Embrione e feto sono persone umane, ecco cosa dice la scienza

Embrione e feto sono persone umane? Sono esseri umani in potenza o già si possono considerare persone? Con questo dossier abbiamo analizzato i principali testi universitari di embriologica medica e dato la parola a biologi, ginecologi, neurologi, medici e attivisti favorevoli all’aborto..

 

L’idea che feto ed embrione siano “grumi di cellule” ormai non può più essere sostenuta. I progressi dell’embriologia, della biologia e della genetica ci spiegano, lo vedremo qui sotto, che il feto ha organi funzionanti, prova sensazioni, sogna, soffre, anche prima dei limiti posti per l’interruzione di gravidanza “libera”. Limiti che, del resto, cambiano da Stato a Stato: quelli francesi sembra diventino esseri umani prima di quelli italiani, e quelli italiani prima di quelli belgi ecc.

La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo recita: «Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona» (art.3). Quello alla vita è il primo, il più fondamentale e il più ovvio dei diritti di ogni uomo. Le leggi che consentono l’aborto non minano quindi i fondamenti stessi della giustizia?

 
 
 
 
 

 

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1. LA POSIZIONE DELLA CHIESA CATTOLICA

Possiamo riassumere la posizione della Chiesa con le parole espresse da Giovanni Paolo II nella fondamentale ‘enciclica Evangelium Vitae: «Ogni uomo sinceramente aperto alla verità e al bene, con la luce della ragione e non senza il segreto influsso della grazia, può arrivare a riconoscere nella legge naturale scritta nel cuore il valore sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine, e ad affermare il diritto di ogni essere umano a vedere sommamente rispettato questo suo bene primario. Sul riconoscimento di tale diritto si fonda l’umana convivenza e la stessa comunità politica». E ancora: «L’essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento e, pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita»[1].

 

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2. LA SCIENZA DIMOSTRA CHE EMBRIONE/FETO SONO ESSERI UMANI

Affrontiamo inizialmente la questione se embrioni e feti possano essere considerati esseri umani e lo faremo interpellando l’embriologia moderna e anche noti medici (tra cui abortisti). La questione è quando si possa individuare il “salto” che porta all’essere umano: la scienza e la medicina ci dicono tuttavia che l’unico vero “salto” fondamentale per la nascita di una nuova vita è il concepimento, cioè la formazione di un nuovo corredo genetico che contiene già il progetto di vita di un nuovo individuo.

Oggi possiamo essere certi del fatto che fin dal momento della fusione dei due gameti si è costituita l’identità genetica di un nuovo individuo umano. Fin dal primo momento della fecondazione e dell’apparizione della cellula primigenia (o zigote), dunque, si ha a che fare con un nuovo essere umano dotato di una propria struttura e distinto dall’organismo della madre, da cui dipende. Egli è un corpo umano dal momento che il suo genoma è umano, come è umano il disegno-progetto in esso iscritto. Il neo-concepito è fin da subito un essere irripetibile della specie umana, il quale si autocostruisce in un processo coordinato, dettando a se stesso le direzioni dell’accrescimento secondo il programma di esecuzione iscritto nel suo genoma. Il neo-concepito si evolve senza soluzioni di continuità, senza salti di qualità e di natura. La gradualità del processo biologico è orientato teleologicamente secondo una finalità già presente nello zigote. Sin dal primo momento siamo quindi sempre di fronte al medesimo uomo. L’embrione non è un “essere umano in potenza”, ma “un essere umano con potenzialità”, così come il bambino non è un “adulto in potenza”, ma -come l’embrione- è un essere umano che sta diventando gradualmente, per uno sviluppo intrinseco continuo e coordinato, ciò che in realtà è già. Ben diversa è la condizione di un ovulo non fecondato, che non contiene un orientamento intrinseco e potrà diventare un essere umano solo se si incontrerà e si fonderà con un gamete maschile[2].

 

Tutto questo è riportato nei più autorevoli testi moderni di insegnamento dell’embriologia e dello sviluppo prenatale.

In “Human Embryology and Teratology” (2001), Ronan O’Rahilly e Fabiola Müller hanno scritto:

«Anche se la vita è un processo continuo, la fecondazione (che, per inciso, non è un ‘momento’) è un punto di riferimento critico perché, in circostanze normali, un nuovo organismo umano geneticamente distinto forma quando i cromosomi del pronucleo maschile e femminile si fondono nell’ovocita»[3]

 

Nel “The Developing Human: Clinically Oriented Embryology” (2003), di K.L. Moore vi è scritto:

«Lo sviluppo umano inizia al momento della fecondazione, cioè il processo durante il quale il gamete maschile o spermatozoo si unisce ad un gamete femminile (ovulo) per formare una singola cellula chiamata zigote. Questa cellula totipotente altamente specializzata segna il nostro inizio come individuo unico […]. Un zigote è l’inizio di un nuovo essere umano (cioè, l’embrione)»[4].

 

In the Womb, testo redatto dal National Geographic nel 2005 viene esplicitato:

«Le due cellule gradualmente e con garbo diventano un tutt’uno. Questo è il momento del concepimento, quando un unico set di DNA di un individuo viene creato, una firma umana che non è mai esistita prima e non sarà mai ripetuta»[5].

 

Nel “Langman’s Medical Embryology” di T.W. Sadler (2006) si trova scritto:

«Lo sviluppo inizia con la fecondazione, il processo con cui il gamete maschile, lo spermatozoo, e il gamete femmina, l’ovocita, si uniscono per dare origine a uno zigote»[6].

 

Nel volume “Before We Are Born: Essentials of Embryology” (2008), K.L. Moore ha ribadito:

«Lo zigote è formato dall’unione di un ovocita e di uno spermatozoo, è l’inizio di un nuovo essere umano»[7]

 

 

 

Altri testi dicono:

 

Nel volume “HarperCollins Illustrated Medical Dictionary” (1993), Ida G. Dox ha scritto: «Embrione: un organismo nella prima fase di sviluppo dell’uomo, dal momento del concepimento fino alla fine del secondo mese in utero» (New York: Harper Perennial, p. 146)

 

In “Langman’s Medical Embryology” (2009) si trova scritto: «Lo sviluppo di un essere umano inizia con la fecondazione, un processo mediante il quale due cellule altamente specializzate, lo spermatozoo del maschio e l’ovocita dalla femmina, si uniscono per dare origine ad un nuovo organismo, lo zigote» (Baltimore: Williams and Wilkins, p. 3)

 

Nel “Van Nostrand’s Scientific Encyclopedia” (1976) c’è scritto: «Al momento in cui la cellula spermatica del maschio umano incontra l’ovulo della femmina e il risultato è un ovulo fecondato (zigote), una nuova vita è iniziata. Il termine embrione copre le diverse fasi di sviluppo precoce dal concepimento alla nona o decima settimana di vita» (Van Nostrand Reinhold Company, p. 943)

 

In “Patten’s Foundations of Embryology” (2003), Bruce M. Carlson scrive: «Quasi tutti gli animali superiori iniziano la loro vita da una singola cellula, l’ovulo fecondato (zigote). Il tempo della fecondazione rappresenta il punto di partenza della storia della vita, o ontogenesi, dell’individuo» (New York: McGraw-Hill, 1996, p. 3)

 

In “Kinases, phosphatases and proteases during sperm capacitation”, pubblicato su Cell and Tissue Research, si vede scritto: «La fecondazione è il processo mediante il quale i gameti aploidi maschio e femmina (spermatozoi e uova) si uniscono per produrre un individuo geneticamente distinto»

 

Secondo il Medline Plus Merriam-Webster Medical Dictionary (2013), del National Institutes of Health, la fecondazione è «il processo di unione di due gameti il cui numero cromosomico somatico viene ripristinato e lo sviluppo di un nuovo individuo viene avviato».

