La contraddizione di chi nega una morale naturale universale

Relativismo 
di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista

 
 

Cos’è il bene e il male, chiedono i relativisti? In ogni tempo, ci dicono, l’uomo ha ucciso rubato, ferito, schiavizzato, ucciso i suoi figli con l’infanticidio, praticato la poligamia… Come si può allora dire che esiste una morale naturale universale?.

Per i pagani la schiavitù era naturale, per i cristiani no; per tutto il mondo antico, come ben evidenzia Peter Singer, l’infanticidio era lecito: perché, continua sempre Singer, dovrebbero avere ragione coloro che condannano tale pratica e non coloro che la hanno sempre praticata? Per i nazisti, scriveva a suo tempo un avversario del diritto naturale come Gustavo Zagrebelsky (Repubblica, 4/4/2007), l’eliminazione dei deboli, tramite l’eugenetica e l’eutanasia, è la massima fedeltà alla natura, alla legge della “selezione naturale”, mentre per molti pensatori dell’ottocento la carità verso i deboli e i poveri è una manomissione della natura stessa. Per questo, concludeva Zagrebelsky, fondare la morale sul diritto naturale come fa la Chiesa, è assolutamente impossibile, e stabilire cosa sia per natura e cosa sia contro, risulta addirittura operazione da fanatici, da estremisti.

In verità Zagrabelsky non concepisce neppure l’idea che il nazismo, l’eugenismo, così come il comunismo, tre ideologie sedicenti “scientifiche”, ma in verità scientiste e riduzioniste, hanno fallito non perché hanno proposto una legge naturale, ma perché in partenza hanno mal definito la natura umana. Il nazismo fu un sistema perfettamente coerente: data una definizione, riduttiva, di natura umana, corrispondete in verità a quella animale, ne derivò una legislazione conseguente. Ogni ortodossia, infatti, genera una ortoprassi, e ogni eterodossia applicazioni pratiche errate. Ad esempio un medico che definisca erroneamente una malattia, attuerà una terapia sbagliata, nociva: ma la colpa non sta affatto nella convinzione che possa esistere una terapia giusta, bensì nella precedente concezione errata della malattia!

Noi, prosegue Zagrebelsky, condanniamo il nazismo in nome “della cultura, della civiltà, dell’umanità o della religione; tutte cose che non hanno a che vedere con la natura…appartengono al campo della libertà, non a quello della necessità”! Ma come? Non fanno parte la cultura e la religione, della natura umana, della sua natura anche spirituale? E la libertà, non è forse un attributo che distingue l’uomo, la sua natura, dalle altre bestie e dai sassi, dalla loro natura? Come si è visto, la definizione di Zagrebelsky di natura umana, come se essa fosse in contrasto con la cultura e il senso religioso, non sta i piedi. Anche perché, se veramente condanniamo il nazismo per tali motivi, e non perché violano una legge oggettiva universale, allora come facciamo a dire che la nostra cultura che condanna è superiore alla cultura tedesca degli anni trenta? In nome di quale religione deploriamo il nazismo, essendo le religioni così diverse, ed esistendo ad esempio, religioni che permettono la schiavitù, ed altre, come l’induismo, che dividono l’umanità in caste analogamente al nazismo? In nome di quale umanità, se come diceva precedentemente Zagrebelsky per l’uomo Aristotele la schiavitù era un istituto naturale?

E’ allora giocoforza riconoscere che la legge morale universale non è tale perché sia “universalmente riconosciuta”, ma perché, non abitando noi nel Regno della Perfezione, è potenzialmente, universalmente riconoscibile, e perché è l’unico criterio oggettivo che ci permetta di dire che il bene e il male differiscono, oggettivamente, sempre, in ogni tempo ed in ogni luogo, indipendentemente dal potere di turno o dagli errori umani! Un atto è buono quando è confacente alla natura razionale dell’uomo. Quindi è bene ciò che è razionale. Questa qualificazione svincola la scelta della condotta da assumere dall’arbitrio personale e dal soggettivismo, perché aggancia l’atto ad un criterio oggettivo, appunto perché razionale. Del resto, storicamente, è dalla definizione non puramente biologica, e cioè deficitaria, di natura umana, che è nato il concetto di diritti umani, distinti e differenti da quelli animali, che ha portato all’abolizione della schiavitù, dell’infanticidio, dei sacrifici umani…! Se la nostra civiltà avesse ragionato come fanno oggi i sociobiologi e gli psicologi evoluzionisti, le conseguenze sarebbero molteplici: eguaglianza tra diritti umani e diritti animali, il che significa che il concetto di diritti umani non sarebbe mai nato; equivalenza tra i vari comportamenti umani, dal momento che se tutto è determinato e genetico, e se non esiste la libertà, non vi può essere azione morale o immorale, colpa o merito, premio o castigo, e, coerentemente, occorrerebbe eliminare ogni tribunale ed ogni galera.

Se invece si fosse ragionato come Zagrebelsky, il quale in fondo compie la stessa operazione, perché non riconosce all’uomo una sua natura originale, non esisterebbe alcun criterio oggettivo in base a cui giudicare dell’operato di un uomo: chi lo ha detto che la schiavitù non è cosa buona e giusta? Chi lo ha detto che uccidere, magari dietro un impulso ormonale assai perentorio è un delitto punibile dalla legge? Chi lo ha detto che, avendo clonato Dolly, non sia lecito clonare anche gli uomini? Spetta a Zagrebelsky, nel momento in cui nega il diritto naturale, fondare su qualcosa il bene e il male, la convivenza umana, e non può farlo invocando le convenzioni, a meno che non voglia ammettere che le convenzioni italiane e quelle cinesi di oggi, quelle naziste e quelle comuniste di ieri, sono egualmente valide solo perché riconosciute dal potere o da una maggioranza. Vale sempre il detto antico: veritas, non auctoritas facit legem. E la verità delle cose è la loro vera natura.

Per chi crede all’uomo per natura corporale e spirituale e incompiuto, la soluzione è inevitabile: la sacralità dell’uomo si basa sulla sua specifica dignità; la sua erranza, il fatto che sempre si sia ucciso e rubato, non dice dell’equivalenza tra opposte scelte morali, ma della sua libertà e limitatezza, oltre che della natura umana decaduta. Nessun animale infatti, sbaglia, perché nessun animale sceglie; nessun animale sbaglia, perché nessun animale è giudicabile in base ad una verità superiore! Ne deriva che se anche la morale naturale universale non è sempre facile da scoprire, ciononostante essa c’è, e la dimostrazione è che ogni uomo la ricerca e, nel profondo, la sente. A chi nega la morale naturale, cioè che corrisponde alla natura dell’uomo, non rimane che negare, coerentemente, ogni concetto di bene e di male, oppure fondarlo sulla scelta soggettiva. Ma la semplice esistenza del rimorso, dicevano Chesterton o Dostoevsky, dopo un omicidio significa che nessun uomo ritiene veramente che ciò che ha fatto sia giusto, corrisponda alla sua natura. Tanto è vero che persino Lenin, il creatore dei gulag, e Hitler, dovendo giustificare lo sterminio dei loro nemici dinanzi ai loro popoli, li definirono “insetti nocivi” da schiacciare, il primo, “sottouomini”, il secondo.

Un’ ultima considerazione: l’unità tra anima e corpo non toglie l’esistenza di un’ organizzazione gerarchica, di un ordine, che non significa affatto separazione o distinzione, tra anima e corpo. Quando questa gerarchia naturale viene rovesciata, quando l’uomo obbedisce prima agli istinti, al corpo, che alla ragione, va contro la sua natura umana, che è corporale e spirituale ad un tempo, ma con una superiorità naturale, nel senso di umana, dello spirito sul corpo. “Lotta dura contro natura”, scrivevano su muri, non per nulla, i sessantottini e gli hippies, mentre si davano all’amore orgiastico, all’autodistruzione morale e all’uso di droghe: avevano ben chiaro, allora, di essere consapevolmente nemici di un ordine naturale cui appartenevano e cui si erano ribellati.

Da: Scritti di un pro life (Fede & Cultura 2009)

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132 commenti a La contraddizione di chi nega una morale naturale universale

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  1. Lucio ha detto

    Infatti gli scienziati evoluzionisti dovrebbero avere il coraggio di essere coerenti fino in fondo con cio’ che sostengono, giungendo a dire che viviamo in un mondo che non ha senso e non ha scopo in senso radicale. La loro visione del mondo conduce inevitabilmente al nichilismo, ad un mondo dove tutto quello che di piu’ nobile esiste nell’ uomo (la capacita’ di interrogarsi sul senso della vita, l’arte, la capacita’ di donarsi) si riduce ad un prodotto accidentale dell’ evoluzione, privo di un signicato autentico. A negare insomma cio’ che dentro di noi percepiamo invece come profondamente autentico. Assistiamo in ultima analisi ad un clamoroso autogol della ragione che, in nome di una presunta razionalita’, giunge a negare il concetto di verita’…..

    • Paolo Viti ha detto in risposta a Lucio

      Chi ragiona così non è per forza uno scienziato evoluzionista, chiunque dovrebbe essere evoluzionista per amore della verità. Il problema sono i neo-darwinisti ideologici e ateisti come Pievani & amici, che sguazzano allegramente nella contraddizione per il problema che tu giustamente tu sottolinei.

      • Lucio ha detto in risposta a Paolo Viti

        Grazie per la tua risposta Paolo. Credo che le tue parole sarebbero condivisibili solo se con i termini “Teoria dell’ evoluzione” intendessimo una teoria scientifica che cerca unicamente (e a mio avviso senza riuscirvi) di spiegare come appaiono nuove specie viventi. Per una larghissima maggioranza di neodarwinisti non e’ invece cosi. Per costoro il darwinismo e’ prima di tutto una visione del mondo che, basandosi su una errata concezione del concetto di caso, si prefigge dimostrare che il concetto di Dio come causa prima della creazione e’ del tutto inutile. Da questa visione del mondo sono nate inoltre delle correnti di pensiero correlate, nel campo sociale e nelle neuroscienze, che ampliano ulteriormente queste pericolose concezioni nichiliste…..
        Sinceramente, su queste questioni, io la penso cosi’.
        Un saluto!

