvolgimento dell’allora sovrastante Bonarelli. Nell’impiego di tale ultima ragazza vi fu anche il contrastare un personaggio del Servizio d’Informazioni della Sicurezza Democratica (Sisde) che, nei nostri sospetti, poteva aver operato, per quanto riguarda il coinvolgimento del giovane Josè Garramòn. lcune fotografie furono eseguite presso l’istituto St. George’s, frequentato nel 1983 dal ragazzino. Il momento era propizio in quanto in quei mesi il Sisde era esposto a
un’inchiesta giudiziaria, con gravi accuse ad alti dirigenti, e ciò lo rendeva fragile di fronte a eventuali pressioni».
Iva Skybova. Alla domanda del giornalista Fabrizio Peronaci se oltre alla ragazza tedesca Ulrike, ci sono state altre complici straniere, MFA ha risposto: «Ehm, una cecoslovacca. La agganciai in piazza San Pietro, Iva Skybova. Era bionda, aveva 1 8 anni, ma ne dimostrava molti meno. Pochi mesi dopo la morte di Oddi, la portai con me in Egitto, nel gennaio 2002, per fare alcune operazioni. Diciamo dei riscontri, delle conferme presso alcune persone residenti al Cairo, vicine al cardinale defunto, che lì era stato nunzio per anni» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
Federica Orlandi. Anche lei, poco tempo prima della sparizione di Emanuela, venne avvicinata da un uomo che le propose di fare la comparsa in un film. Il 14/02/16 abbiamo chiesto a Pietro Orlandi se quest’uomo assomigliava ad Accetti, ci ha risposto: «fu svolta un’indagine, interrogata la persona, era uno che effettivamente cercava comparse».
COLLEGAMENTO CON ALTRI CASI MISTERIOSI
Caterina Skerl. Dal carcere MFA seppe della morte di Catherine Skerl, 17 anni, strangolata il 21 gennaio 1984, il cui cadavere venne ritrovato a Grottaferrata. Venne strangolata con la cinghia del borsone preparato per andare il giorno dopo sulla neve con l’amica Angela Liguori, con cui aveva appuntamento in via Tuscolana. Non fu violentata. «La coincidenza mi turbò: capii subito che l’omicidio era stato compiuto dalla fazione a noi opposta», ha detto Accetti. Questi i motivi: Katy frequentava una scuola non distante dal convitto di Emanuela; era simpatizzante di sinistra, orientamento affine a quello della fazione di MFA, era figlia di Peter regista di film ad alto contenuto erotico, utili a richiamare la “temperatura” di certi ambienti ecclesiastici. Inoltre, «un mese dopo che noi fermammo Stefano a corso Vittorio, un coetaneo morì nella pineta, allo stesso modo, un mese dopo che noi fermammo la Gillespie, una ragazza con lo stesso nome, pure lei bionda, graziosa, straniera, fu assassinata la Skerl. Sia il giovane Garramòn sia la Skerl ci apparvero due risposte al nostro aver coinvolto adolescenti affinché testimoniassero, seppur falsamente, contro membri dell’altra parte». Accetti si riferisce al suo aver fermato un mese prima Caterina Gillespie: «non è strano che poche settimane dopo un’altra Caterina venga assassinata in circostanze oscure?», ha domandato. La sua interpretazione sarebbe dimostrata dal fatto che proprio a Grottaferra «avevano sede l’associazione Pro Fratribus di monsignor Hnilica, molto attiva nella raccolta di fondi in chiave anticomunista, e la villa dell’avvocato Ortolani, anche lui nostra controparte».
Accetti ha anche rivelato: «Quando nel 1986 mi revocarono gli arresti domiciliari, andai nel liceo della Skerl, dove conobbi Ligeia Studer, una compagna di scuola. Tra noi nacque anche una storia d’amore, durata tre mesi. Volevamo far credere al gruppo contrapposto che Ligeia ci aveva rivelato notizie interessanti e sapevamo cosa fosse accaduto. Ma loro non abboccarono. Ad ammazzare la Skerl è stato qualche laico criminale legato al Vaticano, per interessi economici. In ballo ancora una volta c’erano i soldi dell’Ambrosiano, che la nomenklatura dello Ior, Marcinkus in testa, si rifiutava di consegnare» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Ha aggiunto: la Studer «fu scelta per ulteriori somiglianze quali l’altezza, il colore dei capelli, simili alle “altre Catherine”. Inoltre frequentava una scuola di danza come la Catherina Gillespie».
Il 20 gennaio 2014 Fabrizio Peronaci ha riportato la testimonianza di una compagna di classe della Skerl, la quale si è ricordata che una loro compagna di classe era Snejna Vassilev, figlia di Zhelio Vassilev, funzionario dell’ambasciata poi finito sotto processo come complice di Alì Agca. Snejna, subito dopo l’attentato al Papa, rientrò in patria con la famiglia. Vassilev venne assolto, come gli altri bulgari sospettati di complicità con Agca. Il 13 gennaio, prima che l’articolo uscisse, Peronaci si è informato da Accetti se qualche compagna della Skerl avesse un profilo particolare: Si, la bulgara che stava in classe della Skerl, non ricordo se era figlia di Antonov o di Vassilev. L’ho saputo in carcere, dall’idealista turco con cui dividevo la cella» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014), ovvero Musa Serdar Celebi. «Lo conobbi nel giugno 1984, a Rebibbia. Io nei primi mesi fui messo nel braccio G1 2. Feci domanda per essere trasferito nel G14, proprio per entrare in contatto con lui». Uscito dal carcere, a metà del 1985, Accetti andò ai domiciari ma continuò a collaborare con la fazione.
Nel settembre 2015 MFA ha rivelato dei particolari inediti a riguardo di Catherine Skerl che, tuttavia, non sono mai stati verificati dalla Procura: nel 2005 alcuni suoi sodali, avendo appreso la sua intenzione a presentarsi in Procura, avrebbero temuto l’emergere dei nomi dei responsabili dell’omicidio di Catherine Skerl, per questo -secondo MFA- «si adoperarono a sottrarre uno degli elementi che poteva legare il caso della ragazza a quello delle Orlandi- Gregori». Quando la Skerl fu deposta nella bara, una loro complice assistette alla preparazione del feretro per «comprendere se la Skerl fosse persona conosciuta o meno dal nostro gruppo». La donna vide un elemento addosso alla Skerl e il dettaglio venne «usato in un comunicato del 1984, ed attribuito alla Orlandi. Conosco il luogo romano dove tale bene è occultato, e lo potrei rivelare ai magistrati se mai manifestassero l’intenzione di apprenderlo». Questo elemento sarebbe la camicetta bianca con cui fu vestita la salma, con l’etichetta “Frattina 1982”, nome che effettivamente comparve nel comunicato del 22/11/84 del “Fronte Turkesh”: “Via Frattina 1982” (cfr. “Mia sorella Emanuela”, pag. 122,123).
Ha poi affermato che «per impossessarsi di tale elemento» alcune persone nel 2005, simulando di essere operai del cimitero, avrebbero smurato il fornetto della Skerl prelevando la bara come se si trattasse di una traslazione, lasciando all’interno della tomba un codice: «una maniglia che svitarono alla stessa cassa raffigurante un angelo. Tra i motivi del trafugamento, vi era anche l’intenzione di esercitare alcune pressioni. Per stabilire la datazione della presunta effrazione del loculo, si dovrà comunque periziare il materiale con cui è stato eventualmente richiuso nel 2005 il muretto interno e la lapide». L’avvocato di MFA, Giovanni Luigi Guazzotti, ha presentato un esposto-denuncia al capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone. In una telefonata che abbiamo avuto con MFA nel febbraio 2016, l’uomo ha aggiunto che oggi la camicia si troverebbe «dentro Cinecittà, c’è una ricostruzione scenografica ed è messa là dentro. Quella della Skerl è una cosa grave, lì non c’è proprio più la cassa! Ci sono i segni sulla lapide perché, mi hanno riferito, si poteva soltanto rompere per togliere la cassa. E si vede che è stata rotta. E lì ci sta un altro personaggio losco, molto losco, che tiene una pagina sulla Skerl, che fa di tutto per rendermi non credibile e che si è affrettato a dire “no, no, c’è stato un restauro”. Non è vero assolutamente, quando morì Wojtyla e quando mi dissero che era stata trafugata andai subito ed era così com’è. Va periziato il materiale con cui è stata chiusa e si vedrà che è di dieci anni fa. Lì dentro c’è solo una maniglia. E’ sparita una cassa, per farlo non si può scavalcare il muro ed è un’azione che non può essere quella di un mitomane: aprire un fornetto, richiuderlo e portarsi via la cassa. Sono le stesse persone che mandarono quelle lettere [nel 2013, NDA], che hanno fatto questo, persone con cui ho avuto anche contatti».
Nomadi minorenni. Un altro caso lo avrebbe in parte rivelato Sabrina Minardi quando ha riferito che tra l’83 e l’84 nella pineta di Castel Porziano De Pedis condusse una minorenne nomade. La Minardi cita la stessa area in cui MFA inevestì Garramòn nel’83, si tratta ha spiegato Accetti di un «un reale episodio in cui ero presente, dove effettivamente, intorno all’autunno dell’83, retribuimmo il padre di un giovane nomade di circa 12 anni, in un campo nelle vicinanze della pineta in oggetto, con la motivazione di doverlo filmare all’interno di alcune esigenze cinematografiche. Al ragazzo rom fu puntata una pistola 357 Magnum alla testa, e dopo lo sparo si gettò a terra, fingendosi morto. Nella scena appariva un finto prete». La Minardi invece ha parlato di una “zingarella”, nel 1983-84 nella pineta di Castel Porziano dunque «configura come un omicidio, trasfigurando anche il sesso e l’età del giovane nomade».
Così, scritto, «la Sabrina Minardi ambienta giustamente l’episodio, ma trasfigurandolo, modificandone la realtà per suoi motivi di cui non sono a conoscenza e rendendolo impropriamente un fatto omicidiario». La Minardi avrebbe inviato un messaggio a qualcuno? Un collegamento tra MFA e la Minardi sarebbe anche nella telefonata di Mario: il contenuto non è mai stato rivelato in pieno, tuttavia MFA afferma che Mario citerebbe diversi codici, tra cui “Monteverde” e “Tor Vaianica” Gli stessi di cui parlerà Sabrina Minardi nel 2008, localizzandoli come luoghi di permanenza della Orlandi. «Non si può immaginare», scrive MFA, «che la Minardi possa aver avuto accesso a tali verbali secretati . Né si può ritenere che tra tanti quartieri di Roma e tante località marittime possa essersi verificata una mera, fortuita coincidenza nell’essere citati da entrambi i personaggi, “Mario” e la Minardi». Anche lui localizza questi luoghi come rifugio della Orlandi e spiega i motivi per cui sarebbero stati scelti, come riportato più sopra.
Ancora Accetti: «Questo atteggiamento di rendere inverosimili i racconti da parte della Minardi, credo che appartenga alla stessa tecnica adottata anche dal signor Agca: raccontare parte della verità e al tempo stesso rendere la deposizione inverosimile, per cui inutilizzabile a fini giudiziari, in modo da non coinvolgere altre parti in causa». Un esempio sarebbe il clamoroso errore del coinvolgimento del piccolo Nicitra. Nel 1996, in occasione della scomparsa di un altro giovane nomade di 12 anni (Bruno Giordano), la fazione di Accetti avrebbe simulato che lo stesso ecclesiastico potesse ancora esserne stato il responsabile (negando però di aver avuto a che fare direttamente qualcosa). Per questo «inviammo una missiva anonima presso gli inquirenti il cui contenuto al momento non intendo rivelare per il segreto investigativo. Principiò un’attività di indagine con alcune intercettazioni telefoniche, di cui tra l’altro era interessata anche la mia utenza. In una di queste intercettazioni una ragazza a me contigua si tradì nel far presente del mio coinvolgimento nel caso Orlandi- Gregori». Infine, nel 1997 MFA è stato denunciato da una fonte fiduciaria qualificata della polizia per la sparizione di un bambino rom, Bruno Romano, avvenuta il 26/12/1995 con la complicità, a detta della fonte, di Ornella Carnazza. Ma le indagini hanno negato la responsabilità dei due e nessun riscontro è emerso a quanto dichiarato da tale fonte fiduciaria. Accetti lo spiega così: «Essendo noi a conoscenza della scomparsa del ragazzino, simulammo che monsignor Cheli, pro-presidente della Pontificia Commissione per i Migranti, chiamato in causa molti anni prima con la finta scena di un film nella pineta, potesse ancora una volta essere il responsabile. Inviammo una missiva anonima agli inquirenti e principiò un’attività di indagine con intercettazioni telefoniche in cui una ragazza a me contigua si tradì» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
Alì Estermann. Il 21/03/1999 MFA appare per la prima (e ultima) volta in televisione partecipando ad una puntata di “Domenica In” imitando Roberto Benigni (esattamente il giorno in cui vinse l’Oscar), presentandosi come Alì Estermann. Seguì un viaggio a New York dove attirò l’attenzione della stampa facendo credere di essere il vero Benigni. Ha spiegato questa sua performance dicendo di aver ricevuto, nel 1999, minacce telefoniche da parte di una persona vicina agli ambienti di monsignor Bruno della diocesi di New York, che avrebbe anche chiamato la trasmissione “Chi l’ha visto?” imitando il suo modo di parlare. Il nomignolo significava: «Era un modo di intimidire occultamente, attraverso la sintesi tra colui che spara, Agca, e colui che muore, il comandante delle guardie svizzere. Ed andai anche a New York, simulando di essere Benigni in persona, per contrastare la stessa persona delle minacce che ritenevo gravitasse in certi ambienti di quella diocesi, ed attirando volutamente l’interesse della stampa locale. Erano i metodi di usare i media per nostri fini, in modo certo sui generis, imprevedibile e soprattutto occulto», ha spiegato. La performance mirava a mettere a tacere un ecclesiastico in servizio negli Stati Uniti, «pretendeva la restituzione di materiale fotografico su azioni precedenti, seppellito nel 1983 in una località vicino Roma, nella quale mi ero nuovamente recato nel 1986 con uno dei due idealisti turchi, presenti nel processo per l’attentato», cioè Celebi. «Il posto dove seppellimmo il materiale, nel 1982-83, era nei pressi di Santa Maria di Galeria. Non mi si crede? La magistratura lo rintracci. Non deve essere difficile, vive ancora a Francoforte. Non si trovava nella cittadina moderna, ma nell’Antica Galeria, un sito archeologico medievale. Ricordo che c’erano degli anfratti, delle cavernette, dove nascondemmo alcune scatole metalliche”. E cosa contenevano? “Documenti, atti, carte compromettenti su qualche prelato. Ma niente di speciale. Basta, c’è il riserbo istruttorio» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Secondo MFA potrebbe essere anche l’autore delle due lettere ricevute dalla Monzi e dalla sorella di Mirella.
