Il successo dell’epigenetica mette in discussione il riduzionismo genetico

«Con questo articolo diamo avvio alla collaborazione con Paolo Tortora, professore ordinario di Biochimica presso l’università di Milano Bicocca, dove è anche Coordinatore del Dottorato in Biologia. È referee per alcune riviste scientifiche internazionali e collabora con l’Istituto Iinserm U710 di Montpellier (Francia)».

 

di Paolo Tortora*
*docente di Biochimica presso l’Università di Milano Bicocca

 

 

Una recente ricerca condotta in collaborazione tra un gruppo di scienziati di Ginevra e uno di Montpellier, e pubblicata sulla rivista specializzata Translational Psychiatry, riporta una scoperta di grande interesse nel campo della genetica (Perroud N, et al., 2011 Transl Psychiatry 1, e59). La ricerca in questione dimostra che esperienze negative vissute nell’infanzia possono produrre, nei soggetti che le hanno subite, modificazioni epigenetiche del DNA.

L’epigenetica studia quelle modificazioni ereditabili dei caratteri codificati nel genoma (che è l’insieme del patrimonio genetico di un organismo) non provocate da mutazioni in senso classico, vale a dire da cambiamenti della sequenza in basi del DNA. Le basi molecolari delle modificazioni epigenetiche sono alquanto complesse: si tratta di un repertorio di modificazioni chimiche del DNA medesimo tra cui le più frequenti sono le metilazioni; oppure di ulteriori modificazioni che interessano gli istoni, quelle proteine che nei cromosomi sono strettamente associate al DNA. L’epigenetica non è in realtà una scienza recentissima, anche se il suo maggiore sviluppo ha avuto luogo soprattutto negli ultimi 15-20 anni, nei quali è emerso che un numero sempre maggiore di eventi coinvolti nella regolazione dell’espressione genica possiede una componente epigenetica.

Tornando all’articolo citato, gli autori hanno dimostrato che soggetti maltrattati nell’infanzia presentano metilazioni in quel tratto di DNA (gene) denominato recettore dei glucocorticoidi, che ha il ruolo di attivare gli effetti fisiologici di questi ormoni controllando a sua volta l’espressione di un determinato repertorio di altri geni. Tali effetti sono molteplici e diversificati, ed includono anche l’adattamento a situazioni di stress. Nel caso descritto da questi ricercatori, le condizioni ambientali hanno dunque prodotto una modificazione permanente del genoma. Senza stabilire un rigoroso determinismo, gli autori del lavoro scientifico ritengono anche plausibile che tale modificazione si traduca in disturbi della personalità, o perlomeno determini una maggiore predisposizione ad essi. Tali osservazioni suggeriscono quindi la possibilità che il genoma venga modificato dall’ambiente, ed è proprio in questo che risiede il loro particolare interesse. Come sopra accennato, ciò non rappresenta in realtà una novità assoluta, come attestano le numerose pubblicazioni scientifiche comparse negli anni recenti nel campo dell’epigenetica. Interessante a questo riguardo è in particolare l’opera della ricercatrice israeliana Eva Jablonka (si veda in particolare il suo libro “Evoluzione quattro dimensioni”, Utet, 2009).

Ma oltre alla possibilità che l’ambiente modifichi il genoma attraverso meccanismi epigenetici, altri contributi scientifici hanno messo addirittura in evidenza la possibilità che tali modificazioni epigenetiche possano essere trasmesse alla progenie. A questo riguardo, due studi sono famosi, tra gli altri. Uno studio classico concerne gli eventi legati alla carestia in Olanda nel 1944-1945 (Luney, LH, 1992 Paediatr Perinat Epidemiol 6, 240-253.). I bambini nati in quel periodo erano sottopeso rispetto a quelli nati prima e dopo; inoltre in età adulta avevano una maggiore incidenza di cardiopatie e altre malattie croniche. Tali osservazioni non presentano nulla di sorprendente, date le condizioni di denutrizione che questi soggetti avevano dovuto sopportare durante la loro vita intrauterina. Ma la scoperta inaspettata fu che le donne nate in quel periodo e diventate a loro volta madri, diedero alla luce bambini essi stessi sottopeso e più soggetti a cardiopatie. L’interpretazione di gran lunga più plausibile di tali risultati è che tali caratteristiche siano state trasmesse alla seconda generazione attraverso modificazioni epigenetiche del genoma. Il secondo esempio è molto simile e riguarda gli effetti di un ormone estrogeno sintetico, il dietilstibestrolo. Diversi decenni fa si scoprì, sia nel caso di esseri umani che di animali da esperimento, che l’esposizione durante la vita intrauterina a tale composto poteva produrre alterazioni permanenti che si sarebbero manifestate nella vita adulta come anormalità degli organi riproduttori, in particolare neoplasie dell’utero (Newbold et al. 2006 Endocrinology 147, S11-S17). Di nuovo, si osservò anche che tali anomalie potevano essere trasmesse alle generazioni successive, una circostanza che indica chiaramente un meccanismo di trasmissione epigenetico.

