Laura Santi, sola fino alla fine: il volto taciuto del suicidio assistito
- Ultimissime
- 24 Lug 2025

Secondo il marito, Laura Santi si è isolata dagli amici per compiere il gesto estremo. Quanto ha influito la solitudine sulla scelta? L’uso mediatico del caso come grimaldello per una legge sul suicidio.
Nonostante il caso sia stato mediaticamente confezionato alla perfezione, emergono comunque verità scomode.
Ci riferiamo al gesto estremo compiuto da Laura Santi, giornalista di Perugia affetta da sclerosi multipla, suicidatasi tramite un’iniezione letale nella sua casa.
Non vogliamo affatto minimizzare il suo dolore e la sua sofferenza, rispettiamo la sua scelta tragica. Anche se non la condividiamo.
Ancora meno apprezziamo come si sta muovendo la macchina mediatica, evidentemente già allertata a celebrare con gioia il suicidio di Laura con un chiaro intento di usarlo come grimaldello per la legalizzazione del suicidio assistito.
Una volontà probabilmente della stessa Laura Santi, attivista dell’Associazione Luca Cosiconi.
Le parole del marito: “Laura si è isolata dagli amici”
Nonostante la preparazione mediatica di questo gesto estremo, sono sfuggite alcune parole significative. E non sono passate inosservate.
Ci riferiamo a quanto dichiarato dal marito di Laura, Massimo Massoli.
«Per scelta, Laura ha deciso di non avere più rapporti anche con gli amici, perché non voleva distogliersi dall’obiettivo che si era prefissa. Io ho cercato di essere neutro e non condizionante fino alla fine».
Una onesta e drammatica confessione che rivela però una verità molto scomoda.
Laura evidentemente si è voluto isolare, ha voluto chiudersi per compiere il suo gesto. Lontana dagli amici, distante anche dal marito che, dice, in buona fede è rimasto neutrale e in disparte.
Questo è un punto decisivo nel dibattito sul suicidio assistito, laddove si parla soprattutto di libertà.
Non si tiene mai conto, infatti, di quanto l’isolamento condizioni la libera scelta. Se c’è un tempo in cui la vicinanza umana è vitale, infatti, è proprio quello del dolore e della malattia, che spesso offuscano la reale volontà dei pazienti.
Le testimonianze: chi non è solo non chiede la morte
Migliaia di casi simili, se non peggiori di quello di Laura, testimoniano che quando non c’è abbandono o solitudine, raramente emerge il desiderio di morire.
Studi e testimonianze confermano che chi è circondato da una rete affettiva e da cure compassionevoli, raramente sceglie di porre fine alla propria vita.
Qualche tempo fa Ivano Argentini, cardiologo all’ospedale San Sebastiano di Correggio a stretto contatto quotidianamente con pazienti affetti da Sla, spiegava che i pazienti «decidono di volere morire quando a prevalere è la solitudine, l’abbandono, la paura di essere un peso per i loro famigliari».
E ancora: «In ospedale ci stupiamo di come persone in condizioni davvero gravi possano avere ancora tanta voglia di vivere. Questo accade quando i malati sono accompagnati, assistiti, amati. Ecco, nel mondo reale non c’è bisogno dell’eutanasia ma dell’accompagnamento».
Il dolore, per quanto forte, non è mai solo fisico. Anzi, il più insopportabile è quello spirituale, relazionale, esistenziale.
Quella di Laura è stata una scelta drammatica ma, almeno stando alle parole del marito Stefano Massoli, anche profondamente solitaria.
Ancora una volta: quanto la solitudine incide sulla libertà? Davvero si può parlare di scelta libera e non condizionata?
Il “caso Santi”, grimaldello per il suicidio legale
Infine, non può sfuggire il contesto mediatico in cui tutto ciò è avvenuto.
Il caso di Laura è stato reso pubblico nei minimi dettagli, quasi con una sceneggiatura studiata: l’annuncio, la lettera-testamento, il video preparato in anticipo, i servizi giornalistici tempestivi, le reazioni collaudate. Il tutto a ridosso della discussione parlamentare sul suicidio assistito.
È difficile non vedere in questa narrazione una spinta propagandistica, un tentativo di orientare l’opinione pubblica con una vicenda emotivamente potente, ma presentata in modo univoco, senza spazio per una riflessione più ampia.
Si racconta la libertà di morire, ma si tace la possibilità di vivere dignitosamente fino alla fine. Si celebra Laura Santi ma si nascondono le migliaia di altri casi di persone nelle stesse condizioni che non pensano minimamente a togliersi di mezzo. Ignorate dal mondo e dai media.