 

In “Human Development: The Span of Life” vi è scritto: «In quella frazione di secondo, quando i cromosomi formano coppie, il sesso del nuovo bambino sarà determinato, saranno impostate le caratteristiche ereditarie ricevute da ciascun genitore e una nuova vita avrà inizio» (The C.V. Mosby Co., St. Louis, 1974, p. 28-29)

 

Nel volume “Human Embryology” c’è scritto: «E’ la penetrazione dell’ovulo da parte di uno spermatozoo, e la conseguente commistione di materiale nucleare, a portare l’unione che costituisce l’inizio della vita di un nuovo individuo» (McGraw – Hill Inc., 1976, p.30)

 

In “Obstetric Nursing” si legge: «Così una nuova cellula viene formata dall’unione dello spermatozoo maschile dall’ovulo femminile. La cellula, denominata zigote, contiene una nuova combinazione di materiale genetico, determinando un individuo diverso da entrambi i genitori e da chiunque altro al mondo» (Sally B Olds, et al., California: Addison – Wesley publishing, 1980, p. 136)

 

Nel volume “Biological Principles and Modern Practice of Obstetrics” c’è scritto: «Il termine si riferisce all’unione degli elementi pronuclei maschili e femminili di procreazione da cui un nuovo essere vivente si sviluppa. Lo zigote così formato rappresenta l’inizio di una nuova vita» (JP Greenhill and EA Freidman, Philadelphia: WB Saunders Publishers 1974, p. 17)

 

In “Human Life and Health Care Ethics” si legge: «La prima cellula di una nuova e unica vita umana inizia al momento del concepimento (fecondazione), quando uno spermatozoo del padre si unisce con un solo ovulo della madre. Ogni essere umano oggi e, per quanto è noto scientificamente, ogni essere umano che sia mai esistito, ha iniziato la sua esistenza unica in questo modo, cioè, come una cellula. Se questa prima cellula o qualsiasi successiva configurazione di cellule perisce, l’individuo muore, cessa di esistere in materia come un essere vivente. Non ci sono eccezioni a questa regola note nel campo della biologia umana» (James Bopp, vol. 2, Frederick, MD: University Publications of America, 1985)

 

In “Essentials of Human Embryology”, William J. Larsen scrive: «In questo testo iniziamo la nostra descrizione dell’essere umano in via di sviluppo con la formazione e la differenziazione delle cellule o dei gameti sessuali maschili e femminili, che si uniranno al momento della fecondazione per avviare lo sviluppo embrionale di un nuovo individuo» (New York: Churchill Livingstone, 1998, p. 1-17).

 

Nello studio pubblicato nel 2016 su Nature Cell Biology sono state riconosciute le «notevoli proprietà di auto-organizzazione degli embrioni umani», capaci di vita autonoma da quella della madre e artefici e responsabili del loro sviluppo. Ne abbiamo parlato in un nostro articolo.

 

 

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3. LA POSIZIONE PERSONALE DI SCIENZIATI E ABORTISTI

Diversi medici e specialisti, favorevoli e contrario all’interruzione di gravidanza, si sono espressi con tali parole:

Prof. Micheline Matthews-Roth, Harvard University Medical School: «Non è corretto dire che i dati biologici non sono decisivi. E’ scientificamente corretto dire che una singola vita umana inizia dal concepimento»[8]

 

 

Dr. Alfred M. Bongioanni, University of Pennsylvania: «Ho imparato dai miei primi studi di formazione medica che la vita umana inizia al momento del concepimento»[9]

 

 

Dr. Jerome LeJeune, University of Descartes: «Dopo la fecondazione ha avuto luogo un nuovo essere umano è vnuto in essere. Non è una questione di gusto o di opinione, questo è chiaro dall’evidenza sperimentale. Ogni individuo ha un inizio molto ordinato, al momento del concepimento»[10]

 

 

Prof. Hymie Gordon, Mayo Clinic: «Da tutti i criteri della biologia molecolare moderna, la vita è presente dal momento del concepimento»[11].

 

 

Dr. Watson A. Bowes, University of Colorado Medical School: «L’inizio di una singola vita umana è da un punto di vista biologico, semplice e diretto, l’inizio della concepimento»[12]

Il rapporto ufficiale del Senato americano nel 1981 giunse così a questa conclusione: «Medici, biologi, e altri scienziati concordano sul fatto che il concepimento segna l’inizio della vita di un essere umano -un essere che è vivo ed è un membro della specie umana. C’è un consenso schiacciante su questo punto in innumerevoli scritti medici, biologici e scientifici»[13].

Nel 1995 Naomi Wolf, una femminista e abortista di primo piano ha dichiarato: «Aggrappati ad una retorica sull’aborto dichiarando che non c’è vita e non c’è morte noi ci incastriamo in una serie di auto-inganni, bugie e sotterfugi. E diventiamo precisamente ciò che i nostri critici ci accusano di essere: uomini insensibili, egoisti e distruttivi e screditatori della vita umana. Abbiamo bisogno di contestualizzare la lotta per difendere il diritto all’aborto entro un quadro etico che ammette il fatto che la morte di un feto è una vera morte»[14].

Il 9 febbraio 1975 sull’Espresso è apparasa un’intervista a Marco Pannella, leader storico dei radicali italiani, oggi militante per l’aborto come per la legalizzazione della droga: «E l’eutanasia per quando? M’è stato chiesto in un recente dibattito sull’aborto. Deluderò nemici in agguato e amici impazienti, ma io sono contro. Nessuno ha il diritto di compiere la scelta della morte dell’altro, finché in chi soffre e fa soffrire ci sia un barlume e la speranza d’un barlume di volontà e di coscienza»[15].

 

Nel 1997 Faye Wattleton, l’ex presidente del Planned Parenthood ha dichiarato: «Io penso che ci stiamo illudendo se crediamo che la gente non sappia che l’aborto è uccidere. Quindi, qualsiasi pretesa di dire che l’aborto non uccide è sempre un segno di una nostra ambivalenza. L’aborto uccide il feto, ma il corpo è della donna. E’ lei che decide»[16]
Nel 2002 David Boonin, nel suo libro “A Defense of Abortion”, fa una sorprendente ammissione: «Nel cassetto della mia scrivania tengo una foto di mio figlio. Questa foto è stata scattata il 7 settembre 1993, 24 settimane prima che lui nascesse. L’immagine ecografica è scura, ma rivela abbastanza chiaramente una piccola testa inclinata leggermente all’indietro e un braccio alzato e piegato, con la mano rivolta indietro verso il viso. Non c’è alcun dubbio nella mia mente che questa foto mostra mio figlio in una fase molto precoce del suo sviluppo fisico. E non c’è dubbio che la posizione che io difendo in questo libro comporta che sia moralmente ammissibile porre fine alla sua vita in questo momento»[17].

Nel 2008, Peter Singer, filosofo sostenitore dell’aborto (e dell’infanticidio, come vedremo sotto) scrive nell’ultima edizione del suo libro “Practical Ethics”: «E’ possibile dare un significato preciso a “essere umano”? Noi possiamo usare l’equivalente a “membro della specie Homo sapiens”. Se un essere è membro di una data specie è possibile determinarlo scientificamente grazie ad un esame della natura dei cromosomi delle cellule. In questo senso non c’è dubbio che fin dai primi momenti della sua esistenza un embrione concepito dallo sperma umano e dall’ovulo è un essere umano»[18].

