Le basi biologiche della fede non sono una prova contro Dio
- Ultimissime
- 21 Lug 2025

L’intervento del neurobiologo Denis Alexander sull’uso delle neuroscienze per rendere illusoria la fede. Il tema è quello della neuroteologia e le basi biologiche della fede per spiegare la religione senza Dio.
Non sono rari i tentativi di spiegare la fede senza fare alcun riferimento a Dio.
Questo ambito di ricerca si chiama neuroteologia e cerca spiegazioni che si appoggiano alla psicologia, alla biologia, alla sociologia e alle neuroscienze, fino a includere teorie come quella dei “meme” o “virus della mente”.
Si assume infatti che il nostro sistema di credenze funzioni in modo gerarchico e possa essere analizzato con gli strumenti della scienza, eliminando ogni riferimento al divino.
La famosa analogia del meme, in particolare, fu introdotta da Richard Dawkins e sviluppata in seguito da autori come Daniel Dennett, con l’intento di spiegare la diffusione delle idee religiose come se fossero agenti virali che “infettano” la mente umana.
Su questo si è espresso recentemente Denis Alexander, neurobiologo e immunologo, docente emerito del St. Edmund’s College di Cambridge.
Perché la “teoria dei meme” non funziona
«Smettiamola con la metafora del meme», ha detto.
Questa tesi del virus, ha spiegato lo studioso britannico, implica che ci sia un “recettore” nella mente che consenta a un’idea – il meme – di entrare e impiantarsi, come fa l’HIV con le cellule T. Ma questo paragone non regge alla prova della scienza.
Nella biologia reale, i virus esistono, hanno un codice genetico, una struttura fisica, interagiscono con cellule identificabili. I meme, al contrario, non hanno un substrato fisico, né sono entità scientificamente osservabili. Non esistono sequenze, strutture, o esperimenti che possano verificarne la presenza.
E se la scienza ha bisogno di appendici intere nei libri per difendere una metafora, probabilmente – osserva Alexander – quella metafora non sta funzionando.
Il filosofo Dennett, per contrastare l’autenticità della fede divina, faceva rientrare sotto l’etichetta di meme anche pratiche culturali (tipicamente americane) come indossare un cappello da baseball al contrario. Ma – si chiede Alexander – c’è davvero bisogno di questa terminologia per spiegare la diffusione di una moda?
Il linguaggio dei meme non aggiunge nulla di significativo alla comprensione di questi fenomeni sociali. È una metafora che non consente esperimenti, non produce ipotesi verificabili. E quindi, sul piano scientifico, non lavora.
E’ stata infatti largamente confutata da grandi biologi come Ernst Mayr e Denis Noble.
La neuroetologia e le basi biologiche della fede
Ma perché si vuole a tutti i costi trovare un substrato biologico per la fede?
Secondo Alexander è un modo di parlare che disumanizza i credenti, li trasforma in vittime inconsapevoli. E invece le convinzioni religiose, come tutte le convinzioni umane (anche quelle irreligiose!!), sono il frutto di riflessione, razionalizzazione, esperienza, dialogo interiore. Tutto tranne che “infezioni” subite passivamente.
Ovviamente il nostro cervello mostra correlati neurali quando viviamo esperienze spirituali o religiose, ad esempio alcune aree, come il lobo temporale, sembrano associate a sensazioni di trascendenza. In certi casi, persone affette da epilessia in quella regione possono riferire esperienze mistiche o visioni.
Il grande equivoco, spiega giustamente Alexander, è pensare che il fatto che un’esperienza religiosa abbia dei correlati neurali significhi che essa sia un’illusione.
Qualsiasi nostra attività – anche lavarsi i denti – è accompagnata da un’attività cerebrale. Ma questo non ci porta a dire che l’igiene dentale è priva di senso. Anzi, abbiamo buoni motivi per lavare i denti.
Allo stesso modo, che una convinzione abbia un’espressione neurale non ci dice nulla sulla sua giustificabilità razionale. E ancora una volta vale il contrario: la credenza contro Dio non è irrazionale per il solo fatto che anch’essa produce un correlato neurale.
Il cervello può ingannarci, è vero, specie in contesti ad alta intensità emotiva. Ma da questo non consegue che ogni fede sia un abbaglio. D’altra parte, per proseguire l’analogia, anche famosi atei come Richard Dawkins sostengono le loro idee con fervore, non per questo è automatico che il loro cervello li stia ingannando.
Sarebbe un errore ridurre tutto ciò che crediamo a una “attivazione neurale”. Ogni nostra convinzione, che siamo credenti o no, ha un suo riflesso nel cervello. Non è quindi sul piano neurobiologico che si decide se una fede religiosa è fondata o meno.
La fede si spiega con il bisogno di legami sociali?
C’è infine un ultimo aspetto sociale e psicologico da considerare, anch’esso trattato sapientemente da Denis Alexander nel video.
Le fede risponde anche a bisogni profondi dell’essere umano, che vive in comunità e cerca coesione, identità, senso. È innegabile – osserva Alexander – che la religione contribuisca alla formazione dei legami sociali.
Ancora una volta, però, si può osservare che lo stesso avviene in un incontro di atei militanti, in una conferenza sul clima, in una partita di calcio o in un team building aziendale.
Momenti che rafforzano l’appartenenza, la coerenza interna, e anche il piacere di condividere una convinzione. Ma ciò non dice nulla sulla verità di ciò in cui si crede.
La coesione sociale può accompagnare ogni sistema di pensiero, il più corretto come il più razionalmente errato. Perciò ogni convinzione profonda – religiosa, politica o culturale – deve essere valutata su altre basi, non solo per il benessere psicologico che produce.
Alexander ha infine messo in guardia da due estremi.
Da un lato, l’uso riduzionista delle neuroscienze per liquidare la religione; dall’altro, l’abuso di ricerche neuroscientifiche da parte dei credenti per tentare di “dimostrare” l’esistenza di Dio. In entrambi i casi, si attribuisce al cervello un ruolo che non può avere: quello di rispondere a domande metafisiche.
Su questo specifico argomento consigliamo un libro davvero valido intitolato “Esperienza religiosa e psicologia“ (La Civiltà Cattolica 2009), scritto dal gesuita Giovanni Cucci, docente di Filosofia e Psicologia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Non a caso fa parte della nostra biblioteca virtuale.
Le grandi questioni sul senso della vita, sull’esistenza di Dio, sulla verità della fede, non si decidono in laboratorio. Bisogna che gli avversari dei credenti facciano pace con questo e impegnino cuore, intelligenza e volontà nel trovare argomenti migliori.













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