Si deve dunque riabilitare il Lamarckismo, vale a dire l’antica teoria che sosteneva l’ereditarietà dei caratteri acquisiti? E in aggiunta, che impatto hanno queste osservazioni sulle teorie Darwiniste? A queste domande non è né possibile né opportuno dare riposte semplici. Innanzitutto, tali scoperte non mettono in discussione le leggi fondamentali della trasmissione dei caratteri ereditari, secondo le quali questi ultimi sono primariamente codificati nella sequenza in basi dei vari geni. In merito alla teoria Darwinista nelle sue varie formulazioni, non si può negare che essa abbia una sua autoevidenza, là dove asserisce che la variabilità di caratteri viene generata casualmente (in senso moderno si tratta di mutazioni che interessano la sequenza in basi del DNA), e che i caratteri più adatti alla sopravvivenza della specie sono quelli che tendono a diventare prevalenti nelle generazioni successive. Tuttavia la domanda da farsi è in che misura tali schemi interpretativi possano rendere conto pienamente dell’evoluzione biologica e dell’origine della straordinaria varietà di “phyla” e di specie che conosciamo. Ebbene, ritengo che ad oggi nessuno abbia sufficienti elementi per dare una risposta esaustiva a tale domanda.

In effetti, le scoperte citate mettono in evidenza che gli elementi in gioco circa le leggi dell’eredità dei caratteri e dell’evoluzione, sono ben più complesse di quanto non si ritenesse solo pochi decenni fa. A questo riguardo mi pare opportuno descrivere una dinamica normale sottesa al progresso della conoscenza scientifica in qualsiasi ambito. Accade che scoperte fondamentali si traducano nella formulazione di teorie che rivoluzionano in tutto o in parte le concezioni preesistenti. Ora, tali nuove teorie non rappresentano soltanto un punto di arrivo nel progresso della conoscenza, ma sono anche senza eccezione un punto di partenza per ulteriori sviluppi. Da questi emerge successivamente un quadro interpretativo che presenta una complessità inizialmente insospettata. L’attuale successo e sviluppo dell’epigenetica costituisce una documentazione molto eloquente di una tale dinamica. Essa dimostra che non è possibile considerare il Darwinismo come un recinto entro il quale racchiudere tutti i fattori implicati nei meccanismi evolutivi e dell’eredità. Piuttosto, esso può rappresentare una buona ipotesi di lavoro da prendere come punto di avvio per ampliare lo sguardo, così da formulare teorie nuove che riconducano ad una visione organica sia le vecchie che le nuove conoscenze. Dunque il darwinismo non può essere considerato un dogma immutabile, come in qualsiasi ambito della conoscenza scientifica.

Da ultimo, mi sembra anche opportuno notare che le scoperte menzionate mettono anche seriamente in discussione quelle concezioni riduzionistiche, secondo le quali il comportamento delle specie viventi, inclusa quella umana, sia riconducibile deterministicamente al funzionamento dei geni. Qualsiasi specie, ma soprattutto quella umana, è irriducibile a schemi interpretativi elementari, e il caso della epigenetica non è che uno dei molteplici elementi che smentiscono questa visione della biologia e dell’uomo.


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16 commenti a Il successo dell’epigenetica mette in discussione il riduzionismo genetico

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  1. gemini ha detto

    Grazie molte per questo articolo!

  2. Alessandro Giuliani ha detto

    Benvenuto caro Paolo,

    dal mio punto di vista non ho un grande amore per ‘l’epigenetica ridotta a ipermetilazione/ipometilazione’ mi sembra un patetico tentativo di riciclare masse di ricercatori-gnomi che ormai non sanno far altroc che fare seqeunza di qualcosa (mi sembrano più fertili campi come lo studio dinamico dei tessuti e delle interazioni cellula-cellula attraverso modelli di campo, l’eredità prionica, alternative splicing ecc. ecc.) ma concordo entusiasticamente con te che qualsiasi cosa ci faccia uscire dal soffocante e sostanzialmente fallimentare (nessun nuovo farmaco, nessuna nuova conoscenza a livello sistemico) genocentrismo sia da plaudire.
    Poi col tempo dovremmo provare a non far diventare tutto immediatamente ‘traslazionale’ ma per questo abbiamo bisogno che la scienza sia meno invasa dalla spettacolarizzazione.
    Grazie ancora comunque del tuo preciso intervento che chiarisce bene la necessità di un cambio netto di paradigma.