Nel 2011 l’abortista italiana Alessandra Kustermann, storica ginecologa abortista e primario di ostetricia e ginecologia della Mangiagalli di Milano, ha dichiarato in un’intervista: «So benissimo che sto sopprimendo una vita. E non un feto, bensì un futuro bambino. Ogni volta provo un rammarico e un disagio indicibili. Sento che avremmo tutti potuto fare di più»So che a me manca la fede per farlo, così quando sono lì penso che la vita della madre, che soffre davanti ai miei occhi, valga più di quella di suo figlio che non vedo ancora»[19].

Nell’aprile 2012 il genetista presso l’Università di Chieti, Giandomenico Palka, ha dichiarato: «Nello zigote è già insito il programma della vita della persona. Scegliere una tappa successiva per decretarne l’inizio è puramente arbitrario… Zigote, blastocisti, embrione, stiamo sempre parlando dello stesso bambino in ogni sua fase, senza soluzione di continuità. Sono tutte tappe di un unico processo vitale che inizia con il concepimento».

 

Nell’aprile 2012, il primario di Ostetricia al Policlinico Universitario Campus Biomedico di Roma, membro del consiglio direttivo della Società Italiana di Ginecologica e Ostetricia (SIGO), Roberto Angioli, ha affermato: «La vita inizia nel momento dell’unione dei due gameti…Lo zigote concepito è la prima cellula che racchiude il DNA dell’individuo… Chi fa iniziare la vita al momento della comparsa della stria neuronale riduce l’essenza dell’umano solo in collegamento al suo sistema nervoso centrale e periferico, ma sappiamo che l’uomo è molto più di questo».

Il 2 febbraio 2002, 16 luminari italiani delle cinque facoltà mediche delle università di Roma hanno firmato un comunicato in cui si riconosce che l´individuo umano è “persona” fin dal primo istante del concepimento: «La ricerca scientifica, il progetto genoma uomo, lo studio dell´embriogenesi e delle basi molecolari delle diverse malattie e con l´approfondimento delle dimensioni psicologiche della vita prenatale offrono concordanti evidenze che portano a considerare la vita umana come un continuo che ha nella fase embrionale e nell´invecchiamento l´inizio e la fine del suo percorso naturale. Il neoconcepito si presenta come una realtà biologica definita: è un individuo totalmente umano in sviluppo, che autonomamente, momento per momento, senza alcuna discontinuità, attualizza la propria forma realizzando, per intrinseca attività, un disegno presente nel suo stesso genoma».

Nel gennaio 2013, la scrittrice Mary Elizabeth Williams ha attaccato i pro-life spiegando che «gli oppositori dell’aborto si definiscono con entusiasmo “pro-life” e il resto di noi ha dovuto optare con parole come “scelta” e “libertà riproduttiva.” Eppure durante le mie gravidanze non ho mai esitato per un attimo nella convinzione che portavo una vita umana dentro di me. Io credo che è quello che un feto è: una vita umana. E questo non fa di me una virgola meno di una solida pro-choice. I feti non si qualificano come vita umana soltanto se sono destinati a nascere. Riconosco che il feto è una vita. Una vita che vale la pena sacrificare».

Nel novembre 2013 Silvio viale ginecologo abortista e radicale dell’Ospedale Sant’Anna ha dichiarato: «Non sono un fanatico che fa le crociate contro la Chiesa, anzi quest’anno ho mandato un paio di pazienti al consultorio del Movimento per la vita perché mi sembrava evidente che il bambino volevano tenerlo».

Con la sentenza 324 del 2013 la Corte Costituzionale italiana ha confermato la procedibilità d’ufficio per reato di interruzione colposa di gravidanza, consentendo quindi ai giudici di perseguire la violazione indipendentemente dalla querela di parte. Tra i motivi della decisione, la tutela costituzionale di cui godono la «protezione della maternità» e la «tutela del concepito».

Nel dicembre 2013 il dott. Nicola Surico, presidente uscente della Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo) ed attuale Presidente dei chirurghi italiani ha dichiarato: «Far abortire una donna è un lavoro che non piace a nessuno. Molti miei colleghi dopo un po’ non ce la fanno più: si tratta pur sempre di interrompere una vita, e questo pesa. È un dolore traumatico per le pazienti che lo richiedono ma è un problema anche per i medici: ne ho conosciuti molti inseguiti dal rimorso».

 

Nel maggio 2014 Vittorio Gallese, noto a livello internazionale per il suo contributo alla scoperta dei “neuroni specchio”, docente di Neurofisiologia all’Università di Parma, ha spiegato: «Lo sviluppo dell’intersoggettività comincia già prima della nascita, all’interno del grembo materno. Dalle prime ore di vita il neonato svolge un ruolo attivo nel sollecitare e intrattenere un rapporto con la madre». In un’altra occasione, nel 2019, Gallese ha ribadito: «Non esiste la mente dell’individuo al di fuori della quantità e della qualità delle relazioni che può stabilire. Quando iniziano queste relazioni? Prima di quello che consideriamo il giorno zero. Cominciano prima della nascita, cominciano già in utero: se voi fate ascoltare a un neonato la ninnananna che gli cantava la mamma attraverso la parete dell’addome, se voi gli fate ascoltare la ninnananna che il feto ascoltava quando era nel grembo materno e una ninnananna che condivide la stessa base armonica ma che è leggermente diversa e fate un elettroencefalogramma al cervello del neonato, l’elettroencefalogramma risponde in maniera differente alle due ninnananne. Noi abbiamo pubblicato nel 2011 un lavoro in cui abbiamo studiato i movimenti di feti gemelli nell’utero e abbiamo dimostrato chiaramente come i movimenti diretti verso il fratellino o la sorellina sono cinematicamente diversi dai movimenti che il feto compie quando esplora il proprio corpo o quando esplora le pareti interne dell’utero. Già prima della nascita, il nostro cervello-corpo fa sì che noi ci muoviamo in maniera differente a seconda di ciò che andiamo a toccare. Se è il corpo del fratello con cui condividiamo quel primo spazio di vita, bene, le caratteristiche del movimento sono quelle che, se riscontrate in un bambino, in un adulto, ci farebbero dire: “sono quelle che hanno il maggior grado di controllo”. Quindi, già prima della nascita (e noi non a caso abbiamo intitolato questo lavoro “Wired to be social”, cioè, “Cablati per essere sociali”), la dimensione della socialità è fondamentale e quindi tutto quello che noi impariamo ad essere e diventare è in gran parte condizionato, determinato dalla qualità e dalla quantità di incontri che siamo in grado di potere sviluppare con altri esseri umani».

 

Nel dicembre 2016 il dott. Massimo Segato, vice primario di Ginecologia all’ospedale di Valdagno (Vi), abortista, ha dichiarato: «Avevo aspirato qualcosa che non era l’embrione, avevo sbagliato. Una mattina ritrovai quella donna, aveva appena partorito. Mi fermò e mi disse: si ricorda di me dottore? Lo vede questo? Questo è il suo errore. La madre sorrideva. Fu lì che ho avuto la mia prima crisi di coscienza. L’errore più bello della mia vita. Il bambino cresceva intelligente e vivace. Un giorno la signora arrivò anche a ringraziarmi del mio errore. Cioè, ringraziò il Cielo. Quando nacque invece voleva denunciarmi. Ogni volta che uscivo dalla sala operatoria avevo un senso di nausea. Cominciavo a chiedermi se stavo facendo davvero la cosa giusta. Quanti bambini mai nati potevano essere come quel piccolo? Ma mi rispondevo che sì, che era giusto. Lo era per quelle donne. Continuavo solo per impegno civile, per coerenza. Qualcuno doveva fare il lavoro sporco e io ero uno di quelli e lo sono ancora. É come per un soldato andare in guerra. Se lo Stato decide che si deve partire ci dev’essere chi parte». Oggi, «se posso evito e sono contento. Lo so, dovrei diventare anch’io obiettore ma non lo faccio per non avvilirmi rispetto alla decisione iniziale. La verità è che più vado avanti con gli anni e più sto male e intervengo così solo per emergenze. Se succede però non sono sereno. Come non lo sono le mamme che in tanti anni sono passate dal mio reparto. Non ne ho mai vista una felice del suo aborto. Anzi, molte sono divorate per sempre dal senso di colpa. Quando le ritrovo mi dicono “dottore, ho sempre quella cicatrice, me la porterò nella tomba”. Poi pensi e ripensi e ti dici che per molte di loro sarebbe stato peggio non farlo e vai avanti così, autoassolvendoti».