Alessia Rosati. Nel 2015, dopo l’archiviazione del caso, ha fatto emergere la vicenda di Alessia Rosati, ragazzina scomparsa il https://www.uccronline.it/2013/09/23/emanuela-orlandi-analisi-di-tutte-le-ipotesi-di-soluzione-del-caso/#rosaticon lo scopo di denunciare l’irresponsabilità della Procura nell’aver preso questa scelta senza indagare. Ha collegato la misteriosa sparizione della Rosati alle turbative che investirono nel 1993 il Servizio per le informazioni e la sicurezza (Sisde), per le quali si necessitava di operare pressioni verso alcuni membri: «e secondo uno dei nostri moduli di operare, abbisognavamo di una ragazza con estrazione di sinistra, per chiederle di collaborare nell’esercizio di queste pressioni». MFA avrebbe così individuato nel centro sociale “Hai visto Quinto?” la 21enne Alessai Rosati (che aveva contatti assidui con esponenti di Autonomia operaia, nella sede di via dei Volsci), approcciandola tramite l’invito a partecipare ad un lungometraggio: «essendo questa una maggiorenne, a differenza delle precedenti ragazze, le dissi il mio nome reale e le fornii il numero di telefono. Questo alla presenza di una sua amica, che se rintracciata non può che confermare».
La Rosati, scrive MFA, «era solita trovarsi in un piazzale situato al termine di via Val Padana, sedersi su quelle panchine e frequentare il centro sociale posto nello stesso slargo. Questo era anche il luogo dove ci conoscemmo ed apparentemente scomparì. Su questa scena si apriva il portone di una delle abitazioni in cui ho vissuto con la mia compagna di venti anni, la stessa ragazza che poco tempo dopo sarà intercettata mentre telefonicamente nominava l’ Emanuela Orlandi». Ovvero Ornella Carnazza. In seguito MFA le avrebbe rivelato il progetto che sarebbe dovuto durare pochi giorni: esercitare pressioni contro alcuni elementi del Sisde, coinvolti nello scandalo dei fondi neri scoppiato l’anno precedente, facendo balenare un loro possibile coinvolgimento nella sparizione della ragazza. Il suo allontanamento da casa, scrive l’uomo, fu «spiegato da una lettera fatta pervenire alla stessa amica che fu presente nel momento in cui non fece ritorno presso la sua famiglia», un desdierio di libertà -come nelle prime telefonate per la Orlandi- e la presenza di un ragazzo, come per la Gregori-. E, come fu per ambedue, la presenza di un’amica negli ultimi momenti che ne precedevano la scomparsa. La Rosati scomparve il 23 luglio 1994, giorno sarebbe dovuta partire per un viaggio in Umbria assieme ai genitori. «Alessia Rosati si prestò al nostro piano», dice MFA, «tanto che nei primi giorni dormì da me, in via Val Padana, dove vivevo con la mia compagna, e frequentò il mio studio fotografico, in via Chisimaio. Giravamo con una A112 e su un motorino, adottando alcuni accorgimenti per evitare che i familiari la riconoscessero, nel caso li avesse incrociati per strada». Inoltre, prosegue, «continuammo ad incontrare vari compagni [del comunismo romano, nda] del mio e del suo ambiente. Faccio appello a costoro a presentarsi alle autorità e confermare». Tuttavia dopo circa dieci giorni la ragazza «non fece ritorno al mio studio fotografico dove risiedeva. Alcune persone che la conoscevano e con noi collaborarono, improvvisamente si negarono come intimoriti». Alessia Rosati scomparve davvero. Precisato meglio: «Da un giorno all’altro Alessia non tornò. Ricordo che la aspettai invano una sera, proprio in via Chisimaio. Tentai di informarmi con i compagni che erano al corrente dell’azione, ma si volatizzarono, nessuno ne volle sapere più nulla». Ovvero, secondo MFA, venne realmente rapita.
C’è tuttavia una contraddizione nel racconto di MFA: in un articolo sostiene che a scrivere all’amica sarebbero stati i rapitori: «ho sempre pensato che i responsabili di tale scomparsa abbiano scelto come destinataria della lettera proprio tale amica, per farci comprendere che sapevano di quel nostro primo incontro», sospettando che gli autori della scomparsa siano gli stessi omicidi della Skerl. In un secondo articolo, invece sostiene di aver invitato lui a inviare la lettera: «Insieme ad Alessia ed altri, concordammo il suo andarsene di casa, spiegato da una lettera fatta pervenire alla stessa amica che fu presente nel momento in cui non fece ritorno presso la sua famiglia».
La lettera, scritta certamente da Alessia e spedita da Roma, contiene un errore abbastanza clamoroso: Alessia scrive all’amica: «lunedì sarei dovuta anche partire per andare in quel paese di merda e tu sai quanto lo odio…». Invece la partenza era prevista per sabato pomeriggio, non per lunedì. Lapsus o errore voluto? A noi sembra più quest’ultimo, dato che nel finale della lettera “l’errore” viene ribadito, quasi a sottolinearlo: «Mi dispiace che non ci vediamo, ma tanto sarebbe rimasta solo domenica». La madre di Alessia ha anche rivelato: «Fummo io e mio marito a scoprire che l’amica di Alessia aveva mentito. Mise a verbale di averla salutata alle 12.45 e non che passò pure lei da casa nostra, dove non c’era nessuno. Fu una vicina, che la incrociò con mia figlia nel palazzo, a raccontarcelo. Ma perché Claudia disse una menzogna? Intendeva coprire Alessia? Cosa voleva nasconderci? Ricordo che nelle prime concitate ore, quando proposi all’amica di Alessia di cercarla in via dei Volsci, dove c’era Radio Onda Rossa, lei insistette perché non andassi. Fu molto decisa. “Vado io, voi girate nel quartiere”. Un comportamento strano ». Hanno anche aggiunto: «In effetti nei giorni successivi al mancato ritorno a casa ci giunse voce che Alessia era stata vista in zona».
Il 31 ottobre 2015 MFA ha lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica della famiglia Rosati, dicendo loro di essere un conoscente di Alessia e di avere notizie da produrre, chiedendo di essere richiamato. La famiglia non lo ha richiamato ma ha portato il nastro registrato alla trasmissione “Chi l’ha visto?” che lo ha mandato in onda senza però dare molta credibilità a MFA. Il quale commenta: «Il paradosso è che quando inquadrano il luogo dove la ragazza è scomparsa, appare proprio il portone della mia abitazione di allora». MFA invita a rintracciare l’amica, il nome è Claudia, e l’agenda telefonica della Rosati sulla quale sarebbe appuntato il suo numero telefonico. Aggiungendo: «Alcune persone degli ambienti del comunismo romano di quel periodo conoscono l’accaduto», invitando più volte ad indagare in tal senso.
EVENTI DOPO LA COMPARSA DI ACCETTI.
Dany Astro. Dopo MFA in Procura si è presentata anche Daniela Silvana Astro, compagna di Fassoni Accetti dal 2001, dichiarando che nel 2012, dopo la morte di Oscar Luigi Scalfaro (che, ricordiamo, aveva lo studio nello stesso complesso di S. Apollinare in cui Emanuela andava a scuola di musica), MFA l’avrebbe incaricata di consegnare una lettera ad un arabo della moschea centrale di Parigi. Questo portò all’incontro con tre donne che mise in contatto con MFA e, in una tra queste, avrebbe riconosciuto Emanuela Orlandi. Rispetto al flauto, la Astro ha ricordato di averlo visto nello studio di via Tripoli nel 2001 e di averlo rivisto durante la trasmissione di “Chi l’ha visto”, ma senza sapere prima che si trattava di quello della Orlandi. Se MFA dice di non sapere nulla sulla sorte della Orlandi e, invece, la sua compagna dice di averla vista a Parigi evidentemente o MFA mente oppure non crede alla sua compagna.
Conclusioni della Procura. Il 30 settembre 2015 la Procura ha archiviato il caso sentenziando che «la personalità di Accetti è caratterizzata da smania di protagonismo e di pubblicizzazione della propria immagine, con una spasmodica ricerca di accesso ai media e della loro costante attenzione». Le deposizioni che ha offerto sono da leggersi in questo contesto, «elementi (fantasiosamente) costruiti su dati di fatto a lui decisamente noti, che però in concreto -per una sua scelta consapevole- non hanno consentito e non consentono riscontri che corroborino le vicende raccontate, sia perché non vi è una concreta individuazione delle persone che sarebbero state protagoniste della vicenda ed avrebbero agito assieme a lui, sia perché i limitati approfondimenti investigativi praticabili hanno avuto esito negativo. Il riferimento è al flauto e al ruolo di telefonista che egli si è attribuito». Secondo la Procura le opinioni dei genitori e della sorella confermano questa tesi. Tuttavia, si aggiunge, «è vero che la profonda conoscenza dei fatti dimostrata sembra andare oltre quella che può avere un semplice appassionato del caso. Ed è anche vero che i familiari e la ex moglie Eleonora C. hanno riferito che fin da subito Accetti si sia interessato al caso Orlandi, avendolo mentre scriveva lettere ed effettuava telefonate anonime in merito, dimostrando quindi un forte coinvolgimento emotivo con il caso. E tuttavia, non vi è alcun serio riscontro probatorio che le lettere e le telefonate siano quelle effettivamente pervenute alla famiglia Orlandi, alla famiglia Gregori, allo studio dell’avvocato Egidio e al Vaticano».
La approfondita conoscenza della vicenda, secondo la Procura, «si spiega del tutto verosimilmente per essere stato l’Accetti molto vicino alle carte del caso Orlandi e alle numerose pubblicazioni esistenti sull’argomento, dimostrando di aver esaminato in modo puntuale e dettagliato quanto è stato pubblicato negli anni, sopratutto degli atti processuali del vecchio processo». Lo confermerebbe il fatto che Fassoni Accetti conoscerebbe bene tutti i dati e i particolari contenuti negli atti del 1997 ma ha dimostrato di conoscere poco e con scarsa precisione particolari che non sono oggetto di pubblicazioni (un esempio è il contenuto della telefonata di “Mario”, della quale sono sempre stati riportati brevi brani anche in sede processuale, ed infatti Fassoni Accetti non conosce né la durata, né il contenuto). Tuttavia sostiene che nella parte secretata sarebbero citati Torvajanica, Monteverde e Villa Stricht. La Procura non ritiene rilevante nemmeno l’intercettazione tra lui e la Carnazza (lui ha tuttavia risposto a questa accusa prima che venisse formulata: «Se fossi veramente estraneo al caso, non si comprenderebbe come già nel lontano 1997 una persona si sia espressa, pur privatamente, raccontando del mio coinvolgimento, ed in quegli anni non ero certo in contatto con alcuna realtà mediatica per cercare di “apparire” sotto il presunto impulso di protagonismo, come molti mi accusano ». La conclusione ufficiale dunque è che la vicenda descritta da Fassoni Accetti è «frutto di un lavoro di sceneggiatura scaturito dallo studio attento di atti e informazioni scaturite negli anni da parte di un soggetto con spiccate smanie di protagonismo».
I PUNTI FORTI DELLA TESI DI MARCO FASSONI ACCETTI
1) Racconto organico: al di là della verità o meno, per la prima volta dalla scomparsa delle due ragazze viene presentata una ricostruzione sensata in linea generale, un racconto organico che fa luce sui tanti aspetti misteriosi e mai capiti, dando soluzioni verosimili (credibili è una parola troppo impegnativa), sulle quali hanno lavorato inutilmente decine di investigatori in decine di anni. Una stratificazioni di obiettivi, di messeinscena, un “gioco” finito però male, con la sparizione reale delle due ragazze. Anche il senso dell’immenso sforzo di depistaggio ha avuto luce: non si è voluto tanto coprire due probabili omicidi (o sparizioni), ma un’intensa e nascosta attività ricattatoria ai danni del Vaticano e dello Stato italiano da parte della malavita organizzata, servizi segreti deviati e ideologhi di varie estrazioni. Il racconto di MFA illumina il caso Orlandi-Gregori, il caso Garramon, il caso di Caterina Skerl e il caso di Alessia Rosati. La conoscenza dettagliata di MFA di eventi risalenti a decine di anni fa Sarebbe tutto il frutto di un decennale lavoro di archiviazione e studio da parte di MFA? L’obiezione è valida, lo vedremo più sotto, tuttavia è riuscito a spiegare in modo inedito e covincente eventi misteriosi, come mai nessun inquirente e/o giornalista ha mai fatto. Inoltre l’ipotesi del “finto sequestro” non è così peregrina se si pensa che emerse nella requisitoria del 5/08/97 da parte del procuratore generale Giovanni Malerba, il quale avvalorò l’ipotesi di un allontanamento volontario di Emanuela e Mirella, ingannate dai sequestratori, e un successivo allontanamento contro la loro volontà.
2) Collegamento date Agca-Orlandi-Garramon.
-Il 22 giugno 1983 sparisce Emanuela Orlandi.
-Il 25 giugno 1983 (tre giorno dopo) appare inspiegabilmente su Il Tempo una lettera inviata nel settembre 1983 (nove mesi prima) da Agca al card. Oddi, nel quale il turco si dichiara pentito e dice di aspettare una risposta dal Vaticano (MFA sostiene che fu la sua fazione a far uscire questo articolo, un messaggio per Agca per dirgli che la promessa fattagli due anni prima era stata mantenuta, il rapimento di una cittadina vaticana, e ora toccava a lui contraccambiare inficiando il processo).
-Il 29 giugno 1983 (una settimana dopo la sparizione di Emanuela e quattro giorni dopo l’articolo su Il Tempo), Agca ritratta improvvisamente (come riportano le cronache di allora) le sue accuse di complicità nell’attentato al Papa, inficiando il processo. Collaborava dal dicembre 1981.
-Il 27 novembre 1983 compare il comunicato “Phoenix” che minaccia i telefonisti citando la “pineta”.
-Fine novembre 1983 MFA ferma nei pressi del numero 351 di corso Vittorio Emanuele II, dove ha la gioielleria il padre, il dodicenne Stefano Coccia, come ha confermato quest’ultimo ai magistrati. Corso Vittorio Emanuele II 351 si trova a qualche metro di distanza da Ponte Vittorio Emanuele, citato -tra tutte le vie e i ponti di Roma- dal secondo telefonista che ha chiamato casa Orlandi, “Mario”. Convitto nazionale Vittorio Emanuele II è anche il nome della scuola che frequentava Emanuela Orlandi al momento della sparizione.