    • anna ha detto in risposta a Lucio

      Sì, “il niente che crea l’universo”, grande realizzazione dell’intelligenza (scherzo) atea non può che condurre alla depressione esistenziale.
      Gli atei militanti sono dei depressi che vorrebbero coinvolgere tutti nella loro situazione.

      • Giuseppe ha detto in risposta a anna

        Che sciocchezza quella di dipingere gli atei come dei depressi. A questo punto perché non affermare che i credenti sono dei vili in cerca di conforto?

  2. Matyt ha detto

    “Per i pagani la schiavitù era naturale, per i cristiani no”

    Così com’è scritta, la frase è falsa.

    Gli stati del sud degli Stati Uniti erano schiavisti, e non mi pare che gli europei che facevano affari d’oro con l’esportazione di schiavi africani in america fossero altro che cristiani.

    Questo, in un certo senso, avvalora una tesi che non so quanto sia condivisa, ma ho sempre ritenuto vera: Esiste si, una legge morale interna (così come affermava Kant), che ad esempio, dovrebbe impedire di uccidere il proprio simile, o di ridurlo in schiavitù.
    Sul motivo per cui esista non ci si può esprimere, essendo il senso morale, sempre riprendendo Kant, una di quelle realtà noumenali.
    Si può dire sia innata perchè se così fosse non esisterebbe una società così come la pensiamo, oppure che sia risultato dell’essere stati creati ad “immagine e somiglianza di Dio”, o perchè abbiamo mangiato il frutto della conoscenza nel giardino dell’Eden… tutte le posizioni sono ugualmente plausibili, in quanto fondamentalmente non falsicabili, nel senso popperiano del termine.
    Per tornare al motivo del contendere… penso che la “relatività” del senso morale stia nell’implementazione dello stesso: Chi è il mio simile?
    Un nazista riteneva un ebreo (o un omosessuale…) sub-umano, un europeo del ‘500 non riconosceva come “uomo” un nero.
    O anche… le donne in Italia non hanno votato fino al 1945… perchè prima si riteneva giusto non votassero? Perchè ora si?

    • Matyt ha detto in risposta a Matyt

      E per continuare…
      Nel caso si trovasse una popolazione aliena dotata di pensiero astratto al nostro livello, sarebbero nostri simili?

    • Piero B. ha detto in risposta a Matyt

      le donne in Italia non hanno votato fino al 1945… perchè prima si riteneva giusto non votassero?

      Perché erano le prime ad esserne indifferenti. Proprio così. Alla maggioranza delle donne non gli importava nulla del voto, e soltanto perché non sapevano che cosa fosse. Non capivano il significato della parola “voto” più di quanto capissero il significato di qualsiasi altra parola astrusa. L’indifferenza delle donne nei confronti delle elezioni era vera indifferenza.

      • Matyt ha detto in risposta a Piero B.

        http://www.pbmstoria.it/dizionari/storia_mod/s/s201.htm

        Si, certo, come no.
        Anna Kuliscioff se ne fregava davvero altamente.

        • Piero B. ha detto in risposta a Matyt

          Come se Anna Kuliscioff fosse la maggioranza.

          • Matyt ha detto in risposta a Piero B.

            Vabbe, lasciamo stare…
            Mia nonna è stata una di quelle che ha votato per la prima volta nel 1946, e posso assicurarti che era tutto fuorchè indifferente…

          • Matyt ha detto in risposta a Piero B.

            Tornando al motivo del contendere… risposte?

            • Paolo Viti ha detto in risposta a Matyt

              L’obiezione è interessante caro Matyt, però cadi in un errore grande come una voragine: inciampi nel non considerare la libertà dell’uomo di andare contro il suo stesso fondamento morale.

              Questo, se ci pensi, è uno degli altri aspetti unici dell’essere umano, la volontà di scegliere il “male”, nonostante la spinta interna verso il “bene”. Se ci pensi è il concetto del messaggio della Genesi e di Adamo ed Eva, che spiega l’uomo in modo perfetto: l’uomo è talmente libero da scegliere il male.

              La tua obiezione non inficia dunque l’esistenza di un fondamento morale identico in ogni uomo, ma sottolinea solo quanto unico sia l’uomo che può andare contro tale fondamento.

            • Paolo Viti ha detto in risposta a Matyt

              Scusa mi sono dimenticato anche di ricordarti che tra la schiavitù pagana e quella colonialista c’era una bella differenza, la prima era appunto di “natura” e la seconda no.

              I pagani, così come i greci e i romani (molto meno) ritenevano certe persone schiave di nascita, cioè ancora prima che nascessero era schiave (perché figli di schiavi ecc…). I colonizzati invece divennero schiavi perché erano popoli conquistati con la guerra.

              Purtroppo i colonizzatori non diedero ascolto alla Chiesa, pensa che nel 1435 (ovvero i primi anni dei movimenti colonizzatori), uscì la bolla “Sicut Dudum” di Eugenio IV, il quale condannò la schiavitù delle popolazioni indigene, mise sotto pena di scomunica gli europei che entro 15 giorni non avrebbero riportato “alla precedente condizione di libertà tutte le persone di entrambi i sessi una volta residenti delle dette Isole Canarie, queste persone dovranno essere considerate totalmente e per sempre libere («ac totaliter liberos perpetuo esse») e dovranno essere lasciate andare senza estorsione o ricezione di denaro”.

      • Titti ha detto in risposta a Piero B.

        Fantastica! Quindi per l’uomo l’andare a votare, era ritenuta cosa buona e giusta, per la donna, dato questa presunta indifferenza, no. Mi sembra una scusa che lascia il tempo che trova, infatti se oggi uno non vuole andare a votare, sempolicemente non si presenta ai seggi. Il voto non è stato subito universale, perchè si credeva che la donna non fosse un essere indipendente, sia fisicamente che intellettualmente, dure furono le lotte delle “suffragette” a favore del voto universale.

        • Piero B. ha detto in risposta a Titti

          Titti stai archiviando troppo bruscamente la discussione in merito al diritto di voto alle donne perché stai ragionando dalla parte opposta! Stai praticamente sostenendo che le donne avrebbero dovuto avere il diritto di voto indipendentemente dal fatto che maggioranza lo volesse o meno. Paradossalmente stai dicendo che le donne possono votare riguardo a tutto, eccetto che riguardo alla scelta di avere diritto al voto! Ti sembra democratico? Ti ricordo che stiamo parlando di un diritto-dovere di cui una volta, se non ricordo male, venivano applicate delle sanzioni in caso di mancata partecipazione.
          Se non ammetti questo, la democrazia è una farsa che non ha ragione d’essere.

          • Titti ha detto in risposta a Piero B.

            E’ talmente vero il tuo discorso che, appena siamo usciti dal fascismo per entrare in democrazia, questo diritto del voto è stato riconosciuto, quindi, risparmiati il tuo ossimoro, e la tua difesa delle povere donne, costrette, “loro malgrado” a partecipare alla vita politica del paese, trà una gravidanza ed una ramazzata alla casa.

            • Piero B. ha detto in risposta a Titti

              Finalmente ci sei arrivato. Un paese appena uscito da un totalitarismo e sconquassato da una guerra combattuta in casa è un panorama completamente diverso dalle battaglie civili di quattro donne divorate dall’esaurimento nervoso. Come se oggi dovessimo dar retta alle Femen, che come allora meritavano nient’altro che un’ombrellata… da parte di una donna.

          • Matyt ha detto in risposta a Piero B.

            In realtà, quando l’autore afferma “veritas, non auctoritas facit” sta dicendo proprio il contrario di quello che stai sostenendo.

            Se teorizzo che i diritti dei pari siano “assoluti”, la concessione del diritto di voto alle donne (evidentemente pari all’uomo, in termini di facoltà intellettuali) va fatta non in base ad una richiesta della maggioranza (l’unica “auctoritas”, in uno stato democratico…), ma, per così dire, di serie… La donna, in quanto soggetto portatore di diritti, deve poter godere del diritto/dovere al voto.

            Se sostieni la posizione che stai sostenendo, hai due problemi “logici” da affrontare:

            1. O i diritti sono effettivamente “assoluti”, ma se è giusto votare a maggioranza il diritto di voto alle donne, queste ultime non fanno parte del genere umano (il che, come vedi, può creare qualche problema)

            2. Oppure, per quanto si possa ravvisare un contenuto “assoluto” (tutti gli “uguali” devono avere gli stessi diritti), la sua implementazione (la definizione di “uguale”) è soggetta all’ambiente circostante, dunque è relativa.

            • Piero B. ha detto in risposta a Matyt

              Per questo mi sono incaponito sul discorso del diritto al voto delle donne, perché il mio è un discorso legato alla società dell’epoca, quando una volta era perfettamente legittimo che una maggioranza potesse avere autorità su “se stessa”, quando in giro c’era più sanità mentale per ogni metro quadro che oggi.
              Oggi invece si fa a gara a costruire Frankenstein in laboratorio, e come si sa, il popolo lasciato a sé stesso vota sempre Barabba.

              • Matyt ha detto in risposta a Piero B.

                No, non ho proprio capito…
                (e non mi hai risposto: se le donne hanno acquisito il voto dopo che hanno preso consapevolezza del loro ruolo, vuol dire che il fatto che fosse “bene” dare il voto alle donne è diventato tale solo a seguito di un avvenimento esterno, ergo, il bene è relativo)

                • Piero B. ha detto in risposta a Matyt

                  Non ti ho risposto perché forse confondi i diritti civili con i diritti naturali.

                  • Matyt ha detto in risposta a Piero B.

                    Ma dal diritto naturale deriva quello civile:
                    Perchè l’uomo ha il diritto di voto? Perchè si ritiene che debba essere dotato del diritto all’autodeterminazione.
                    Ora (tralasciando l’obiezione che teoricamente un cattolico, non prevedendo l’esistenza del diritto all’autodeterminazione, dovrebbe opporsi al voto, affidandosi dunque ad un regime autocratico “illuminato”, come coerentemente afferma sempre a-theòs=a-éthos), per quale motivo, data questa norma del diritto naturale, non si è dato immediatamente il voto alle donne?