 

 

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4. LINEA TEMPORALE DELLO SVILUPPO PRENATALE

E’ dunque stabilito che l’aborto in ogni momento della gravidanza termina la vita di un essere umano geneticamente distinto dalla madre. Per alcune persone, il fatto che la vita umana inizia al momento della fecondazione è sufficiente per stabilire con fermezza l’ingiustizia dell’aborto. Altri non sono così facilmente convincibili. Essi sostengono che anche se l’embrione e il feto sono esseri umani non sono comunque sufficientemente sviluppati da essere moralmente significativi. Ma una comprensione accurata e scientifica dello sviluppo prenatale rende impossibile sostenere che l’aborto sia la sola rimozione di tessuto o cellula indifferenziata e che l’embrione in via di sviluppo sia semplicemente una parte del corpo della madre. Giorno dopo giorno migliaia di donne abortiscono credendo erroneamente di stare eliminando semplicemente qualche tessuto indifferenziato di cellule umane. L’ignoranza generale sullo sviluppo prenatale è decisamente conveniente per l’industria dell’aborto, e non è difficile indovinare perché gli enti abortisti come Planned Parenthood fanno pochissimo per educare correttamente i propri clienti e si oppongono quando appaiono delle leggi che obbligano le donne ad informarsi prima di abortire.

Consideriamo questa linea temporale di sviluppo prenatale:

 

FECONDAZIONE / CONCEPIMENTO

Al momento della fecondazione, un nuovo e unico essere umano nasce con un proprio codice genetico, diverso da qualunque essere mai esistito. 23 cromosomi della madre e 23 cromosomi del padre si combinano per formare una nuova e unica combinazione genetica. Considerando che il cuore, i polmoni e i capelli di una donna condividono tutti lo stesso codice genetico, il suo bambino non ancora nato, dal momento della fecondazione, ha un codice genetico totalmente diverso. C’è sufficiente informazione in questo minuscolo zigote per controllare la crescita e lo sviluppo umano per il resto della sua vita. Ci sono informazioni sufficienti in questo minuscolo zigote per controllare la crescita e lo sviluppo umano per il resto della sua vita. Fin da questo momento, lo zigote non riceve alcun sostentamento diretto dalla madre.

Geraldine Lux Flanagan scrive in “Beginning Life” (1996):

«Nelle prime ore del concepimento ogni aspetto del patrimonio genetico di un nuovo individuo viene determinato una volta per tutte: sarà un maschio o una femmina, avrà gli occhi marroni o azzurri, i capelli biondi o scuri, sarà alto o basso, tutta la ricchezza di dettagli degli attributi fisici dalla testa ai piedi… Il nuovo programma genetico è ottenuto quando i due pronuclei dei genitori si posizionano fianco a fianco all’interno dell’uvulo, forse per un giorno, i loro contenuti si combinano in un’unica e finale combianzione maschile o femminile. Ci sono le prime due cellule del futuro bambino. Così inizia il primo giorno dei primi nove mesi di vita»[20].

IMPIANTO (8° giorno)

A circa otto giorni dopo il concepimento, l’ovulo fecondato (blastociste) viene impiantato nella parete dell’utero. Questo emette sostanze chimiche che indeboliscono il sistema immunitario della donna in modo che questo corpo estraneo non venga respinto. Se l’embrione fosse semplicemente “parte del corpo della donna” non ci sarebbe alcun bisogno di disabilitare localmente l’immunità della donna. Pochi giorni dopo l’impianto, ha iniizio la gastrulazione, cioè il processo mediante il quale l’embrione si trasforma da una semplice pallina di cellule in un organismo a più livelli. Ripiegandosi su se stesso, il corpo di base comincia a prendere forma così come le cellule si differenziano in vari tipi di cellule specializzate. Le cellule che diventeranno i muscoli, scheletro e intestino iniziare effettivamente al di fuori, ma durante questa migrazione troveranno presto il loro posto all’interno del corpo. Il biologo dello sviluppo e docente accademico Lewis Wolpert, ha spiegato: «Non è la nascita, la morte o il matrimonio, ma è la gastrulazione ad essere veramente il momento più importante della vita»[21].

Barry Werth in “From Conception to Birth” (2002) ha scritto:

«Il sistema immunitario umano è programmato per distinguere tra le molecole che sono “self” e “non self” (cioè riconosciute o estrenee) e distruggere le seconde. Il blastociste -un puntino appena visibile- si comporta come un parassita, scavando nel rivestimento. Eppure l’utero si trasforma improvvisamente in ricettivo e acquiescente. L’embrione rompe i vasi sanguigni materni e il tessuto uterino rispondere rilasciando un amido che diventa il suo primo pasto. Immediatamente l’embrione comincia a crescere a grande velocità -ogni giorno il doppio di quello precedente-. Prima ancora che mamma sappia di essere incinta, il rapporto fondamentale tra madre e figlio è forgiato»[22].

 

 

3° SETTIMANA DALLA FECONDAZIONE (21°-28° giorno)

Entro la fine della terza settimana di gravidanza, circa 21 giorni dopo la fecondazione il cuore inizia a battere e in quattro giorni stabilizzerà il suo ritmo e inizierà a pompare sangue in tuttoi i suoi vasi sanguigni. Lo farà per 54 milioni di volte prima della nascita. I reni si preparano per la produzione di urina, gli occhi si gonfiano diventando visibili e il cervello comincia a dividersi in tre sezioni principali: proencefalo, mesencefalo e romboencefalo. Anche braccia e gambe stanno cominciando a prendere forma, diventeranno visibili dal 26°-28° giorno. L’embrione è circondato e protetto dal sacco amniotico e sta iniziando a produrre uova/sperma necessari per il proprio futuro riproduttivo.

Il National Geographic scrive in “The Womb“:

«Nel corso del primo trimestre l’uvulo inizierà a trasformarsi in un bambino completamente formato. Ma tutti gli aspetti del corpo umano, nervi, organi, muscoli, sono già mappati nelle prime fragili settimane»[23].

 

 

4° SETTIMANA DALLA FECONDAZIONE (28° -35° giorno, 1° mese)

Un mese dopo la fecondazione, lo sviluppo del cervello accelera rapidamente. In soli due giorni (tra il 31° e il 33°), aumenta le dimensioni del 25%. Si stima che durante il corso dello sviluppo prenatale una media di un milione di neuroni (cellule conduttori di impulsi che costituiscono il sistema nervoso) sono prodotte ogni minuto. La formazione della mano inizia intorno al 31° giorno. Due giorni dopo sono i piedi a prendere forma, l’occhio acquista la retina del pigmento il naso comincia a crescere.

Geraldine Lux Flanagan scrive a pag. 37 di “Beginning Life“:

«Il primo mese di vita porterà una meravigliosa trasformazione, il più grande cambiamento per lo sviluppo di una vita. Le centinaia di cellule si trasformano in migliaia e poi diecimila volte più grandi dell’inizio. La cosa meravigliosa è che questa miriade di cellule si auto-organizzazano nel corpo umano con tutti gli iniziali componenti squistamente specializzati, tutti al loro giusto posto e alcuni che già praticano le loro funzioni»[24].

