«Sono una teologa femminista svedese e mi sento realizzata nella Chiesa cattolica»

madeleine fredellCome si può essere cattolica, femminista, svedese, e per giunta religiosa domenicana? A questa domanda ha cercato di rispondere Madeleine Fredell, domenicana e femminista svedese.

Non è la solita propaganda tardo-femminista diffusa dai media l’8 marzo, festa delle donne, sull’emancipazione da tutto e da tutti, religione compresa, invito alla ribellione, all’indipendenza delle donne cattoliche verso il Magistero della Chiesa, inno all’aborto libero, al contraccettivo selvaggio e al diritto del sacerdozio femminile. Niente di tutto ciò, Madeleine ha raccontato con delicatezza la sua storia, la sua conversione, la sua volontà dell’essere e del rimanere cattolica, la conciliazione interna tra le ribelli e adolescenziali -secondo noi- spinte femministe e il rispetto e l’obbedienza verso la Chiesa. «Spesso devo difendere la mia fede, devo giustificare il mio essere cattolica», ha scritto. «Alcuni mi dicono di passare alla Chiesa luterana, dove posso diventare sacerdote». Eppure, la sua risposta è quella di sentirsi «perfettamente a mio agio come cattolica».

Non per forza l’essere cattoliche e femministe è una contraddizione, spiega la religiosa svedese. Venne educata nella Chiesa protestante luterana, un rituale sociale, come lo definisce, seppur si trovava spesso a frequentare di nascosto la celebrazione cattolica, dove «sapevo di trovarmi in un affascinante mondo parallelo e di farne parte. Pur essendo completamente estranea, mi sentivo profondamente inclusa. Mi presi una vera cotta per la Chiesa cattolica, ma a livello della logica continuavo a contestare tutto ciò che era cristiano». Il sacerdote luterano che la seguiva «mi suggerì di iniziare a studiare teologia e diventare io stessa sacerdote. Pensai che fosse matto: non intendevo aver nulla a che fare con quella Chiesa maschile sciovinista e clericale e continuai a partecipare alle messe di mezzanotte cattoliche a Natale».

Nel frattempo cresceva il coinvolgimento con il mondo femminista, «sentivo tuttavia un vuoto che non poteva essere colmato dal mio impegno politico. Mi recai alla locale chiesa parrocchiale luterana, ma non mi sentivo parte di essa». Arrivò così il passaggio al cattolicesimo e anche la chiamata vocazionale: «Sentivo la chiamata alla vita religiosa unita all’impegno politico, ma anche a essere sacerdote, specialmente per predicare il Vangelo. Tuttavia, la mia vita prese un’altra piega quando, durante una vacanza estiva, conobbi una comunità di religiose domenicane in un sobborgo vicino a Grenoble. Questa volta non si trattò di una cotta, bensì di una chiara convinzione. Volevo vivere come loro, in un comune appartamento tra gente comune, svolgendo un lavoro comune e predicando il Vangelo attraverso quel tipo di vita».

Oggi, racconta, «sono domenicana da ormai trentacinque anni e non ho mai avuto ripensamenti sulla mia vocazione. Pur non potendo diventare sacerdote, in tutti questi anni non sono mai stata tentata di andare altrove. Mi sento perfettamente inclusa in questa comunità, chiamata a essere un ospedale da campo. C’è una sola cosa che mi dispiace, però, ed è non poter pronunciare l’omelia durante la messa. Predicare è la mia vocazione come domenicana, e sebbene possa farlo quasi ovunque, talvolta perfino nella chiesa luterana, sono convinta che ascoltare la voce delle donne al momento dell’omelia arricchirebbe il nostro culto cattolico. La Chiesa cattolica è stata il mio primo amore, e con la grazia di Dio continuo a provare tale amore ogni giorno. E lo faccio come femminista, come esploratrice di una teologia creativa e viva e come domenicana politicamente impegnata».

Omelia a parte, ci sono tanti altri modi e possibilità di predicare e certamente la voce femminile è una ricchezza per la Chiesa ed è giusto che tale voce abbia voce in capitolo a livello decisionale. Complessivamente una bella testimonianza da parte di una radicale femminista di quanto si possa sentirsi inclusi nella Chiesa anche senza essere sacerdotesse. Infatti le donne non chiedono questo, «io mi sento realizzata nella Chiesa cattolica», ha detto Patrizia, intervenuta al recente Sinodo sulla famiglia. «A volte si cerca un ruolo nella gerarchia senza pensare che il magistero della Chiesa ci riconosce già un ruolo privilegiato nella società». Il card. Gianfranco Ravasi ha risposto al clamore mediatico che si sviluppa sempre su questo tema: «Il paradosso che emerge dalle statistiche e dalle prese di posizione che arrivano da ogni parte del mondo è che l’aspirazione profonda delle donne non è affatto quella di diventare sacerdote», semmai avere una configurazione parallela a quella della gerarchia.