-Il 20-21 dicembre 1983 (un mese dopo) MFA viene coinvolto in un misterioso incidente investendo il dodicenne (stessa età di Coccia) José Garramon proprio nei pressi di una pineta, frequentante lo stesso istituto frequentato in passato da MFA. L’incidente avviene vicino al luogo dell’incidente abitava il giudice Severino Santiapichi, che avrebbe presieduto la Corte d’Assise sull’attentato al Papa da parte di Agca e, altra coincidenza.
-Il 21 dicembre 1983, il giorno dopo l’incidente (come ha fatto notare MFA), ottenne gli arresti domiciliari Sergej Antonov, uno dei bulgari accusati da Agca (MFA sostiene che il giorno dopo sul giornale “l’Unità” gli articoli riportanti il fatto della pineta e l’uscita di Antonov appariranno pubblicati nella stessa pagina, in realtà uscirono il 22 dicembre 1983 e non sulla stessa pagina, ma uno a pag. 3 e l’altro pag. 14. Un errore che non avrebbe fatto un archiviatore seriale di notizie secondo le accuse che gli vengono rivolte).
3) Intercettazione. In un’intercettazione telefonica del 04/04/1997, in tempi “non sospetti”, tra MFA e la sua ex compagna, Ornella Carnazza, quest’ultima lo minaccia (sapendo di essere intercettata) di rendere noto alla polizia del suo legame con Emanuela Orlandi, se lui non accetta le condizioni per vedere sulla figlia Daphne. Testuali parole: «Il mio telefono l’hanno messo sotto controllo. E adesso io comincerò a raccontare per telefono tutte le cose di una certa ragazza…di tutte le cose che tu hai fatto con questa ragazza…Emanuela, chi è Emanuela? Io continuo a dire i nomi per telefono se tu non mi fai parlare…allora parliamo di Emanuela Orlandi e di quello che vuoi fare con lei?». Accetti è imbarazzato e cerca di interrompere la donna, la quale si arrabbia ancora di più. In una seconda telefonata, che segue di poco la prima, la scena si ripete: la donna, venendo interrotta, torna a dire: «E allora parliamo di Emanuela….se tu cominci a fare i ricatti io divento più bastarda di te, sai dove vado….[rumori che rendono incomprensibile l’ascolto]….tutto quanto e ti rovino a te e tutto quanto….». La Carnazza, interrogata nel 2013, ha riferito di ricordare che MFA le parlò della Orlandi all’inizio della loro relazione ma lei pensò che lo faceva per vanteria, mentre non ha spiegato l’intercettazione sminuendo i sospetti e affermando di non ricordare a cosa si riferiva nonostante le fossero state lette tutte le parole che scambiò con l’uomo. La giustificazione della Procura a non ritenerlo un elemento probatorio in quanto lo stesso MFA avrebbe accusato la donna, durante la telefonata, di “essere pazza” lascia perplessi. Sulla non conferma della Carnazza (così come farà l’ex moglie Cecconi) qualcuno ricorda la minaccia apparsa due giorni prima della comparsa di MFA in Procura: “Non cantino le due belle more…”. MFA ha scritto: «Solo in quest’anno 2013 ho appreso di questa remota intercettazione, ben dopo 17 anni. Se fossi veramente estraneo al caso, non si comprenderebbe come già nel lontano 1996 una persona si sia espressa, pur privatamente, raccontando del mio coinvolgimento, ed in quegli anni non ero certo in contatto con alcuna realtà mediatica per cercare di “apparire” sotto il presunto impulso di protagonismo, come molti mi accusano. E son trascorsi, mi ripeto, ben 17 anni.».
4) Boston. La sua ex moglie, Eleonora C, ha un fratello che -coincidenza vuole- vive a Boston, proprio la città dalla quale partirono dei comunicati legati al caso Orlandi. La sorella di MFA, Laura Accetti, ha riferito in Procura che nel 1983 suo fratello le aveva detto di aver scritto delle lettere e aver chiesto a Eleonora C di spedirgliele da Boston, dove si recava. La Cecconi ha tuttavia smentito di aver inviato lettere da Boston per MFA ed, effettivamente, la lettera è arrivata 4 mesi dopo la fine della loro relazione (durata dal 25 maggio 1982 al giugno 1983). Tuttavia nel libro Il Ganglio si legge a proposito di Emanuela Cecconi: «Si tratta di una testimone di fatti non marginali. Si sposarono nel maggio 1982 e, dopo il viaggio di nozze a Venezia, andarono a vivere nell’ufficio del suocero. Subentrarono litigi, resistenze della famiglia di lei. La primavera seguente saranno di fatto già separati, però – e ciò pesa nell’inchiesta – resteranno amici almeno per tutto il 1983, nell’intera fase calda del doppio rapimento». Agli atti, si legge ancora, è stato acquisito un elemento indiziario: ai carabinieri dell’Arma della Cecchignola che indagavano sulla morte di Josè Garramòn, investito a Castel Porziano il 20 dicembre 1983 da Marco Fassoni Accetti, la Cecconi dichiarò di non sapere nulla, perché si trovava all’estero: «Mi trovavo a Boston, presso l’abitazione di mio fratello Alessandro, che è in America da sette anni per motivi di studio, in 75 Winter St. Natick Mass. Lì sono rimasta dal 20 novembre al 22 dicembre 1983, quando ho fatto ritorno in Italia». Domanda: «Quando ha sentito o visto l’ultima volta suo marito Marco?». Risposta: «Qualche giorno prima che partissi. Preciso altresì che da mio fratello in America sono stata anche dal 2 agosto al 10 novembre 1983, ininterrottamente». Le lettere partite da Boston arrivarono al corrispondente della Cbs, Richard Roth, tra il 27 settembre 1983 e i primi di gennaio 1984 (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Una persona a lui intima, dunque, si trovava proprio nella città di Boston -tra tutte le città del mondo- esattamente nel periodo in cui, da lì, partivano comunicati sul caso Orlandi. Nel luglio 2013 la grafologa Sara Cordella, analizzando la scrittura di un comunicato arrivato da Boston, ha rilevato che il segno grafico che si osserva «si trova soprattutto nelle scritture femminili».
Va ricordato anche la minaccia contenuta nelle due lettere apparse due giorni prima di MFA: “Non cantino le due belle more…” e la foto di un teschio umano con la scritta “Eleonora De Bernardi, Morta in Campagna, Lì 23 agosto 1854” (stesso nome della Cecconi): la donna ha dichiarato anche di essere stata contattata da MFA poco prima che questi si presentasse in Procura e, pensando che abitasse ancora a Roma, le ha segnalato l’apertura di una palestra che avrebbe potuto essere utilizzata dalla sorella disabile e ha ricordato che l’uomo, finita la loro relazione e dopo la sparizione della Gregori e della Orlandi, le disse che conosceva le ragazze e che il giorno prima della scomparsa di Emanuela l’aveva seguita dalla scuola di musica fino a casa. Le disse anche di aver fatto alcune telefonate anonime in merito da alcune cabine telefoniche, ma lei relegò le cose a smanie di protagonismo. Leggendo queste dichiarazioni, MFA ha commentato: «quando mettevo al corrente alcune ragazze del mio coinvolgimento nel caso in oggetto, non era per una qualche ostentazione, ma per chiedere la collaborazione delle stesse. Alcune condivisero e parteciparono, altre come nel caso della mia parente dimostrarono un distacco, per il quale desistii dal raccontare oltre».
5) Codici. I codici citati da Accetti sono tanti, elenchiamo soltanto quelli che riteniamo più rilevati:
-1-3-5-7. La vicenda è effettivamente costellata da questi numeri che avrebbero dovuto richiamare la data dell’apparizione di Fatima, il 13-5-17: l’ora della sparizione di Mirella furono le 15.30 (anagramma-sciarada di Fatima, cioè 13-5), la Orlandi telefona a casa alle 7 della sera (completando la data con il 7 del 1917). Non si era mai spiegato perché i due telefonisti si fossero premurati di dichiarare la loro età: 35 anni Mario, mentre Pierluigi disse: “Ne devo compiere 17” (quando sarebbe stato più logico dire 16). La Orlandi telefonò a casa raccontando di un’offerta di lavoro pagata 375 mila lire. Il 13/11/83 il gruppo “Phoenix” lasciò dei proiettili Magnum calibro 357 in un’edicola vicino all’istituto Giuseppe De Merode (frequentato da MFA). Stefano Coccia venne fermato nel novembre 1983, alle 7 del pomeriggio, da MFA e Ulrike, la ragazza tedesca della Stasi, davanti al negozio del padre, Vittorio Coccia, gioielliere di corso Vittorio, numero 351. Fatima come Fatma, la sorella di Agca.
-Vittorio Emanuele II. Il 28 giugno 1983 telefonata a casa Orlandi il telefonista “Mario”, dice di possedere un bar (come i genitori di Mirella Gregori) a Ponte Vittorio Emanuele II. Quattro mesi dopo, verso fine novembre 1983, Marco Accetti ferma -tra tutte le vie di Roma- proprio in corso Vittorio Emanuele II (a pochi metri da Ponte Vittorio Emanuele II), il dodicenne Stefano Coccia, vicino al negozio del padre al numero 351. Convitto nazionale Vittorio Emanuele II è, altra incredibile coincidenza, anche il nome della scuola che frequentava Emanuela Orlandi al momento della sparizione.
-Pierluigi. Nel 1967 all’istituto Giuseppe De Merode conobbe mons. Pierluigi Celata, allora direttore spirituale e dopo poco diplomatico in Vaticano e sostenitore del card. Casaroli (a favore del dialogo con l’Est). Coincidenza vuole che mons. Celata nel 1983 abitava esattamente sopra la Maison delle “Sorelle Fontana”, citata nella telefonata di Emanuela. Effettivamente mons. Celata ebbe rapporti con Fancesco Pazienza, collaboratore del direttore del SISMi, e “Sala Borromini” indicava la casa di Pazienza, in cui si diceva incontrasse De Pedis. Secondo quanto mise nero su bianco lo stesso Pazienza, nella sua autobiografia (“Il disubbidiente”, 1999), mai smentita, mons. Celata avrebbe costituito un punto di riferimento per il Sismi, in particolare nel contrastare la figura di Marcinkus alla guida dello Ior, attraverso scandali da creare ad hoc. Nel libro “I senza Dio” (2013) di Stefano Livadiotti, Pazienza sostiene di essere stato indirizzato da monsignor Celata, all’epoca braccio destro di Casaroli su indicazione di Giuseppe Santovito, il generale piduista che guidava il Sismi. Ne libro I poteri forti di Ferruccio Pinotti, si citano le memorie lasciate da Pazienza, in cui si ravvedono stretti rapporti con mons. Pierluigi Celata. “Pierluigi” è anche il nome del primo telefonista, il 13/11/83 il gruppo “Phoenix” lasciò dei proiettili Magnum calibro 357 in un’edicola proprio vicino all’Istituto Giuseppe De Merode, nel 1988 MFA fotografò Priscilla Monrini, secondo lui “sosia” della Orlandi, ancora una volta proprio davanti all’istituto Giuseppe De Merode (come da lei confermato).
-Senato. Emanuela sparisce davanti al Senato proprio nel giorno in cui Giovanni Paolo II, nel suo viaggio in Polonia, fece un incontro al Senato Accademico polacco di Cracovia. Un altro collegamento tra il caso e Giovanni Paolo II è la scelta del giornalista Richard Roth, che ricevette delle lettere riguardanti la Orlandi, scelto poiché dal 16 al 23 giugno 1983 era in Polonia al seguito del Papa.
MFA ha precisato rispetto all’uso esasperato dei codici: «I codici dovevano essere molti ed esprimersi in forme esasperate, a volte anche gotiche. In tal modo si rendevano inverosimili all’indagine di un eventuale inquirente, alla curiosità di un possibile giornalista, che li avrebbero per l’appunto considerati eccessivi, implausibili, o comunque ne sarebbero stati depistati». Allo stesso tempo: «Ogni codice raccontava l’origine di un evento, le nostre intenzioni. L’usarli era una forma di pressione verso l’altra parte. Un modo di dire loro che realtà delicate e riservate diventavano pubbliche, ma momentaneamente sotto scrittura cifrata. E che, se non fossero state corrisposte le nostre richieste, avremmo potuto spiegare pubblicamente quel che il codice occultava, e ciò non era certo interesse della controparte» Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Tuttavia, ha scritto, «il codice firmava un’azione, un gesto. Agli esponenti della nostra controparte, il significato veniva spiegato attraverso missive anonime, che permettevano di interpretare integralmente ogni scrittura cifrata, man mano che i fatti si evolvevano. I nostri interlocutori, a cui doveva giungere il significato di ogni azione, non avrebbero dovuto pensare a coincidenze, tutto doveva ricondurre a una stessa matrice».
6) Fermate dell’autobus di San Pietro. Tutte le persone che MFA ha citato nel suo racconto sembrano effettivamente collegate dall’autobus che faceva capolinea alla stazione di San Pietro. Scrive MFA: «Nella piazza della stazione San Pietro vi era il capolinea di un autobus che compiva un tragitto lungo il quale noi dovemmo scegliere gli adolescenti che nelle loro testimonianze fittizie avrebbero dovuto dire di aver preso quell’autobus per raggiungere» una villetta usata da un prelato vicino al Presidente Mons. Marcinkus, che rimandava a Villa Stricht, dove effettivamente abitava il capo dello Ior. «Nel suo tragitto poteva virtualmente essere preso dalla Emanuela Orlandi, che abitava nelle vicinanze. Il bus passava innanzi la gioielleria del padre del dodicenne Stefano C., posta in Corso Vittorio Emanuele II; raggiungeva la Nomentana, strada nei pressi della quale, sulla stessa direttrice di sinistra erano poste le abitazioni di Mirella Gregori, della Catherina Gillespie e della Catherina Skerl, le quali potevano raggiungere la fermata del suddetto mezzo con altri autobus percorrenti la stessa via Nomentana». Sono collegamenti effettivi, coincidenze. Un’altra coincidenza, avendo citato la stazione di San Pietro, è una una telefonata dell’Amerikano del 5 luglio 1983, nella quale si sentono distintamente alcuni fischi di treno in sottofondo.
