Il “diritto d’amore” di Stefano Rodotà nega sia l’amore che il diritto

Stefano Rodotà 
 
 
 
di Aldo Vitale*
*dottore di ricerca in Storia e Teoria generale del diritto presso l’Università Tor Vergata

 

 
La storia del diritto occidentale, così ricca di stratificazioni e sfumature, si può, tuttavia, racchiudere nella dialettica tra le due grandi correnti di pensiero che l’hanno maggiormente caratterizzata: il giuspotivismo da un lato e il giusnaturalismo dall’altro.

In estrema e, ovviamente, non esaustiva sintesi per questioni di spazio: secondo il giuspositivismo il diritto si esaurisce interamente nella norma, anzi, nella legge secondo l’equivalenza per cui la legge è sempre diritto e il diritto non può che esser legge e in essa condensarsi; secondo il giusnaturalismo, invece, la legge può essere e deve essere solo espressione del diritto, diritto che è naturale, cioè pre-esistente alle norme dell’ordinamento, quelle positive, cioè poste dallo Stato, dal legislatore, e che come tale non si esaurisce dunque nella mera datità del fenomeno legislativo.

Nella tragedia sofoclea si esprime tutto ciò, nel confronto tra Antigone e Creonte in cui, sotto la nobile arte del verso poetico del celebre tragediografo, si mette in scena l’antico quesito: veritas facit legem o auctoritas facit legem? Si sostanzia, in definitiva, l’interrogativo già posto da Platone nell’Eutifrone: il santo, santo perché lo amano gli dei o perché lo amano gli dei è santo? Insomma, il diritto è giusto perché lo è di per sé, o soltanto quando giusto lo si ritiene? O meglio, il diritto è giusto di per sé o è giusto solo perché così vuole il legislatore? O ancora, la legge, è legge solo se è giusta, o è giusta solo perché è legge?

Hans Kelsen riterrebbe che la giustizia di una legge è priva di importanza, poiché lo sarebbe solo la sua validità, cioè non la sua sostanza, ma soltanto la sua forma. Hegel, per parte sua, risponderebbe, invece, che è il diritto è rectum, solo perché è directum, cioè che solo perché esprime il giusto, esso può essere diritto. S. Agostino, del resto, aveva precisato che lex esse non videtur quae iusta non fuerit, cioè non sarebbe legge quella che non fosse giusta, ovvero quella che non concorda, insegna S. Tommaso d’Aquino, con la retta ragione che è l’elemento costitutivo della natura umana. A questi due orientamenti contrapposti (giuspositivismo e giusnaturalismo), nell’ultimo decennio, sembra essersi aggiunto, con gradualità, in sordina, quasi impercettibilmente, un terzo polo del tutto inedito e nuovo nella storia del pensiero giuridico, cioè quello che si potrebbe definire come gius-sentimentalismo.

Il gius-sentimentalismo si basa sulla convinzione per cui i sentimenti in genere e l’amore in particolare, che per tradizione sono sempre stati estranei al diritto (si pensi proprio ad Antigone che vuole seppellire il fratello morto Polinice non per amore, ma per giustizia), debbano acquisire una rilevanza giuridica, fino a legittimare gli istituti giuridici o l’applicazione degli stessi. A quanto pare, illustre e primario esponente di questo nuovo indirizzo di pensiero giuridico, almeno in Italia, è Stefano Rodotà che, per l’appunto, ha teorizzato, niente di meno che un vero e proprio diritto all’amore. Lo stesso Rodotà se da un lato ammette, in una intervista , che «basta ripercorrere due secoli di storia: nella tradizione occidentale il diritto per un lungo periodo ha sancito l’irrilevanza dell’amore», per altro verso ritiene che occorre prendere atto dei mutamenti storici e sociali e cambiare idea facendo diventare l’amore giuridicamente rilevante.  Vi sarebbe da riflettere anche sui rapporti tra diritto e tempo, e soprattutto sulla circostanza che Rodotà considera assodata e non problematica, cioè che l’istituto matrimoniale sia e debba essere, perfino, oggetto di modifica in relazione ai mutamenti storico-sociali che nel tempo si succedono; tuttavia, lo spazio e il tempo in questa sede richiedono di focalizzarsi sulla questione principale.

