di John Ronald Reuel Tolkien, scrittore, filologo, glottoteta e linguista britannico.
Bompiani 2005, € 19.00.
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«Caro Signore, benché a lungo alienato, l’Uomo non è perduto né del tutto cambiato. Forse è in disgrazia, non detronizzato, e della sua signoria i cenci ha conservato: l’Uomo, il Subcreatore, questa riflessa Luce, passando per il quale dal Bianco si produce di colori una gamma, senza fine in viventi forme commisti e scambiati tra le menti. Le fessure del mondo noi abbiamo riempito Di elfi e folletti ma pure costruito Dèi e templi a partire dall’ombra e dalla luce, sparso dei Draghi il seme: fu un’insolenza truce? Era il nostro diritto, che non è decaduto: creiamo nella legge che tali ci ha voluto».
In questa poesia – tratta dal libro “Tree and Leaf”, che raccoglie un saggio e alcune fiabe – John Ronald Reuel Tolkien intreccia tra le rime un tema a lui carissimo: quello dell’uomo inteso come “Sub-Creatore”. L’essere umano in quanto artefice, in qualità di artigiano o di artista, è capace solo di riflettere questa Luce (in inglese “White” è scritto con la lettera maiuscola). E che cos’è mai questa Luce, se non la purezza, la genuinità della Perfezione, dell’Assoluto, di Dio Creatore; Luce che passando attraverso la creatura, come un prisma viene riflessa in molteplici forme, nella poliedricità e nella polifonia delle varie arti tradizionali, pittura, scultura, poesia, etc.
Alcuni dicono che Tolkien, esperto di filologia germanica, ha rimaneggiato i miti della Mittel-Europa, dando loro un anima moderna. No, egli ha fatto molto di più. Le opere di Tolkien sono profondamente intrise di significati che non vengono colti dalla lettura come semplici “storie fantastiche”; il testo presenta sì un senso letterale, ma anche un sovrasenso, un senso anagogico: “anagogè”, (dal greco) “salpare l’ancora”, lasciare la nave (della Ragione) libera di correre, di astrarre da quello che è scritto nelle righe, e intuire quello che è scritto tra le righe.
2. La Fantasia Tolkieniana
Un altro concetto caro a Tolkien è quello di “Fantasia” (Fantasy). Ed è qui che arriviamo al fulcro della sua narrazione. Tolkien usa il termine fantasia non nell’accezione moderna (se vogliamo puerile), ma come un sinonimo di Mito, inteso come facoltà del pensiero di percepire cose reali. “Fantàsein” in greco non sono visioni distorte delle cose, ma il verbo è invece sinonimo di “capacità di uscire fuori dalla griglia della Ragione, pur senza offendere la Ragione, e spaziare in Universi nei quali la Ragione di per sé non può entrare”. La capacità del poeta è per Tolkien la facoltà di attingere alle realtà dello Spirito attraverso le cose materiali, in un universo intessuto di Simboli. L’universo è un “signum factum” tangibile, di un mistero che s’è fatto materia, forma, armonia (si pensi a quando San Francesco scriveva: “de Te, Altissimo, porta significatione”).
L’artista cerca il “Ricordo” delle cose. Non l’illusione o la fantasticheria, ma il Ricordo, la Verità. Dice Omero: «Non potrei cantare se non ricordassi, “Ei mnesaiat”». La Verità è una perifrasi al negativo, “alètheia”, mancanza di dimenticanza (scrivevano i Padri del Deserto “Mnemetus theou”- ricordo di Dio). Tolkien intende il poeta come Vate, il quale esprime cose che esistono al di là delle semplici percezioni.
Tolkien è perfettamente conscio di questa sua azione, di questa funzione tradizionale del poeta. Oggi la poesia è distorta. Frammenti intimistici più o meno sconnessi; il Poeta tradizionale invece è l’anima del suo popolo. Omero è guercio perché ha imparato a chiudere gli occhi sulla realtà visibile per aprirli su quella invisibili. Cecità come ritorno all’interno di noi stessi.