7) Abitazioni di MFA. L’area di Roma è di 1.285 km², eppure al tempo della sparizione di Mirella Gregori, MFA abitava assieme alla moglie Eleonora C in via Goito 24, dove il padre Aldo Accetti aveva un ufficio. «Qui attrezzai una stanza a laboratorio di fotografia, uscendo dal portone, a sinistra, si poteva tener d’occhio l’ingresso della scuola media di via Montebello, frequentata da Mirella, e da una compagna da noi coinvolta nell’azione». Si parla di duecento metri dal bar dei Gregori, all’angolo tra via Montebello e via Volturno (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Stessa coincidenza per quanto riguarda Alessia Rosati: MFA abitava allora esattamente di fronte al luogo in cui la ragazza venne vista l’ultima volta prima di scomparire. Anche Alessia, come la Skerl, era militante comunista, anche lei allontanatasi -secondo la lettera che ha inviato all’amica Claudia- per un bisogno di libertà, le stesse motivazioni che riportarono i primi due telefonisti, “Pierluigi” e “Mario” per giustificare la “scappatella” di Emanuela. Anche nel caso della Rosati c’è un’amica, Claudia, a vederla per l’ultima volta come Raffaella Monzi (per Emanuela) e Sonia De Vito (per Mirella). Amica su cui cadono pesanti sospetti (da parte dei genitori di Alessia), così come caddero su Sonia De Vito.
8) Comparazione voci. Dopo aver comparato la voce di Marco Fassoni Accetti con quella dell'”Amerikano”, la Procura ha riconoscendo una similitudine, ravvisandola anche tra MFA, “Phoenix” e “Mario”, concludendo tuttavia sull’impossibilità nel comparare le voci a causa dell’eccessivo tempo trascorso che ha modificato il suo l’apparato fonoarticolare. Similitudine, dunque, ma non effettiva attribuibilità. Eppure ci sembra alquanto oggettivo riscontrare una compatibilità tra la voce dell’Amerikano (si può ascoltare qui) e quella di MFA (si può ascoltare qui e qui). Non siamo esperti, tuttavia rileviamo in modo chiaro lo stesso timbro di voce, le stesse pause (ehmm…), accelerazione ad inizio frase per poi rallentare, vizio di interrompere continuamente l’interlocutore, gestione della conversazione in modo autoritario. Al di là della voce in sé (quella attuale di MFA si è abbassata di tono ed ha acquisito più raucedine), c’è il modo di parlare, di esprimersi che può essere valutato e il responso a nostro avviso è di piena compatibilità.
9) Collegamenti generali tra le giovani vittime. MFA effettivamente avvicinò ragazzi e ragazze prima e dopo la sparizione di Mirella ed Emanuela e una di queste, due giorni prima del suo arresto, fu Caterina Gillespie, stessa età, stesso nome e cognome straniero di Caterina Skerl, morta misteriosamente un mese dopo l’incontro tra MFA e Caterina Gillespie. Cosa simile è accaduta dopo l’incontro, verso la fine di novembre 1983, tra MFA e il dodicenne Stefano Coccia (confermato da quest’ultimo): esattamente un mese dopo dopo MFA investe accidentalmente nella pineta il dodicenne Josè Garramòn. Coccia viene fermato in via Vittorio Emanuele a Roma, nella sua telefonata “Mario” dice di possedere un bar -come il padre della Gregori- a ponte Vittorio Emanuele, proprio nei pressi della via in cui sarà fermato Coccia. La Skerl fu, come Alessia Rosati, militante comunista e iscritta alla Fgci (Alessia frequentava invece i centri sociali), compagna di classe di un funzionario dell’ambasciata finito sotto processo (poi assolto) come complice di Alì Agca, è stata trovata morta a Grottaferrata, dove effettivamente aveva sede l’associazione Pro Fratribus di monsignor Hnilica, molto attiva nella raccolta di fondi in chiave anticomunista, in via Corso del Popolo 40 (G. Galezzi, F. Pinotti, “Wojtyla segreto”, Chiarelettere 2011, p.45). La Orlandi, la Gregori, la Gillespie e il (negozio del padre) Coccia abitavano tutti nei pressi della direttrice dell’autobus che ha la stazione di San Pietro come capolinea. MFA frequentava lo stesso istituto di José Garramon e abitava vicino sia a Alessia Rosati che a Mirella Gregori, entrambe hanno un’amica fortemente sospettata di reticenza (Claudia per Alessia e Sonia De Vito per Mirella). Un’amica, come per Mirella e Alessia, è l’ultima persona che ha visto Emanuela Orlandi. MFA ha affermato che il ragazzo del quale fecero innamorare Mirella, fiancheggiatore della Stasi, era svizzero, Mirella lo conobbe l’estate prima in vacanza: «Era biondo, svizzero, del cantone tedesco, parlava un po’ d’italiano. Era davvero bello. Anche lui, come Ulrike, fiancheggiatore della Stasi. Cose del genere non devono stupire, all’epoca capitavano con facilità… È estate, uno straniero aggancia una ragazza e lei lo trova irresistibile. Lui magari le dice che è finlandese, svedese, e lei ci crede, s’innamora. Decidono di stare insieme». Antonietta Gregori, sorella di Mirella, nel 2013 ha risposto così alla domanda su dov’erano stati in vacanza nell’estate 1982: «Dovrei controllare le foto, ammesso che ne trovi. Di certo eravamo tutti e quattro insieme, con mamma e papà. Doveva essere Francia o Svizzera» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Alla baronessa Rotschild arrivò, un giorno dopo la sua sparizione nel 1980, un telegramma firmato Roland, anagramma di Orlandi. Il padre di Catherine Gillespie si chiama Ronald James Gillespie. Ronald, ancora una volta anagramma di Orlandi.
10) Approfondita conoscenza, enormi rischi e presenza mediatica. La conoscenza dettagliata di MFA di numerosi eventi risalenti a decine di anni fa è strabiliante, quasi unica. Così come la conoscenza di tantissime nomine vaticane, anche di secondo o terzo livello, ruoli di diplomatici, prelati e monsignori della Curia romana e della Segreteria di Stato tra gli anni ’80 e ’90, con tanto di loro abitudini e retroscena. Ha mostrato di conoscere gli uffici usati per particolari compiti dal Servizio Militare di allora, un residence situato in via Panama, in Roma, di un ufficio presso vicolo del Cinque a Trastevere e di un appartamento in via del Governo Vecchio (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Ha parlato anche di dettagli dell’arredo di alcune case di questi prelati, come la moquette gialla del cardinal Caprio o l’esistenza di una casa-museo di un dilpomatico del Consiglio per gli Affari pubblici nel Palazzo dell’Arciprete ecc. Non si può liquidare tutto dicendo che avrebbe studiato tutto a posteriori. Dove? Su quali articoli comparvero queste notizie? In quali atti? Internet allora non esisteva e oggi, ovviamente, questi dettagli non sono presenti sul web. Ma anche se fosse, a che scopo inserire nel caso Orlandi tutti questi inutili particolari e dettagli? Oltretutto con l’enorme rischio di essere smentito su questi dettagli, facilmente verificabili (la salopette e le scarpe da ginnastica di Emanuela su cui c’era scritto il suo nome, la telefonata tra lui e Antonietta Gregori in cui lei lo scambiò per un collaboratore dell’avvocato Egidio ecc.). Lo stesso rischio preso con il flauto: se sapeva o dubitava non essere appartenuto alla Orlandi, lo avrebbe fatto ritrovare con tanto di matricola leggibile e possibili contaminazioni? E se fossero emerse tracce appartenenti a qualcuno diverso dalla Orlandi? E se i familiari avessero conservato il numero di matricola del flauto? Come faceva MFA a sapere che gli esiti della scientifica non avrebbero purtroppo fornito alcun risultato utile? Mancava il tamponcino, tuttavia tracce di Dna potevano trovarsi in qualunque parte del flauto, come ad esempio il beccuccio. «Se io fossi un falsario», ha commentato MFA, «mi sarei procurato oltre il flauto anche quest’asticella per la pulizia, e l’avrei messa nella custodia, dopo averla ripulita ed invecchiata per non farvi trovare la saliva, così come avrei fatto con il flauto».
Ha obiettato Accetti a chi non crede al flauto: «se mai fosse stato nelle mie intenzioni produrre un falso, avrei dovuto, oltre il procacciarmi uno strumento dell’epoca fornito dei necessari elementi formali, riprodurre anche uno stato di usura relativo agli anni trascorsi. Pulirne radicalmente l’interno ed ogni altra parte per assicurarmi che non si potesse rintracciarne alcun DNA collegabile con il reale proprietario. Ma le esigue tracce biologiche rinvenute dalla perizia dimostrano che il flauto non è stato interamente sterilizzato, per cui avrei “rischiato”, nel qual caso queste tracce fossero state identificate, di essere ritenuto un millantatore ed avrei già sin dall’inizio invalidato tutto quel che in seguito avrei dichiarato. Inoltre ho consegnato il flauto riportante la sua matricola e marca, e la famiglia poteva ancora essere in possesso del certificato originale. Nella consapevolezza che anche uno strumento musicale comprato già usato può comunque essere ancora dotato del documento di certificazione. Per cui se i dati riportati sul flauto non fossero stati autentici, mi avrebbero potuto smentire. Se fosse stato quindi un “falso” avrei dovuto abradere la parte riportante i suddetti dati, potendo dichiarare che tale procedura fu effettuata all’epoca dei fatti per non permettere, in caso lo strumento fosse stato rintracciato presso una nostra pertinenza, di verificarne l’origine». Il maestro di flauto di Emanuela, Loriano Berti, ha ricordato che la ragazza aveva un flauto Yamaha, non un Rampone e Cazzani come quello fatto ritrovare. Pietro e Natalina Orlandi, tuttavia, «appena se lo sono rigirato tra le mani, hanno concluso che è molto simile, se non identico, a quello posseduto da Emanuela. Il produttore Rampone e Cazzani, che Pietro ha contattato tramite lo stesso negoziante del quartiere Prati dal quale suo padre lo acquistò, in base ai dati riportati e al numero di matricola ha confermato che è stato fabbricato prima del 1983. Lo stesso Pietro ha trovato, tra i vecchi album di famiglia, la foto di un saggio di fine anno scolastico. Sua sorella in piedi, concentrata nell’esecuzione del brano, e sul pavimento, ben visibile, la custodia: i segni di usura agli spigoli sono ben visibili, la foderatura è dello stesso punto rosso» (“Il Ganglio”, Fandango libri 2014).
All’interno di una ricostruzione verosimile, Accetti ha inserito episodi controprudcenti per la loro inverosimiglianza, come il fatto che avrebbe passeggiato per Roma con Emanuela, la quale avrebbe indossato una parrucca. Se fosse falso, perché dirlo? Uno che riesce genialmente ad inventare una storia del genere, non si accorge che è un particolare che mina la credibilità generale della ricostruzione? Inoltre ha collegato il caso Orlandi ad altrettanti misteri d’Italia, quali quello della baronessa Rothschild, quello della Skerl, della Rosati ecc., ma anche a noti furti d’arte. Una scelta folle, che insinua l’idea del mitomane. Solo un maniaco avrebbe potuto compiere questi enormi studi, sprecare un’infinità di tempo per trovare (trovandoli!) collegamenti tra codici, suoi fatti biografici e notizie di cronaca, studiare nomine, ruoli e abitudini di decine di ecclesiastici quasi sconosciuti degli anni ’80-’90, prendersi enormi rischi ingolfando il racconto con un’infinità di dettagli irrilevanti, fare accuse ben precise ai suoi complici o persone a conoscenza dei fatti (a Patrizia D.B., a Eleonora C., a Ornella C., a suo padre Aldo A., alla sorella Laura A. ecc.): tutto questo per cosa? Soldi? Non ne ha avuti, né cercati. La Procura sostiene che si tratta di «un soggetto con spiccate smanie di protagonismo». Eppure un mitomane, affetto da smanie di protagonismo, non aspetta 30 anni per apparire pubblicamente al mondo, dato che i familiari hanno testimoniato che fin dal 1983 MFA si occupava del caso, di cui era rimasto colpito. MFA ha raggiunto: «Come anche l’accusa che io eserciti una “mania di protagonismo” confligge con il fatto che, pur vivendo in un sistema mediatico che offre innumerevoli occasioni di apparire, io non sono mai “apparso” se non in alcuni fatti del lontano 1999, nonostante abbia avuto negli anni innumerevoli inviti a comparire in varie trasmissioni della Rai e di Mediaset. E tutto questo è documentato». Ha osservato lui stesso: «se fossi veramente pervaso da una “smania di apparire” non avrei rifiutato l’offerta di scrivere congiuntamente un libro da parte dei giornalisti Dino Marafioti, Fiore De Rienzo, Fabrizio Peronaci, Pino Nazio. Chieder loro per aver conferma». Non sembra affatto ricercare un protagonismo esasperato e non ha compiuto gesti scenici per catalizzare su di sé l’attenzione e mantenersi al centro dell’opinione pubblica. Nelle interviste pubbliche che ha rilasciato è ben capace di intendere e volere, sa rispondere in modo preciso, originale e con cognizione di causa, così come abbiamo appurato nella telefonata di quasi due ore avuta con lui nel gennaio 2016. Non ci è affatto parso di essere al telefono con un maniaco, come invece dovrebbe essere se avesse inventato tutto questo. Ha chiesto inolte ai magistrati di essere messo a confronto con suo padre, con le donne che hanno negato la loro partecipazione, con il poliziotto Bosco e con il proprietario dell’albergo Isa, da lui contattato nell’81 per prenotare la stanza per Alì Agca. Proprio il suo comportamento sembra essere un argomento a favore.