                    • Piero B. ha detto in risposta a Matyt

                      Oggi come oggi sarei anch’io d’accordo in linea di principio con a-theòs… perché è un dato di fatto che la maggioranza abbia perso la testa. Una volta si diceva di noi italiani che eravamo troppo intelligenti per essere dei progrediti. Ora un simile complimento non ce lo fanno più: 1) perché non c’è più nessuno che ce lo fa 2)perché non ce lo meritiamo più. Ma questa è un’altra storia…

                    • Piero B. ha detto in risposta a Matyt

                      Allo stato delle cose perfino il principio di autodeterminazione dei popoli è inteso come vincolante solo con riferimento ad avvenimenti successivi alla seconda guerra mondiale. Quindi?

        • a-theòs=a-éthos ha detto in risposta a Titti

          A giudicare dai magnifici frutti che ci ha portato il voto in generale, nemmeno l’uomo è un essere indipendente (dal peccato). Il voto è solo una crocetta su un pezzo di carta, che non corrisponde AD ALCUN REALE CONTROLLO su ciò che altri decidono e fanno al posto nostro.

          • Titti ha detto in risposta a a-theòs=a-éthos

            Sarà un sistema imperfetto, a parte che basterebbe NON rivotare chi ha detto una cosa e ne ha fatto un’altra, ma meglio questo che altro…che sò io, meglio così che una teocrazia.

            • a-theòs=a-éthos ha detto in risposta a Titti

              Questa è la risposta di chi, nolente o volente, continuerà a perpetrare questo infame sistema, che tutto è, tranne una vera democrazia. La vera democrazia infatti ha come limite la legge naturale, quella che viviamo noi è “democrazia assoluta” (perché il voto maggioritario non ha limiti teorici), derivante direttamente dalla rivoluzione francese e convertibile in una perfetta “dittatura della maggioranza”. Fino a che i cattolici non capiranno questo (almeno loro!), continueremo a scivolare verso la realizzazione dell’inferno in terra.

              • Titti ha detto in risposta a a-theòs=a-éthos

                La cosidetta “legge naturale” comporta l’eliminazione dei soggetti più deboli da e a favore di quelli più forti, chiamiamola natura, chiamiamola selezione.

                • a-theòs=a-éthos ha detto in risposta a Titti

                  Ti sbagli completamente. Io mi riferisco alla “legge naturale” intesa in senso filosofico e corrispondente ai principi morali fondamentali, dipendenti dalla natura o essenza umana. Niente a che vedere con boiate come la selezione naturale.

    • gladio ha detto in risposta a Matyt

      I Cristiani, quelli veri intendo, cioè i seguaci di Gesù Cristo hanno sempre conferito pari dignità a tutti gli uomini senza distinzioni di razza. Contro la schiavitù si pronunciò addirittura papa Eugenio IV nel 1435 con la bolla “Sicut dudum”. Successivamente anche Papa Paolo III a fronte dei sopprusi spagnoli sulle popolazioni indigene della Americhe proclamò con la “Sublimis Deus” che “Indios veros homines esse”.I cristiani che dici tu erano quelli fatti della stessa pasta dei razionalisti di oggi.Vai un po’ a leggerti cosa scriveva sui negri quel Voltair che avete eletto a vostro campione nel suo “Trattato di metafisica” del 1734: ce n’è da far venire il votastomaco, altro che oscurantismo della Chiesa!

    • Umpalumpa ha detto in risposta a Matyt

      “Per i pagani la schiavitù era naturale, per i cristiani no”

      A mio parere è giusta questa affermazione. Oltre a linkarti un articolo di questo sito, ti faccio notare di non confondere i governi storici che si sono succeduti in europa e l’indicazione che allora veniva data dalla Chiesa sul tema.
      Sarebbe come se fra mille anni accusassimo la chiesa di essere stata complice degli aborti che venivano fatti in europa nel 2000. E’ chiaro che sebbene i cattolici o i cristiani siano parte attiva della società europea non sempre le indicazioni della Chiesa vengono applicate.

      http://www.uccronline.it/2012/11/26/cristianesimo-chiesa-cattolica-e-la-schiavitu/

    • Luigi Pavone ha detto in risposta a Matyt

      Se le tue osservazioni sono corrette, allora la relatività non è nell’etica ma nel conoscere. Infatti, è una questione del conoscere stabilire se qualcosa è o non è un mio simile. Il naturalismo può pertanto avere conseguenze etiche positive, per esempio nel riconoscimento dei diritti naturali degli animali.

      • Matyt ha detto in risposta a Luigi Pavone

        Vero.
        Ci troviamo però con un’etica naturale assoluta, ma impossibile da applicare in modo assoluto, in quanto la sua applicazione non può prescindere dall’atto del conoscere, che è per la limitatezza dell’esperienza umana, relativo.

        Quindi, quella che può sembrare di primo acchito un’etica assoluta (e effettivamente può esserlo) è relativa nella sua manifestazione terrena, quindi noi, facendo esperienza della manifestazione terrena, facciamo esperienza SOLO di un etica relativa.

        • Fabio Moraldi ha detto in risposta a Matyt

          Dunque se capisco bene il tuo discorso sull'”etica relativa”, la tua etica ha lo stesso valore dell’etica di un pedofilo.

          E con quale autorità potresti dunque dire ad un pedofilo che sta sbagliando? Chi lo decide chi ha ragione, se ognuno ha un’etica personale (e dunque non dissimile da una mera opinione)?

          • Matyt ha detto in risposta a Fabio Moraldi

            Ti rispondo con una domanda.
            Escludendo, per semplificare, i casi di violenza sessuale, e i casi di relazioni omosessuali, ti chiedo:
            Quando una relazione consensuale tra uomo e donna diventa pedofilia?
            Per una differenza di età tra i due soggetti? Quando uno dei due soggetti è al di sotto di una certa età?
            Quale dei due soggetti (ad esempio, è pedofilia se una 25enne ha una relazione carnale con un 14enne?)?

            • Fabio Moraldi ha detto in risposta a Matyt

              Ho capito forse cosa intendi. Sono certamente d’accordo con te che possiamo avere opinioni divergenti sul quando siamo in presenza di pedofilia.

              Ma la questione è un’altra: entrambi siamo convinti che la pedofilia sia un male. Tuttavia, tu ritieni che la tua sia una semplice opinione (etica personale e relativa=opinione) e io invece dico che la mia opinione è una verità eterna e pre-esistente alla legge stessa.

              Ovvero, io sostengo che anche in una società in cui la pedofilia è legale e in presenza di una maggioranza di persone che ha votato a favore, la pedofilia rimane un abominio e un male.

              Perché il male esiste, mentre per te non può esistere qualcosa di male a priori. Per questo la tua opinione ha lo stesso peso di quella di un pedofilo e non puoi assolutamente dirgli che sta sbagliando, perché non dovresti imporre la tua opinione agli altri.

              La domanda che ti faccio è: in una società di pedofili o di soggetti che votano a favore della pedofilia (in cui la Corte Suprema è a favore di essa, e così via), la pedofilia resta un male oppure diventa un bene?

              • Matyt ha detto in risposta a Fabio Moraldi

                No, quello che ti dico io è che, benchè pensiamo entrambi che la pedofilia sia sbagliata (se vogliamo, per “fabbricazione”), siamo in disaccordo sulla definizione di pedofilia.

                Oppure, ad esempio, parlando di diritto alla vita, potremmo essere in disaccordo riguardo a chi lo merita: E’ lecita la pena di morte, quindi privare un essere umano della propria vita per demeriti propri?

                Il fondamento “strutturale” può esistere, l’implementazione è talmente varia che, all’effetto pratico, siamo relativisti.

                • Fabio Moraldi ha detto in risposta a Matyt

                  Ma non è così!! Io continuerò a sostenere che la pedofilia è sempre un male anche se non so bene quando si possa iniziare a parlare di pedofilia: fino a 15 anni è pedofilia, poi non lo so più. Ma il giudizio non cambia affatto e non significa essere relativisti!

                  Non mi hai risposto alla mia domanda, però.

                  • Luigi Pavone ha detto in risposta a Fabio Moraldi

                    Nel medioevo la chiesa cattolica celebrava matrimoni in cui l’età minima richiesta da parte della donna era 12 anni (sotto i 15), come anche nel mondo antico, greco e romano. Tu sostieni che è un male sempre e comunque, ma lo dovresti dimostrare, perché se non lo dimostri, allora è un semplice battezzare “male assoluto” ciò che non appare tale in virtù di argomenti. Alla luce del fatto che in epoche diverse l’età minima richiesta era 12 anni, cosa diresti, a) o b)?

                    1) In epoca medioevale si celebravano matrimoni che assecondavano la pedofilia, ma non lo si sapeva (detto di passaggio, questo implica che la pedofilia non è un male evidente)

                    b) In epoca medievale non si pratica la pedofilia, perché il concetto di pedofilia è relativo (e anche in questo caso la pedofilia non potrebbe essere un male evidente)

                    • Fabio Moraldi ha detto in risposta a Luigi Pavone

                      Hai sempre la capacità di navigare tra le nuvole senza mai arrivare a terra, mi spiace solo del gran tempo che butti via.

                      Non devo e non posso dimostrarti che la mia morale è assoluta, perché non posso dimostrarti l’esistenza di Dio. In ogni caso mi interessa soltanto sottolineare come io dirò sempre che la pedofilia è un male assoluto e tu invece, relativista, devi sostenere che la pedofilia può essere anche un bene. E questo ti dimostra quanto sia pericoloso perdere di vista il diritto naturale.

                      Un tempo c’erano matrimoni a 12 anni? Benissimo, evidentemente per pedofilia si considerava l’età dei 10 anni, ma essa rimarrà sempre un male. Tu inciampi continuamente sul “quando” identificare un atto pedofilo, e ancora non hai capito il punto della questione che rimane il giudizio a priori contrario. Poi possiamo verificare assieme con gli esperti quando si sta compiendo pedofilia, anche se il rapporto è consensuale.

                  • Matyt ha detto in risposta a Fabio Moraldi

                    Ecco, ad esempio, lo stato italiano non condivide la tua definizione: è pedofilia fino ai 14 anni (se non meno per relazioni tra adolescenti molto giovani).
                    La pedofilia è sempre condannabile e amorale, quello che cambia è la definizione di pedofilia.
                    E questo, la rende, dal momento che le sue scelte dipendono in maniera imprescindibile dal contesto storico nel quale si trova, un relativista.