Come Lorenzo Moscon, affetto da triplegia spastica e bloccato su una carrozzina, docente con laurea magistrale e attivista per la dignità del vivere. Da tempo chiede di essere ascoltato in Parlamento per «far sentire anche una voce diversa da quella di Cappato».
Il caso di Laura Santi è il simbolo di una cultura che rischia di rinunciare troppo facilmente alla speranza, all’accompagnamento, al valore della fragilità condivisa. Anche alla dissuasione amorevole di un gesto estremo.
Il suicidio di Stato è, ormai, la grande ossessione della bioetica secolare. Lo abbiamo capito. Ci piacerebbe però parlare anche della relazione tra sofferenza, solitudine e suicidio. Perché quando non si è soli, spesso si scopre che il desiderio di morire può trasformarsi, ancora, in desiderio di vivere.














2 commenti a Laura Santi, sola fino alla fine: il volto taciuto del suicidio assistito
Bravi come sempre a offrire un punto di vista nuovo e diverso dal resto dei media
Vorrei commentare da un punto di vista esclusivamente teologico, filosofico, storico e giuridico il tema chiave per la nostra civilizzazione dell’eutanasia.
Oggi, in luoghi emblematici come Davos, possiamo osservare la silenziosa coltivazione di un certo progetto globale, anticristico, profetizzato da R. H. Benson che immagina un futuro robotizzato, ateo e materialista. Questa visione promuove una sorta di religione mondiale “umanitaria”, che proclama che “viviamo meglio senza Dio”. Promette pace, prosperità, equilibrio ecologico e successo tecnologico. Eppure, al suo interno, propone una ridefinizione della persona umana.
In questo “mondo nuovo”, l’eutanasia assume il ruolo di un sacramento, qualcosa di pseudo-messianico nel tono, che suggerisce la salvezza non attraverso la trascendenza, ma attraverso l’uscita dalla sofferenza attraverso la morte medicalizzata. Fa parte di una visione post-umanista e transumanista più ampia, caratterizzata da alcuni presupposti filosofici: un dualismo manicheo, marcionita, cartesiano, hegeliano, ( sposato dall’etica del mondo anglosassone protestante, sia sul versante economico, antropologico-psicologico, che politico), tra mente e corpo, in cui il corpo è trattato come un oggetto “sporco”, cattivo, usa e getta, e i diritti sono sempre più legati alle funzioni cognitive “nobili”, “degne” “angeliche” gnostiche” – memoria, ragione, volontà – piuttosto che alla natura umana nel suo complesso, come vista nella sua unione dalla antropologia e dall’etica aristotelico tomista e cattolica.
Quella visione dualista, positivista, è neopagana in quanto glorifica il regno umano come autosufficiente, attribuendo il valore ultimo alla libertà, alla salute e all’autonomia, creando una sorta di Eden laico. Mentre le ideologie totalitarie del XX secolo erano brutali e palesi, quella transumanista, algoritmica, meccanica, è sottile, riformista e progressista. Concede i diritti in modo divino, graduale, come per gli schiavi e le donne nell’antichità. Si appella alla ragione, all’ecologia, ai diritti e alla pace. Ma non è meno radicale: sostituisce l’idea dell’uomo come immagine di Dio con una visione puramente immanente della vita: ciò che conta non è il destino eterno, ma il benessere presente.
Possiamo tracciare questo sviluppo esaminando il trattamento giuridico dell’eutanasia. Durante il periodo nazista, il termine “eutanasia” venne associato alle atrocità commesse contro i vulnerabili. Nel dopoguerra, la parola stessa divenne tabù.
Ma il tempo attenuò li attenuò. Circa vent’anni dopo la guerra, si iniziò a discutere di eutanasia attiva in casi limitati: malattie irreversibili. Altri dieci anni e il criterio si espanse: ora i pazienti potevano richiedere l’eutanasia se erano gravemente malati, anche se non terminali. Poi passò un altro decennio, e ora era sufficiente che qualcuno si sentisse male o non idoneo alla vita. Oggi, in alcune parti d’Europa, anche i minori o le persone con problemi di salute mentale possono richiedere il suicidio assistito.
Questo è lo schema del cosiddetto pendio scivoloso. Una volta compromesso il principio che la vita abbia un valore intrinseco e sacro, il ragionamento giuridico scivola gradualmente verso eccezioni sempre più ampie, finché la morte non diventa un “diritto” che prevale sul dovere di curare, proteggere e accompagnare.
La storia lo conferma: una volta iniziata la discesa, è difficile fermarla. La distruzione dell’idea dell’uomo come imago Dei (immagine di Dio) non porta alla libertà, ma a una ridefinizione dell’umanità in termini puramente utilitaristici e immanenti.