11) Incredibile fortuna. Oltre agli enormi rischi che si è preso, va rilevato che Accetti, se fosse un millantatore, è anche un uomo incredibilmente fortunato. Infatti:
1) Ha avuto la “fortuna” di poter rintracciare nella sua biografia una serie di fatti oggettivi che, coincidenza vuole, si potevano citare per inventare una sua partecipazione nei casi di cui ha detto di aver fatto parte. Ricordiamoli:
a) la ex moglie che si recava a Boston proprio nei giorni in cui da lì partivano i comunicati;
b) un’intercettazione telefonica nel 1997 in cui la ex moglie lo minaccia di parlare della Orlandi;
c) la sua abitazione a pochi metri da quella di Mirella Gregori nel periodo in cui è sparita;
d) la sua abitazione a pochi passi dal luogo in cui è stata vista l’ultima volta Alessia Rosati;
e) il giovane José Garramon frequentava lo stesso istituto frequentato da Accetti, l’uomo che lo ha investito e ucciso il 20 dicembre 1983.
e) l’aver frequentato l’istituto De Merode con direttore spirituale mons. Pierluigi Celata, il prelato che diventò diplomatico in Vaticano, che ha lo stesso nome del primo telefonista, Pierluigi, e che abitava sopra le Sorelle Fontana, citate nella telefonata di Emanuela alla sorella Federica il 22/06/83. L’istituto De Merode si trova in piazza di Spagna, nello stesso luogo in cui avevano la maison le “Sorelle Fontana”, sopra cui abitava mons. Pierluigi Celata. Lo stesso istituto fu anche scelto dal gruppo “Phoenix” per lasciare nei pressi il 13/11/83 dei proiettili Magnum calibro 357.
f) ha una voce compatibile e sovrapponibile a quella dell'”Amerikano” e sa imitare alla perfezione la voce del telefonista “Mario”.
g) come riporta il quotidiano Il Tempo l’8 luglio 1983, una cassetta con una voce registrata attribuita a Emanuela Orlandi, venne recapitata a padre Salvatore Pappalardo. Chi ha trovato questo articolo, ha domandato a Marco Accetti se conoscesse tale prelato, l’uomo ha risposto che il futuro cardinale Pappalardo era cappellano dell’istituto De Merode che lui frequentava (come effettivamente confermano le biografie online). Un’altra coincidenza.
h) l’area frequentata da Accetti per proporre a giovani di posare nei suoi film o fotografie (corso Vittorio, via dei Coronari ecc.) come nel caso di Stefano Coccia, è la stessa che era percorsa da Emanuela. Il suo laboratorio, infatti, era a ridosso di piazza dell’Orologio e dell’oratorio Borromini, nome citato dal vigile Sambuco nella sua testimonianza. Il dettaglio ha portato, nel maggio 2016, il giornalista Pino Nicotri a convincersi della sospettabilità di Marco Accetti perlomeno nell’adescamento di Emanuela, facendo anche notare che l’uomo della Avon chiese alla ragazza di farsi prima autorizzare dai genitori, stesso modo di operare di Accetti.
Quante persone nel 1983 a Roma (ma diciamo anche tra tutte le persone vissute nel mondo tra il 1980 e il 2016) possono “vantare” dati biografici così coincidenti con il caso Orlandi? Nessuna.
2) Ha avuto la fortuna, nonostante si sia preso enormi rischi (il flauto e i numerosi dettagli secondari che ha rivelato, come la scritta “Emanuela” sulle scarpe della ragazza il giorno in cui sparì), di non essere mai stato smentito, nessuno ha mai dimostrato in modo chiaro che almeno un particolare che ha rivelato è certamente falso. Lui stesso ha scritto: «Se la Procura dovesse ritenere tutti gli indizi da me prodotti non altro che frutto di mere coincidenze, dovrebbe intanto quantificarle e constatare che si tratta di un numero veramente elevato, e le troppe coincidenze sono indizi. Se mi si ritiene un abile sceneggiatore, altrettanto mi si deve riconoscere la ripetuta e ripetuta fortuna, che in quei anni ottanta si siano verificate una serie impressionante di concatenazioni casuali che sembrano andare tutte univocamente in una direzione».
12) Misteri risolti. Che la ricostruzione di Accetti, al di là della sua autenticità, sia geniale lo dimostra la spiegazione illuminante che riesce a dare degli elementi finora rimasti inspiegabili.
a) Comportamento assurdo dei telefonisti e dei comunicati: non si volle mai provare con chiarezza la detenzione di Emanuela, bastava una foto, eppure si elencarono infiniti dettagli e particolari, risultati veri, e fotocopie di documenti e spariti che aveva con sé quel giorno. Tanta fatica quando bastava una foto, perché? Perché erano codici, i loro interlocutori non erano né gli inquirenti, né la famiglia, né la stampa, ma qualcun altro con cui dialogavano, sfruttando la cassa di risonanza dei media. Lo dimostra anche l’insistenza assolutamente inedita dei telefonisti affinché i media pubblicassero i loro messaggi e comunicati, invece che chiedere pagamenti per i riscatti.
b) Voce di Emanuela: venne riportata su un nastro fatto trovare dall’Amerikano: «Prova. Convitto nazionale Vittorio Emanuele secondo. Dovrei fare il terzo liceo staltr’anno…scientifico». Frase registrata e fatta ascoltare ai familiari più volte. La voce è la sua, venne riconosciuta, Emanuela non aveva mai parlato di un’intervista prima della scomparsa, nemmeno i compagni. Il giornalista Pino Nicotri sostiene che la frase ripetuta più volte potrebbe essere stata pronunciata da Emanuela durante la puntata di Tandem a cui partecipò nel maggio 1983, o nelle presentazioni prima o dopo l’entrata in studio. Ipotesi peregrina, a quella puntata venne invitata tutta la classe di Emanuela, dunque era ridondante che lei si presentasse come studentessa del Convitto nazionale Vittorio Emanuele II. Oltretutto, nessuno dei suoi compagni, una volta saputa la comparsa di questa “prova” dopo la sparizione di Emanuela, ha mai fatto presente che quella frase fosse stata detta da Emanuela durante la trasmissione televisiva. Anche a loro avrebbero dovuto fare la stessa domanda prima o dopo l’entrata in studio, eppure nessuno ha collegato le cose evidentemente perché nessuno chiese loro singolarmente che scuola facessero, poiché era inutile: avevano invitato proprio quella classe di quella scuola. Venne realizzata dopo. Davvero strana come “prova”, tutti si sarebbero aspettati: “Ciao mamma e papà, sono Emanuela e sto bene, non vi preoccupate”. Per decenni investigatori e giornalisti si sono chiesti perché una “prova” del genere. Non era una “prova”, il racconto di Accetti lo spiega e risolve: «La frase della Orlandi significava: accettate le richieste, in modo che tutto possa terminare entro i primi di settembre, in tempo per l’inizio dell’anno scolastico, altrimenti riferirò fatti compromettenti. Lo spettro da noi agitato era la pedofilia. La telefonata fu fatta dai Parioli. La registrazione con la voce della ragazza fu eseguita dopo il 22 giugno. Il rumore del treno, registrato in precedenza, serviva a depistare gli inquirenti». Ovvero era un codice alla controparte, solo così effettivamente si spiega. «Io la ragazza l’ho frequentata trentadue anni fa e l’ho vista per mesi, quella è proprio la sua voce, questa voce un po’ cantilenante che aveva, un po’ lagnosetta. Ma le pare che noi presentiamo la voce di un’altra, in modo che la famiglia ci smentisce da subito? Lei disse quella frase una sola volta, io avevo un registratore a due piste e ripetei più volte quella frase in modo che fosse chiaro a chi ascoltasse. Venne registrata in un appartamento al chiuso, infatti non ci sono rumori di fondo, le voci dei compagni della scuola ecc.» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Può essere falso, ma non si può dire che è l’unica soluzione adeguata. E l’ha data soltanto Accetti.
c) Pedinamenti appariscenti e comportamento dell’uomo davanti al Senato: un altro mistero che non si è mai chiarito è perché l’uomo visto dai testimoni oculari Sambuco e Bruno avesse tutta l’intenzione di essere notato. Pensiamo al luogo in cui avvenne il dialogo con Emanuela (davanti al Senato!), al colore dell’auto. Giulio Gangi infatti dirà: «tutto fa pensare che l’uomo della BMW voleva essere notato: dal colore squillante della sua auto al fatto che avesse parcheggiato la vettura in direzione contraria al senso di marcia, al posto prescelto, cioè proprio di fronte all’ingresso del Senato» (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 22). Lo stesso dicasi per le persone che seguirono Emanuela prima della sua sparizione. Lo ha testimonianto la sorella Cristina e alcuni amici di Emanuela (Garbiella e Paola Giordani, Cristina Franzè, Angelo Rotatori e Andrea Bevilacqua), alcuni uomini seguivano il gruppo -tra cui c’era Emanuela- il 16 giugno 1983 in zona Prati, loro se ne accorsero e pensarono si trattasse di semplici corteggiatori (Rapporto operativo, quinta sezione di Roma, 18 luglio 1983, p.7). Tre giorni dopo, il 19/07/83, gli stessi amici si trovavano in via dei Corridori, quando a loro si avvicinò una macchina di colore bianco con a bordo due giovani. Il passeggero, sui venti-venticinque anni, biondo, capelli corti e ondulati, senza barba né baffi, indicò Emanuela, dicendo: “Eccola!” (testimonianza di Gabriella e Paola Giordani al Reparto operativo dei carabinieri di Roma, 14 luglio 1983). Anche loro volevano evidentemente essere notati e questo collima con la versione di Marco Accetti dell’organizzazione di un finto sequestro.
Prove secondarie
13) Regista e sceneggiatore. Le competenze artistiche di MFA, sceneggiatore e regista, erano proprio quelle necessarie ad inscenare il “finto sequestro”, secondo il suo racconto, e tutta la messinscena successiva. Era certamente la persona adatta a cui affidare tutto questo: l’organizzazione, i codici, i luoghi, gli orari, i depistaggi ecc. Lavorare con la fotografia gli dava oltretutto l’alibi di poter fermare ragazzi e ragazze -possibili futuri complici nelle sue losche operazioni- con la scusa di servizi fotografici. Questo, tuttavia, è anche un punto a suo sfavore come riferiremo sotto.
14) Alì Estermann. Il 21/03/1999 MFA appare per la prima (e ultima) volta in televisione partecipando ad una puntata di “Domenica In” imitando Roberto Benigni (esattamente il giorno in cui vinse l’Oscar), presentandosi come Alì Estermann. Un nomignolo assolutamente fuori dal contesto della trasmissione televisiva e completamente assurdo, una via di mezzo tra Alì Agca e Alois Estermann (guardia svizzera morta misteriosamente in Vaticano nel 1998). Seguì un viaggio a New York dove attirò l’attenzione della stampa facendo credere di essere il vero Benigni. Comparso all’improvviso e poi sparito di nuovo nel nulla. MFA avrebbe un’ossessione maniacale per il Vaticano o le vicende clericali? Bisognerebbe spiegare perché allora questo fu l’unico episodio pubblico in trent’anni, nonostante diversi casi di cronaca abbiano coinvolto il Vaticano (oltre al fatto che la Corte d’Assise nel 1983 escluse malattie psichiche e anomalie del carattere).
15) Testimonianze dei familiari. I familiari -il padre, la madre, la sorella- hanno confermato che MFA è rimasto da sempre scosso dal caso Orlandi, sorprendendolo a scrivere lettere anonime, fare telefonate e ritagliare articoli fin dal 1983, giustificandosi con il fatto che lo faceva solo per gioco. La sorella Laura Accetti e l’ex moglie Eleonora C dicono che MFA aveva fatto loro dichiarazioni sulla conoscenza approfondita della vicenda, non venendo però da loro creduto. Inoltre, un’intercettazione del padre, Aldo Accetti, rivela che MFA ha fatto loro dichiarazioni assurde soltanto sul caso Orlandi e non su altri casi di cronaca o fatti slegati da questo: «purtroppo Marco queste uscite sue, sparate, ce le ha da quando è venuto fuori il caso Orlandi…la vicenda dell’Orlandi, lui l’ha colpito questa faccenda, sono vent’anni che va avanti…», dice il padre in una telefonata ad un amico. E’ una conferma del fatto che prima del momento del suo arresto, a causa dell’incidente nella pineta, MFA si era interessato al caso (e solo a questo) in modo approfondito. Le opinioni dei familiari sono importanti (ne parleremo nei “punti deboli”) tuttavia è possibile che non abbia mai voluto raccontare loro la portata del suo reale coinvolgimento, facendo soltanto alcuni accenni, probabilmente per tutelarsi, per tutelare loro oppure sapendo di non essere preso sul serio. Una scarsa comunicazione con i suoi stretti familiari è dimostrata dalle parole della madre che ha rivelato di sapere poco anche del caso Garramon, cioè dell’incidente che è costato al figlio due anni di prigione.
16) Filippo P.. Legato al punto precedente c’è anche un aspetto legato a tale Filippo P. (il nome per esteso lo si trova qui) Nel febbraio 2015 MFA ha infatti scritto di aver individuato su Facebook “Filippo P.”: «Costui è in realtà una donna che partecipò ai noti fatti. Nel timore che io potessi nel futuro chiamarla in correità» cerca di farlo passare per bugiardo. Non che questo possa influire in tribunale, ma certamente può avere un peso nel “tribunale popolare” che da anni alimenta e tiene vivo il caso Orlandi. Effettivamente tale “Filippo P.” mostra un acceso risentimento verso MFA, così come dimostra di conoscere molto bene il suo passato e anche i fatti di cui si parla, spesso accusandolo di essere un fascista -al contrario di quanto dice MFA-, ricordando suoi trascorsi biografici. MFA ha risposto a questa accusa scrivendo: «ebbi una relazione per anni con Patrizia D. B., conoscevamo entrambi i rispettivi genitori e a volte dormivamo insieme nelle rispettive abitazioni. Come si concilia che una ragazza di estrema sinistra e sensibile come lei condividesse la sua vita con un fascista tanto pericoloso e delinquente quale il Filippo P. mi definisce?». MFA ritiene che proprio la donna appena citata si nasconda dietro al profilo di “Filippo P.” e lo stesso lo pensano diversi utenti e anche il giornalista Fabrizio Peronaci, che infatti la chiama “Patrizia” e minaccia di pubblicare in un gruppo Facebook la sua fotografia. Se si ritengono vere le supposizioni dei due, la Procura ha verificato che Patrizia D.B., nota come militante di estrema sinistra, ha avuto una relazione con MFA dal 1979 al 1982, storia poi ripresa nel 1983 tanto che la donna venne fermata assieme a lui il 21/12/83 dopo l’investimento di Garramon, avendolo accompagnato a recuperare il furgone. Interrogata recentemente in Procura, si legge che «non ha fornito elementi utili» sul caso Orlandi.