                    • Fabio Moraldi ha detto in risposta a Matyt

                      Anche tu continui a cadere, come Pavone, sul quando identificare la pedofilia. Su questo ci si può accordare tranquillamente, altra cosa invece è affermare in modo assoluto che la pedofilia è SEMPRE un male.

                      Tu, relativista, non puoi permettertelo perché non sapresti giustificare questo SEMPRE. Eppure come vedi, continui a ripeterlo e questo significa che anche tu non credi al relativismo. Se fossi relativista avresti dovuto dire: “la pedofilia è sempre condannabile, a meno che la società decida in maggioranza che sia un bene, allora è un bene”.

                      E invece tu hai affermato l’esistenza di un male assoluto (“sempre condannabile”), e dunque in ultima istanza, l’esistenza di Dio.

                    • Matyt ha detto in risposta a Matyt

                      No, sei tu che fai un passo ulteriore che non ti è possibile fare.

                      Io affermo “intrattenere una relazione carnale con una persona non consenziente” è sempre male.
                      Perchè? Perchè mi rendo conto in modo inconscio che sia sbagliato (provo ribrezzo per una cosa del genere, ad esempio), e mi rendo conto che la mia opinione è condivisa.

                      Ora, al di la del fatto che la norma assoluta diventa de facto relativa nell’applicazione, non si può in ogni caso inferire logicamente l’esistenza di dDo dalla presenza del senso morale (non a caso, ad esempio, Kant è costretto a postularla, l’esistenza di Dio).
                      Nel senso, lei non ha modo di verificare in modo esperienziale quale sia l’origine del senso morale: nella pratica, che sia casuale o prodotto da Dio non cambia nulla, o meglio, non può riscontrare una circostanza reale in cui una diversità riguardo all’origine genera un fenomeno piuttosto che un altro.

                  • a-theòs=a-éthos ha detto in risposta a Fabio Moraldi

                    Sbagliano sia Luigi che Matyt. Luigi perché come al solito concepisce la realtà come un teorema di logica formale. Il principio che sta sotto al giudizio negativo sulla pedofilia è una cosa del tipo: è ingiusto che una persona psicologicamente immatura, che dunque non può pigliare decisioni tanto importanti senza grave pericolo di risultare plagiata, abbia intercorsi sessuali con una persona pienamente adulta. Tale giudizio morale è valido in ogni epoca storica, ma, naturalmente, è soggetto ai condizionamenti socio-culturali dell’epoca, che possono influire in modo profondamente diverso sui tempi di acquisizione media della suddetta “maturità psicologica”. Ovviamente in periodi storici in cui la vita media non arrivava forse neanche ai 40 anni, avere appena superato la pubertà, poteva già considerarsi indicativo della maturità psicologica necessaria, ATTENZIONE: non a scopazzare come fanno oggi tutti quanti, ma a sposarsi indissolubilmente, per formare una famiglia e avere dei figli.

                    Per quanto ho appena detto sullo sposarsi in opposizione alla scopazzare, l’esempio di Matyt è del tutto privo di senso.

                    • Matyt ha detto in risposta a a-theòs=a-éthos

                      Touché…
                      Resta però un problema: qual’è la definizione univoca di maturità psicologica che permette di rendere effettivamente universale la massima “è ingiusto che una persona psicologicamente immatura abbia una intercorsi sessuali con una persona pienamente adulta”.

                      O meglio, siamo in grado di fornirne una universalmente valida, indipendentemente dalle condizioni al contorno?

                    • Luigi Pavone ha detto in risposta a a-theòs=a-éthos

                      Mi pare che questo sia il punto di vista di Matyt. Due considerazioni.

                      LA PRIMA: per giustificare il giudizio negativo sulla pedofilia, lo hai ricondotto ad una norma più generale. Il problema è che anche la norma più generale contiene termini che richiedono di essere specificati, e la cui specificazione è storicamente determinata. ESEMPIO: Considera la norma che hai proposto, essa contiene espressioni del tipo “decisioni importanti”, “grave pericolo”, “persona pienamente adulta”. Se per sottrarre la norma alla storicità risali ad una norma più generale, anche questa richiederà di essere determinata. La norma più generale a cui sarai costretto a ripiegare sarà qualcosa di simile: NON FARE IL MALE.

                      SECONDA. Mi sono dimenticato. 🙁

                    • a-theòs=a-éthos ha detto in risposta a a-theòs=a-éthos

                      @Luigi
                      In ultimo tutto rimonta alla legge naturale, che è basata sull’essenza umana. Per questo la legge naturale corrisponde a principi morali di valore universale, anche se poi, visto che l’essenza umana non è puramente spirituale, l’applicazione concreta del principio generale ha un certa variabilità morfologica.

                    • a-theòs=a-éthos ha detto in risposta a a-theòs=a-éthos

                      @Matyt
                      Per questo esistono i giudici, proprio perché una legge che esprime principi generali, deve essere adattata al caso singolo. Ed è comunque inevitabile porre dei limiti di buon senso che però sono, proprio in quanto generali, solo teorici.

                    • Matyt ha detto in risposta a a-theòs=a-éthos

                      Quindi praticamente abbiamo reso relativo, applicandolo, un principio morale assoluto, dal momento che ogni giudice, in ogni epoca, ha una definizione diversa di “maturità psicologica”, e ciò che dunque per noi è male (una relazione carnale con una dodicenne) non lo era nel passato.

                    • a-theòs=a-éthos ha detto in risposta a a-theòs=a-éthos

                      @Matyt
                      Scusa ma il fatto che normalmente si definisca “adulto cresciuto” sia un uomo che ha smesso di crescere a 1.75 cm di altezza, sia un uomo che ha smesso invece a 2.10 cm, significa che io non posso considerare “adulto cresciuto”, senza sbagliarmi, né il primo uomo, né il secondo? Ovviamente no, significa semplicemente che a seconda degli individui e anche delle epoche (notoriamente nei secoli passati la media dell’altezza fisica era inferiore) c’è una certa variabilità nel realizzare certe qualità fisiche.

                      E ciò vale anche rispetto alle qualità psico-morali, la cui compiuta realizzazione varia da individuo a individuo e di epoca in epoca, senza che ciò comporti l’impossibilità di applicare alla realtà la nozione di “maturità psicologica”.

              • Luigi Pavone ha detto in risposta a Fabio Moraldi

                Ti battezzo “verità eterna”, dunque tu sei verità eterna. Ti battezzo “bene assoluto”, dunque tu sei bene assoluto. Il problema è dimostrare con gli strumenti della ragione che ciò che io battezzo vero sia vero. E se si afferma che la ragione è insufficiente e che abbiamo bisogno della fede, allora de facto si è relativisti, perché da ultimo si ritiene che per far star fermo un principio etico occorra la volontà che esso sia fermo, e dunque tra chi ritiene la pedofilia un bene e chi un male la differenza non risiede nel logos, ma in due diversi atteggiamenti di carattere pratico. Tu oltre a dire che x è un male assoluto, sei anche in grado di dimostrarlo? Sarebbe il caso di concentrarsi su queste cose, invece di sparare sulla croce rossa del relativismo etico.

                • Fabio Moraldi ha detto in risposta a Luigi Pavone

                  Sbagli ancora: io sostengo che la pedofilia sia un male assoluto al di là della mia fede, spero che tutti i non credenti siano d’accordo con me.

                  In secondo luogo: non c’è bisogno di dimostrare quel che è evidente. L’uomo vuole il bene per sé, c’è bisogno di dimostrarlo? Assolutamente no.

                  Non ci sono due atteggiamenti di carattere pratico, ma c’è chi è contro la pedofilia e chi è a favore perché male interpreta la sua moralità, che rimarrà sempre contro il male. Oppure volontariamente violenta la sua moralità per un piacere sessuale, l’uomo è libero di scegliere il male diceva Paolo Viti giustamente.

                  Io posso dirti che la pedofilia è un male assoluto perché questo giudizio è indipendente da tutto, rimarrà sempre così ed è sempre rimasto così. Il relativismo etico, invece, deve ammettere che la pedofilia può essere un bene. Leggi qui perché: http://philosophynow.org/issues/80/An_Amoral_Manifesto_Part_I

                  • Luigi Pavone ha detto in risposta a Fabio Moraldi

                    Ma devi dimostrare che il giudizio negativo sulla pedofilia non è storico e relativo. Non è relativo perché la maggioranza delle persone pensa la pedofilia essere un male? Ma la maggioranza può diventare minoranza. Che cosa rende quel giudizio assoluto? Qual è il fondamento della sua assolutezza? Da come ti esprimi sembrerebbe che sia sufficiente un battesimo iniziale in virtù del quale il bene è bene e il male e male.

                    • Fabio Moraldi ha detto in risposta a Luigi Pavone

                      Non ti devo dimostrare nulla, come non ti devo dimostrare l’esistenza di Dio. Il mio giudizio negativo sulla pedofilia è indipendente dall’opinione degli altri e si basa sul concetto assoluto della negazione del male, così come vuole la morale naturale universale.

                      Il mio giudizio è assoluto perché non è relativo, ovvero non cambia a seconda delle circostanze. Così come sarò sempre contrario allo sgozzamento dei bambini, anche se la maggioranza della mia società sarà favorevole. E tu invece? Tu devi per forza affermare che sgozzare i bambini può essere un bene, perché a decidere cosa è bene e cosa è male è la società in un dato momento e se in un dato momento sgozzare i bambini è giudicato un bene, allora sarà un bene anche per te, essendo tu relativista.

                      Ammettere l’esistenza di un Bene e di un Male assoluti e indipendenti da tutto significa non essere relativisti, e dunque affermare dei valori assoluti. Tu, al contrario, non potrai mai dire “sgozzare i bambini è sempre un male”, perché non sapresti giustificare questo “sempre”.

                • Piero B. ha detto in risposta a Luigi Pavone

                  Il puro ragionare del ragionatore può essere realisticamente inoppugnabile, però parlando di etica è come se fosse isolato dal suo ambiente vitale. Io non sono capace di dimostrarti su tavolino che la pedofilia è male, perché il bene e il male non sono oggetti che abbiamo creato e sui quali possiamo ragionarci sopra, ma sono oggetti che ci toccano e ne abbiamo percezione.

                  • Matyt ha detto in risposta a Piero B.

