La vita in comune, possibile soluzione alla crisi dei preti
- don Mario Proietti
- 21 Lug 2025

Di fronte al disagio di molti sacerdoti la fraternità sacerdotale e la vita in comune dei preti può essere una soluzione da adottare. Don Mario apre su UCCR un confronto.

di
don Mario Proietti*
*Direttore Responsabile dell’Abbazia San Felice (Giano dell’Umbria)
La notizia di un recente studio sulla salute psicologica dei sacerdoti in Francia, con i suoi preoccupanti indicatori di stress, è giunta come un’ulteriore conferma di un disagio che percepiamo da tempo.
È una constatazione che ci scuote nel profondo, soprattutto alla luce di dolorose vicende come la morte di don Matteo. Non si tratta di una questione per addetti ai lavori, ma di un interrogativo che interpella ciascuno di noi, chiamato a prendere sul serio la sorte di chi serve la Chiesa.
Un richiamo, questo, che sento con particolare gratitudine.
Una proposta di fronte alla crisi dei preti
Sì, lo studio francese è allarmante, ma forse non sorprendente. Più di un sacerdote su tre presenta sintomi di esaurimento, insonnia, ansia cronica. Questi numeri fotografano un disagio reale, diffuso, trasversale.
Ma più delle statistiche, a parlare sono i silenzi: le canoniche vuote, i pasti consumati in solitudine, le giornate piene di impegni ma prive di veri volti. E poi, a volte, l’estremo gesto che ci lascia muti e impreparati, proprio come accaduto con don Matteo Balzano.
Proprio dalla forza di questa domanda, e dalla debolezza di troppe risposte inadeguate, nasce questa riflessione. Non vuole essere una conclusione, ma un invito ad aprire un dialogo profondo. Perché la sfida non è solo curare un disagio, ma re-immaginare una forma di vita sacerdotale più aderente alla verità dell’uomo, alla natura stessa del ministero e alla logica del Vangelo.
La vita in comune dei preti e San Filippo Neri
È qui che si apre uno spazio fecondo per ripensare la fraternità sacerdotale non come un semplice sentimento spirituale, ma come una vera e propria struttura di vita. A ben vedere, non si tratterebbe neppure di una riforma, quanto piuttosto di un ritorno alle origini.
Fu proprio nel cuore del Cinquecento che san Filippo Neri, con la sua straordinaria intuizione, comprese una verità essenziale per il clero secolare: la necessità di vivere in comune per rimanere saldi nella fede. Così diede vita all’Oratorio. La sua visione era chiara: non un nuovo ordine religioso con voti e clausure, ma una comunità dinamica di sacerdoti. Qui, ciascuno manteneva la propria libertà, unito agli altri da un forte legame nella preghiera e nell’impegno apostolico.
Una vera e propria fraternità secolare, ispirata al Vangelo e calata nella vita di tutti i giorni. Col tempo, questa forma si è evoluta nelle società di vita apostolica, realtà nate proprio per consentire ai sacerdoti di vivere insieme senza necessariamente entrare in un istituto religioso.
Anche il mio Istituto appartiene a questa famiglia spirituale: non siamo legati da voti, ma da impegni; non ci tiene insieme una regola giuridica, ma la carità che, se vissuta, è un vincolo più forte di ogni legge. Le nostre Costituzioni originarie vedono proprio nel vivere insieme la sorgente dell’evangelizzazione: condividere la vita per condividere la missione.
Per noi, la vita comune non è un accessorio o una mera disciplina, ma il luogo dove il sacerdozio resta vitale.
Vita in comune, i preti e le vocazioni fioriscono
Il sacerdote, per sua natura, non si appartiene: ha ricevuto un dono per essere dono, e questo richiede relazioni, volti, fraternità. L’identità sacerdotale si custodisce nella responsabilità personale, ma si nutre nella condivisione quotidiana. E se questo è vero in una società apostolica, lo è tanto più per quei preti diocesani che non hanno altra appartenenza se non quella del presbiterio.