  3. Leonardo Paolo Minniti ha detto

    Benvenuto al prof. Tortora!!! Leggo sempre con piacere i suoi articoli su Ilsussidiario…sono contentissimo che sia anche qui!!

  4. Michele Forastiere ha detto

    Benvenuto al prof. Tortora anche da parte mia!

  5. Andrea ha detto

    Salve prof. Tortora il suo articolo è Molto interessante, sulle conclusioni tuttavia non sono d’accordo al 100%

    sulla confutazione del riduzionismo in toto ho un solo appunto: un processo che riscrive se stesso è perfettamente compatibile col rasoio di Occam.
    Cioè vi può essere semplicità anche in un meccanismo che riscrive parti di sè.

    Ma forse lei voleva riferirsi solo alla parte di riduzionismo che professa l’immutabilità di tale meccanismo, nel qual caso la mia precisazione è superflua.

    • Antonio72 ha detto in risposta a Andrea

      @Andrea

      Hi and I don’t understand.

      • Andrea ha detto in risposta a Antonio72

        Ciao vuoi che ti risponda in inglese 😉 ??

        “le scoperte menzionate mettono anche seriamente in discussione quelle concezioni riduzionistiche, secondo le quali il comportamento delle specie viventi, inclusa quella umana, sia riconducibile deterministicamente al funzionamento dei geni”

        non so cosa pensano i riduzionisti in genere, non so nemmeno se sono un vero riduzionista, me lo dite voi quindi ci credo…ma credo anche che sia perfettamente plausibile che il “programma” riscriva parti di sè stesso.
        Se questo significa non essere riduzionisti allora forse non sono riduzionista…

        • Antonio72 ha detto in risposta a Andrea

          E però mi devi tradurre quel “programma” lì (per quanto mi riguarda è peggio dell’inglese 😉 ), che tra l’altro hai virgolettato, forse inconsciamente o forse perchè volevi che ti chiedessi chiaro e tondo:
          Cosa intendi per programma, in termini biologici e non informatici, visto che qui si parla di evoluzione biologica?

          PS
          Inoltre secondo me è scorretto dire che i geni funzionano, visto che il DNA non fa nulla. Il DNA è una molecola inerte e non potrebbe fare alcunchè senza le proteine, gli enzimi, le cellule, l’RNA ecc.. La prova è che lo possiamo recuperare dalle mummie egiziane.

          • Andrea ha detto in risposta a Antonio72

            Mi sembra chiaro, ma se mi sbaglio correggimi, che il DNA trasporti delle informazioni e che tali informazioni siano alla base di come il nostro organismo almeno nella fase iniziale del suo sviluppo acquisisca forma e funzionalità. Mi sembra altrettanto chiaro che se nasciamo con un cervello umano piuttosto che con un cervello d’ape sia a causa delle informazioni presenti nel DNA.

            Se nel corso del suo funzionamento l’organismo prevede che tale codice informativo venga modificato questo sicuramente amplia l’ambito della variabilità genetica della discendenza (non più semplice meccanismo di selezione basato su variazione casuale ma vera e propria “configurazione del prossimo stampino”, anche se ovviamente inconscia da parte del genitore)

            per continuare la similitudine noi siamo fatti di hardware la cui configurazione parrebbe quindi essere dettata da un set informativo iniziale + un set di variazioni indotte dai meccanismi spiegati nell’articolo. il DNA è una sorta di file di configurazione.

            A runtime (e quindi ad organismo “vivo”) il cervello apprende e si modifica e attraverso qualche meccanismo che ancora non conosciamo ma i cui effetti sono evidenziati nell’articolo, gli stessi file di configurazione che hanno generato la configurazione iniziale vengono sovrascritti o integrati con altre informazioni.

            se carichi un programma iniziale su una rete neurale che si chiami cervello, il codice iniziale può stare tranquillamente nel DNA. Ma un programma può tranquillamente contenere informazioni del tipo: “riscrivi questo pezzo di te stesso se l’esperienza o l’ambiente renderebbero a valle degli effetti della riscrittura il programma più efficiente rispetto al programma iniziale”, questo era il senso del mio discorso.