                    Appunto.
                    Facciamo un esempio.
                    Lei osserva un adulto 40enne in atteggiamenti molto sconvenienti con una bambina 12enne.
                    Immagino chiamerebbe immediatamente la polizia per fare arrestare il pervertito.

                    La stessa cosa non sarebbe successa se fosse vissuto nel ‘300: “l’età del consenso” era più bassa, e una scena del genere sarebbe stata perfettamente accettabile.

                    La pedofilia (o, raffinando la definizione, il sesso con non consenzienti) resta inaccettabile (e percepita a livello inconscio come sbagliata e amorale), quello che varia è la definizione di età del consenso.

                    Ciò si traduce, come ha ben scritto Pavone, in un relativismo de facto: il principio assoluto esiste ed è percepibile, ma all’atto pratico si rileva profondamente dipendente dalle circostanze, quindi relativo.

                    • Piero B. ha detto in risposta a Matyt

                      Ma all’atto pratico è relativo alle circostanze perché il raffinamento della nostra capacità etica è una pratica di introspezione e progredisce con esercizio nel tempo, crescendo costantemente in un ambito ben definito e muovendosi verso una direzione ben definita, quasi con lo stesso metodo della scienza nel mondo materiale, aggiungendo continuamente senza sconvolgere né negare quello che c’era prima.
                      Se pensi che è tutto un commercio, una convenzione che si stipula tra umani, del tipo: “se non penalizzi la pedofilia non commercio più con te”, se c’è questo di fondamento allora non si può parlare di etica.

                    • Matyt ha detto in risposta a Matyt

                      Mi sembra che affermare che una pratica perfettamente lecita e condivisibile nell’antichità ora sia illegale e degna di biasimo sociale sia una negazione piuttosto forte…

                      In ogni caso, ora è lei a fare il ragionatore ragionante.
                      Ora, mi dica: com’è possibile che, con un’etica assoluta, ciò che nel 300 era lecito ora non lo è più?

                    • Piero B. ha detto in risposta a Matyt

                      Matyt, dicasi “vedo il bene ma preferisco seguire il male” che non è di copyright cristiano ma è antico quanto il mondo. (Ovidio docet)
                      Che si pratichi qualcosa contro la legge morale non vuole dire che la persona, posta davanti a cosa ha compiuto, non ne sia consapevole. Un esempio? Nella nostra modernissima civiltà l’aborto è un fatto conclamato, accettato. Ma metti la madre davanti a quel figlio che non c’è più. Faglielo vedere prima che sia soppresso.
                      Andando più indietro nel tempo, in tutte quelle civiltà dove era modus operandi praticare sacrifici umani, l’omicidio era depenalizzato? No. Perché nel caso del pater familias o degli schiavi Maya non è che si approvasse l’omicidio: semplicemente non era omicidio. Il ragazzo nel diritto romano non era un uomo, ma un’appendice del genitore. Lo schiavo non era un uomo, ma uno strumento. La legge naturale scritta nel cuore c’è, ma si trova una giustificazione per aggirarla e fare il proprio comodo. Esattamente come oggi nel caso dell’aborto o l’altro ieri nell’età dei lumi in cui ghigliottinavano e fucilavano a tutto spiano. L’uomo si crea una legge, la legge positiva, che aggiri quello che il proprio cuore dice, e preferisce seguire quella.
                      Proprio come dice Ovidio nelle Metamorfosi, ma anche S.Paolo: vedo il bene che voglio, ma preferisco seguire il male che non voglio.

  3. Castigamatti ha detto

    Come giurista non mi ritengo minimamente all’altezza della preparazione di Zagrebelsky, che è stato persino giudice costituzionale.

    Però mi permetto di dissentire da quanto scrive: un diritto naturale esiste eccome, ed è quello che si ricava considerando la persona come «valore».

    Il diritto nasce come disciplina al servizio della persona (ubi homo, ibi societas; ubi societas, ibi ius) e non può sovvertire quella che è la natura delle cose.

    Per questo il matrimonio potrà essere solo tra uomo e donna: perché in natura gli organi sessuali sono complementari…

    Per questo l’adozione postula una mamma e un papà: perché il rapporto di filiazione sorge da un uomo e da una donna…

    E si potrebbe andare avanti all’infinito.

    Lo stesso discorso è per la scienza: la scienza è al servizio della persona, che deve essere un fine, non un mezzo.

  4. Luigi Pavone ha detto

    Che noia mortale! Non c’è nessuna contraddizione nel negare l’esistenza di una legislazione morale naturale, esattamente come non c’è nessuna contraddizione nella affermarla. Io propendo per l’affermarla, ma riconosco che chi la nega non è un cretino, a meno che non si voglia dire che siano cretine persone come Wittgenstein o Croce. La vera differenza è tra chi sostiene sia possibile stabilire criteri per i giudizi di valore e chi sostiene non sia possibile. Con dire che un dato principio appartiene al giudizio naturale non abbiamo conferito ad esso nessuna giustificazione, ma abbiamo fatto un atto di fede che è irragionevole pretendere che altri lo condividano.

    • a-theòs=a-éthos ha detto in risposta a Luigi Pavone

      Beh, non è detto che ci si contraddica, ma è sicuro che si cade in errore, quando si nega una verità. Dunque o la legge naturale è un miraggio o questi che la negano si sbagliano.

      • Luigi Pavone ha detto in risposta a a-theòs=a-éthos

        A ben guardare le cose, sono davvero pochi i filosofi che negano l’esistenza del diritto naturale. Anzi, credo di poter dire che sono stati solo gli idealisti (e forse anche i pragmatismi, quelli più metafisici, per così dire). Altro è dire che si è nel falso col negare l’esistenza del diritto naturale, altro è dire che si è in errore. Nel primo caso sosteniamo la tesi che il diritto naturale esiste, nel secondo caso ci impegniamo a mostrare che la tesi della negazione del diritto naturale è teoricamente insostenibile.

      • a-theòs=a-éthos ha detto in risposta a a-theòs=a-éthos

        Hai ragione, pochi filosofi lo negano, o meglio, molti filosofi parlano di diritto naturale, ma c’è un abisso semantico tra come se ne parlava prima della modernità e con essa. Un ottimo articolo al riguardo (scritto Raimondo Cubeddu, che, come saprai, è un liberale non cattolico ed è meglio, molto meglio, un liberale che sa di non poter essere cattolico): http://www.cattolici-liberali.com/pubblicazioni/libri/QuaderniDiTeoria/Raccolte/Quad3_4_filos.pdf

    • a-theòs=a-éthos ha detto in risposta a Luigi Pavone

      Se intendi dire che una supposta presenza di fatto dell’etico in noi, non ne giustifica la verità, sono d’accordo. Anche la presenza di un finalismo naturale (delle nature degli enti), slegato dalla considerazione della causa che lo ha prodotto, rimane insufficiente a fondare definitivamente un’etica.

    • Daniele Borri ha detto in risposta a Luigi Pavone

      Pavone, orgoglioso filosofo fai-da-te (“io non ho alcun maestro”, si vantava), ovviamente non capisce l’articolo.

      La questione è su cosa basare l’esistenza del bene e del male senza affermare una morale naturale pre-esistente l’uomo. Il problema, caro filosofo per corrispondenza, non è “stabilire criteri per i giudizi di valore”, ma stabilire su cosa si basano questi criteri.

  5. Guido Periotto ha detto

    Vorrei segnalare la recentissima pubblicazione del saggio “Fini naturali” di Robert Spaemann, uno dei massimi filosofi tedeschi viventi e che sicuramente offrirà un contributo profondo e rigoroso a questo dibattito. In effetti questo intellettuale sostiene da tempo l’impossibilità di prescindere, da parte di ogni stato democratico, da un concetto di natura umana fondato su una determinata concezione antropologica, elaborata attraverso una lunga e solida tradizione di pensiero, ed assai ben richiamata dal dott. Agnoli. Si tratta di una concezione che sicuramente risulta piuttosto distante da quella liberale, per la quale, come ricorda Spaemann, “Scopo dello Stato è soltanto la difesa dello spazio di libertà soggettivo degli individui e la libertà non è altro che il potersi muovere lungo strade il più possibile numerose”.
    Per chiarire l’insostenibilità della teoria liberale, Spaemann ricorda e commenta un caso raccapricciante, ma estremamente significativo, realmente accaduto nel suo Paese: “Alcuni anni fa un tale in Germania è stato chiamato in giudizio per aver mutilato un altro essere umano, tagliandogli i genitali per poi ucciderlo e mangiarselo. L’autore aveva trovato la sua vittima attraverso internet, una persona che desiderava essere trattata in questo modo, cioè venir uccisa e mangiata. Di certo si trovano uomini di questo tipo. Con uno di questi, un ingegnere, l’omicida si è trovato ed entrambi hanno celebrato quest’orgia perversa. Davanti alla Corte l’assassino ha fatto valere il fatto che non ha agito contro la volontà del’altro. Entrambi hanno agito consensualmente. Se la concezione liberale avesse ragione, ovvero se concetti come naturale e non naturale, normale e perverso non avessero alcun significato normativo né giuridico e se il rispetto della dignità umana consistesse solo nel rispetto della decisione volontaria, allora quest’uomo avrebbe dovuto essere assolto. Invece il giudice lo ha condannato per omicidio”.

  6. cabellen ha detto

    Il relativismo è l’unico porto sicuro del pensiero. In quella grande epoca di riscoperta della dignità umana che fu il Rinascimento, Montaigne scriveva: “ognuno giudica barbarie ciò che è estraneo ai suoi costumi”.
    L’uomo è parte indissolubile dell’ambiente in cui vive, e tutto ciò che accade è parte di un processo storico-evolutivo che non ha alcuna solida piattaforma su cui fondarsi. La fisica moderna ha persino scoperto che non esiste una realtà indipendente da osservare, perché il risultato di un processo di misura coinvolge sia il soggetto misuratore sia l’oggetto da misurare.
    E’ dunque inevitabile che le società umane ridefiniscano di volta in volta i contorni del giusto e del lecito. Ciò che oggi appare inammissibile, può diventare oggetto prima di tolleranza e poi di accettazione. Le leggi possono recepire consuetudini esistenti ma anche introdurne di nuove. Ovviamente c’è in gioco tutto l’enorme problema del rapporto fra libertà individuale e interesse collettivo. Omicidio e violenza privata sono esclusi da ogni codice perché danneggiano la società, e un certo spirito normativo di questo tipo ha potuto condensarsi nei secoli fino a formare quelli che oggi conosciamo come diritti umani e fondamenti costituzionali in molti paesi dell’occidente. Non esiste dunque una morale “a priori”, ma solo come sintesi.

