Il Corano considera divino il Vangelo: la scoperta che scuote l’Islam

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I musulmani considerano sacri alcuni testi cristiani (Injeel) del VII secolo. Ma una ricerca svela che il Corano si riferisce alla Peshitta siriaca, identica al Vangelo attuale. Un duro dilemma per l’Islam.


 

Non tutti sanno che il Corano riconosce i testi cristiani come scritture divine e rivelazioni autentiche di Dio.

Ma com’è possibile? I testi cristiani contraddicono esplicitamente i contenuti del Corano, a partire dalla divinità di Cristo, dalla crocifissione e dalla sua resurrezione.

La risposta della dottrina islamica è sempre stata che il Vangelo conosciuto oggi, contenente insegnamenti incompatibili con l’Islam, non sarebbe quello originale diffuso nel VII secolo, ma sarebbe stata modificato e corrotto nel tempo.

Due ricercatori hanno dimostrato invece che i testi che i cristiani leggevano ai tempi di Maometto erano esattamente gli stessi che leggiamo ancora oggi. Questo crea un atroce dilemma: il Corano valorizza testi che contraddicono le fondamenta dell’Islam?

 

Cosa dice il Corano sui testi cristiani

Facciamo un passo indietro e partiamo dall’inizio.

Il Corano, libro sacro dell’Islam, in diverse sure si riferisce al Injil, termine arabo che indica il Vangelo dato da Dio a Gesù (Īsā).

Per il Corano e i per i musulmani, l’Injil è una rivelazione divina originale, un libro sacro, simile alla Torah data a Mosè.

Il Corano parla dell’Injil come di una scrittura autentica, un documento scritto e disponibile ai cristiani ai tempi di Maometto e che essi dovevano seguire in quanto testo sacro, esortandoli a «giudicare secondo ciò che Dio vi ha rivelato» (Sura 5,47).

In un altro passaggio, il testo islamico riferisce: «E abbiamo inviato, seguendo le loro orme, Gesù, figlio di Maria, confermando ciò che c’era prima nella Torah; e gli abbiamo dato l’Injil, in cui vi è guida e luce» (Sura 5,46).

E ancora, nelle sure 3,3-4 e 5,68 si ribadisce che Dio ha rivelato la Torah e l’Injil prima del Corano e che queste scritture hanno un ruolo guida per i credenti.

Come già detto, i musulmani oggi sostengono che quando il Corano si riferisce all’Injil sta parlando di testi cristiani diversi dal Vangelo di oggi, il quale contieni testi diversi dall’originale, corrotti o alterati nel tempo. Si chiama dottrina del Tarif.

D’altra parte, sarebbe assurdo sostenere che il Corano indicasse il Vangelo come scrittura sacra e divina, nel quale Gesù è l’unico figlio di Dio, risorto e asceso al cielo. Evidentemente i cristiani al tempo di Maometto leggevano testi coerenti con l’Islam e che non contenevano queste affermazioni.

 

La ricerca: l’Injil del Corano è la Peshitta siriaca

Nel 2017 i ricercatori della North-West University (Sudafrica), Henk G. Stoker e Paul Derengowski, hanno però contraddetto la dottrina del Tarif.

Pubblicando sull’African Online Scientific Information Systems (anche qui), attraverso un’approfondita indagine storica e filologica gli studiosi infatti mostrato che i cristiani dell’Arabia del VII secolo possedevano testi cristiani ben definiti e sostanzialmente identici a quelli utilizzati oggi.

Si tratta della Peshitta siriaca, cioè la versione del Vangelo in uso presso i cristiani di lingua siriaca in Medio Oriente (Siria, Mesopotamia e Arabia). E’ ad essa che il Corano si riferisce come scrittura sacra e divina, attribuendole il nome Injil.

Nel IV secolo il canone delle Scritture era già essenzialmente definito ma non tutte le comunità cristiane nel mondo usavano esattamente gli stessi testi. Pur essendo il contenuto in gran parte simile, differenze regionali, linguistiche e canoniche facevano sì che i cristiani siriaci leggessero una versione, quelli copti in Egitto un’altra quelli latini in Occidente un’altra ancora.

E questo ci porta all’Arabia. Ai tempi di Maometto, all’inizio del VII secolo, il cristianesimo era già presente in quella regione da secoli, portato nella Penisola Arabica da monaci, mercanti e missionari. Ebrei e cristiani erano attivi a Medina e le loro scritture venivano lette, insegnate e dibattute apertamente.