            Il ragionamento quadra a livello di interconnessioni neurali (che si modificano con l’apprendimento) l’articolo pare illustrare che ciò possa avvenire anche a livello genetico (e quindi in modalità trasmissibile agli eredi)

            In questo senso non vedo controindicazioni ad un interpretazione riduzionista (materialista?) di quanto evidenziato. Con un aggravante su cui ti chiedo un parere.

            Mi si dice spesso che la variazione casuale da sola non può produrre un set di organismi così diversificati e che questa sarebbe la base di una delle possibili distinzioni tra uomo e animali. Nel momento in cui tuttavia si comprendesse che il meccanismo di variazione diviene “quasi saltazionista” come riterresti che si sia ridotta (invece che essere aumentata) la probabilità che uomo e animali siano facce della stessa medaglia?

            • Antonio72 ha detto in risposta a Andrea

              No, attenzione Andrea, innanzitutto è bene chiarire cosa intendo per riduzionismo applicato all’uomo, altrimenti pare che il credente debba negare in toto il meccanismo dell’evoluzione animale, il quale vale per tutti, uomo compreso.
              Per riduzionismo intendo che la coscienza razionale umana non emerga solo da una rete neurale complessa, ma abbia un quid ulteriore, che noi credenti, chiamiamo anima.
              E’ cmq ovvio che il supporto cerebrale debba essere compatibile perchè l’anima razionale possa esprimersi nel mondo. Ma un conto è dire “compatibilità tra rete neurale ed espressione dll’anima”, altra cosa è invece dire “coscienza razionale quale epifenomeno emergente dalla rete neurale”. Quest’ultima è la tesi del riduzionismo materialista.
              Tornando alla scienza, sappiamo per certo dell’estrema plasticità del cervello umano, almeno fino ad una certa età. Ho letto per es. una notizia di una donna in Cina, completamente priva di corteccia cerebrale nell’emisfero sinistro, la quale conduceva una vita del tutto normale.
              Sappiamo inoltre che quando si apprendono più lingue in tenera età il multilinguaggio sfrutta la medesima area cerebrale, rispetto a quando si apprendono le lingue in età adulta, dove le aree delle varie lingue sono diversificate. Quindi, nessuno può mettere in dubbio la plasticità del cervello umano, come nessuno credo possa contestare l’unicità nel regno animale della razionalità umana. Usando la tua metafora, la maggior parte dei software che girano nel cervello umano sono totalmente inefficaci in altri cervelli animali, compresi quelli dei primati. Anche se è improprio separare l’hardware dal software quando trattasi di cervello.
              Ora è bene distinguere cosa dice di diverso l’epigenetica rispetto alla mutazione genetica casuale. Sintetizzo la cosa in una frase-metafora: per l’epigenetica il DNA non è lo spartito della vita, ma solo una tastiera dove non si suonano le note, bensì i geni. Per l’epigenetica due gemelli monozigoti con patrimonio genetico identico possono esprimere alcuni geni in maniera differente. Ma il DNA non muta in nulla: quello è e quello rimane, solamente, viene “suonato” in maniera diversa. Questo spiegherebbe anche la scarsità di informazione contenuta nel DNA umano, rispetto al patrimonio genetico di alcuni anfibi ed anche vegetali.
              Il passo successivo è quindi il ben più complesso Progetto Proteoma, in quanto i geni non esprimono altro che proteine, le quali sono quindi il vero linguaggio della vita. In altre parole per l’epigenetica nell’evoluzione dell’organismo non vi è nulla di casuale, anzi questa evoluzione è guidata da forze interne a livello molecolare ed esterne, e quindi dall’ambiente stesso, il quale non si limita solo a selezionare l’organismo mutante già bello e pronto e frutto del caso. Forse dirò una bestemmia scientifica, ma per me l’epigenetica riporta in auge il tanto deriso lamarckismo. Ora, tenuto conto questo punto fermo, ovvero che la mutazione genetica non può sconvolgere a tal punto l’evoluzione di un organismo, intesa come origine di una specie, nel caso la specie umana, ci si può sbizzarrire a scegliere quali fattori ambientali abbiano contribuito a far evolvere l’uomo da un progenitore che molto probabilmente saltava da un ramo all’altro. Da parte mia una volta portai l’ipotesi dell’antropologo Marvin Harris, il quale voleva spiegare come il cervello dell’Homo abilis (più scimmia che uomo) abbia potuto evolversi in quello molto più grande e complesso dell’Homo Erectus. E per questo venni attaccato, secondo me ingiustamente, perchè è evidente che l’Homo Erectus aveva un cervello a metà strada tra l’abilis ed il sapiens, e che nelle stesse fattezze fisiche era già molto vicino al sapiens. Ma così si fa l’errore degli stessi riduzionisti che vogliono spiegare la razionalità umana esclusivamente su basi cerebrali! Quindi per me il salto di qualità non può spiegarsi solo con la grandezza del cervello, dato che l’erectus per milioni di anni condusse una vita non tanto dissimile da quella dell’abilis, pur essendo dotato di un hardware molto più evoluto (circa il 33% in più di massa cerebrale). Il saltazionismo attiene quindi all’introduzione del linguaggio umano e non alla grandezza del cervello. Cosa spinse l’uomo, unico animale terrestre, a dotarsi di un linguaggio ricco e complesso, quanto inutile ai fini dell’immediata sopravvivenza? Secondo me prima del software (linguaggio) si è dovuto evolvere l’hardware adatto (il cervello) e non viceversa. Inoltre per me quest’ultimo non implica necessariamente il primo.
              Andrea, se hai un’idea di come possa essersi catapultato il linguaggio nel cervello umano, che sia diverso dalla solita spiegazione dei grugniti utili che si trasformano in parole inutili, allora credo che potresti tranquillamente candidarti per il Nobel, come vorrebbe fata Morghana.

