Challenge estreme e solitudine, quando manca la famiglia
- Giorgia Brambilla
- 26 Set 2025

Sempre più adolescenti vittime di challenge estreme. L’informazione non basta, serve il ruolo della famiglia come antidoto e strumento di formazione umana e affettiva.

di
Giorgia Brambilla*
*Docente di Etica sociale presso l’Università LUMSA di Roma
Dalla “planking challenge” alla “blackout challenge”, passando per il “train surfing”.
Uno studio del Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità indica che oltre il 6% degli studenti 11-17 anni ha partecipato almeno una volta a una sfida pericolosa, con maggiore prevalenza tra 11-13enni, su campione rappresentativo di 8.700 ragazzi.
Alle challenge sono, poi, correlati altri comportamenti a rischio, come le dipendenze tecnologiche o “new addiction” (social, videogiochi, TV, ecc.).
Adolescenti e challenge estreme: perché?
Ma perché l’adolescente è disposto ad assumersi il rischio di determinati comportamenti? E soprattutto, quali sono i fattori che, di fronte alla proposta di partecipare ad una challenge, possono invogliarlo a farla o, al contrario, proteggerlo da essa?
Le ipotesi sono molteplici: l’immagine di sé e del proprio corpo, i modelli socialmente condivisi, la pressione da parte dei pari, il disagio sociale, ma soprattutto la presenza/assenza della famiglia1M.L. Di Pietro, Bioetica e famiglia.
In questo contributo, cerchiamo di spiegare come la “liquidazione” della famiglia nella cultura contemporanea sia tra le cause di uno dei fenomeni più preoccupanti della gioventù attuale e di cui spesso non si ricercano a fondo le cause, limitando la prevenzione all’informazione.
Secondo lo psichiatra Tonino Cantelmi2T. Cantelmi, Tecnoliquidità. La psicologia ai tempi di internet: la mente tecnoliquida viviamo in un tempo segnato da una profonda crisi delle relazioni interpersonali, alla base della quale vi sarebbero alcuni fenomeni, amplificati a loro volta dalla rivoluzione digitale: l’aumento del tema narcisistico nelle società postmoderne; la fluidità dei ruoli e la ricerca di sensazioni forti.
Quest’ultimo punto è esattamente ciò che riguarda da vicino il nostro tema.
I “sensation seekers” sono quei soggetti disposti a correre dei rischi pur di ottenere sensazioni nuove ed intense, che generalmente ottengono in situazioni estreme, come la “plancking challenge” (sdraiarsi al centro della carreggiata, attendere l’arrivo delle auto, per poi sottrarsi un attimo prima che avvenga l’impatto), la “blackout challenge” (indurre lo svenimento comprimendo il collo per ricercare euforia) o il “train surfing” (viaggiare aggrappati a convogli in corsa).
Tutte prove di “coraggio” testimoniate da video caricati in rete per ricevere like o essere ammessi iniziaticamente nel gruppo dei coetanei.
Questi gesti facilmente riconoscibili come auto-lesionistici, rientrano nei cosiddetti “taking risk behaviours”, tema molto caro alla Bioetica, ovvero quei comportamenti che, in modo diretto o indiretto, sono responsabili di danno per la salute e/o per la vita di chi li agisce e, nel caso specifico, dell’aumentata incidenza di morbilità e di mortalità e possono condurre alla morte.
Il ruolo della famiglia: antidoto alle challenge
A fronte di comportamenti potenzialmente a rischio, le reazioni individuali possono essere varie; vi è, quindi, una discrepanza tra l’aspetto cognitivo (percezione del rischio) e la tensione affettiva verso gli effetti di un determinato comportamento. Questa tensione è responsabile dell’accettazione delle eventuali conseguenze (assunzione del rischio).
Gli studi mostrano che la famiglia può incidere sul rapporto percezione/assunzione del rischio e avere così un ruolo concausale sull’insorgenza di queste gravi problematiche3M.L. Di Pietro, Adolescenza e comportamenti a rischio, per la mancanza affettiva e/o educativa delle figure parentali, o per la presenza o di relazioni famigliari conflittuali, così come per l’assenza di una figura genitoriale (di solito il padre) o per la presenza di uno squilibrio educativo padre/madre.
Gli adolescenti hanno bisogno di una famiglia con cui dialogare, piuttosto che digitare le domande relative alle loro angosce su ChatGPT o confrontarsi esclusivamente con i loro pari, che vivono le loro stesse difficoltà.
Oggi, però, molti adolescenti perdono la fiducia negli adulti e si chiudono in comunità autoreferenziali, per difendersi da un mondo adulto distratto, deludente, adultescente e spesso caduto, per primo, nelle trappole delle dipendenze.
Emblematico il fenomeno degli Hikikomori – adolescenti che vivono isolati nelle loro stanze ipertecnologiche e rifiutano di uscire di casa e di entrare in relazione con il mondo esterno, se non tramite connessione e tecnologia – ma anche, all’opposto, quello dei ragazzi comuni che passano la maggior parte della loro giornata fuori casa, tra un’attività e l’altra, o da soli con libero accesso a tutti i possibili strumenti tecnologici, senza filtri e senza controlli.
Ed è proprio la solitudine a rendere la persona più vulnerabile alle dipendenze, come confermato dalla letteratura scientifica4A. Siracusano, Loneliness: a new psychopathological dimension?, in “Journal of Psychopathology” 23/2017.
L’informazione non basta
C’è urgente bisogno di educatori amorevoli e autorevoli che entrino nella solitudine degli adolescenti; che sappiano intercettare il confine adeguato tra un comportamento, che sembra una normale espressione dell’adolescenza, ed un comportamento che stia diventando rischioso; che sappiano stare accanto ai ragazzi, alle loro speranze, energie, gioie, ai loro slanci vitali e ai loro dolori e incertezze.
La famiglia è e sarà sempre una opportunità sostanziale di relazione, un mezzo per impedire che gli adolescenti spinti dalla solitudine possano cercare “soluzioni” al vuoto che percepiscono, incappando in dipendenze, autolesionismo, depressione e suicidio.
La famiglia è un sistema aperto verso l’esterno che si incontra o scontra con altri modi di funzionare: talvolta integrandoli, talvolta assorbendoli acriticamente, talvolta entrando in “braccio di ferro” con i modelli che non approva proposti dalla scuola, dal gruppo dei pari, dai mass media e dai social5B. Costantini, Famiglia e dipendenze patologiche.
Questi aspetti ci fanno comprendere, tra l’altro, che una prevenzione adeguata non può limitarsi all’informazione, per quanto importante, come quella che viene svolta nelle scuole (spesso, peraltro, con contenuti discutibili).
Occorre piuttosto una formazione umana e affettiva integrale, che educhi il ragazzo alla capacità critica, alla mentalizzazione delle emozioni, che ponga le basi per lo sviluppo della moralità e che offra gli strumenti per costruire relazioni amicali sane.
In altre parole, ai ragazzi occorre oggi più che mai una famiglia che, parafrasando il celebre passo di Familiaris Consortio, “diventi ciò che è”.
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