 

La Peshitta siriaca è identica al Vangelo di oggi

La Peshitta siriaca era la versione dominante, copiata, memorizzata e predicata nelle chiese dalla Siria fino all’Arabia. Comprendeva 22 libri del Nuovo Testamento, inclusi i quattro Vangeli e le lettere di Paolo. Escludeva soltanto la Seconda lettera di Pietro, la Seconda e Terza lettera di Giovanni, la Lettera di Giuda e l’Apocalisse di Giovanni.

La sua tradizione manoscritta è straordinariamente stabile, come riconosciuto da Bruce Metzger, tra i principali filologi del Nuovo Testamento: «I copisti siriaci dedicavano grande cura alla trascrizione della versione Peshitta. Esiste un accordo straordinario tra i manoscritti di ogni epoca, essendoci in media non più di una variante importante per capitolo»1B. Metzger, “The early versions of the New Testament, Clarendon 1977, p. 49.

Il teologo Kurt Alanda e la moglie filologa, Barbara Aland, la definiscono «la versione siriaca del Nuovo Testamento più attestata e trasmessa in modo costante»2K. Aland, B. Aland, The text of the New Testament, Eerdmans 1989, p. 194.

La Peshitta siriaca era la versione ufficiale usata sia dai Notiari che dai Giacobiti, le comunità cristiane che Maometto incontrò.

 

Il dilemma per l’Islam: il Corano indica il Vangelo come divino

Questa scoperta mette radicalmente in crisi la dottrina del Tarif e la narrativa islamica sulla corruzione delle Scritture.

Ecco cosa affermano gli studiosi:

«Se è vero che la Peshitta è così ben attestata e preservata, allora ciò che la Chiesa cristiana siriaca conosceva del Vangelo nel VI e VII secolo dell’esistenza terrena di Maometto è esattamente ciò che i cristiani conoscono oggi. Non è qualcosa di completamente diverso come vorrebbero far credere gli apologeti musulmani».

Proseguono poi in maniera piuttosto incisiva:

«Dato che la Peshitta siriaca era la versione biblica che Maometto riconobbe durante la sua vita, ne consegue che questa versione — o una qualsiasi tra altre versioni simili — dovrebbe essere lettura obbligata per i musulmani, antichi e moderni. Di conseguenza, la Bibbia dovrebbe costituire la base della fede e della dottrina musulmana. Non dovrebbe esserci alcuna variazione, perché Dio sarebbe l’autore di entrambe».

Sappiamo però che il Corano e il Vangelo si contraddicono apertamente. Se dunque la Peshitta fu davvero l’Injil citato dal Corano, come ritengono gli studiosi, ciò avrebbe conseguenze enormi e porrebbe un dilemma cruciale per i fedeli musulmani.

Significherebbe che il testo scritto da Maometto, sotto dettatura di Allah, considerava il Vangelo cristiano una rivelazione autentica, ma allo stesso tempo contraddiceva molte delle sue stesse affermazioni.

Si configurerebbero quindi due opzioni per la dottrina islamica:
1) Accettare la Peshitta come autentica rivelazione divina, ammettendo la contraddizione del Corano e quindi della parola di Dio;
2) Rifiutare la Peshitta come rivelazione genuina, contraddicendo così ciò che dice a riguardo il Corano, cioè una scrittura sacra e divina.

Se l’Injil non è stato alterato, allora il Corano riconosce come sacro e divino il Vangelo che nega i suoi stessi insegnamenti.

E’ giusto osservare che Stoker e Derengowski sono cauti nelle loro conclusioni.

Non affermano con certezza assoluta che la Peshitta siriaca fosse l’Injil dei contemporanei di Maometto e ciò che leggevano. Tuttavia sostengono che, basandosi sulle prove disponibili, è di gran lunga il candidato più plausibile.

Autore

La Redazione

3 commenti a Il Corano considera divino il Vangelo: la scoperta che scuote l’Islam

  • Jacopo ha detto:

    Solo due appunti:

    1) Le sure con queste affermazioni relative alla Bibbia a quale periodo della vita di Maometto risalgono?
    Se ho capito bene, nel Corano ci sono diverse contraddizioni interne che i teologi musulmani risolvono con la dottrina “dell’abrogazione” (si chiamava così?), per cui le sure successive all’Egira “abrogano” quelle precedenti.

    2) Sempre se ho capito bene, per la teologia musulmana la divinità è talmente “libera”, “assoluta”, onnipotente etc. (non garantisco sulla correttezza di questi termini) che a essa è possibile persino la contraddizione e il male, senza che ciò costituisca un problema per la sua essenza.

    Tutto questo per dire che per l’Islam la contraddizione interna forse non è proprio un’anomalia (sempre se ho capito bene, lo ripeto).