 

5° SETTIMANA DALLA FECONDAZIONE (35°-42° giorno)

I reni si definiscono durante la 5° settimana e la parte esterna dell’orecchio cominciano a differenziarsi dal resto. L’embrione crescerà del doppio, passando da circa 5 millimetri di lunghezza a 10 millimetri.

Lennart Nilsson e Lars Hamberger scrivono a pag. 98 di “A Child is Born“:

«A cinque settimane, l’embrione è ben oltre la fase in cui appare come un grumo informe di cellule. Gli strati della pelle sono ancora poco sviluppati e il piccolo corpo è abbastanza trasparente. La testa può essere chiaramente distinta, così come il cuore, le vertebre della colonna vertebrale, e l’inizio di una manina»[25]

6° SETTIMANA DALLA FECONDAZIONE (42°-49° giorno)

Con la sesta settimana il cervello emette impulsi cerebrali misurabili. Onde cerebrali primitive sono state registrati fino a sei settimane e 2 giorni. Piccoli movimenti corporei possono già essere osservati: inizialmente interessano tutto il corpo, ma via via diventano sempre più specifici. L’embrione risponde in modo riflesso a stimoli dolorifici. Lars Hamberger, docente al Department of Obstetrics and Gynecology alla Sweden’s Gothenburg University nota che «già in questo inizio di gravidanza, l’embrione è estremamente vivace, in costante movimento e dorme solo per brevi periodi»[26]. L’ossificazione è già cominciata, le labbra sono comparsi tutte, appaiono 20 denti, si forma il diaframma, i reni producono urina e lo stomaco produce succhi gastrici.

Il National Geographic scrive in “The Biology of Prenatal Develpment“:

«Entro sei settimane gli emisferi cerebrali sono in crescita sproporzionatamente più velocemente di altre sezioni del cervello. L’embrione inizia a fare movimenti spontanei e riflessi. Tali movimenti sono necessari per promuovere il normale sviluppo neuromuscolare. Un tocco sulla zona della bocca provoca un riflesso nell’embrione che lo porta ritirare la sua testa»[27].

 

 

7° SETTIMANA DALLA FECONDAZIONE (49°-56° giorno)

I movimenti delle gambe possono essere distinti dopo le sette settimane. E’ anche stata osservata una forma di singhiozzo. Le ovaie femminili sono identificabili e il cuore a 4 camere ha raggiunto il completamento. Mani e piedi sono nettamente separati, è presente l’articolazione del ginocchio e l’embrione sviluppa la capacità olfattiva.

Geraldine Lux Flanagan scrive a pag. 55-56 di “Beginning Life“:

«Il giorno 49 è stato eletto per essere l’ultimo giorno della registrazione scientifica day-to-day del diario dello sviluppo. In questo giorno, l’embrione è di sette settimane ed è considerato essenzialmente completo»[28].

 

8° SETTIMANA DALLA FECONDAZIONE (56°-61° giorno, 2° mese)

Con l’ottava settimana di gravidanza, ogni organo è presente e in azione. Il periodo embrionale è ormai finito e d’ora in poi si parla di feto. Il 90% delle strutture che si trovano in un essere umano adulto si possono trovare anche in questo minuscolo feto. Il cervello, a questo punto, rappresenta quasi la metà del peso totale del corpo, e il 75% dei feti di 8 settimane dimostrano una dominanza di destrismo. Si verificano i movimenti respiratori intermittenti (anche se non c’è aria nell’utero) e i testicoli maschili stanno rilasciando testosterone. Più la pelle si ispessisce e più perde gran parte della sua trasparenza.

Alexander Tsiaras scrive a pag. 183 di “From Conception to Birth“:

«Al 56° giorno l’embrione è completamente formato. Tutti i sistemi del corpo sono in atto ed elaborati. L’organismo architettonico è più o meno tutto completato. Anche se la produzione di energia è circa un quinto di quella di un adulto, il cuore è funzionalmente completo»[29].

 

 

9° SETTIMANA DALLA FECONDAZIONE (61°-70° giorno)

A questo punto le palpebre si chiudono e il feto può succhiare il pollice, inghiottire il fluido amniotico, afferrare oggetti e compiere salti mortali indietro e avanti. L’utero può essere riconosciuto nel feto femminile e i genitali esterni diventano più riconoscibili.

Geraldine Lux Flanagan ha scritto a pagina 59 di “Beginning Life“:

«Il bambino diventa molto vivace durante il terzo mese di gravidanza. Nella libertà della piscina acquosa il piccolo essere si sposta con grazia e con facilità supera ogni neonato nel compiere acrobazie»[30].

 

 

10° SETTIMANA DALLA FECONDAZIONE (70°-80° giorno)

Il peso corporeo cresce rapidamente tra la 9° e la 10° settimane aumentando del 75%. Su tutte le dita appaiono unghie e impronte digitali uniche.

Il National Geographic scrive in “In the Womb“:

«La madre fornisce alloggio e nozioni di base: cibo, acqua e ossigeno, ma la vera star dello show è lo stesso feto, costruisce, divide e cresce secondo un insieme di piani intricamente creati al momento del concepimento»[31]

 

 

16° SETTIMANA DALLA FECONDAZIONE (110°-120° giorno, 3° mese)

Anche se il feto è stato a lungo in moto quasi perpetuo, dalle 16-20 settimane il corpo è abbastanza grande perché la madre cominci a sentire i calci. Le palpebre sono completamente coperte sugli occhi e peli fini cominciano a coprire tutto il corpo.

Lennart Nilsson e Lars Hamberger scrivono a pag. 122 di “A Child is Born“:

«Il feto si muove ogni giorno sempre più e i movimenti e gli scatti caratteristici della fase embrionale sono ora sostituiti da movimenti più lenti e precisi. Le mani trovano subito la strada e braccia e gambe si tendono e piegano. Il feto può essere visto a sbadigliare o a singhiozzare»[32].

22° SETTIMANA DALLA FECONDAZIONE (160°-170° giorno, 5° mese)

Dove esistono servizi medici moderni, a 22 settimane dalla fecondazione è generalmente considerato il momento da cui il feto può uscire dall’utero. A questo punto della gravidanza le probabilità di sopravvivenza a lungo termine sono ancora relativamente sottili, ma i progressi in campo medico continuano ad aumentare la soglia. Nel 2007 a Miami una bambina (foto a sx) è sopravvissuta a meno di 22 settimane[33]

 

 

NASCITA (38° settimana, 260°-270° giorno, 9° mese)

Il feto inizia a stimolare la corteccia surrenale e a secernere un ormone che induce l’utero della madre ad iniziare le contrazioni. E’ lui che determina quando è il momento di nascere. E’ solo verso la fine della gravidanza che si manifestano le variazioni di colore della pelle. La formazione finale della pelle, dei capelli e la pigmentazione degli occhi richiede comunque l’esposizione alla luce.

Il National Geographic scrive in “In the Worm“:

«Una volta sembrava che lo sviluppo mentale di un bambino iniziasse alla nascita, ora sembra che è la nascita stessa ad essere un evento relativamente insignificante in termini di sviluppo»[34]

 

 

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5. EMBRIONI E FETI SONO DA CONSIDERARSI PERSONE UMANE PER LA LEGGE

Affrontiamo ora la questione se embrioni e feti dovrebbero essere considerati come persone dalla legge. L’eminente docente di giurisprudenza all’Università di Princeton, R.P. George e il docente di Filosofia Morale all’Università del South Carolina, Christopher Tollefsen, hanno spiegato che [35], poiché gli esseri umani hanno un carattere personale, gli esseri umani sono persone.