Il giornalista Pino Nicotri ha rivelato tuttavia che Patrizia D. B. avrebbe «demolito il racconto di Fassoni Accetti, ridotto a parto della sua fervida fantasia, con una lunga e dettagliata deposizione al magistrato Giancarlo Capaldo, alla quale hanno fatto seguito alcuni incontri con me». Ma questa “lunga e dettagliata” deposizione non compare, purtroppo, nella sentenza di archiviazione. In particolare negli incontri con Nicotri, Patrizia D. B. ha affermato che la notte in cui vennero arrestati, MFA non sapeva chi fosse il giudice Santiapichi e tanto meno dove abitasse, lo avrebbe appreso soltanto durante l’interrogatorio con il magistrato Domenico Sica, chiamato dai carabinieri perché titolare all’epoca delle inchieste sul terrorismo rosso. Infatti i due sarebbero stati sospettati di essere “brigatisti”. Eppure, oltre a non riuscire a giustificare in modo credibile l’assenza di qualunque rapporto firmato, nemmeno una sola citazione della presenza del magistrato Domenico Sica nel verbale di quella notte, la donna ha sostenuto che l’interrogatorio del magistrato sulla politica e sui brigatisti andò avanti «per quasi due ore chiedendomi anche se conoscevo Severino Santiapichi e il motivo per cui ero andata vicino casa sua». Soltanto verso le 7.30 del mattino «nel ri-raccontare la mia giornata del 20 dicembre, io spontaneamente parlai del furgone guasto dell’Accetti, rottosi nel pomeriggio in pineta», l’attenzione così si spostò sull’investimento di Garramon, trovarono il furgone e arrestarono MFA. Sembra davvero inverosimile che la donna abbia dovuto raccontare più volte il motivo della loro presenza in quella zona, come dice, e soltanto due ore dopo abbia accennato al fatto che erano lì per recuperare il furgone. Eppure non aveva nulla da nascondere dato che, come ha detto, quella notte non sapeva nulla dell’incidente provocato da MFA. Allora perché non parlare subito dell’unico motivo per cui era nella zona, ovvero il semplice e innocente recupero del furgone del suo compagno a causa di un guasto al motore? “Filippo P.” ci ha comunicato che Patrizia D.B. parlò soltanto dopo due ore del furgone «perché inizialmente il Marco Accetti le aveva “consigliato di mentire” per affrettare i tempi del fermo data la notte alta, e quindi di evitare di parlare del furgone accidentato e di dire semplicemente che “erano una coppia in cerca di intimità”».
Se sono corretti i sospetti di MFA e Peronaci sulla vera identità di tale Filippo P., bisognerebbe riflettere sul perché Patrizia D.B. (suonatrice di flauto traverso, come Emanuela), legata sicuramente a MFA proprio nel periodo in cui sparì la Orlandi, voglia cercare di screditare in modo così forte e determinato l’attendibilità dell’uomo. Nel fascicolo della Procura si legge: Accetti «ha contratto matrimonio con Eleonora Cecconi il 25 maggio 1982 dalla quale si è separato di fatto nell’estate 1983; dal 1979 fino al giorno del matrimonio con la Cecconi ha intrattenuto una relazione con Patrizia D.B., relazione che poi è proseguita dopo la separazione dalla Cecconi, tanto che si trovava in sua compagnia in occasione dell’arresto per l’investimento di José Garramon. Che MFA e Patrizia D.B. fossero in ottimi rapporti nel periodo dell’incidente nella pineta è la stessa donna a dichiararlo nel primo interrogatorio in qualità di testimone: «Escludo nel modo più assoluto che Marco abbia tendenze omosessuali, lui ha sempre avuto molto successo con le donne. Io gli sono particolarmente affezionata. Siamo riusciti a mettere una pietra sulla sua esperienza matrimoniale e siamo tornati a stare insieme, anche se come amici, non come amanti» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Patrizia D.B. cercò dunque di allontanare da lui i sospetti di pedofilia verso Garramon, una testimonianza che produrrebbe soltanto una persona in buoni rapporti. E che lo rimasero, almeno fino al novembre 1983, è dimostrato da un altro fatto: agli atti compare di nuovo il nome di Patrizia D.B. come la ragazza che, assieme a Accetti, fermò Stefano Coccia: «Ennesima menzogna», afferma MFA, «fui io a fare quel nome perché non potevo dire chi fosse la ragazza bionda, e nominai la Patrizia perché già era comparsa nell’inchiesta, ripromettendomi in un secondo tempo, nel caso, di ritrattare». Dunque Accetti fa il nome di Patrizia D.B. per coprire la bionda Ulrike, eppure non esiste alcuna querela per calunnia da parte di Patrizia D.B. nei suoi confronti. Erano dunque d’accordo? (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
Come è stato fatto notare da alcuni membri del gruppo Facebook in cui è comparso tale “Filippo P.”, l’utente è molto preoccupato che non venga fatto il nome di PDB mentre è meno preoccupato di se stesso. Eppure se si digita “Filippo Picchetti” su Google, compare l’articolo di Accetti in cui Picchetti viene accusato di non essere un profilo reale ma di nascondere il complice di un rapimento. Certamente PDB avrebbe tutto l’interesse per querelare per diffamazione Marco Fassoni Accetti, ma anche Picchetti dovrebbe farlo poiché c’è una chiara lesione del suo diritto di onore e reputazione. Eppure non lo ha mai fatto, aumentando i sospetti verso la sua vera identità. Il 24/03/16 ha tuttavia sostenuto di aver querelato Accetti, ma quest’ultimo ha smentito e infatti Picchetti non ha mostrato la copia della presunta denuncia. Il fatto che tale Filippo Picchetti non abbia mai agito in sede legale contro Marco Accetti certamente è un elemento che rafforza i sospetti che si tratti di un profilo falso, così come lo stesso Accetti ha più volte ribadito.
17) Lettere del 2013. Tre mesi prima della comparsa di MFA, il 21 dicembre 2012 sul colonnato di San Pietro a Roma è stato rinvenuto un teschio, mentre due giorni prima della sua comparsa, Raffaella Monzi e Antonietta Gregori hanno ricevuto una lettera anonima contenente una minaccia: “Non cantino le due belle more per non apparire come la baronessa e come il ventuno di gennaio martirio di S. Agnese con biondi capelli nella vigna del Signore”. I riferimenti sono alla baronessa de Rothschild e a Caterina Skerl, entrambe persone che MFA ha collegato nelle sue deposizioni con il caso Orlandi (facendo notare che il telgramma arrivato alla baronessa, seppur già scomparsa, era firmato Roland, anagramma di Orlandi, e che a Grottaferrata, luogo di morte della Skerl il 21/01/83, aveva sede l’associazione Pro Fratribus di monsignor Hnilica, anticomunista, attiva nel finanziamento a Solidarnosc). C’è anche la foto di un teschio umano con la scritta “Eleonora De Bernardi, Morta in Campagna, Lì 23 agosto 1854”, stesso nome della ex moglie di MFA, Eleonora C, che Accetti ha indicato come colei che spediva le lettere da Boston (dove si recò effettivamente in quel periodo a trovare il fratello, cfr. Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Il teschio è custodito (e fotografato) nei sotterranei di Santa Maria dell’Orazione e Morte, in via Giulia. Accetti ci ha riferito che è la stessa via in cui avrebbe abitato proprio Eleonora (cfr. telefonata del gennaio 2016). I magistati hanno concluso che l’autore delle lettere è lo stesso che ha lasciato il teschio a San Pietro. E’ stato lo stesso MFA per prepararsi la scena? Lui ha negato, sospettando che a scriverle potrebbe essere state spedite dalla persona che lo ha minacciato nel 1998 -a causa di questo fatto MFA ha imitato Benigni sulla Rai chiamandosi Alì Estermann-, riconducibile agli ambienti di monsignor Bruno della diocesi di New York, il quale cercherebbe di imitare il suo modo di parlare, «forse è sempre lui ad aver scritto le due lettere anonime che minacciavano le ragazze testimoni, lettere che riconducono ai codici da noi adottati negli anni ‘80 ed al mio stilema fotografico».
Effettivamente è inverosimile che MFA abbia voluto davvero preannunciarsi in modo tanto plateale per accreditarsi come testimone credibile, guarda caso proprio due giorni prima la sua apparizione, facendo credere che vi sia qualcuno intimorito dalle sue rivelazioni tanto da intimare “le due belle more” a non parlare. Un’idea controproducente, se fosse lui l’autore: un mitomane ossessionato dal caso Orlandi fin dal 1983 (testimoniato dai familiari), aspetterebbe 30 anni nell’anonimato costruendo un’intricata ma comunque verosimile storia (tant’è che non è stato subito liquidato dai magistrati, che hanno impiegato diverso tempo a studiare le sue rivelazioni senza però mai arrivare ad accertarle, anche a causa della mancanza di altri testimoni) per poi apparire nel 2013, cadendo nella colossale ingenuità di farsi anticipare due giorni prima dalle lettere e, tre mesi prima, da un teschio. Oltretutto, ci ha fatto notare proprio lui: «Nel 2013 qualcuno ha lasciato un altro teschio sotto il colonnato di San Pietro, un mese prima che io mi presentassi [in realtà si tratta del 21/12/12, tre mesi prima, nda], un luogo altamente monitorato dalle telecamere. Loro [gli inquirenti, nda] hanno quindi l’immagine di chi ha deposto quel fardello e non se n’è mai saputo niente. Colui che ha posto il teschio certamente sa delle due lettere. C’è un’omissione, una copertura» (telefonata del gennaio 2016). Se non è stato Accetti a lasciare teschio e lettere, come effettivamente sembra, esiste allora qualcuno che teme il suo racconto e intima ai testimoni di non parlare? Perché questo qualcuno cita tutti gli elementi chiave (sottoforma di codice, nello stile della fazione di Accetti) del racconto che farà Accetti di lì a poco? La morte della baronessa e della Skerl; la testimone Eleonora (citando il suo nome e fotografando il teschio posizionato nella stessa via in cui lei viveva, almeno secondo quanto ci ha riferito Accetti); la parola “fiume” cioè l’Avon; via Frattina cioè la camicia della Skerl; il numero 4 che spesso ritorna nei codici verso Agca (seppur non lo abbiamo ritenuto significativo), il 4 dicembre 1979 fu la data dell’uccisione da parte delle forze armate saudite degli assaltatori della Mecca; l’Amerikano attraverso la citazione degli spartiti fatti da lui ritrovare; la foto con l’attentato al Papa, elemento centrale per Accetti. Se non è stato Accetti, è possibile che l’autore abbia reso pubblici gli elementi chiave della ricostruzione che avrebbe fatto Accetti di lì a poco, tentando così di far credere che sia stato proprio il supertestimone a scrivere le lettere, per rendersi credibile? Un modo dunque per screditarlo?
Una cosa non è comunque chiara: il teschio fatto ritrovare a San Pietro il 21 dicembre 2012, è stato posizionato presumibilmente nella notte tra il 20 e il 21, esattamente come lui nella notte tra il 20 e il 21 dicembre 1983 ha investito Garramon ed è stato arrestato. Tuttavia, Accetti, ha sempre dichiarato di essersi deciso a presentare soltanto nel marzo 2013, dopo l’elezione pontificia del non curiale Papa Francesco. Il presunto minacciatore come faceva a sapere che Accetti si sarebbe presentato nel marzo 2013? Nessuno poteva sospettare che Benedetto XVI avrebbe rinunciato al ministero petrino nel febbraio. E’ stata una coincidenza? Accetti voleva già presentarsi, anche prima del cambio di pontefice, e il minacciatore ne è venuto a conoscenza? Oppure, ipotesi inquientante, l’autore del gesto sapeva che Accetti era pronto a presentarsi già nel 2005 se non fosse stato eletto un pontefice curiale, è poi venuto a conoscenza delle intenzioni di Benedetto XVI di “dimettersi” di lì a poco (segreto pontificio rivelato soltanto a tre persone) e ha minacciato Accetti preventivamente, temendo l’elezione di un pontefice non curiale nel conseguente conclave? In ogni caso, alla fine del ragionamento, riteniamo che la comparsa di quelle lettere sia una prova a suo favore.
I PUNTI DEBOLI DELLA TESI DI MARCO FASSONI ACCETTI
1) Rimorsi di coscienza. Nella sua ricostruzione Accetti, seppur facendo pochi nomi, coinvolge decine e decine di persone, tra ecclesiastici, arcivescovi, faccendieri, ex 007 deviati, monaci, sacerdoti lituani (vicini a mons. Bačkis) e francesi, membri laici della giunta del Governatorato, vicini al defunto marchese Sacchetti, una serie di ragazze, italiane e non, amiche e compagne di scuola delle scomparse, le fidanzate del supertestimone, l’ex compagno di classe di Accetti del San Giuseppe De Merode, figlio di un diplomatico in cordiali rapporti con monsignor Silvestrini (che avrebbe messo a disposizione un appartamento in pieno centro dove incontrare Agca alla vigilia dell’attentato), la bionda Ulrike fiancheggiatrice della Stasi, il ragazzo svizzero con cui si sarebbe allontanata Mirella, l’infiltrato nella redazione de “Il Tempo” ribattezzato Ecce Homo, le guardie penitenziarie corrotte che mandavano messaggi ad Agca, qualche esponente della Magliana, l’idealista turco che avrebbe incontrato Mirella ed Emanuela il giorno della scomparsa, la guardarobiera di Palazzo Barberini, pagata dalla sua fazione ecc. Di molti personaggi Accetti ha descritto abitudini, ruoli, fatti biografici dunque loro si sono riconosciuti, ma noi non possiamo riconoscerli. Molti sono morti, altri sono in vita. La maggior parte non sarebbe accusata di nulla, non ha commesso reati gravi e potrebbe solo confermare parti del racconto, quelle che lo riguardano. Sarebbe un piccolo contributo di verità.
Eppure, tra tutti essi, nessuno/a -a parte lui- leggendo le rivelazioni di Accetti, riconoscendo l’utilità del suo piccolo o grande ruolo all’interno di un complesso scenario di pressioni e ricatti, ha avuto un rimorso di coscienza, -come mai lo ha avuto in questi trent’anni-, decidendo di autodenunciarsi o, semplicemente, corroborando i racconti di Accetti, impietosendosi davanti alle famiglie delle giovani che sono rimaste vittime di questo ganglio occulto. Parlando delle amiche e delle sodali di Accetti, l’uomo ci ha criticato: «Voi scrivete che poiché queste donne, oggi, poiché sono madri di famiglia non malavitose dovrebbero sentire ancor di più la voce della coscienza. E’ invece vero il contrario: la donna di cinquant’anni, madre di famiglia con figli, non va ad esporsi facendo sapere che quando aveva 18-20 anni partecipò alla scomparsa di due ragazze, mettendo a repentaglio i figli e il loro futuro. Il vostro è un parallogismo terribile» (telefonata del gennaio 2016). L’obiezione è valida, è un altro punto di vista. Rimane da spiegare il mancato rimorso di coscienza di tutte le altre persone, sopratutto quelle che hanno avuto ruoli minori, assolutamente secondari e limitatissimi nel tempo. Sono sottoposti a minacce? Al “non cantino le belle more”? Perché allora MFA non ha avuto paura? A lui non è accaduto nulla, eppure non è certo introvabile.
