Malattia e psicologia: i credenti sopravvivono di più rispetto agli atei

La rivista americana “Liver Transplantation” ha pubblicato in questi giorni un interessante studio fatto da ricercatori del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) di Pisa e del Centro trapianti di fegato dell’università di Pisa, diretti dallo psicologo Franco Bonaguidi. Essi riguardano il rapporto tra la religiosità del paziente e la sua eventuale guarigione dopo un trapianto di fegato. Lo studio mostra che il livello di sopravvivenza è maggiore in quelli in cui il fenomeno “religiosità” è presente in maniera attiva, cioè coloro che si affidano a Dio, hanno fede in Lui e cercano di percepire la Sua volontà anche nella malattia. Anche la rivista “Psychology and Health” nel febbraio 2010 aveva mostrato come la religiosità provochi una significativa riduzione della mortalità generale; e sulla rivista “Biology of Blood and Marrow Transplantation” di questo mese, uno studio di psicologi statunitensi mostrerà come l’assenza di spiritualità nel paziente aumenta il rischio di morte dopo il trapianto di cellule ematopoietiche. Lo studio italiano, pubblicato pure su Interscience.com, è commentato da Carlo Bellieni su l’Osservatore Romano. Il bioetico spiega che l’uomo trova nell’atteggiamento di ricerca del trascendente non un ostacolo, ma un forte alleato. Molto di misterioso sta racchiuso nell’animo e nella psiche umana ed entrambi hanno da guadagnare anche fisiologicamente dalla religiosità. Poveri neodarwinisti: se il credente sopravvive all’ateo significa darwinianamente che ha caratteri genetici più forti e positivi (e probabilmente più “razionali”). Di conseguenza dovremmo aspettarci l’estinzione totale dell’ateismo a causa della sopravvivenza del più forte?

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