    • giovanni ha detto in risposta a cabellen

      Scusa, mi sfuggono alcuni passaggi.
      Mi spiegheresti cosa intendi per “certo spirito normativo di questo tipo”? E come ha fatto a “condensarsi”?

      “Le leggi possono recepire consuetudini esistenti ma anche introdurne di nuove.”
      Ovviamente una legge che domani introducesse la discriminazione razziale e la persecuzione di un determinato gruppo perchè un organismo democraticamente eletto l’ha stabilito sarebbe quindi giusta e ogni cittadino dovrebbe obbedirvi?

    • Matyt ha detto in risposta a cabellen

      La tua interpretazione del principio di indeterminazione è scorretta: l’incertezza di quantità di moto e posizione è una caratteristica ontologica della particella, non un risultato di una attività di misura, in ogni caso non inficia affatto il ragionamento successivo, che condivido

      Esiste una parte “strutturale” (nel senso in cui lo intendeva Feuerbach) di diritto (della cui origine ha poco senso dibattere), ma la sua implementazione risente, necessariamente, dell’impatto della società.

      • semelets ha detto in risposta a Matyt

        Se ho ben capito, dall’insieme dei tuoi interventi, la tua posizione è questa: esiste un diritto naturale, un’etica oggettiva di cui non possiamo conoscere il fondamento (quel fondamento che i credenti ritengono invece di conoscere e che chiamano Dio).
        La conoscenza di questa legge naturale da parte degli uomini risente, come ogni conoscenza, dei limiti storici e culturali e la sua applicazione pratica risente ulteriormente dell’impatto della società.
        La conoscenza e l’attuazione sono in pratica storicamente, culturalmente e socialmente condizionate e in questo senso relative.
        Mi sembra quindi che anche per te rimanga valido un approccio, relativamente all’etica, di conoscenza e non di decisione: non devo decidere cosa è bene, ma scoprirlo.

        • Matyt ha detto in risposta a semelets

          In un certo senso, si.
          Diciamo che riconosco all’etica lo stesso status che, mutatis mutandis (ma neanche troppo…) attribuisco alla Fisica, o a qualunque scienza.
          Ovvero, anche l’etica così come la fisica segue il procedimento per congetture e confutazioni che aveva teorizzato Popper.
          E, proprio secondo tale metodo, affermo l’indecidibilità del problema del fondamento dell’etica.

          • Semelets ha detto in risposta a Matyt

            Mi sembra diversa allora la tua posizione rispetto a quella di Cabellen, che giudica inesistente una morale a priori.
            Soprattutto la frase in cui Cabellen dice che “le società umane ridefiniscono di volta in volta i contorni del giusto e del lecito” (e che mi sembrava tu avessi giudicato condivisibile) assume due significati profondamente diversi a seconda che la premessa sia la sua o la tua.
            Nel suo caso infatti la frase significa che i confini etici, non esistendo a priori, devono essere definiti dalle società umane.
            Nel tuo caso invece, credendo nell’esistenza di questi confini, quel “ridefinirli” va inteso nel senso di cercare di scoprire sempre meglio quali essi siano; mi sembra che anche il tuo primo intervento andasse in questa direzione: esiste un confine (non uccidere il tuo simile) che non siamo noi a inventare e il nostro “lavoro” consiste nello scoprire e definire sempre meglio chi sia questo simile da includere nel confine.
            Questo secondo approccio mette al riparo l’etica dal tarlo dell’arbitrarietà e la configura come scienza, una disciplina cioè in cui si giudica possibile una conoscenza e un progresso di questa conoscenza.

    • Fabio Moraldi ha detto in risposta a cabellen

      Ecco un tipico caso di una persona che sta segando il ramo su cui è seduto.

      Come si può affermare senza contraddirsi che “il relativismo è l’unico porto sicuro del pensiero”? Questa frase, se pronunciata, chiede di essere vera, ma se è vera allora il relativismo non esiste. Non c’è via d’uscita: se Cabellen ha ragione, allora il relativismo è fallimentare, e se Cabellen ha torto allora il relativismo è fallimentare.

      Riguardo al discorso della storia che si evolve e balle varie è già stato risposto nell’articolo: esiste una morale universale, ma esistono anche leggi e uomini che hanno mal definito la natura umana, ed esisteranno sempre. Per questo “ciò che oggi appare inammissibile, può diventare oggetto prima di tolleranza e poi di accettazione”, sopratutto quando si tenta di insabbiare l’esistenza di un’unità morale che lega tutti gli uomini.

      • Luigi Pavone ha detto in risposta a Fabio Moraldi

        Devi avere un’ottima vista per vedere quello che non esiste! Non esiste la contraddizione che ti illudi di vedere. Il relativismo etico è sostenibile senza nessuna contraddizione. Si può — ripeto, SENZA CONTRADDIZIONE (vallo a spiegare a Agnoli, però) — affermare che tutti i valori etici sono relativi e che questa affermazione è una verità assoluta.

        • Semelets ha detto in risposta a Luigi Pavone

          Diciamo che col relativismo etico l’etica diventa convenzione e non più etica.
          Il “devo”, “non devo”, “è lecito”, “non è lecito” assumono il medesimo significato che queste parole hanno nel codice stradale: in Italia devo guidare a destra, ma in Gran Bretagna devo guidare a sinistra e questo per pura convenzione.

        • Fabio Moraldi ha detto in risposta a Luigi Pavone

          Certo, si può affermare quello che si vuole.

          Agnoli ha capito benissimo, AL CONTRARIO DI TE, che una cosa o è relativa o è assoluta.
          La botte piena e la moglie ubriaca non si possono avere entrambi.

          • Luigi Pavone ha detto in risposta a Fabio Moraldi

            E certo, una cosa o è relativa o non lo è. Ma è possibile affermare assolutamente la relatività dei valori etici senza contraddizione. In questo caso, infatti, la relatività è riferita esclusivamente ai valori etici, e non già alla proposizione che afferma la relatività dei valori etici.

            • Fabio Moraldi ha detto in risposta a Luigi Pavone

              Ma a me non interessa che si possano affermare in modo assoluto o meno la relatività dei valori etici. Il fatto è che ogni volta che si vuole affermare (in modo assoluto o no) tale relatività morale si cade in una contraddizione.

        • Penultimo ha detto in risposta a Luigi Pavone

          Perfino Sesto empirico e Pirrone (ovvero uno sceticismo radicale),non la pensava così.Se sono assoluti non sono relativi se sono relativi non sono assoluti,anzi Sesto empirico sesso riconosce che tale affermazione diventà ciò che si propone di negare,un dogma dello scetico stesso.

          Poi si può proclamare questa

          che tutti i valori etici sono relativi e che questa affermazione è una verità assoluta.

          Ma è appunto una un’argomentazione contraditoria,è un universale affermativa falsa nella premessa (e afferma) che una verità è relativa assolutamente,ovvero è sia relativa che assoluta nello stesso tempo.C’è una dimostrazione per absurdum a dimostrare che da questa affermazione nasce una contraddizione.Dunque si deve accettare in forza logica.Ovviamente poi l’uomo è libero di accetarla o di rifiutarla.

          • Luigi Pavone ha detto in risposta a Penultimo

            La relatività è riferita esclusivamente ai valori etici, e non già alla proposizione che afferma la relatività dei valori etici. Dunque nessuna contraddizione.

            • semelets ha detto in risposta a Luigi Pavone

              Come ho cercato di dire in un precedente intervento, col relativismo etico l’etica diventa convenzione e non più etica. Il termine “etico” è svuotato di significato, perchè termini come “giusto” e “ingiusto” diventano privi di senso.
              Se il termine “etico” è svuotato di significato, allora anche la locuzione “relativismo etico” è priva di significato e dunque non è sostenibile l’esistenza del relativismo etico, non più di quanto sia sostenibile l’esistenza del sarchiapone o delle staravergonze.

              • Luigi Pavone ha detto in risposta a semelets

                Ho capito. Certo, se tu definisci l’etico come ciò che in quanto tale non è relativo, allora la nozione di relativismo etico è contraddittoria. Ma chi ci obbliga ad adottare la tua definizione? Quel che è certo è che chi afferma il relativismo etico non adotta la tua definizione, con ogni evidenza. Egli intende dire che un certo tipo di norme che vanno sotto la denominazione di norme etiche sono relative. Tra l’altro occorre anche dire che nessun relativista ha affermato che questa relatività implichi una assoluta equivalenza tra norme contrarie, ciò che si vuol dire è che il circolo della giustificazione delle norme non si conclude con proposizione fattuali, ma è costituito da ulteriori norme.

                • Semelets ha detto in risposta a Luigi Pavone

                  Io non ho dato la definizione che mi attribuisci, in nessuno dei miei interventi.
                  Ho detto che l’etica ha a che fare coi concetti di giusto e ingiusto, lecito e non lecito e che questi concetti sono privi di significato in un’etica che voglia definirsi relativa, in quanto un’etica relativa non è altro che convenzione.
                  Se dunque i concetti di giusto e ingiusto sono privi di significato anche il termine “etico” è svuotato di senso e da qui deriva il resto.
                  La definizione che mi attribuisci è in realtà il punto d’arrivo, non di partenza.
                  La mia definizione potrebbe essere, vagamente, che quando parliamo di etica parliamo di qualcosa che ha a che fare coi concetti di giusto, ingiusto, ecc.

                • Semelets ha detto in risposta a Luigi Pavone

                  giusto?

                • Luigi Pavone ha detto in risposta a Luigi Pavone

                  Ho capito, ma i concetti di giusto e ingiusto non sono intrinsecamente assoluti. Il relativista pensa appunto che non lo siano, benché sia ben consapevole che le regole etiche siano diverse da quelle degli scacchi: una cosa è affermare che se il cavallo si muove ad elle, altra cosa è affermare che non devi uccidere. Forse sarebbe più propenso ad attribuire alle regole degli scacchi maggiore assolutezza, rispetto a quelle etiche, a motivo del fatto che sono rimaste immutate per secoli. Oggi ci sono delle variante che un tempo non erano conosciute, ma gli scacchi classici sono sostanzialmente gli stessi da secoli.