Una persona ha per sua natura la capacità di sviluppare la capacità di pensare razionalmente, esprimere emozioni, prendere decisioni ecc… Tale capacità è qualcosa che una persona acquista appena inizia ad esistere, poiché è parte della sua natura (cioè, se esiste, ce l’ha). Per quanto riguarda il feto, in quanto è essere umano (come mostrato dalla scienza) possiede un carattere personale, è dunque una persona. Usando l’esempio del gatto,  vediamo che esso si qualifica come un felino semplicemente essendo gatto. Così un feto si qualifica come una persona semplicemente essendo essere umano[36]. E’  impossibile per un feto umano non essere una persona umana. Non esistono esseri umani che non sono “persone”, che non hanno “personalità”. L’umanità intrinseca dei bambini non nati li qualifica come persone e ciò dovrebbe, quindi, garantire loro la protezione ai sensi della legge.  Dato che il conferimento della “personalità” è il riconoscimento che l’essere umano ha dei diritti, c’è un diritto al quale tutti gli esseri umani dipendono: il diritto alla vita. Se manca questo, tutti gli altri diritti vengono meno. Il diritto alla vita è il principale diritto delle persone, oltre che essere il diritto da cui derivano tutti gli altri diritti.

Il celebre biologo e professore emerito di genetica Angelo Serra, membro della New York Academy of Sciences, dell”American Society of Human Genetics, dell’American Society for theAdvancement of Science e della British Society of Cell Biology, già direttore dell’Istituto di Genetica Umana e autore di 120 pubblicazioni su riviste scientifiche  internazionali, ha elaborato una sintesi[37] in 3 punti per dimostrare definitivamente lo “status” dell’embrione umano e per definire le caratteristiche dello sviluppo del neo-concepito.

1) Coordinazione: lo sviluppo embrionale (dalla fusione dei gameti alla formazione del blastociste) è un processo in cui si ha un coordinato succedersi e interagire di attività cellulari sotto il controllo del nuovo genoma, modulato da un’ininterrotta cascata di segnali prodotti in gran parte dall’attività dello stesso genoma, e che si trasmettono da cellula a cellula. E’ precisamente questa coordinazione che esige una rigorosa unità dell’essere in sviluppo. Coordinazione e conseguente unità indicano che l’embrione umano anche nelle sue precocissime fasi non è un aggregato di cellule ontologicamente distinte, ma un individuo, dove le singole cellule che si vanno moltiplicandosi sono strettamente integrate in un processo, attraverso il quale l’individuo (lungo le tappe morfogenetiche) traduce autonomamente il suo proprio spazio genetico nel suo proprio spazio organismico.

2) Continuità: alla fusione dei due gameti umani (spermatozoo e ovocita) incomincia un nuovo ciclo vitale di un nuovo essere umano. Questo ciclo procede senza interruzioni. Gli eventi singoli (ad esempio la moltiplicazione cellulare, la comparsa dei diversi tessuti e organi…) sono l’espressione di una successione ininterrotta di avvenimenti concatenati e coordinati l’uno all’altro senza soluzione di continuità: se c’è interruzione c’è morte o patologia. E’ precisamente questa continuità che implica e stabilisce la unicità del nuovo essere in sviluppo: è sempre lo stesso identico essere, che si sta formando secondo un piano ben definito.

3) Gradualità: è una legge ontogenetica. Essendo lo sviluppo un processo che implica necessariamente un succedersi di forme che in realtà non sono che stati di momenti diversi di uno stesso identico processo di sviluppo di un ben determinato essere, questa legge esige l’esistenza di una regolazione intrinseca allo stesso embrione, la quale mantiene orientato lo sviluppo in direzione della forma finale. E’ precisamente per questa legge teleologica intrinseca che l’embrione mantiene permanentemente la sua identità (la sua individualità e la sua unicità), rimanendo sempre lo stesso identico individuo lungo tutto il processo che inizia dalla fusione dei gameti.

 

 

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6. RISPOSTE AI LUOGHI COMUNI DEGLI ABORTISTI

Dato che è scientificamente evidente che embrione e feto siano esseri umani, per legittimare l’azione abortiva si introduce la distinzione tra “vita biologica umana” e “vita dell’uomo come persona”. Per essere “persona” -dicono- si dovrebbero riscontrare alcune qualità, alcune capacità. Così, embrioni e feti, nonostante siano esseri umani, perderebbero lo status di “persone umane” e conseguentemente il diritto ad una protezione giuridica incondizionata (cioè, il “diritto alla vita” della Dichiarazione dell’ONU).

 

a) LA PERSONA SAREBBE SOLO CHI HA UNA VITA RAZIONALE

Una delle più frequenti obiezioni filosofiche allo statuto di “persona” dell’embrione, sostiene che sarebbe una “persona” solo colui che è in grado di realizzare attività specificamente umane, come l’autocoscienza, l’autonomia, la capacità di ricordare e progettare, di stabilire legami, di entrare in relazioni comunicative ecc….. Philip K. Dick nel suo libro “Le pre-persone” ipotizza addirittura che si diventi delle “persone” quando si è in grado di eseguire calcoli complessi. Tuttavia questa posizione scambia evidentemente la causa con l’effetto: agere sequitur esse, cioè, è l’agire che deriva dall’essere e non il contrario. Esistono infatti una serie di condizioni in cui l’essere è impossibilitato ad agire: durante il sonno, in anestesia generale, in caso di mancanza di presupposti psico-fisici come nei malati di mente, nei neonati ecc… Ma in nessun caso la mancanza di attuazione di attività umane implica la mancanza (o la perdita) della realtà ontologica di base. ll criterio per l’attribuzione della qualifica di persona all’essere umano non può dipendere dalla determinanzione discutibile di capacità specificamente umane. La capacità funzionale di un soggetto non può qualificarlo in alcun modo: un gatto che non può fare le fusa, non può cacciare i topi e non può arrampicarsi sugli alberi, non si può dire che, per questo, non sia un felino. Si dice al massimo che è un gatto con limitate capacità.  Allo stesso modo vale per quei soggetti che non possono pensare razionalmente. Nel processo di sviluppo, l’individuo umano non fa che diventare ciò che è fin dall’inizio, entrando gradualmente in possesso delle sue capacità specificamente umane.

 

Posizione pericolosa. Occorre respingere la corrente di pensiero che vuole squalificare dall’essere persone sulla base di ciò che il soggetto può o non può fare, poiché è una posizione assai pericolosa. Altrimenti avrebbe ragione il filosofo ateo e luminare di Princeton, Peter Singer, padre della filosofia sul diritto animale, il quale sostiene che:  «I feti, i bambini appena nati e i disabili sono non-persone, meno coscienti e razionali di certi animali non umani. E’ legittimo ucciderli. Perché limitare l’uccisione dentro il corpo della donna? E’ ipocrita far abortire all’ottavo mese e non consentire l’eutanasia neonatale»[38]. E poi: «Nè un neonato nè un pesce sono persone, uccidere questi esseri non è moralmente così negativo come uccidere una persona»[39]. Oppure: «Il feto non ha autocoscienza e alcun senso della propria esistenza nel tempo. Non può sperare, non sa cosa sia il futuro. Per questo non ha diritto alla vita. Non penso che l’uccisione di un feto o di un bambino sia moralmente equivalente con l’uccisione di un essere razionale e autocosciente». E subito dopo: «E’ un diritto ragionevole lasciar morire i malati neurovegetativi perchè essi sono simili agli infanti disabili, non sono esseri coscienti, razionali, autonomi, la loro vita non ha valore intrinseco, il loro viaggio è arrivato alla fine»[40]. E infine: «Molti anni fa, nel 1994, proposi di fare eutanasia fino a un mese dalla nascita. Oggi penso che non dovremmo porre alcun limite temporale. Più aspettiamo più cresce il legame fra il bambino e i genitori, quindi l’eutanasia deve essere eseguita prima possibile […]. I feti, i neonati e i menomati cerebrali non hanno diritto alla vita […]. Una questione è se il bambino appena nato abbia lo stesso diritto alla vita di un adulto. Il neonato disabile deve essere ucciso prima possibile, perché poi si sviluppa un legame troppo forte tra la madre e suo figlio»[41]. Stabilire i criteri di quando inizi la vita umana è dunque assai pericoloso. Il ritenere che alcune classi di esseri umani non siano “persone”, e quindi non abbiano un diritto alla vita, è stata la base per i peggiori e disumani crimini dell’uomo verso l’uomo. La negazione della personalità è la base della schiavitù, dei genocidi, del razzismo , dell’eugenetica e dell’antisemitismo (oltre ad innumerevoli altre manifestazioni di depravazione umana). La dottrina giudaico-cristiana afferma che tutti gli esseri umani hanno una dignità e hanno diritto al diritto alla vita. Vi è un gruppo enorme e singolare di esseri umani viventi che non hanno ancora oggi alcuna protezione ai sensi di legge e vengono uccisi in massa ogni giorno. Era già accaduto per giustificare il massacro degli afro-americani ed i nativi americani, condiderati anche loro “umani non-persone”.