    • Paolo Giosuè ha risposto a Jacopo:

      Jacopo, facendo uno studio in rete, la risposta è affermativa: gli studiosi datano i passi coranici in generale ascrivibili alla fase della Mecca e di quella di Medina; le polemiche più esplicite con ebrei e cristiani compaiono nel materiale medinese quando la comunità di Maometto interagiva con loro. La dottrina del naskh (abrogazione) è il metodo classico musulmano per risolvere apparenti tensioni legali o testuali (le sentenze successive sostituiscono quelle precedenti), sebbene gli studiosi moderni contestino quanti casi veri esistano. Sulla teodicea, la teologia islamica comprende scuole contrastanti: i mu’taziliti insistono sulla giustizia divina (e quindi rifiutano l’idea che Dio possa commettere un errore morale), mentre gli ash’ariti sottolineano l’onnipotenza divina e accettano che la ragione umana non possa sempre limitare l’azione divina. Quindi, all’interno dell’Islam, le apparenti contraddizioni non sono necessariamente considerate fatali: vengono gestite attraverso il contesto, l’abrogazione, i metodi interpretativi o particolari posizioni teologiche. Un’analisi esclusivamente accademica esaminerebbe fonti esegetiche primarie, elenchi classici di naskh e studi critici moderni, ma questo forse esula dai nostri interessi.
      E’ interessante piuttosto vedere come gli studiosi arabi entrino in relazione con la scolastica.
      Padre Cavalcoli afferma che, come è stato dimostrato dal Gilson, Scoto è influenzato dalla nozione avicenniana dell’essenza come indifferente alla singolarità esistenziale e all’universalità logica e ad esse precedente. Così succede che l’oggetto della metafisica diventi nello scotismo l’ente inteso come essenza indipendentemente dall’esistenza e quindi a prescindere dal suo essere reale.

      Ora, siccome l’oggetto del nostro intelletto è l’essenza dell’ente, afferrata nel concetto, si vede subito come in Scoto il concetto dell’ente balza in primo piano, assume in lui un’eccessiva importanza rispetto allo sguardo realista volto all’ente reale. Da ciò viene che l’intelletto si concentra sull’essenza, la quale diventa più importante dell’essere. Il possibile appare più esteso dell’attuale. Vien meno la percezione dell’atto d’essere come perfezione dell’essenza, potenza di essere. Ora, siccome l’atto d’essere è analogico e diversificato, mentre l’essenza è univoca e sempre la stessa, ecco che il concetto dell’ente non è più analogico, ma univoco.

      Scoto riconosce bensì l’analogia e la diversità tra gli enti reali, ma, legato com’è all’essenzialismo avicenniano, non vede come si possa avere un concetto analogico dell’ente, perché ciò secondo lui creerebbe equivocità e confusione. La cosa è comprensibile se ci fissiamo come fa lui solo sull’essenza dell’ente.

      Ma se consideriamo che ogni ente reale è diverso dall’altro, per poter concepire questo fatto occorre una nozione analogica, purificata o pluriforme, che ammetta e riconosca implicitamente seppur confusamente questa diversificazione. Occorre una ragione non rigida ma duttile, aperta ed ampia, che sappia navigare nella diversità dell’essere pur mantenendo un’unità concettuale imperfetta. Il termine anà in greco significa proprio questo spostarsi dell’intelletto per poter seguire la pluralità, complessità e scalarità del reale.

      Invece una nozione univoca generica lascia fuori le differenze e le diversità col risultato che esse escono dall’essere e diventano un nulla. Qualcosa del genere era presente nella nozione parmenidea dell’essere e non è escluso che Avicenna abbia preso da lì. Egli come musulmano era legato alla nozione dell’unità divina che suppone un concetto dell’essere che escluda ogni pluralità, da cui il rifiuto coranico della Trinità in Dio.

      Come modesta aggiunta personale, direi che tuttavia l’enfasi sull’essenza ha portato alla proclamazione del dogma dell’Immacolata concezione, proprio per la peculiare haecceitas della Madre di Dio. Maria, in altre parole, di distingue modalmente da tutti noi ( grazie al principio scotista della distinctio formalis a parte rei). Non è poi un così grande male se teologia islamica e cristiana si incontrano sulla eminenza della Madonna, alleluia!

    • Antony ha risposto a Jacopo:

      Qui però non si parla di semplice “contraddizione”, si parla di considerare divino il testo evangelico in cui non solo Gesù è il Messia, la via, la verità e la vita, ma non c’è traccia di alcun accenno alla religione islamica o alla teologia islamica. Siamo ben oltre alla semplice contraddizione.