Il Concilio Vaticano II ha davvero svuotato le chiese?

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Le riforme del Concilio Vaticano II e il declino della frequenza alla Messa. Secondo uno studio il legame c’è, ma è un’interpretazione miope. Don Mario spiega perché.


don mario proietti

 

di
don Mario Proietti*
 
 
*Direttore Responsabile dell’Abbazia San Felice (Giano dell’Umbria)

 
 

 

Un recente studio ha riacceso il dibattito sul legame tra il Concilio Vaticano II e il calo della pratica religiosa cattolica.

Analizzando i dati di sessantasei Paesi, gli economisti del National Bureau of Economic Research hanno rilevato che, a partire dagli anni Sessanta, la partecipazione mensile alla Messa è diminuita in modo costante e più rapido rispetto ad altre confessioni cristiane.

I numeri parlano chiaro: un calo medio di circa quattro punti percentuali per decennio.

Per molti, la conclusione è immediata e sbrigativa: il Concilio avrebbe causato la crisi.

 

Il Concilio fu la causa o la risposta alla crisi?

Ma questa interpretazione semplificata ignora sia la natura del Concilio, sia il contesto storico in cui è nato.

Il Concilio non fu la causa della crisi, ma la risposta a un mondo già in profonda trasformazione.

Giovanni XXIII, convocandolo, non era un ingenuo ottimista. Era un pastore che aveva compreso la gravità dei cambiamenti in atto. Le sue preoccupazioni erano precise: un’umanità sempre più consumata da stili di vita secolarizzati, dalla forza dilagante del capitalismo, dalla globalizzazione e dai nuovi mezzi di comunicazione, capaci di plasmare l’animo umano più delle parole del Vangelo.

Il Concilio fu il tentativo profetico della Chiesa di offrire una risposta evangelica a questi scenari. Non un cedimento, ma un rinnovamento per affrontare un’epoca nuova.

 

Il Concilio e il calo della Messa, quale legame?

Se il Concilio non è la causa, cosa spiega il declino?

Il vero problema non risiede nel dono ricevuto, ma nel modo in cui è stato accolto. Spesso le riforme conciliari sono state ridotte a slogan, banalizzate e interpretate in modo arbitrario.

Come ricordava Benedetto XVI, la sfida cruciale per la Chiesa oggi è la sua capacità di attrarre. Questa attrazione non dipende dalla forma di un rito, ma dalla testimonianza di vita.

Il Vangelo non è mai stato compatibile con il mondo, e oggi lo è ancora meno. Vivere la fede in un contesto in cui emozioni e valori sono plasmati dalla società globale e digitale significa andare controcorrente, anche a costo di conflitti sociali e familiari.

La radicalità evangelica, annunciata da Gesù stesso, non promette una pace superficiale, ma una spada che divide. Se un giovane decidesse di prendere sul serio il Vangelo, rischierebbe di allontanarsi dai suoi amici o di scontrarsi con i propri genitori. È questo il realismo della fede: una scelta radicale che genera incomprensioni e persino abbandoni.

 

La crisi non è liturgica ma antropologica

I dati economici, letti in questa prospettiva, non dimostrano il fallimento del Vaticano II. Rivelano piuttosto la fatica di una generazione di cristiani nel vivere appieno il fuoco del Vangelo. Il calo della partecipazione non è primariamente liturgico, ma antropologico e culturale.

Anche se la Chiesa avesse mantenuto le forme preconciliari, il declino sarebbe comunque avvenuto. La radice del problema è un profondo cambiamento della società, che rende sempre più difficile aderire alla radicalità evangelica.

Proprio il Vangelo di domenica scorsa ha illuminato questa dinamica. Gesù dichiara: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12,49). Il fuoco del Vangelo non si spegne per le riforme, ma quando la Chiesa esita a incarnare la sua natura di segno di contraddizione.

Il Concilio ci ha offerto gli strumenti per accendere quel fuoco in un tempo nuovo. Se la partecipazione è diminuita, è perché spesso non siamo stati capaci di custodirlo e di trasmetterlo con coerenza.

La sfida, dunque, non è rimpiangere il passato o cercare soluzioni nelle polemiche. È recuperare il coraggio della scelta cristiana. I numeri ci interrogano, ma la risposta non è nella nostalgia: è nel rinnovare la nostra fedeltà a Cristo.

Quando il fuoco della fede arde, la Chiesa attrae; quando si spegne, restano solo le statistiche.

 


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Autore

don Mario Proietti

4 commenti a Il Concilio Vaticano II ha davvero svuotato le chiese?

  • Corrado Gnerre ha detto:

    Ho sempre apprezzato lo stile di uccronline, perché bene ancorato a dati e alla scientificità delle tesi esposte. D’altronde un sito che si appella all’uso della ragione come preambolo necessario alla fede non potrebbe che avere un taglio di questo tipo. Sono però meravigliato e per questo ho deciso di commentare -cosa che solitamente non faccio- questo articolo di don Mario Proietti. Al di là dei giudizi di merito, ci sono due approcci che ritengo poco scientifici. Il primo è quello di affermare che, se non ci fosse stato il Vaticano II, la crisi della fede cattolica avrebbe avuto le stesse proporzioni (se non addirittura più gravi) di quelle attuali. Cosa che può dire chiunque, ma che non può beneficiare di alcun riscontro. E’ come se uno storico dicesse che se non ci fosse stata la Seconda Guerra Mondiale, di lì a breve ce ne sarebbe stata un’altra molto più sanguinaria. Il secondo è non prendere in considerazione un particolare importante della ricerca del NBER (centro studi economico con nessun interesse di carattere apologetico, quindi estraneo al dibattito teologico), ovvero che la crisi di secolarizzazione certamente toccava anche altre confessioni religiose, ma essa ha proceduto, per queste altre confessioni religiose, molto più lentamente rispetto a ciò che è avvenuto nella Chiesa Cattolica immeditatamente “dopo” il Vaticano II. Certamente, nessuno può negare che i germi della crisi della fede cattolica erano già prima del Concilio, ma altresì nessuno può negare un dato incontestabile, cioè quello relativo agli abbandoni del sacerdozio e della vita religiosa immediatamente dopo il Concilio stesso. Questo al di là delle intenzioni dei padri conciliari e dei documenti. Saluto cordialmente e confermo tutta la mia stima per il lavoro che svolgete.