Il sacerdozio non è affatto un diritto, la Chiesa non ragiona così. Non è nemmeno un ruolo di potere o di comando. Lo ha spiegato Papa Francesco: «Il sacerdozio riservato agli uomini, come segno di Cristo Sposo che si consegna nell’Eucaristia, è una questione che non si pone in discussione, ma può diventare motivo di particolare conflitto se si identifica troppo la potestà sacramentale con il potere. Non bisogna dimenticare che quando parliamo di potestà sacerdotale ci troviamo nell’ambito della funzione, non della dignità e della santità. Il sacerdozio ministeriale è uno dei mezzi che Gesù utilizza al servizio del suo popolo, ma la grande dignità viene dal Battesimo, che è accessibile a tutti. La configurazione del sacerdote con Cristo Capo – vale a dire, come fonte principale della grazia – non implica un’esaltazione che lo collochi in cima a tutto il resto. Nella Chiesa le funzioni non danno luogo alla superiorità degli uni sugli altri».

Su questo argomento la parola della Chiesa è definitiva e va accettata. Come ricordava il card. Carlo Maria Martini, è «innegabile che Gesù Cristo ha scelto i dodici apostoli», per questo bisogna «accettare che Dio si è comunicato in un certo modo e in una certa storia e che questa storia nella sua singolarità ancora oggi ci determina. Una prassi della Chiesa che è profondamente radicata nella sua tradizione e che non ha mai avuto reali eccezioni in due millenni di storia non è legata solo a ragioni astratte o a priori, ma a qualcosa che riguarda il suo stesso mistero. Il fatto stesso cioè che tante delle ragioni portate lungo i secoli per dare il sacerdozio solo a uomini non siano oggi più riproponibili mentre la prassi stessa persevera con grande forza (basta pensare alle crisi che persino fuori della Chiesa cattolica, cioè nella comunione anglicana, sta provocando la prassi contraria) ci avverte che siamo qui di fronte non a ragionamenti semplicemente umani, ma al desiderio della Chiesa di non essere infedele a quei fatti salvifici che l’hanno generata e che non derivano da pensieri umani ma dall’agire stesso di Dio».

La redazione

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3 commenti a «Sono una teologa femminista svedese e mi sento realizzata nella Chiesa cattolica»

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  1. giallo ha detto

    Articolo molto interessante. Su questo tema i miei conoscenti atei vanno subito in attacco dicendo che il celibato fu introdotto solo per evitare la divisione dei beni della Chiesa, quindi per ragioni eminentemente terrene. Come controbattere? C’è davvero un fondamento storico nella loro affermazione?

    • Azaria ha detto in risposta a giallo

      Caro giallo, prima di indagare sulla domanda da te posta voglio sottoporti una semplice osservazione: ammesso che fosse cosí come hai scritto tu, tale scelta sarebbe solo un segno di grande altruismo.

      Infatti, chi é che ha preso tale decisione? Si é trattato proprio del clero. Ora, coloro che hanno preso tale decisione l’avranno certo dovuta rispettare. In tal caso rinunciavano ad avere una discendenza a cui lasciare ricchezze che sarebbero rimaste in eterno alla Chiesa, in netto contrasto con qualunque visione egoistica della decisione.

      Ora veniamo alla tua domanda, applichiamoci solo un minimo di logica (che noto mancare del tutto agli anti-clericali che pongono queste banalitá):

      Mi spieghi in quale modo alla morte di un prete i beni della Chiesa dovrebbero andare agli eredi? Ci andrebbero solo i beni di esclusiva proprietá del defunto prete, ma questo succede anche oggi con il celibato: il prete puó fare testamento a favore di nipoti, fratelli, amici, enti benefici, ecc., purché si tratti dei suoi beni personali. Quindi il celibato dei preti, in realtá, non ha cambiato minimamente quella situazione, fra l’altro il papato era (anche) un regno la cui corona non era certo ereditaria.

      Pura logica di base, niente altro.

  2. gladio ha detto

    Beh, Giallo , la ragione del celibato ecclesiastico è molto semplice :

    Dal momento che il sacerdozio non è un mestiere, ossia un’ attività volta a garantire il proprio sostentamento e quello della propria famiglia, ma una missione, cioè una dedizione disinteressata verso la comunità, è necessario, per chi ha intrapreso questa strada, essere libero da qualsiasi vincolo ( ad esempio una famiglia da mantenere ) che possa distoglierlo dai doveri e dalle responsabilità che egli stesso ha liberamente accettato di assumersi nei confronti di detta comunità. tutto qui…

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