Il problema, dunque, si pone in tutta la sua evidenza. Quali rapporti esistono tra diritto e amore? L’amore è un bene giuridico? Quali conseguenze discendono dalla giuridificazione dell’amore? Quali conseguenze per l’amore? Quali per il diritto? Rodotà, come chi dovesse sposarne la visione, non sembra scorgere gli effetti nefasti di una simile prospettiva che viola sia lo statuto ontologico dell’amore, sia soprattutto quello del diritto. Per Rodotà, infatti, come si legge nel suo libro, non solo esiste il diritto d’amore, ma «la negazione del diritto d’amore e la sua sottoposizione a vincoli obbliganti ci mostrano una persona alla quale vengono negate, insieme, libertà e dignità. Il diritto d’amore si iscrive così in un orizzonte giuridico che non entra in contraddizione con esso, e trova il suo fondamento nel rispetto dovuto alla persona. La negazione di quel diritto diviene così pure negazione di un ordine giuridico finalmente liberato dall’obbligo di impradonirsi della vita delle persone» (Diritto d’amore, Laterza 2015, pag. 23 ).

Secondo Rodotà non si può più negare il diritto d’amore, cioè non si può più evitare l’ingresso dell’amore nella dimensione giuridica. Tuttavia, come lo stesso Rodotà riconosce «il diritto d’amore, via via che molte resistenze vengono superate proprio attraverso leggi e sentenze, non può essere più negato con argomenti giuridici» (pag. 80); l’argomento, dettaglio che a Rodotà con tutta evidenza sfugge, non è, infatti, meramente giuridico, ma gius-filosofico, poiché attinente non solo alla natura, all’essenza dell’amore, ma soprattutto alla natura e all’essenza del diritto.

La problematica è senza dubbio complessa e articolata e non può essere risolta in così breve spazio, ma si possono comunque delineare i perimetri della stessa per coglierne le proporzioni. In prima battuta occorre riconoscere che amore e diritto hanno degli elementi in comune: sono entrambi umani ( il resto del creato non prova amore e non si serve del diritto); sono entrambi espressione della natura relazionale dell’uomo che supera la sua individualità; sono entrambi manifestazione della razionalità umana, per questo l’amore umano non è solo istintualità come nelle altre creature e il diritto non è mera violenza o sopraffazione (anzi, semmai è proprio l’opposto). Ciò nonostante, amore e diritto sono profondamente diversi e proprio a causa di questa loro ontologica ed insanabile differenza non solo sono non interscambiabili, poiché la realtà umana necessita sia dell’amore che del diritto, ma soprattutto non sono sovrapponibili, nel senso che l’amore non può essere giuridificato e il diritto non può essere amato (semmai può esserlo la giustizia che del diritto è la verità).

Come precisa, con la sua autorevolezza e la sua consueta chiarezza, il filosofo del diritto Sergio Cotta, occorre distinguere sei forme coesistenziali riconducibili a due grandi famiglie: quella delle relazioni integrativo-escludenti (amicale, politica, familiare) e quella delle relazioni integrativo-includenti (ludica, giuridica, caritativa). L’amore che è alla base della relazione amicale e famigliare, dunque, ha una natura opposta rispetto a quella del diritto, poiché l’amore esclude, mentre il diritto include. Del resto, essendo un sentimento, come l’odio e l’amicizia, non può che essere indifferente per il diritto il quale rischia di essere violato nella sua stessa propria natura qualora si dovesse piegare a simili velleità per giuridificare l’amore. Il diritto, infatti, in una simile evenienza tanto auspicata da Rodotà, sarebbe ridotto a mero strumento di formalizzazione dei desideri e delle nuove esigenze socio-storiche, sia di quelle giuridiche, sia di quelle a-giuridiche, sia di quelle anti-giuridiche, che si vengono a determinare lungo il corso del tempo. Una simile visione del diritto è espressamente delineate proprio dallo stesso Rodotà: «La legge, come opera consapevole dell’uomo, rimane nella sua disponibilità, può essere modificata. E’ uno strumento, prima ancora che un vincolo» ( pag. 19 ).

La legge, in cui Rodotà sembra identificare l’interezza del diritto, allora, diventa il mezzo a disposizione della assoluta volontà prometeica dell’uomo in genere e del legislatore in particolare, divenendo, insomma, non più espressione della ragione e della giustizia, ma solo strumento per la soddisfazione dell’egoistico desiderio individuale del sovrano o del più forte; riemerge con chiarezza quella antica visione volontaristica del diritto che aveva Trasimaco: «Io affermo dunque essere il giusto non altro che l’utile del più forte» e che già il pensiero di Platone e Arisotele aveva consentito di abbandonare non solo in quanto arcaica, ma soprattutto in quanto barbarica e non effettivamente giuridica. A fronte della sorpassata prospettiva di Trasimaco (su cui, ahinoi, Rodotà sembra fondare la propria), infatti, la cultura giuridica romana aveva già avuto modo di celebrare la sacralità della effettiva natura del diritto tramite il riconoscimento pieno del diritto di natura, come si evince dalle parole di Cicerone che così ragionevolmente puntualizza: «Non su una convenzione, ma sulla natura è fondato il diritto».