Con il nuovo Codice del 1983, le società di vita apostolica sono state in parte assimilate agli istituti religiosi. Forse un tentativo di tutelarle, ma con il rischio di farne perdere l’originalità. Una fraternità sacerdotale secolare, che non è “religione” ma “missione condivisa”, rischia oggi di non trovare uno spazio canonico chiaro. Ma proprio per questo va riscoperta. Non per tornare indietro, ma per andare più in profondità: perché nella Chiesa, ciò che nasce dallo Spirito non si spegne, anche se non trova immediata sistemazione giuridica.
La fraternità non è un rifugio per sacerdoti in crisi, ma la condizione normale per vivere il ministero senza snaturarlo.
Il celibato, quando è sostenuto da rapporti di amicizia, comunione e preghiera, fiorisce. Quando, invece, si trova isolato in una canonica vuota, diventa un peso logorante. Non è solo una questione psicologica: è una questione teologica. Il prete è configurato a Cristo Capo, ma non è stato pensato per agire da solo. È membro di un presbiterio, fratello tra fratelli, mai un individuo assoluto.
In alcune realtà, questo modello di vita è già vissuto con frutti evidenti. Non serve citarne i nomi, né additarli come esempi da imitare acriticamente. Ma è innegabile che dove i preti vivono insieme, le vocazioni si moltiplicano, la vita sacramentale si rafforza, la carità diventa visibile e la santità non è più un’ipotesi solitaria ma un cammino comune.
Un nuovo volto del sacerdozio: meno eroico, più umano
E tutto questo può avvenire anche senza entrare in un istituto: basterebbe che tre sacerdoti, in una diocesi, chiedessero di vivere sotto lo stesso tetto, ciascuno con la sua parrocchia, ma con un orario comune per la preghiera, un pasto insieme, un tempo per il dialogo. Nulla di complicato. Nulla di ideologico. Ma tutto profondamente evangelico.
Certo, qualcuno potrebbe obiettare: e dove li trovi tre preti disponibili a vivere insieme? Ma la vera domanda è un’altra: chi ha detto che il prete debba vivere solo? Quando e perché si è stabilita questa norma non scritta, per cui ogni canonica dev’essere abitata da un solo uomo, chiamato a gestire tutto da solo? Non sarà proprio questa la radice di molte delle nostre fatiche, delle nostre stanchezze, dei nostri naufragi interiori?
Oggi, dopo don Matteo, non possiamo più permetterci di rimandare questa domanda. Non si tratta di un’emergenza da gestire, ma di una scelta ecclesiale fondamentale da compiere. Le diocesi non possono più limitarsi a moltiplicare incontri formativi o ritiri spirituali. Devono offrire luoghi, case, occasioni stabili per la vita comune. Il vescovo non è solo il garante della fede, ma anche il padre del presbiterio: e come ogni padre, deve preoccuparsi che i figli non crescano da soli.
Non occorrono riforme strutturali complesse, né decreti sinodali. Basterebbe un po’ di coraggio, un po’ di umiltà, e forse anche un po’ di misericordia tra noi preti. Smettere di pensarci come rivali o come monadi, e cominciare a riconoscerci come fratelli chiamati a camminare insieme. Magari non con tutti. Ma almeno con qualcuno.
È da qui che può nascere un nuovo volto del sacerdozio: meno performante, ma più umano; meno solitario, ma più credibile; meno eroico, ma più evangelico. Forse allora, in una casa dove si prega insieme, si mangia insieme, si piange e si ride insieme, un giovane prete stanco non penserà più che l’unica via d’uscita sia la fine.
Ma troverà accanto a sé qualcuno che, semplicemente, gli dica: “Non sei solo. Restiamo qui. Insieme.
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2 commenti a La vita in comune, possibile soluzione alla crisi dei preti
Una bellissima riflessione e un’idea che condivido pienamente
Unica nota su un aspetto più che secondario: andando a memoria, mi pare che l’idea della fraternità sacerdotale sia anteriore a San Filippo Neri e risalga invece a San Gaetano da Thiene, fondatore dei Teatini.