                  • Semelets ha detto in risposta a Luigi Pavone

                    Ti sbagli. I concetti di giusto e ingiusto implicano il riferimento a una dimensione assoluta, perchè se fossero relativi sarebbero intercambiabili e se fossero intercambiabili sarebbero equivalenti e non più opponibili, dunque svuotati di significato, proprio come quando diciamo che il cavallo “deve” muovere ad elle: quel “deve” non ha nessun contenuto etico, il cavallo non deve muovere ad elle perchè è giusto, ma perchè si è stabilito così, per pura convenzione.
                    Quando dici che “un conto è affermare che il cavallo muove ad elle e altra cosa è affermare che non devi uccidere”, prendi un abbaglio dettato dall’emotività (o forse da un rigurgito di senso comune), perchè in un’ottica relativista le due cose, pur avendo conseguenze diverse, sono in realtà della stessa natura, cioè puramente convenzionali.
                    In un’ottica relativista la sentenza di Norimberga non potrebbe essere definita “giusta” (i gerarchi nazisti infatti la ritennero ingiusta, giudicando il proprio operato giusto secondo le leggi del proprio stato): dovremmo considerare quella sentenza semplicemente come la prevaricazione del vincitore.

                  • Semelets ha detto in risposta a Luigi Pavone

                    E’ la percezione di un atto che può essere soggettiva e quindi relativa, non la sua natura.
                    La sentenza di Norimberga non può essere giusta e ingiusta allo stesso tempo; può essere percepita come giusta da alcuni e ingiusta da altri e si può discutere per cercare di capire chi abbia ragione, ma in un quadro di riferimento relativista, che postula non l’inesistenza di un’etica, ma la possibilità di più etiche, tale discussione non avrebbe senso. Il relativista dovrebbe concludere che la sentenza di Norimberga è stata giusta, ma che sono stati giusti anche gli orrori del nazismo. Il relativista è costretto a cancellare dal suo vocabolario il termine “ingiusto” perchè, ammettendo la possibilità di etiche multiple, ogni comportamento è potenzialmente giusto. In questo modo però il termine “giusto”, senza la controparte che gli si oppone, è svuotato di significato e così pure il termine “etico”.

                    • Luigi Pavone ha detto in risposta a Semelets

                      Il relativista non nega necessariamente la pretesa universale, assoluta dei valori etici, ciò che afferma è che tale pretesa è infondata. Il fatto, poi, che per il relativista tutte le norme si equivalgono relativamente alla possibilità di un fondamento ontologico, questo non significa che non si distinguano relativamente ad altri aspetti.

                    • semelets ha detto in risposta a Semelets

                      @ Luigi Pavone

                      Affermare l’infondatezza della pretesa universale significa che tale pretesa, non essendo fondata, è arbitraria e ciò che è arbitrario non può essere universale. Negare la fonfatezza della pretesa universale significa quindi negare la pretesa universale.

                    • Luigi Pavone ha detto in risposta a Semelets

                      No, non significa negare l’esistenza della pretesa universale, significa affermare che tale pretesa abbia fondamento. Prendi Kant, l’imperativo categorico è solo formalmente universale.

                    • semelets ha detto in risposta a Semelets

                      cosa vuol dire “affermare che tale pretesa abbia fondamento” ? questo lo dicono i non relativisti. (Sarà mica un lapsus freudiano? ;-))

              • Fabio Moraldi ha detto in risposta a semelets

                Sono completamente d’accordo con te, aggiungo una precisazione però: in un paradigma relativista, termini “giusto” e “ingiusto” non sono privi di senso, ma destinati per forza ad essere temporanei. Per cui un relativista può soltanto dire: “la pedofilia per me è un male, per ora, ma potrebbe diventare un bene se la società decide che dev’essere così”.

                • semelets ha detto in risposta a Fabio Moraldi

                  Credo che non sia così, perchè in un paradigma di relativismo etico i termini “giusto” e “ingiusto” non possono essere considerati simmetrici.
                  Cerco di spiegare:
                  il relativista etico nega l’esistenza di un’etica “a priori” (vedi post di Cabellen), ma non nega l’etica tout court. Postula invece l’esistenza di molteplici etiche. Questo significa che, dato un determinato atto, è sempre possibile ipotizzare delle coordinate di riferimento etico che lo contemplino come giusto. Posto in essere un atto dunque, quest’atto si trova automaticamente giustificato, perchè il paradigma etico del relativista, che contempla la possibilità di infinite etiche, è onnicomprensivo.
                  Naturalmente è possibile anche formulare un quadro di riferimento che definisca quell’atto “ingiusto”, ma questo quadro, venendo dopo, deve essere giustificato, perchè è come se dovesse sottrarre quell’atto alle coordinate di riferimento che lo giustificano e questo non è possibile perchè tali coordinate onnicomprensive sono state postulate a priori.
                  Le coordinate che configurano un atto come ingiusto possono quindi solo essere poste arbitrariamente, ma affermare l’ingiustizia di un atto per puro arbitrio non ha senso, e da qui discende tutto il resto.

            • Penultimo ha detto in risposta a Luigi Pavone

              Affermi che la relatività è inferità ai soli valori etici,dunque la relatività non è inferita a tutti i concetti,se non è inferita a tutti i concetti non puo essere assoluta,sequitur,non è vero che è assoluta/relativa nel medesimo tempo.Siccome non è assoluto allora è relativo,dunque è relativo anche afferire che i valori etici sono relativi.

              • Luigi Pavone ha detto in risposta a Penultimo

                Ma che stai impapocchiando? 😀 La relatività è RIFERITA (non inferita) ai valori etici, e dunque non è riferita alla totalità delle proposizioni, e dunque in questo senso non è assoluta, perché lascia fuori concetti non-relativi, ma è assoluta relativamente ai valori etici, perché non lascia fuori principi etici non-relativi.

    • Lucio ha detto in risposta a cabellen

      Cabellen,
      Le leggi della fisica quantistica riguardano solo i fenomeni fisici, non la realta’ in senso lato. Cosa c’entrano il principio di indeterminazione o quello di complementarieta’ onda-particella con le leggi morali? Dove vedi il nesso necessario?

  7. Gibbì ha detto

    Mi permetto un piccolo, modesto contributo all’interessante discussione.
    Credo ci sia una fondamentale differenza tra “ammettere” l’esistenza di un’etica naturale e dimostrarne scientificamente l’esistenza e la validità cogente.
    Il che implicherebbe che esiste solo ciò che si conosce e ciò che non si conosce semplicemente non esisterebbe.
    Un atteggiamento, a guardar bene, estremamente medievale (nel senso oscurantista del termine).
    Noi percepiamo il bene ma possiamo scegliere il male, ed è tanto vero per le singole coscienze quanto per le grandi istituzioni.
    Ed è detto esemplarmente nell’articolo.
    Ma questa è la realtà umana che implica, appunto, fede, non certezze matematiche, per osservare il bene e il male e riconoscerlo.
    Mi sembra che la differenza sia fondativa.

    • Semelets ha detto in risposta a Gibbì

      Credo che aver usato il termine “medievale” come sinonimo di “oscurantista” ti tirerà addosso non poche invettive, ma preferisco lasciare ad altri questo divertente e nobile compito.
      Per quanto riguarda ciò che dici all’inizio del tuo intervento, non è vero che il dimostrare l’esistenza di qualcosa implica che esiste solo ciò che si conosce.

      • Daphnos ha detto in risposta a Semelets

        Io invece ho apprezzato l’intervento, pur essendo uno di quelli che va in escandescenze quando si uguaglia il medioevo all’oscurantismo… inutile dire che la cosa mi ha portato la febbre a 40 negli ultimi giorni, da quante volte si legge in rete 🙁 . Ma purtroppo fa parte del nostro bagaglio culturale delle nostre conoscenze scolastiche di base.

        Penso che le invettive tra questi commenti potrebbero essere ispirate al concetto di “dimostrazione scientifica” dell’esistenza di un’etica.

        Personalmente, mi limito a considerare che la non-etica relativista, che di laico ha molto poco, visto che non è quasi mai propositiva, ha bisogno anch’essa di una fede (leggere il programma di Democrazia Atea per credere), un supporto nichilista abbastanza stabile da non poter dare valore eterno ad alcunché, pena la negazione di se stessa. E qualora uno stato etico me la imponesse per legge, io diventerei automaticamente un fuorilegge, e allora sì che si potrà dire che i cristiani sono una minaccia per la collettività, ma in quel caso ne sarei orgoglioso.

        Ps Gibbì, non far accedere “Titti” al tuo sito, se ci tieni alla pelle 😉 .

        • semelets ha detto in risposta a Daphnos

          Di’ la verità: con Matyt o Cabellen non saresti stato così indulgente (relativamente al medioevo).
          Forse è il caso di dire “Gibbì, la tua fede ti ha salvato” 😉

          • Daphnos ha detto in risposta a semelets

            Certo che non ti sfugge nulla 😉 .

            Con Matyt e con Cabellen ormai è un altro discorso, sanno bene cosa possono provocare, sono entrati nel meccanismo. Per cui, meglio comunicare queste cose ai nuovi venuti, giusto per dar loro il benvenuto 🙂 !