Rodotà, inoltre, non rende conto di quale amore debba essere giuridificato, poiché ammette che non si può definire l’amore (pag. 92 e ss), anche se, poco più avanti riconosce che «il problema, o l’inciampo, diviene quello dell’estensione dell’accesso al matrimonio alle coppie di persone dello stesso sesso» (pag. 102). Precisa, infatti, che occorre accettare l’ingresso dell’amore nella dimensione del diritto per affrancarsi dai modelli sociali fino ad ora accettati e non più prevalenti: «L’amore entra nella società, per sconvolgerla, ma in essa si insedia incidendo sulle sue dinamiche con modalità difficilmente riconducibili a quel denominatore comune che storicamente si era voluto creare attraverso il matrimonio monogamico, indissolubile, eterosessuale» (pag. 99). Insomma, si evince con chiarezza dalle parole di Rodotà, il modello del matrimonio monogamico, indissolubile, eterosessuale non costituisce più il paradigma della relazione giuridicamente tutelabile.

Se una simile prospettiva deve essere presa sul serio, come sul serio è presa da chi legge il suo volume, allora, occorre riconoscere la possibilità, non più semplicemente ipotetica, di legalizzare, sulla base esclusiva del fondamento amoroso che il diritto dovrebbe riconoscere, anche tutte le unioni diverse dal matrimonio monogamico, indissolubile, eterosessuale, le quali, fondandosi sul sentimento dell’amore, necessitano di una identica tutela e protezione giuridica; in quest’ottica devono essere legalizzate, dunque, le unioni come la poligamia (poliandria e poliginia), il poliamore, e perfino l’amore incestuoso. Rodotà lungo tutto il suo saggio lamenta l’impossessamento dell’amore da parte del diritto che pone limiti e divieti, ma non riesce a cogliere che la sua proposta è altrettanto fallace in quanto si limita semplicemente a ribaltare (anche ammesso che la sua analisi circa la funzione “predatoria” del diritto nei confronti dei sentimenti sia corretta) la dinamica appena descritta, facendo sì che sia l’amore ad impadronirsi del diritto.

Si tratta, dunque, di un fraintendimento totale della natura e del ruolo del diritto, oltre che di una generale sovversione degli istituti giuridici in generale e del matrimonio in particolare, poiché quest’ultimo non è la celebrazione del sentimento e non è pensabile al di fuori del rapporto monogamico, come, tra i tanti – anche non cattolici – insegna Hegel: «La conclusione del matrimonio è dunque la solennità con cui l’essenza di questo legame viene pronunciata e constata come entità etica innalzata sopra l’accidentalità del sentimento e dell’inclinazione particolare […]. Il matrimonio è essenzialmente monogamia. E’ infatti la personalità, cioè l’immediata singolarità esclusiva, a darsi e a collocarsi in questo rapporto: la verità e intimità di questo rapporto, quindi, procede solo dalla dedizione reciproca e indivisa di questa personalità». E sebbene non sembri attenersi ai propri stessi consigli, come quando giustamente intima che «le citazioni di Hegel, in questa materia, devono essere usate con molta prudenza» ( pag. 4, nota 5 ), così Rodotà non potrà non convenire che gli stessi accorti e prudenti riguardi devono essere a maggior ragione usati nei confronti delle categorie giuridiche le quali se non devono essere plasmate e alterate da ragioni politiche o ideologiche, a maggior ragione non possono neanche essere storpiate da ragioni puramente e banalmente sentimentalistiche.

 
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11 commenti a Il “diritto d’amore” di Stefano Rodotà nega sia l’amore che il diritto

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  1. Riccardo_CS ha detto

    Sbaglio o l’interrogativo di Platone è formulato in maniera non corretta?

    Così come è riportato (“il santo è santo perché lo amano gli dei, o perché lo amano gli dei è santo?”) mi sembra che le due opzioni abbiano lo stesso significato.

    Credo che la formulazione corretta sia la seguente: “il santo è santo perchè lo amano gli dei, oppure gli dei lo amano perchè è santo?”

  2. Alberto ha detto

    Per la legge un matrimonio è valido con o senza l’amore, queste son quindi tutte ciance da sentimentalisti.

    • Luca ha detto in risposta a Alberto

      Se é per questo per legge un matrimonio é valido con o senza figli.
      Credo che la domanda principale sia strettamente laica: quale modello di società e convivenza vogliamo/possiamo incentivare con le leggi?
      In seconda battuta forse bisogna chiedersi se tra gli esclusi dagli “incentivi” possa esserci qualcuno che si sente leso nei suoi diritti. In questo senso a me pare che la definizione di un “diritto all’amore” non sia come vorrebbe Aldo Vitale un legiferare sui sentimenti quanto piuttosto un regolare socialmente il modello di convivenza sociale che si vuole promuovere. Il dibattito secondo me dovrebbe riguardare QUALE modello e non vedo una risposta semplice o scontata.