              PS
              Come al solito il mio pippone zeppo di parole inutili si è prolungato a dismisura portando via mezzo blog. Forse con un paio di grugniti me la sarei cavata meglio.

              • Andrea ha detto in risposta a Antonio72

                Antonio, mi è chiaro, in base alla tua definizione mi ritengo sicuramente un riduzionista materialista, ciò detto non ho nessun motivo aprioristico di scartare ipotesi lamarckiste se venissero confermate dagli approfondimenti. Ma se ho capito bene la tua tesi, riconosci che il saltazionismo sia più compatibile rispetto alle altre ipotesi, con una discontinuità nelle varie specie, e questo a mio avviso andrebbe a detrimento dell’ipotesi secondo cui l’uomo sia un essere totalmente a sè.
                Tuttavia tu dici, il linguaggio è un elemento talmente misterioso e a sè stante che pur in presenza di saltazionismo spinto, l’uomo per possederlo deve aver sicuramente ricevuto una sorta di “soffio divino” (ossia quell’anima di cui parli).

                Scusa se ho banalizzato, fammi capire se ho ben compreso il tuo pensiero.

                  • Andrea ha detto in risposta a Giorgio Masiero

                    Ciao Giorgio, perdonami ma non credo che la tua visione sulle potenzialità del software sia al passo con le più recenti applicazioni. E’ chiaro anche a me che Powerpoint non si riscriverà mai diventando Excel.

                    A partire dagli anni 80 sono stati prodotti diversi sistemi auto-modificantisi e in grado di modificare i propri algoritmi di apprendimento. Quello che tu interpreti come pericolo di auto-riscrittura catastrofica viene evitato assicurandosi che le modifiche sopravvivano solo se soddisfano condizioni legate agli errori, al fitness rispetto ad un problema da risolvere, ad una funzione di reward.

                    Nell’ipotesi che il nostro cervello o il nostro organismo abbiano funzioni di reward di base (esplicite: sopravvivere e/o implicite: comprimere e rappresentare nel modo più sintetico possibile le informazioni che immagazzina), io non ci vedo niente di male a fare paragoni.

                    E’ chiaro che un simile approccio non può essere stato il motivo ispiratore del codice scritto per gestire un foglio di calcolo o la disposizione di testo e forme sullo schermo.

  6. Enzo Pennetta ha detto

    Benvenuto anche da parte mia al prof. Tortora!

    E grazie per questo articolo che contribuisce a fare luce sulle implicazioni dell’epigenetica.

  7. Leonardo ha detto

    Bentornato Prof.!
    Mi fa molto piacere leggerla.

    E arrivederci, o meglio, addio “Gene egoista”.

  8. Ciocco ha detto

    Qualora si provasse che i fattori epigenetici sono trasmissibili (trasmissione verticale) sarebbe una rivoluzione, anche se nella fattispecie bisognerebbe capire fino a che punto questi fattori abbiano inciso sulla speciazione. Comunque un articolo bellissimo.

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