Cito ancora da “Tree and Leaf”: «La Fantasia è una naturale attività della mente umana, la quale certamente non distrugge e neppure reca offesa alla Ragione, né smussa l’appetito per la verità scientifica, di cui non ottunde la percezione, al contrario: più acuta e chiara è la Ragione, e migliori Fantasie produrrà. Ma se gli uomini si trovassero in condizioni tali da non voler conoscere o voler percepire più la realtà, allora la fantasia illanguidirebbe […]. E semmai arrivassero a quello stato, che non sembra del tutto impossibile, la fantasia perirebbe, o diverrebbe morbosa illusione».
Di nuovo la Fantasia come capacità di intuire profondamente la Realtà che soggiace alle cose visibili. Oltre la mente, ma non offende la mente. Come quello che nella fede cattolica è detto Mistero della Fede. Il Mistero supera la mente ma non offende e non contraddice la mente. La supera ontologicamente per sua essenza.
3. Il Silmarillion. L’ “Antico Testamento” della Terra di Mezzo
«Esisteva Eru, l’Unico, che in Arda è chiamato Ilùvatar; ed egli creò per primi gli Ainur, Coloro che sono santi, progenie del proprio pensiero, ed essi erano con Lui prima che ogni altra cosa fosse creata».
Veniamo dunque al Silmarillion. Il primo capitolo, Ainulidalë, racchiude la sublime cosmogonia (mito di creazione dell’Universo) tracciata da Tolkien. Creazione che sicuramente non è inventata dall’autore, perché riprende le fasi esatte delle grandi cosmogonie, di tutte quante le tradizioni; tutte infatti passano attraverso delle fasi ben precise: l’oscurità, la profusione della luce della Parola, la creazione e l’animazione delle prime forme, etc.
Ilùvatar, dopo la creazione degli Ainur – le prime potenze celesti – li istruì affinché tutti insieme eseguissero una “Grande Musica”, seguendo un tema da Lui esposto. E subito venne sciorinata una melodia polifonica, di uno splendore incantevole. Tra gli Ainur vi era Melkor, il più bello e il più potente degli spiriti creati da Eru, che tuttavia iniziò a cantare di sua iniziativa, proponendo una melodia dissonante e discordante rispetto a quella cantata dagli altri. Melkor dunque si presenta come il primo antagonista della storia.
Antagonista è un termine importante perché rappresenta una volontà che può dire di no al piano proposto dal Creatore dell’Universo. Se non ci fosse libertà non ci sarebbero antagonisti. Ecco il senso del lucifero tolkieniano (Melek dall’ebraico “re”, e or è “luce”), colui che introduce la disarmonia, attraverso note ripetute fino alla stanchezza, note dissonanti con l’armonia totale, completamente uniformi. Lucifero è il maestro dell’uniformità, della monocultura, delle frasi fatte, degli slogan (dal tedesco schlägen, martellare). Con i quali si impedisce alla mente ogni tipo di virgulto, perché si parla per moduli.
4. La Prima Era della Terra di Mezzo. I Silmaril, i Tre Gioielli
Nel terzo capitolo, Quenta Silmarillion, viene narrata la storia della cosiddetta Prima Era della Terra di Mezzo. Il mondo, dapprima ancora informe e indefinito, venne modellato dai Valar (“Potenze del Mondo”, nome assunto dagli Ainur discesi in terra), esplicitando la visione che Ilùvatar aveva loro mostrato attraverso la composizione della Grande Musica (brano tra le cui righe si può scorgere un chiaro riferimento al Logos giovanneo che crea ed è partecipe della creazione). Anche Melkor tuttavia era sceso sulla Terra di Mezzo e, ogni volta che i Valar tentavano di dar forma al disegno di Dio, egli interveniva opponendosi ai loro sforzi, portando rovina e desolazione. A lungo durò la lotta tra le potenze celesti e l’Ainur caduto, finché il mondo non riuscì a trovare un suo equilibrio, e la natura e la vita parvero armonizzarsi. Grande era l’aspettativa e l’attesa dei Valar per colori che sarebbero giunti, i Figli di Ilùvatar (Elfi e Uomini). Il loro desiderio nel preparare un mondo degno delle genti che l’avrebbero abitato era secondo solo alla violenta brama di Melkor nel distruggere tutto ciò che di bello e lussureggiante v’era.