2) Porta Sant’Anna. Dopo essere salita su un’auto di lusso, MFA racconta che Emanuela arriva davanti a Porta Sant’Anna, le due ragazze scendono e la Orlandi entra all’interno: doveva avvicinarsi al Cortile Sisto V, cercando di chiedere a quanti testimoni potesse incontrare dove rintracciare l’ecclesiastico vicino a monsignor Marcinkus. E’ impossibile che nessuno l’abbia vista, come ha detto il fratello Pietro: «Bisogna passare davanti alle guardie svizzere, poi alla parrocchia di Sant’Anna, salire la scala e arrivare in cima, all’ingresso dello Ior, dove la sua presenza sarebbe stata notata. È matematicamente impossibile che in un paesetto come il Vaticano nessuno l’abbia vista». A parte il card. Oddi, che riferì lo stesso episodio nel 1993, salvo poi precisare: «erano chiacchiere ascoltate per strada, da qualcuno che parlava della scomparsa di Emanuela Orlandi, come in quei giorni facevano un po’ tutti dalle parti di San Pietro». Se fosse vero l’espisodio avrebbe generato decine di testimoni, anche perché proprio quello era lo scopo. Se fosse falso, perché MFA lo inserisce nella ricostruzione, rischiando di screditare l’intero suo racconto? A nostro avviso si tratta di un episodio che non può essere accaduto.
3) La lettera di Alessia Rosati. Già citata anche questa: nel racconto di MFA su quanto accadde ad Alessia Rosati sostiene che a scrivere all’amica sarebbero stati i rapitori: «ho sempre pensato che i responsabili di tale scomparsa abbiano scelto come destinataria della lettera proprio tale amica, per farci comprendere che sapevano di quel nostro primo incontro». Eppure in un secondo articolo sostiene di aver invitato lui la Rosati ad inviare la lettera: «Insieme ad Alessia ed altri, concordammo il suo andarsene di casa, spiegato da una lettera fatta pervenire alla stessa amica che fu presente nel momento in cui non fece ritorno presso la sua famiglia». Due versioni incompatibili.
4) Regista e sceneggiatore. Le competenze artistiche di Fassoni Accetti, regista e sceneggiatore, oltre ad essere un argomento a favore, possono diventare anche un punto a suo sfavore in quanto, effettivamente, potrebbe averle sfruttate per “inventare” un racconto abbastanza solido attingendo notizie da articoli, pubblicazioni e atti processuali aggregandovi fantasia, variazioni personali e dati inediti, appositamente inverificabili, proprio per non sembrare semplicemente un forte appassionato del caso. Da un canovaccio (articoli e atti processuali) ad un copione. Certo, l’obiezione non riesce a spiegare l’enorme mole di coincidenze (punto 2 degli argomenti a favore), collegamenti e dati, a volte inediti, portati alla luce da MFA, tuttavia ciò viene ridimensionato se si tiene conto che l’uomo dal 2008 al 2010 ha frequentato assiduamente, due o tre volte la settimana, la postazione internet della biblioteca di Villa Leopardi, a pochi metri da casa sua, in compagnia della sua collaboratrice, Dany Astro. MFA ha comunque risposto: «è un falso che io potessi frequentare quel luogo tanto assiduamente, e se mai esiste un qualunque testimone che possa smentirmi, si presenti in procura come già detto, e lo dichiari. Dimostrerò con le mie testimonianze che frequentavo quel luogo sporadicamente, e non certo tutti i mesi . Consultavo, come ho sempre fatto, vari testi storici di cui avvalermi per le ricostruzioni altrettanto storiche dei miei lavori foto-cinematografici». Per quanto riguarda l’uso dei computer, «fui io a dichiarare innanzi a molteplici persone e rivolgendomi proprio al suddetto responsabile della struttura, che ero solito usare anche la postazione internet, allo scopo di avere alcuni contatti con persone, la cui traccia non desideravo restasse presso il mio personale computer».
5) Parola d’onore. MFA non ha mai voluto rivelare i nomi dei suoi complici e delle persone che hanno preso parte della vicenda (in particolare coetanee di Emanuela usate per conquistrarne la fiducia e prelati qualificabili come officiali maggiori di seconda classe), limitandosi a fare loro un appello perché si presentino spontaneamente (l’appello, ha anche detto, «è rivolto ai pochi ecclesiastici ancora vivi. Se anche loro, che quanto e più di me contribuirono al manifestarsi dei fatti, renderanno testimonianza e chiariranno tutte le circostanze, questa storia sarà svelata. Altrimenti la verità morrà con me», Il Ganglio, Fandango Libri 2014). Ha giustificato questo comportamento così: «Esistono pochi valori sacri nella vita, e la parola è tra questi. Quando uno l’ha data, anche in tempi remoti, deve mantenerla» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014), sostenendo che «non sono quel tipo di persona che tradisce la parola data». E Pietro Orlandi giustamente replica: «Però sei quel tipo di persona che organizza un rapimento…». Risposta di MFA: «Era per ottenere determinati risultati in un certo ambito politico che concerne la Città del Vaticano e i suoi rapporti con altri Stati». Non tradire la parola data: certamente grande senso etico, un po’ in ritardo però poiché rivelare nomi e dati concreti significherebbe risarcire -seppur parzialmente- la vita di due ragazze scomparse a causa sua (secondo il suo racconto). Ha tradito due vite di innocenti e ora si fa scrupoli a tradire la parola data ai suoi complici (malfattori, oltretutto, poiché complici di un crimine)? Voleva tenerle lontane solo qualche ora? Eppure il gioco diventò un incubo e queste ragazze hanno perso la loro vita, anche per colpa dei suoi piani. Non ha dunque alcun valore mantenere la parola data se questo significa mantenere due famiglie (Orlandi e Gregori) schiacciate sotto il macigno della frustrazione per il totale buio sulla sorte delle due ragazze, accrescendo inoltre la loro sofferenza trentennale davanti a un uomo che dice di sapere e non vuole parlare per “rispettare la parola data”. Possibile che la parola d’onore “tra gentiluomini” valga più della possibile fine della straziante situazione di tutte queste persone (compresa la madre di Emanuela)?
8) Prove materiali e fotografiche. MFA potrebbe produrre almeno una delle fotografie che disse di aver scattato durante l’incontro davanti al Senato tra Emanuela e De Pedis, o tra Emanuela e l’estremista turco, una fotografia di Emanuela durante la detenzione sul caravan, oppure le foto che scattò a Mirella sempre il giorno della sparizione, l’audio della citofonata di Sonia De Vito o le fotografie di Emanuela che entra a Porta Sant’Anna ecc. Queste sarebbero prove determinati che non chiamerebbero in causa nessun complice (a parte la citofonata della De Vito) a cui avrebbe dato la parola d’onore. Ha fatto ritrovare quello che dice essere il flauto di Emanuela (sul quale però è stato impossibile risalire alle tracce di Dna), potrebbe sapere allora dove sono i vestiti di Mirella Gregori, che li cambiò nel bagnò dei De Vito il giorno della sparizione. Lui ha risposto: «Tenere foto o altro sarebbe stato folle, era materiale compromettente, alla prima perquisizione lo avrebbero trovato. Mi sono liberato di tutto, eccetto il flauto, che ho conservato per usarlo nei miei allestimenti e nascosi in un trovarobe dell’ex stabilimento De Laurentis, in quanto se fosse stato trovato sarebbe stato scambiato per un oggetto di scena» (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
9) Sensazione del collage. Leggendo le dichiarazioni di MFA non si può negare a volte di avere la sensazione di un suo collage, ovvero che abbia unito i fili di tutte le ipotesi e le notizie che sono emerse in questi anni, seppur aggiungendo piccoli dettagli: la pista internazionale, la Banda della Magliana, la testimonianza del card. Oddi, la Bmw verde metallizzato riferita dal vigile Sambuco, il tascapane (azzurro, però) mostrato a Emanuela, i sospetti su Raoul Bonarelli, la Mercedes targata Città del Vaticano di cui ha parlato la Minardi e il suo racconto sull’uccisione di un bambino nomade nella pineta ecc. Certo, la portata della sua ricostruzione va ben oltre, tuttavia questa sensazione non riesce a sparire completamente.
10) Opinione dei familiari. Secondo la deposizione del padre, Aldo Accetti, e della sorella, Laura Accetti, MFA sarebbe stato particolarmente colpito dalla sparizione della Orlandi, tanto da essere stato visto scrivere lettere anonime, effettuare telefonate e ritagliare articoli di giornale in merito, giustificandosi dicendo di farlo solo per gioco. I familiari parlano di “ossessione”. La sorella, Laura Accetti, ha anche ricordato che mentre lui era agli arresti domiciliari, vide un flauto azzurro di plastica e un orologetto che lui disse averli ricevuti dalla Orlandi. Leggendo queste dichiarazioni, MFA ha scritto: «ciò mi ha permesso di ricordare che nella borsa dell’Emanuela vi era presente un flauto dolce, di color azzurrino o bianco. E quanto dichiaro è verificabile, interrogando la famiglia e i docenti e compagni della scuola di musica della ragazza. Questa del flauto dolce è un’ informazione mai emersa, minore. Che probabilmente familiari e compagni non rammentavano. Giornalisti ed inquirenti li contattino ed appurino».
La sorella, Laura Accetti, ha ricordato che nel 2012 durante una cena le disse di voler presentarsi davanti ad un giudice per raccontare la storia ed evitare di essere arrestato, dichiarando di non avergli mai creduto in quanto giudicava tali racconti bugie e invenzioni. Intercettata al telefono con un’amica, afferma: «stiamo parlando di una persona gravemente disturbata. E’ un circo, non è possibile che non si siano resi conto che dice cavolate». La madre, Silvana Fassoni, separata dal marito e lontana da casa dal 1 maggio 1983, ha raccontato di non sapere nulla della vicenda Orlandi e poco della vicenda Garramon, ha riferito che da piccolo è stato quasi violentato da un estraneo e suoi compagni di scuola avrebbero ricevuto attenzioni omosessuali (la ex moglie di Accetti confermerà gli abusi subiti). Anche lei ritiene tutta la vicenda frutto della fantasia del figlio. Il padre, intercettato al telefono con un amico, afferma: «Purtroppo Marco queste uscite, queste sparate, ce le ha da quando è venuto fuori il caso Orlandi, la vicenda lo ha colpito, scrive lettere anonime che lui sa tutto. Non tengono conto che queste sono farneticazioni, su questa vicenda sono vent’anni che va avanti, che scrive lettere. Quel flauto è un pezzo di ferro che avrà trovato, lo ha fatto trovare in quel capannone di Cinecittà in cui va sempre a recuperare la roba».
11) Conclusioni della Procura. Seppur non condividendo la decisione di archiviare il caso, non possono essere non considerate le conclusioni dei magistrati che hanno negato l’attendibilità al racconto di MFA, il quale sarebbe frutto del meticoloso e ossessivo studio del caso in questi anni da parte di una persona rimasta turbata dalla vicenda -come ricordano i famigliari- e bisognosa di visibilità mediatica. Forse l’argomentazione più convincente dei magistrati è che MFA ha esaminato in modo accurato gli atti processuali del vecchio processo «e ciò trova riceve conferma dalla circostanza secondo la quale costui è stato in grado di fornire indicazioni precise sul contenuto di gran parte delle telefonate effettuate con l’indicazione addirittura delle cabine dalle quali sono state fatte, indicazioni presenti negli atti dell’istruttoria formale e quindi a conoscenza delle parti fin dal 1997, mentre ha dimostrato di conoscere poco e ha fornito indicazioni assai meno precise su particolari che non sono stati oggetto di pubblicazioni». Un esempio è il contenuto della telefonata di “Mario”, della quale negli anni sono stati riportati soltanto piccoli brani e non è stata oggetto di stampa nemmeno processuale, infatti di tale telefonata MFA «non conosce né durata, né contenuto, salvo poi darne un’interpretazione in chiave di “codici” presenti all’interno della stessa e dichiarare di essere stato presente quando venne effettuata escludendo che si sia trattato di una telefonata unica». Tuttavia MFA ha rivelato un dettaglio mai emerso sulla stampa contenuto in una (o più) telefonata tra lui (l’Amerikano) e l’avv. Egidio rispetto ad un film che voleva ispirarsi a Emanuela Orlandi nell’autunno 1983, dal titolo provvisorio “Liberatela”, con l’attrice Ombretta Piccioli. «Faccio presente», ha scritto, «che le telefonate erano tutte registrate dagli inquirenti, e alla chiusura dell’istruttoria saranno rese pubbliche con la possibilità di verificare». Non sappiamo però se il dettaglio compaia nella prima istruttoria del 1997, certamente non compare in quella del 2013. E’ importante chiarire questo aspetto.
Ha oltretutto chiesto di riaprire il caso Garramon con il rischio di essere accusato anche di omicidio volontario (e non solo colposo, per il quale è stato in carcere) è anch’essa una tesi molto ardita. Liquidarlo come un maniaco ossessionato da questo caso -perchè solo questo potrebbe essere se dicesse il falso- è una spiegazione che contrasta, inoltre, con le conclusioni dell’analisi psichiatrica a cui si sottopose nel 1983 per volere della Corte d’Assise e con la sua credibile (non squilibrata, come ci si attenderebbbe) presenza scenica sui media, dal fatto che nessun diretto interessato lo ha ancora smentito e da troppe circostanze fortuite (vedi punto 2). Ricordiamo comunque che la Procura sembra contraddirsi: se in un primo momento sostiene che «è vero che la profonda conoscenza dei fatti dimostrata sembra andare oltre quella che può avere un semplice appassionato del caso», la conclusione è che si tratta del «frutto di un lavoro di sceneggiatura scaturito dallo studio attento di atti e informazioni scaturite negli anni da parte di un soggetto con spiccate smanie di protagonismo». Inoltre, l’accusa di aver realizzato negli anni questa ricostruzione studiando libri, articoli e carte processuali, si scontra con le testimonianze dei familiari che fin dal 1983 sostengono che MFA si occupava del caso Orlandi, seppur credendo che sia frutto di una sua ossessione e non un reale coinvolgimento. La sorella Laura Accetti ha rivelato anche che nel 1983 si era vantato di sapere tutto sul caso Orlandi e Gregori e di una loro fuga all’estero. La sorte delle ragazze non è dunque frutto di uno studio meticoloso di MFA, tanto che lui la sosteneva già nel 1983. Inoltre, un’intercettazione del padre Aldo rivela che MFA ha fatto loro dichiarazioni assurde soltanto sul caso Orlandi e non su altri casi di cronaca o fatti slegati da questo: «purtroppo Marco queste uscite sue, sparate, ce le ha da quando è venuto fuori il caso Orlandi…la vicenda dell’Orlandi, lui l’ha colpito questa faccenda, sono vent’anni che va avanti…».