 

L’embrione ha grandi funzionalità. Questa posizione, oltre che discriminatoria, ignora tutte le grandi funzionalità e capacità che hanno embrione e feto e che la scienza moderna è riuscita a determinare. Gli esseri umani cominciano a rispondere e interagire con l’ambiente molto prima di nascere, vediamo qualche esempio presente nella letteratura scientifica:

Il National Geographic, nel suo volume scientifico “In the Womb” (2005), ha dichiarato che i «gemelli crescere nel grembo materno assieme e sono quasi sempre in contatto, si toccano le mani, i volti, i piedi e gradualmente diventano più consapevoli di loro stessi e dell’altro. […] Il feto si comporta in modo molto più complesso di quanto immaginato. Durante la sua odissea nel grembo lui sorride, riconosce la voce della madre e forse può anche sognare […] Una delle tante cose rivelate dalle scansioni 4D è il fatto che i bambini hanno la fase REM (cioè la fase di movimento rapido degli occhi durante il sonno). Sappiamo che questa è un’indicazione del fatto che il soggetto stia sognando […] Gli scienziati hanno anche visto alcuni gemelli giocare insieme»[42].

Geraldine Lux Flanagan scrive su “Beginning Life” (1996): «La vita all’interno dell’utero esso offre varie ed abbondanti esperienze che preparano il bambino al mondo che incontrerà quando si spostarà fuori. Stiamo imparando a riconoscere che i neonati nascono già in grado di respirare, mangiare e, occasionalmente, possono lamentarsi ad voce alta. Possono anche, in modo tranquillo e sottile, rispondere alle persone ed sono così accattivanti nelle loro azioni che suscitano le amorevoli cure di cui hanno bisogno. Nuovi mezzi di osservazione hanno permesso di scoprire come la reattività e l’attività del bambino è già presente nei mesi precedenti la nascita»[43].

Lennart Nilsson e Lars Hamberger scrivono in “A Child is Born” (2003): «Durante la gravidanza il feto ha iniziato ad esplorare il proprio corpo e l’ambiente, utilizzando le sue mani. Afferra spesso il cordone ombelicale e quando il pollice si avvicina alla sua bocca a volta cominciare ad accennare il succhio del dito. Il feto utilizza anche il suo senso dell’udito per orientarsi. I suoni a lui più familiari sono sicuramente i rumori del sistema digerente della madre e il fruscio dei suoi vasi sanguigni principali, ma a poco a poco il feto comincia anche a percepire i suoni fuori dalla pancia della madre, come come la musica e la voce del padre. Gli occhi del feto sono sensibili alla luce, anche se le palpebre sono ancora ben chiuse. Non abbiamo modo di sapere se il feto riesca a gustare la lieve salinità del liquido amniotico, abbiamo però prove indirette che il feto percepisca sapori e odori, dato che un neonato reagisce immediatamente, positivamente o negativamente, ai gusti che sono dolci, salati o amari. E’ noto che l’occhio possa percepire la luce già a partire dal terzo mese di gravidanza. A volte, quando un endoscopio viene inserito nel sacco amniotico, il feto cerca di proteggere gli occhi dalla luce, sia staccandosi da esso, sia usando mani e dita»[44].

b) L’EMBRIONE NON AVREBBE VITA INDIVIDUALE

C’è anche qualcuno che avanza un’altra obiezione: pur ritenendo “umana” la vita dell’embrione, essa non sarebbe ancora “individuale”.  Infatti -dicono- nelle prime fasi di sviluppo ogni cellula sarebbe totipotenziale e potrebbe dar luogo a diversi individui (gemelli omozigoti). Ad esempio, il prof. C. Wood di Melbourne afferma: «l’embrione precoce ha certo un’individualità genetica, ma non è ancora presente un individuo multicellulare. E’ vita pre-individuale»[45]. In realtà, spiega il biologo e genetista italiano Angelo Serra, la totipotenzialità non può essere attribuita astrattamente ad ogni singola cellula prendendo in esame solo le potenzialità teoriche del suo nucleo, ma va considerata nel complesso dei fattori. Ricerche recenti -continua lo scienziato- mostrano come l’espressione della potenzialità delle cellule è controllata dal citoplasma, il quale agisce come regolatore di un organismo unitario, fin dall’inizio orientato a dar origine ad un solo individuo. La formazione di un unico individuo è la regola, mentre è la gemmellarità monozigotica ad essere un’eccezione, peraltro già prevedibile e progammata dalla conformazione globale della cellula embrionale[46].

 

 

c) L’ESSERE UMANO E’ UNA PERSONA SE ALTRI LO RICONOSCONO

La fallacità delle varie obiezioni porta molti a cercare argomentazioni anche un pò assurde. Viene ad esempio detto che sarebbe il riconoscimento delle altre persone (genitori o parenti) e l’accoglienza dentro relazioni significative a rendere “persona” l’essere umano. Altri addirittura dicono che l’essere umano è persona quando si può “vedere” (ma con l’ecografia moderna si vede tutto!). E’ un pericoloso rovesciamento: è il riconoscimento dei genitori a creare (quasi “miracolosamente”) la realtà della persona oppure essa è indipendente dal loro giudizio? Il criterio per l’attribuzione della qualifica di persona all’essere umano non può dipendere dalla discrezionalità di altri uomini. Un bambino che nasca su un’isola deserta, contemporaneamente alla morte della madre, non sarà mai una persona con dei diritti finché nessuno lo riconoscerà come tale?

 

 

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7. CONCLUSIONI

Abbiamo dunque dimostrato che è l’embriologia moderna a riconoscere l’emergere di un nuovo essere umano al momento del concepimento. Abbiamo visto i motivi, scientifici e filosofici, per i quali l’embrione e il feto umano siano da considerarsi a tutti gli effetti delle persone con relativi diritti umani.  Infine abbiamo confutato le maggiori obiezioni avanzate dai sostenitori dell’aborto.

Il verdetto è sbagliato. Il famoso verdetto del 1973 che introdusse l’aborto legale negli USA, venne costruito proprio sul presupposto dell’incertezza se l’aborto uccidesse o meno un altro essere. Il giudice Harry Blackmun decretò: «La magistratura, a questo punto dello sviluppo della conoscenza dell’uomo, non è in grado di risolvere la difficile risolvere questione di quando la vita abbia inizio, dal momento che le rispettive discipline: medicina, filosofia e teologia, non sono in grado di giungere a un consenso»[47]. Eppure oggi questo consenso, come abbiamo visto, è ampiamente raggiunto: l’essere umano è un membro vivente della specie Homo-Sapiens, e un essere umano comincia a essere un membro vivente della specie Homo-Sapiens al momento del concepimento e cessa di esserlo alla morte naturale. Questa è un’evidenza scientifica ed è difficile vi siano posizioni contrarie. Non c’è alcuna discussione sul fatto che il tribunale della Corte Suprema sbagliò, poiché l’interruzione di gravidanza comporta sempre l’uccisione di un essere umano, di un’entità distinta.