    • Pietro Calore ha risposto a Corrado Gnerre:

      Caro dott. Gnerre, al di là dello studio in oggetto che non ho ancora letto, propongo un’osservazione a sostegno dell’affermazione controfattuale di Don Proietti.

      Durante la guerra fredda, nell’ex mondo comunista dell’est Europa, di fronte alle medesime pressioni politiche e povertà, i paesi a maggioranza cattolica (e.g. Polonia e Ungheria), pur vivendo le medesime innovazioni pastorali, dottrinali e liturgiche del CVII che in parallelo vivevano i paesi cattolici dell’Europa occidentale in pieno boom economico, hanno mantenuto la fede. E lo hanno fatto sia rispetto ai paesi comunisti gemelli ma protestanti (e.g Germania est e Repubblica Ceca) sia rispetto ai paesi ugualmente cattolici ma nel pieno delle trasformazioni sociali del boom economico.

      Solo ora (a 60 anni dal CVII!) che anche questi paesi cattolici dell’est vivono il benessere, vedono un calo di partecipazione alla messa e di vocazioni.

      Da tutto ciò, a ben ragionare con una inferenza alla miglior spiegazione, si deve dedurre senza patema di smentita che tra i fattori determinati per un declino della fede in un paese del mondo moderno NON possa esserci il CVII, (che non può aver avuto alcun ruolo nella perdita di fede dei paesi protestati e che pur applicato sia all’est che all’ovest negli stessi anni ha avuto effetti del tutto diversi), bensì che tale paese o non abbia la fede cattolica o viva uno sviluppo economico da primo mondo.

      D’altra parte, lo stesso discorso si potrebbe fare con la Chiesa cattolica di continenti ancora sottosviluppati come Asia e Africa, in cui si vive a pieno il CVII e “nonostante questo” (ma a questo punto, risulta assurdo dirlo) i seminari sono pieni, il popolo va a messa ecc.

      Quindi sì, l’affermazione controfattuale di Don Proietti ha una notevole fondatezza, perché individua il giusto nesso biunivoco tra sviluppo economico e secolarizzazione, con o senza il CVII.

  • Don Mario Proietti ha detto:

    Caro Corrado, grazie anzitutto per l’attenzione e per la stima che hai voluto esprimere. Colgo con rispetto le tue osservazioni, che aiutano a precisare il senso del mio intervento. Il punto che ho voluto sottolineare non è quello di negare i dati riportati dallo studio del NBER, né tanto meno di minimizzare il fatto che il declino della pratica cattolica si sia accentuato proprio negli anni successivi al Concilio Vaticano II. Né si può nascondere il dramma degli abbandoni sacerdotali e religiosi in quella stagione: sono fatti, e come tali non vanno rimossi. L’intenzione era piuttosto un’altra: mostrare che il Concilio non può essere letto come la “causa unica e diretta” del declino, perché i germi di tale crisi erano già presenti e ampiamente riconosciuti. Giovanni XXIII, nel convocarlo, aveva ben chiara la portata dei mutamenti in atto: la modernità segnata da industrializzazione, globalizzazione e secolarizzazione stava già trasformando profondamente la società. Dire che il calo ci sarebbe stato “anche senza Concilio” non è una pretesa di controfattualità storica, ma un modo per ricordare che i processi sociali e culturali sono più vasti e complessi di un singolo evento ecclesiale. Sul secondo punto che sollevi, cioè la specificità del calo cattolico rispetto ad altre confessioni, concordo con te che è un elemento importante. E infatti la lettura che propongo non lo nega, ma lo interpreta: se il declino cattolico è stato più rapido, ciò non significa che il Concilio in sé fosse la causa, ma che la sua ricezione, in alcuni contesti segnata da arbitrarietà e improvvisazione, non ha aiutato a custodire la radicalità evangelica. È una distinzione decisiva: non tra “dati veri o falsi”, ma tra “causa immediata” e “modo in cui il dono è stato accolto”. Lo studio offre elementi preziosi, e vanno accolti. La mia riflessione voleva solo evitare la scorciatoia interpretativa che riduce tutto al Vaticano II come se fosse l’unica variabile in gioco. La crisi, più che liturgica, è antropologica e culturale, e il Concilio fu, almeno nelle intenzioni dei padri, una risposta a questo scenario, non la sua causa. Ti ringrazio davvero per il tuo contributo, che permette di chiarire meglio la prospettiva. Il dialogo franco e ragionato è proprio ciò che arricchisce. Un cordiale saluto,

  • Hugo ha detto:

    Apprezzo molto lo scambio qui sopra tra Corrado Gnerre e don Mario Proietti, davvero edificante. Mi permetto solo un’osservazione sul dato riportato nello studio secondo cui il cattolicesimo avrebbe subito più la secolarizzazione rispetto ad altre subito dopo il Concilio. Forse fu una reazione di allora ma oggi il cattolicesimo è in grande tenuta proprio rispetto a tutte le altre confessioni ed è l’unico che sembra reggere bene e senza snaturarsi nell’impatto con le sfide della modernità. Come esistono limiti nel CVII sono anche per guardare i pregi