Quenta Silmarillion è il capitolo più ricco del libro; vi è descritta la genesi degli Elfi, i Primogeniti di Ilùvatar, il loro prendere possesso del continente – malgrado le difficoltà e i perigli che costoro trovarono sul loro cammino a causa di Melkor – e le loro interminabili guerre contro quest’ultimo. È sempre in questo capitolo che si trova la storia dei Silmaril, le Tre Gemme elfiche da cui il libro prende il nome, forgiate da Fëanor, che aveva racchiuso in esse lo splendore della Luce degli Alberi Telperion e Laurelin, creati dal Valar Yavanna, che cantando aveva infuso in essi la Luce di Ilùvatar. Dopo la distruzione dei due Alberi ad opera di Morghot (termine che significa nero nemico del Mondo, con il quale Melkor venne ribattezzato da Fëanor), i Silmaril furono l’unica fonte terrena ancora esistente che racchiudeva quella Luce tanto agognata e bramata dai Valar e dagli Elfi. E fu proprio a causa di quella Luce che Fëanor, accecato dalla superbia e suggestionato dalle oscure parole di Morghot, quando i Valar chiesero indietro i Silmaril, manifestò il suo disprezzo nei loro confronti e il suo desiderio di tenere le gemme per sé. Anche Morghot tuttavia le bramava al pari dei Valar, e grazie al suo oscuro potere e ad un sottile stratagemma riuscì ad ottenerle. Sul recupero dei Silmaril si snoderà quasi tutta la trama del capitolo, che racconterà delle cosiddette Guerre dei Gioielli, intraprese dagli Elfi contro Morghot e i suoi malvagi eserciti. I temi preponderanti delle vicende raccontano di guerre, tradimenti, invidia, morte, ma anche di valore, virtù, coraggio e naturalmente di amore (tra le tante storie del capitolo , celeberrima è di sicuro quella di Beren e Lúthien). Il capitolo si chiude con uno scontro finale tra le forze del Bene e quelle del Male che sulla falsa riga della mitologia norrena ricorda il Ragnarök, battaglia finale tra le potenze della Luce e dell’Ordine e quelle della Tenebra e del Caos, in seguito alla quale l’intero mondo verrà distrutto e quindi rigenerato.
5. Nùmenor. La gloria e il declino dell’impero degli Uomini
«Come ricompensa per le loro sofferenze nella lotta contro Morgoth, i Valar, i Guardiani del Mondo, donarono agli Edain una terra dove potessero vivere al riparo dei pericoli della Terra di Mezzo. La maggior parte di essi attraversò il Mare; guidati dalla Stella di Eärendil, giunsero alla grande Isola di Elenna, la più occidentale delle Terre Mortali. Ivi fondarono il reame di Númenor».
Penultimo capitolo dell’opera, Akallabêth è l’immediato antecedente del Signore degli Anelli. In questo capitolo vengono raccontati l’ascesa e il declino dell’impero dei Dunedain, gli Uomini di Nùmenor. Gli Uomini erano in apparenza simili agli Elfi, ma di minor splendore e resistenza. A differenza dei Primogeniti, questi risentivano dello scorrere del tempo, diventavano preda della vecchiaia e morivano. La morte era infatti il dono che Ilùvatar aveva loro offerto, per potersi ricongiungere con Lui al termine della loro vita terrena, e prendere parte alla Grande Musica che Egli avrebbe proposto alla Fine.
In Akallabêth viene presentato il Valar Sauron, che sarà il principale antagonista ne Il Signore degli Anelli; servo di Morghot, seminatore di rovina e distruzione, e al tempo stesso astuto, menzognero e portatore di discordia. Fu durante il declino dell’impero numenoreano che ottenne un incommensurabile potere dopo aver forgiato l’Unico Anello (l’artefatto attorno al quale è intrecciata la trama del celebre sequel tolkieniano) e fu proprio per mano degli Uomini, uniti in un ultima alleanza con gli Elfi, che venne sconfitto alla fine della Seconda Era, dopo la quale dell’Anello del potere si perse ogni traccia. Nel breve capitolo conclusivo è tracciata sinteticamente la trama che verrà poi ripresa ed ampliata magistralmente nella Trilogia.
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