Quando Jean-Paul Sartre scrisse della natività di Cristo

Il film «Anno Zero», da poco nelle sale cinematografiche, prende ampiamente le mosse dal testo teatrale del paladino laico e Nobel per la Letteratura Jean-Paul Sartre, Bariona o figlio del tuono (qui per visionare l’opera), elaborato durante il periodo di detenzione del filosofo nel campo di concentramento di Treviri nel ’40. Fu scritto grazie all’amicizia con alcuni cattolici prigionieri ed è ritenuto uno dei testi letterari più alti sulla Natività.

Un Sartre inedito, distante dagli esiti nichilistici de La nausea, aperto alla speranza, che riconosce la positività dell’essere e sa descrivere, con rara delicatezza, l’affezione stupita di Maria, unitamente al pudore protettivo di Giuseppe, per il “Dio bambino”, l’attesa dell’uomo per quel Figlio. Lì trovò l’amicizia, lo solidarietà cristiana che sconvolse la sua solitudine laica. Fu un momento particolare della sua vita, come disse più tardi: «Nello Stalag ho trovato una forma di vita collettiva che non avevo più conosciuto dopo l’École Normale, e voglio dire che insomma lì ero felice» (J.-P. Sartre,Oeuvres romanesques, Paris 1981, p. LXI.). Lì conosce alcuni sacerdoti, tra cui l’abate Marius Perrin, con cui si lega d’amicizia. «Tutto sommato» scrive Annie Cohen-Solal «con i preti si sente in fraternità. Nonostante interminabii discussioni sulla fede». Nel campo, rileva Merleau-Ponty, «questo anticristo aveva intrecciato relazioni cordiali con un gran numero di preti e di gesuiti» (A. Cohen-Solal,Sartre, New York 1985, tr. it., Sartre, Milano 1986, p.188). Non è un caso che, nello stesso arco di tempo, si appassioni ai cattolici Claudel e Bernanos: «Le due grandi scoperte che ho fatto nel campo sono state La scarpetta di raso e il Diario di un curato di campagna. Sono i soli libri che mi abbiano veramente fatto un’impressione profonda» (Intervista di Sartre con Claire Vervin per l’articolo Lectures de prisonniers, in Les lettres françaises, 2 dicembre 1944, p. 3).

L’ateismo di Sartre e la vocazione mancata.
Massimo Borghesi, docente di Filosofia morale all’Università di Perugia, racconta su 30giorni che Sartre da ex credente (per colpa di uno zio) ha considerato il suo ateismo e la sua vita come «la storia di una vocazione mancata: avevo bisogno di Dio, mi fu dato, lo ricevetti senza capire che lo cercavo. Non potendo attecchire nel mio cuore, egli ha vegetato in me, poi è morto. Oggi, quando mi si parla di Lui, dico: cinquant’anni fa, senza quel malinteso, senza quell’errore, senza quell’incidente che ci separò, avrebbe potuto esserci qualcosa tra noi» (J.-P. Sartre, Le parole, cit., p.95.) Il posto, lasciato vuoto da Dio, viene occupato dalla letteratura, dall’arte dello scrivere. Lui stesso dirà: «Questo pastore mancato, fedele alla volontà di suo padre, aveva conservato il Divino per versarlo nella cultura. Scoprii questa religione feroce e la feci mia per dorare la mia sbiadita vocazione. Diventai cataro, confusi la letteratura con la preghiera, ne feci un sacrificio umano» (J.-P. Sartre, Le parole, cit., p.137). L’opera del Natale 1940 resterà un’«eccezione», non scriverà più opere di questo genere, né di Dio né dell’uomo. Come se la peculiare atmosfera del campo lo avesse reso più vicino al mistero dell’esistenza e dell’uomo.

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