  3. LG ha detto

    …mi pare che la “dittatura del sentimento” si configuri come l’altra faccia della medaglia della “dittatura del relativismo”

    • Luca ha detto in risposta a LG

      In quel che dici c’é sotto anche in questo caso un’idea di società e mi pare utile esplicitarlo. Tra una società che cerca di ottenere da me un comportamento in forza di un obbligo di legge ed un’altra che si propone di promuovere il libero convincimento, l’adesione intima ad un principio preferisco di gran lunga la seconda. Altroché dittature, ne va di mezzo proprio l’idea di libertà, e la libertà vera secondo me é un problema di educazione, non di obblighi.

      • LG ha detto in risposta a Luca

        se ho capito bene…credo tra l’altro di essere d’accordo con te 🙂

        Ad esempio, per quanto riguarda l’educazione, promuoverei (non imposizione, promozione) una cultura e una rilessione sulla sessualità che non veda la gravidanza come una tra le malattie veneree da evitare (sappiamo che purtroppo questo è, alla fine, il discorso che spesso viene propagandato).
        Promuoverei una riflessione che, senza la tautologica retorica dei diritti e della diversità, valorizzasse la differenza tra uomini e donne e la particolare configurazione della coppia uomo-donna che va discriminata rispetto atutte le altre possibili combinazioni proprio per la sua specificità : la massima differenza immaginabile che si fa vita nuova.
        Promuoverei una ruflessione sulla disciplina del desiderio, sulla coltivazione della volontà, sulla critica al concetto volgare di libertà che , a conti fatti , crea semplicemente un mondo di concorrenti (“fare quello che si vuole senza che ciò rompa le scatole agli altri”).
        Proporrei una riflessione sulla giustizia, che DEVE discriminare, è il suo compito, tra vari casi, senza far passare come uguali situazioni che sono differenti.
        Promuoverei questo dibattito, aperto, rispettoso, senza che volino accuse di medioevità, di arretratezza, di bigottismo o fanatismo da parte delle autonominatesi “menti aperte” che spopolano sui media e che formano lo zoo dei leoni da tastiera. Perchè la vita, come la verità, che lo si voglia o no, alla fine vince sempre 🙂

  4. Dan ha detto

    Non a caso è secolare che chi ragiona SOLO ED ESCLUSIVAMENTE con le emozioni perde il lume della ragione.Diventa un pessimo politico (vive di retorica del sentimento che si basa sulle emozioni non di fatti per migliorare la società) oltre che un pessimo giudice,mi basta contemplare uno che per sentimento nel caso Vannoni si è messo a ordinare a un medico di perpetuare una cura per “sentimento di rispetto” a delle persone che manifestavano che la volevano,solo per rispetto di una minoranza(qualcuno ricorda il caso “cura stamina”) in cui i giudici hanno VIOLANDO qualsiasi ricerca che la probava poco più una ciarlatanata non solo dell’ordine dei medici ma pure delle ricerche dei biologi,ordinando a un medico di somministrare una cura ciarlatanata.Questo appunto è aver giudicato per sentimentalismo.

  5. Rosario Masciaró ha detto

    Non mi piace per può No.Avrebbe dovuto essere titolato”Diritto al matrimonio”E’ solo un tentativo maldestro di burocratizzare giuridicamente il sentimento amoroso che da un
    Ex comunista non può essere considerato che un semplice contratto vidimato da un funzionario di partito con funzioni governative

  6. Licurgo ha detto

    C’è un conto che non mi torna a rigor di logica…
    Se l’amore è un diritto, arriviamo a questo assurdo: io (un io ipotetico, io su questo sono stato fortunato, non so se può dire lo stesso mia moglie!) non trovo nessuna che si innamora di me; essendo leso nel mio diritto all’amore, per forza di conseguenza lo Stato potrebbe obbligare qualche donna a sposarmi (o a essere la mia donna) perchè altrimenti viene leso il mio diritto; ovviamente vale anche a sessi invertiti.

  7. Fabrizia ha detto

    Cioè. Se uno va in galera perché mi ruba una mela che è mia, andrà in galera anche perché mi avrà spezzato il cuore mollandomi dopo avermi giurato amore eterno? Se io resto innamorata e lui non più, ho diritto a che lui mi ami finché non mi è passata?

    • Marco S. ha detto in risposta a Fabrizia

      Infatti.
      Mi paiono tutte pinzillacchere, che dimostrano la strumentalita’ derivante dal trattare l’unione d’amore come un diritto e non, semmai, come un istituto giuridico, che non serve quindi a tutelare gli individui, bensi’ serve alla societa’ per incoraggiare i comportamenti che essa ritiene piu’ utili.

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