Occorre ricordare che nell’autunno del 2013, accompagnato dal giornalista Fabrizio Peronaci, MFA ha mostrato il punto esatto in cui era nascosto mentre la De Vito citofonava a Mirella: «il citofono dei Gregori è a pochi passi, eravamo così vicino altrimenti l’audio del filmato sarebbe stato pessimo». Indica in alto, verso due finestre, e aggiunge «Bonarelli abitava lì, in quella traversa, via Alessandria…», e girandosi spiega «ecco, dal bar della De Vito si poteva controllare il portone». Tutti dettagli corretti, corrispondenti. Infine, fin dal 22 ottobre 2013, ben prima della conclusioni delle indagini, MFA si lamentò per quel che riteneva indagini svolte male, superficialmente: «Il dottor Capaldo e la dottoressa Maisto, persone squisitissime, credo però stiano subendo una pressione, nel senso di dover puntare esclusivamente sulla mia persona. Lo comprendo dalle domande, dai confronti a cui non mi sottopongono, dalle perizie grafiche sulle lettere, che non dispongono. Mettiamola così. Come diceva Tommaso Buscetta: signor giudice, lei non mi fa la domanda giusta. Scusate, eh… Non mi si indirizzano le domande, non si aprono determinati ambienti! L’ho detto, è tutto nelle carte. Non potete pensare che io abbia creato un’opera d’arte, che abbia inventato il fatto della Orlandi perché non mi accontentavo più dello schermo cinematografico. Sarebbe bellissimo, ma non corrisponde al vero». Nel suo libro Fabrizio Peronaci, scritto prima della sentenza di archiviazione, notò un cambiamento in Procura: «In coincidenza della pausa estiva doveva essere accaduto qualcosa. L’orologio della giustizia, alla ripresa autunnale, iniziò a perdere colpi. Le perizie (vocale, grafica, dattiloscopica, del dna) si incepparono. Audizioni testimoniali e confronti furono rinviati sine die. Le richieste di rogatoria per ascoltare i prelati chiamati in causa non partivano. Marco Fassoni Accetti, l’Uomo del flauto in attesa di un equo processo, assisteva perplesso. A inquietarlo era l’inerzia delle autorità inquirenti». Lo stesso Accetti, sempre prima della conclusione delle indagini, affermò: «Cosa pretendono i signori della Procura? Che io, da solo, dopo trent’anni, penetri ambienti diplomatico-ecclesiastici, senza neanche un atteggiamento prudenziale? Vogliono i nomi? E se poi quelli chiamati in causa dicono che non è vero? Chi verrebbe creduto? Il sottoscritto o, poniamo, un uomo di Chiesa? Il discorso va capovolto. Ho fornito decine, anzi, centinaia di indizi e riscontri, mai verbalizzati in precedenti inchieste, che conducono senza ombra di dubbio alla storicità degli eventi. La zona su cui lavorare è chiarissima, e ciò la Procura lo sa bene. Il contesto dei fatti, le dinamiche di conflitto, i gesti politici in una realtà come quella ecclesiale che non ammette la protesta, le concatenazioni, gli interessi contrapposti sono tutti nelle carte. Volendo, gli elementi per scrivere una parola definitiva non mancano. Ma la forza deviante sugli inquirenti, evidentemente, è ancora alta. Ritengo l’istruttoria gravemente carente, non si è indagato in molteplici direzioni, non sono stati ammessi confronti né si sono cercati possibili testimoni, non si è disposta una perizia sulle lettere, pur avendo persone sospette. Si cercherà di ricondurre le responsabilità a un numero esiguo di persone, se non a me soltanto (Il Ganglio, Fandango Libri 2014).
Conclusioni. Dopo questa approfondita analisi delle rivelazioni di MFA riteniamo errata la volontà della Procura ad archiviare il caso, decisione a cui si è opposto il dott. Capaldo, ovvero colui che ha seguito le indagini e ha interrogato MFA, almeno prima di essere estromesso (nel 2015). L’uomo ha fornito una complessa e intricata ricostruzione dei fatti, offrendo collegamenti inediti (ad esempio Paola Diener, non è scritto in nessun atto giudiziario, in nessun libro e in nessun articolo che il comunicato del 28/10/83 in cui si parlava di una “cittadina soppressa il 5-10-83” si riferiva proprio a lei, lo ha fatto solo MFA) e presentando, secondo noi, la descrizione più verosimile mai emersa finora sulla sparizione delle due ragazze. Liquidarlo come persona ossessionata dal caso Orlandi che ha prodotto questo racconto studiando per anni libri, articoli e carte processuali si scontra con il suo completo silenzio in questi 30 anni. E’ anche vero che non ha voluto di proposito presentare indubitabili prove e conferme del suo racconto, tuttavia la sua biografia -come abbiamo rilevato sopra- presenta troppe coincidenze con la vicenda che lo aiutano a smarcarsi dall’accusa che gli viene rivolta. Non bisogna, tuttavia, nemmeno liquidare in fretta la mole di obiezioni che gli abbiamo rivolto in questo dossier (i “punti deboli”) che ridimensionano il suo ruolo e la sua veridicità, incomprensibile appare la sua volontà a non tradire la parola data quando invece potrebbe risarcire, seppur in minima parte, la vita rubata a due ragazze e l’affetto delle loro famiglie, citando i nomi dei suoi complici. Basterebbe in ogni caso produrre prove fotografiche e materiali che corroborino il suo racconto, evitando di chiamare in correità le persone delle quali non vuole fare nomi.
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7. L’IPOTESI DELLA REGIA UNICA
Ci sono pochi argomenti a sostegno e contro la tesi della regia unica, ovvero l’ipotesi secondo cui dietro a tutto -anche a Marco Fassoni Accetti- vi sia una regia occulta che detta i tempi, che porta inizialmente gli inquirenti e i media verso la pista del terrorismo manovrando e ricattando Alì Agca, il quale collabora e poi improvvisamente farnetica per rendersi inattendibile. Stratifica il depistaggio con sigle e comunicati, con incidenti e morti misteriose. Quando il processo del caso Orlandi-Gregori va verso l’archiviazione (1997), ecco che nel 1995 tenta -seppur senza successo- di aprire il filone della Banda della Magliana con un’informativa sulla tomba di De Pedis nella Basilica di Sant’Apollinare. Nel 1998 avviene la morte misteriosa della guardia svizzera Alois Estermann in Vaticano, nell’aprile 2005 riesce a gettare l’attenzione sul coinvolgimento di De Pedis tramite la sua tomba nella Basilica a fianco della scuola di musica di Emanuela. Nel marzo 2008 fa comparire Sabrina Minardi, “supertestimone” che si autoaccusa di complicità nella sparizione della Orlandi, mischiando secondo il grande copione, racconti verosimili ad altri platealmente sbagliati, rendendosi inattendibile e inaccusabile proprio come fece Agca, ma, tuttavia, portando il caso nuovamente sulle prime pagine dei giornali.
L’attenzione si esaurisce verso la fine del 2012, spegnendosi dopo l’infruttuosa perquisizione della tomba di De Pedis e della Basilica di Sant’Apollinare. Ed ecco all’inizio del 2013 la comparsa di Marco Fassoni Accetti, che riaccende di nuovo i riflettori sul caso con un racconto verosimile e inverosimile, che impedisce di verificare le dichiarazioni fatte portando quindi all’archiviazione del caso nel 2015, dopo due anni di spasmodica attenzione mediatica al caso Orlandi. Anche lui sarebbe una pedina di questa regia occulta (come la Minardi, come Luigi Gastrini e i tanti che in questi anni si sono accusati o hanno accusato qualcuno), che da 30 anni tiene aperto questo caso e tuttavia ne impedisce la soluzione, come se avesse l’interesse ad utilizzarlo come un mezzo di pressione e ricatto. E’ lo stesso MFA infatti a citare l’esistenza di suoi responsabili o superiori a cui obbediva durante i depistaggi post-sparizione: «I vertici, a noi elementi operativi, chiesero quindi di interrompere le pressioni in corso nella pineta…».
Certamente il comportamento di Agca va in questa direzione: perché l’attentatore turco continua a farsi passare come pazzo a distanza di anni dalla fine del processo, anche dopo la sua scarcerazione, anche oggi che non ha più interessi personali da ottenere. Continua ad obbedisce ad una regia nascosta? Se si pensa inoltre alle lettere arrivate a Raffaella Monzi e Maria Antonietta Gregori il 25 marzo 2013, potrebbe essere un messaggio in codice proprio a Marco Fassoni Accetti, invitandolo a presentarsi con il flauto: lo si deduce dal riferimento nella lettera agli spartiti del musicista Hugues, che vennero trovati il 4/09/83 grazie ad una telefonata dell”Amerikano”, il quale li fece trovare in una busta in via Porta Angelica. Su una pagina c’è il riferimento alla basilica di Santa Francesca Romana, dove «il pontefice celebra la Via crucis». Fassoni Accetti racconterà alla Procura che il flauto allora venne nascosto in quella basilica, ma non fu trovato dagli agenti di polizia che vi andarono. Sempre che il racconto corrisponda alla verità, potrebbe essere che l’autore della lettera del 25 marzo 2013 citi gli spartiti di Hugues per alludere al messaggio dell'”Amerikano” del settembre 1983 attraverso il quale si voleva portare alla luce il flauto di Emanuela, indicando a Fassoni Accetti -autore di questo messaggio- il momento adatto per comparire con il flauto? Potrebbe essere che lui abbia obbedito, facendolo trovare sotto una formella della Via crucis -parola citata nel messaggio dell’Amerikano del 04/09/83- utilizzando a sua volta questo particolare come un possibile codice di risposta? Potrebbe essere il teschio di tal “Emanuela De Bernardi”, che compare nel negativo della lettera arrivata il 25/03/13, una forma di minaccia a Emanuela Cecconi, ex moglie di Fassoni Accetti, perché non riferisca notizie che lo coinvolgano con certezza nel caso?
L’uomo che in questi tredici anni ha seguito passo dopo passo le indagini sul caso è Nicola Cavaliere, che all’epoca dei fatti lavorava alla squadra mobile di Roma. Il dirigente di polizia ritiene che questa enorme incertezza sul “caso Orlandi” sia voluta: «Gli organizzatori hanno probabilmente ancora oggi interesse a tirare fuori la vicenda in determinati momenti per tenere sulle corde certi ambienti. Si vuole che qualcuno resti sempre allertato sul caso, nonostante sia passato così tanto tempo». Nell’agosto 2008 Cavaliere dirà che tutti i messaggi e le rivendicazioni accumulatesi nel corso degli anni «ebbi il sospetto che in prevalenza provenissero da uno stesso ambiente, la cui attività sembrava tesa sopratutto ad intralciare il nostro lavoro. Chi non conosce quegli anni, quelle realtà, difficilmente può capire cosa si muovesse dietro le quinte di questa vicenda, quali e quanti fossero gli intrecci e le compromissioni» (“Storie di alti prelati e gangster romani”, pag. 24)
Ovviamente è una ipotesi assolutamente teorica e inverosimile che tuttavia potrebbe essere avanzata da coloro che sono convinti dell’esistenza di una regia occulta interessata a tenere sotto i riflettori il caso Orlandi-Gregori senza però giungere alla sua soluzione, muovendo i fili attraverso messaggi in codice e apparizioni di personaggi-pedine che si autoaccusano (probabilmente anche loro sotto ricatto o minacce) e che rivelano racconti mischiando parti di verità -utili a rendere il racconto verosimile, minimamente corroborato da piccole prove, ed eventualmente utilizzabile per mandare messaggi e codici a terzi- a elementi che rendano la persona inattendibile, anche a causa dell’impossibilità a dimostrare fino in fondo quanto raccontano. Noi non riteniamo che sia così, tuttavia finché non ci sarà la parola “fine” è bene non perdere di vista nemmeno questa ipotesi, seppur remota e complottista.
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8. CONCLUSIONI
E’ difficile tirare conclusioni di fronte allo scenario descritto in questo dossier. Il maggior problema che è emerso è che tutte le ipotesi principali, come si è visto, hanno abbastanza luce da non poter essere messe da parte e abbastanza buio da non poter essere avvalorate con certezza. Parliamo della (1) ipotesi dell’allontamento volontario seguito da una probabile morte delle ragazze, probabilmente legata al successivo inserimento di elementi esterni, autori del depistaggio, intenzionati a sfruttare il caso e intenzionati affinché a Emanuela e Mirella accadesse davvero qualcosa perché rimanessero lontane da casa. Non può essere esclusa l’ipotesi (2) della Banda della Magliana, interessata a ricattare il Vaticano per recuperare il denaro investito nel Banco Ambrosiano (che escluderebbe però Mirella Gregori), più interessante (3) l’ipotesi della “pista internazionale”, legata alla ostpolitik vaticana e all’intervento dei servizi segreti dell’Est affinché Agca ritrattasse le accuse di complicità dell’attentato verso i bulgari./p>
Abbiamo dato ampio spazio sopratutto (4) alla tesi di Marco Fassoni Accetti che ha in qualche modo riunito tutte e tre le precedenti tesi: allontanamento volontario, seppur sotto inganno, delle ragazze -la cui sorte è sconosciuta anche a lui stesso-, con la complicità degli uomini di De Pedis a causa di interessi comuni (lo Ior), il cui obiettivo principale era la ritrattazione di Agca e la politica estera del Vaticano verso i Paesi comunisti. Quest’ultima, come si è capito leggendo il dossier, per tutti i motivi che abbiamo presentato la riteniamo l’ipotesi più verosimile in quanto il racconto organico dell’uomo riesce effettivamente a resistere ai “punti deboli” che, comunque, non mancano nemmeno alla sua ricostruzione. Per ultimo non ci sentiamo nemmeno di escludere (5) l’ipotesi della “regia unica”, sopratutto osservando la puntualità della comparsa di tesi e supertestimoni proprio nel momento in cui il caso Orlandi perdeva di attenzione mediatica.
Questo dossier rimarrà in continuo aggiornamento e seguirà l’evolversi della vicenda e la comparsa di nuove rivelazioni o precisazioni su quanto sopra esposto. Nell’augurio comune che si raggiunga una definitiva verità, qualunque verità sia, su questo caso che da trent’anni addolora i familiari di Emanuela e Mirella e sconcerta chiunque provi ad approfondirlo.