  8. Gibbì ha detto

    Mi spiego meglio.
    Affermare che il relativismo etico è una condizione necessaria (una “verità assoluta” dimostrabile, ho persino letto) per l’impossibilità di accedere ad una dimostrazione scientifica del bene e del male…ecco, mi sembra che una posizione di questo tipo sia piuttosto bizzarra.
    Una specie di ultrapositivismo al quadrato.
    La pietas umana esisteva anche prima dell’Avvento del cristianesimo ed il fatto che l’omicidio proditorio, il furto e l’inganno (ad esempio) sono stati avvertiti, in ogni tempo e in ogni cultura, come comportamenti esecrabili, stanno a dimostrare che esistono degli universali che, volenti o nolenti, sono i filtri attraverso i quali osserviamo il mondo.
    Oggi come tremila anni fa.
    Oggi, a differenza di tremila anni fa, abbiamo una “spiegazione razionale” di questi universali (dove “razionale” è utilizzato nel senso così frequentemente usato da Benedetto XVI°).
    Una spiegazione razionale non è, necessariamente, una dimostrazione scientifica.
    E’ una spiegazione che implica fede e ragione.
    (In questo non avevano, poi, tutti i torti i metafisici medievali; prevengo le obiezioni…)

    • semelets ha detto in risposta a Gibbì

      Ora credo di aver capito. “Bizzarro” mi sembra il termine giusto.
      Come ho cercato di dire in un altro intervento, parlare di relativismo etico non significa altro che parlare di etica come di un fatto convenzionale, dove termini come “giusto” o “ingiusto” sono svuotati di significato.
      Eppure tutti noi, quando ci pestano i piedi, piagnucoliamo come Calimero “è un’ingiustizia però…!”, intendendo con quel termine “ingiustizia” qualcosa di ben oggettivo e non di convenzionale.
      Purtroppo è diventata una gran fatica argomentare per difendere ciò che nella vita di tutti i giorni ciascuno sperimenta come ovvio.

    • Lucio ha detto in risposta a Gibbì

      Concordo con il tuo ottimo intervento Gibbi, in particolare con l’affermazione “Una spiegazione razionale non è, necessariamente, una dimostrazione scientifica”. A volte ho l’impressione che per certe persone (tipo Matyt e Pavone) l’affermazione che l’etica abbia una base razionale potrebbe essere condivisibile solo tramite una dimostrazione logico-matematica…..

      • Luigi Pavone ha detto in risposta a Lucio

        No. Non mi sono mai sognato di dire che razionalità sia sinonimo di razionalità scientifica, benché ritenga che la razionalità abbia un significato univoco. Quanto alla logica. Nessuna dimostrazione meramente logica dimostra alcunché di informativo. Dunque mi sa che sbagli bersaglio clamorosamente.

        • Gibbì ha detto in risposta a Luigi Pavone

          Gentilmente, potrebbe fornire una definizione anche approssimata, dal suo punto di vista, naturalmente, del concetto di “razionalità” di cui si serve?
          Lo chiedo con grande serietà e rispetto, per cercare di capire.
          Grazie

          • Luigi Pavone ha detto in risposta a Gibbì

            Come faccio a rispondere senza rispondere? Ci provo. Diciamo che la razionalità è ciò che le migliori teorie scientifiche, logiche, metafisiche hanno in comune. La soddisfa? Temo di no. Eppure non è una definizione così malvagia. Anzi, credo che sia la migliore possibile, anzi la più razionale possibile.

            • Gibbì ha detto in risposta a Luigi Pavone

              In effetti non mi sembra molto soddisfacente, anche perché quella assomiglia molto alla definizione del paradigma (quello di Khun, per capirsi).
              Le sottopongo uno spunto di riflessione sul tema.
              Sulla falsariga dell’antidogmatismo sistematico di Popper, Habermas sostiene, nella Teoria dell’agire comunicativo, che è razionale ciò che è criticabile.
              Secondo questa impostazione di pensiero, dunque, il teorema di Pitagora sarebbe fondamentalmente irrazionale.
              Le sembra plausibile?

              • semelets ha detto in risposta a Gibbì

                Il teorema di Pitagora E’ potenzialmente criticabile, in senso popperiano: in quale caso il teorema di Pitagora si rivelerebbe falso? Nel caso in cui la somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti non desse come risultato il quadrato costruito sull’ipotenusa.

                • Gibbì ha detto in risposta a semelets

                  Attenzione però a non cadere nel verificazionismo, che sta agli antipodi della confutabilità popperiana.
                  Se per confutare il teorema di Pitagora mi aggrappo all’espediente di non poter eseguire le infinite misurazioni necessarie a darmene una definitiva conferma empirica, allora sto solo boicottando una teoria, non la sto effettivamente confutando.
                  In realtà, il teorema di Pitagora è puramente e semplicemente inconfutabile – nella sua formulazione teorica – in quanto è una qualità universale della realtà.
                  Come lo sono le numerose altre scoperte nel mondo della chimica, dell’astronomia, della fisica classica e delle altre scienze naturali.
                  In altre parole, sono dogmi di cui noi ci serviamo quotidianamente con molta tranquillità senza sentirci affatto sminuiti nelle nostre libertà umane.
                  Dov’è in tutto questo il confine tra razionalità e irrazionalità, tra ragione e fede?

                  • Matyt ha detto in risposta a Gibbì

                    Aspetti, faccia attenzione…
                    Il teorema di Pitagora è inconfutabile se decido di recepire il corpus di postulati su cui si basa la geometria euclidea.
                    Ad esempio, in quanto richiede il postulato delle parallele, non è valido in geometria sferica, o in geometria iperbolica.

                    E, in realtà, anche le scoperte fisiche sono confutabili: l’intera meccanica newtoniana è basata sul principio che il tempo sia un assoluto per ogni sistema di riferimento.
                    Cosa mostrata come falsa da Lorentz, che introduce un fattore di correzione temporale nelle trasformazioni tra sistemi di riferimento non inerziali.
                    Che poi io ritenga, nell’uso comune, che il mio tempo e il tempo di un uomo in viaggio su un aereo sopra di me siano uguali, non significa che ontologicamente lo siano.

                    Insomma, facciamo un sistematico uso regolativo di proposizioni che sono altamente probabili, oserei dire per comodità di pensiero.

                    In realtà, non lo sono, e averlo sempre presente ci permette di non fare la fine del tacchino induttivista.

                    • Gibbì ha detto in risposta a Matyt

                      Non essendo né un matematico, né un fisico, eviterò di imbarcarmi in un contraddittorio che non posso sostenere.
                      Se ho menzionato il teorema di Pitagora è solo per suffragare la tesi che ci sono cose che possiamo scoprire e conoscere ed altre che dobbiamo accettare così come sono perché lì si è raschiato il fondo della conoscenza.
                      Mi chiedo, tuttavia, se non si confondano le applicazioni teoriche astratte con i contenuti di realtà.
                      A quanto ne sappiamo, Pitagora scoprì il suo famoso teorema osservando una mattonella rotta sul pavimento e intuendo, mediante le mattonelle circostanti, una regolarità della figura.
                      Sempre a quanto ne so – che è poco – il principio di indeterminazione di Heisenberg si svolge, dimostrativamente, a livello subatomico.
                      Insomma, per affermare l’inattingibilità del vero ci si rivolge alla dimensione dell’infinitamente piccolo, dell’infinitamente grande, ai paradossi spaziotemporali ed alle realtà parallele.
                      Senza accorgersi che ci serviamo di concetti – l’infinito, il paradosso e il puramente virtuale – di cui nessuno di noi ha mai fatto minimamente esperienza.
                      Eppure ne parliamo!
                      Tutto questo per dire che la verità è possibile raggiungerla solo con l’ausilio della fede, perché la sola ragione a ciò non basta.
                      Il teorema di Pitagora è confutabile?
                      A livello teorico, astratto, subatomico o chissà dove forse sì.
                      Ma io vivo a livello concreto, terreno, umano; e le mattonelle mi sembrano sempre uguali, da due millenni e passa a questa parte, con tutti i loro cateti e quadrati.
                      E’ poco ma a me basta.

                  • semelets ha detto in risposta a Gibbì

                    Non sono dogmi. Il teorema di Pitagora parte da un’ipotesi: ipotizzo che vi sia una relazione tra le aree…ecc e questa ipotesi può rivelarsi vera o falsa. Non si tratta di fare infinite verifiche, ma di sapere se una determinata ipotesi è POTENZIALMENTE falsificabile e il teorema di Pitagora lo è ed è il motivo per cui, secondo Popper, si può definire scientifica.
                    Alcune ipotesi poi si impongono per la loro forza: su di esse acquisiamo un tale grado di certezza, che non riteniamo più conveniente mettere in campo forze spropositate (come il tentativo di verifica all’infinito) per tentare di confutarle, ma potenzialmente rimangono confutabili, perchè la confutabilità è una qualità intrinseca, potremmo dire di natura.

              • Luigi Pavone ha detto in risposta a Gibbì

                Direi criticabile INTERNAMENTE, anche se non ne farei una proprietà esclusiva di un discorso razionale. Una critica interna è una critica che si serve degli stessi strumenti argomentativi che supportano la tesi. Per fare un esempio, il teorema di Pitagora è razionale in quanto criticabile all’interno dei principi e delle regole di inferenza che lo giustificano. Io in linea di principio potrei dimostrare che il teorema di Pitagora non è riconducibile agli assiomi della geometria euclidea, o potrei dimostrare che la sua dimostrazione fa un uso nascosto di una proposizione non contemplata nella base assiomatica etc. La proposizione che Dio è uno e trino non è criticabile internamente, se lo facessi farei semplicemente parte di un’altra chiesa, la anglicana, la protestante etc. La critica della proposizione che Dio è uno e trino, la critica della transustanziazione, la critica della infallibilità papale dà luogo ad una incomunicabilità di fonde onde chi critica non fa più parte della chiesa, del gruppo, della setta che ritengono per vere certe affermazioni. Questo è il vero relativismo.

                • Semelets ha detto in risposta a Luigi Pavone

                  Non è corretto quello che dici dei dogmi.
                  Esiste una STORIA dei dogmi, non sono verità poste arbitrariamente, o infuse dall’alto E’ possibile percorrere la strada a ritroso e vedere in che modo si è arrivati alla definizione di un dogma, attraverso quali discussioni e contrasti.
                  Il dogma può essere considerato un punto d’arrivo in un processo di conoscenza, che si muove naturalmente all’interno delle coordinate della Rivelazione. La Chiesa ritiene di poter raggiungere, nell’approfondimento delle verità della Rivelazione, un grado sufficiente di certezza tale da poter mettere dei paletti definitivi, di non ritorno.
                  Naturalmente può farlo perchè ritiene di essere assistita in questa sua conoscenza dallo Spirito Santo. In quest’ottica noi possiamo guardare ai dogmi come a ciò cui aspira ogni essere umano, cioè una conoscenza definitiva.

  9. Gibbì ha detto

    Errata corrige: “Kuhn”, naturalmente, con l’acca dopo la u

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