La donna non è un’assassina. Sottolineaiamo infine che l’individuare nell’aborto la soppressione oggettivamente di un altro essere umano (innocente) non significa paragonare la madre ad un’assassina (come vorrebbe qualche volgare semplificazione). Nel determinare la gravità di un comportamento contano anche molti fattori soggettivi: le pressioni psicologiche subite, l’ansia, la paura, il grado di consapevolezza (che può essere fortemente ridotta in un contesto culturale che si sforza di sminuire la gravità del gesto). Benché non si possa escludere che esistano casi di colpevole superficialità di alcune donne, soprattutto quando ricorrono all’aborto più volte e per futili motivi, molto sicuramente maggiori le responsabilità sono di coloro che abbandonano la madre in quei frangenti, o addirittura la incoraggiano a cercare quel tipo di ‘scorciatoia’. Embrioni e feti sono completamente e singolarmente umani fin dal momento della fecondazione. Se questo non fosse vero rimuovere un feto sarebbe come rimuovere un dente, ed invece il dibattito sul diritto di personalità è decisamente aperto.

Invito alla prudenza. Si può non essere d’accordo ma nessuno può sostenere che il dibattito sia chiuso. Per questo motivo, permanendo una sorta di incertezza sulla liceità dell’interruzione di gravidanza, il buon senso consiglia comunque di non agire e mantenersi prudenti. Lo dichiarava già nel 1984 il Presidente americano Ronald Reagan: «L’aborto non è un problema di religione, è un problema di Costituzione. Io credo che fintanto che ci sia qualcuno in grado di stabilire che il nascituro non è un essere umano vivente, allora questo bambino dev’essere già tutelato dalla Costituzione, garantendo a lui la vita e la libertà»[48]

 

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NOTE

[1]^ http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/encyclicals/
[2]^[37]^[46]^ L. Melina, Corso di Bioetica, Edizioni Piemme (1996) , pag. 112-131
[3]^ Ronan O’Rahilly & Fabiola Müller, “Human Embryology and Teratology“, 3rd edition, Wiley-Liss, 2001, p. 8.
[4]^ Keith L. Moore, “The Developing Human: Clinically Oriented Embryology“, Saunders 2003, pp. 2, 16
[5]^[23]^[31]^[34]^[42]^ “In the Womb”, National Geographic 2005
[6]^ TW Sadler, “Langman’s Medical Embryology“, 10th edition, Lippincott Williams & Wilkins 2006, p.11
[7]^ Keith L. Moore, “Before We Are Born: Essentials of Embryology“, 7th edition, Saunders 2008, p. 2
[8]^[9]^[10]^[11]^[12]^[13]^ Subcommittee on Separation of Powers to Senate Judiciary Committee S-158, Report, 97th Congress, 1st Session, 1981
[14]^ Naomi Wolf, “Our Bodies, Our Souls”, The New Republic 16/10/1995
[15]^ http://www.antoniosocci.com/2006/04/pannella-sconfessato/
[16]^ F. Wattleton, “Speaking Frankly” May/June 1997, Volume VII, Number 6, 67
[17]^ D. Boonin, “A Defense of Abortion” , Cambridge University Press 2002
[18]^ P. Singer, “Practical Ethics”, Cambridge: Cambridge University Press 2008, pp. 85-86
[19]^ Ultimissima 22/3/11
[20]^[24]^[28]^[30]^[43]^ F.L. Geraldine, “Beginning Life“, DK 1996, pp. 14, 23
[21]^[29]^ http://entertainment.timesonline.co.uk/tol/arts
[22]^ B. Werth, From Conception to Birth, Doubleday 2002, p. 7
[25]^[26]^[32]^[44]^ L. Nilsson & L. Hamberger, “A Child is Born“, 4th edition, Bantum Dell 2003, pp. 98-141
[27]^ National Geographic, “The Biology of Prenatal Develpment“, 2006
[33]^ http://www.msnbc.msn.com/id/17237979/
[35]^ R.P. George & C. Tollefsen, “Embryo: A Defense of Human Life”, Doubleday Broadway Publishing Group 2008
[36]^ come ha spiegato il filosofo Francis Beckwith in “The Explanatory Power of the Substance View of Persons”, Christian Bioethics 10 (2004): 33-54
[38][40][41]^ Il Foglio 11/03/08
[39]^ Singer, Ripensare alla vita, Il Saggiatore 1996, pag. 20
[45]^ citato in N. Ford , ““Quando comincio io? Il concepimento nella storia, nella filosofia, nella scienza”
[47]^ http://caselaw.lp.findlaw.com/scripts/getcase.pl?court=US&
[48]^ http://www.reaganfoundation.org/reagan-quotes-detail.aspx?tx=2041

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Aborto e dolore fetale, cosa dice la scienza

Il feto umano percepisce dolore? A che età della vita uterina? L’aborto procura dolore al concepito? Secondo la letteratura scientifica esistono prove di dolore fetale già alla 20° settimana, qui un elenco di studi che lo dimostrano..


Nel dibattito contemporaneo sulla liceità dell’interruzione di gravidanza raramente si tengono in considerazione i diritti del concepito e, ancor meno, ci si pone il quesito se esso soffra o meno durante un aborto. Fino agli anni ’80 gli specialisti escludevano categoricamente che il feto potesse provare dolore, e ancora qualcuno lo sostiene ancora oggi. Oggi, tuttavia, la maggioranza dei ricercatori concorda che attorno alla 20° settimana dalla fecondazione il feto abbia la possibilità di percepire stimoli dolorifici, evidenza che convince anche molti sostenitori dell’aborto. Numerosi sono anche i ricercatori che ritengono che il feto inizi a sentire dolore addirittura verso l’8° settimana dopo la fecondazione.

In altri dossier abbiamo interrogato la letteratura scientifica riguardo alle conseguenze per la donna che si sottopone ad un aborto di soffrire di depressione e traumi emozionali nel post-aborto, di un aumentato rischio di placenta previa, di infezioni (croniche) all’utero, di placenta previa, cancro al seno, di nascite premature e aborti spontanei e, in generale, di un alto rischio di mortalità materna.

Qui di seguito un elenco di ricerche (costantemente aggiornato) che confermano la capacità del feto umano di provare dolore molto prima di quanto si pensasse.

 

ELENCO DI STUDI E PARERI SCIENTIFICI SUL DOLORE FETALE

 

Nel maggio 2013 in una testimonianza giurata alla Commissione di Giustizia degli Stati Uniti, Maureen L. Condic, neurologo del dipartimento di Neurologia e Medicina della University of Utah, ha affermato: «C’è una forte evidenza scientifica che la comunicazione tra i neuroni del cervello è stabilito nella settima settimana. I circuiti neurali responsabili della risposta più primitivo al dolore, il riflesso spinale, sono in posizione dopo 8 settimane di sviluppo. Questo è il primo momento in cui il feto sperimenta il dolore», tant’è che risponde ad esso spostandosi dallo stimolo doloroso. «E’del tutto pacifico che un feto sperimenta il dolore in qualche modo, già a partire dalle 8 settimane di sviluppo».

 

Nel maggio 2012 due ricercatori dell’Università degli Studi di Siena hanno rilevato che la maggior parte degli studi fornisce l’evidenza di dolore fetale nel terzo trimestre di gestazione, ma tale riscontro diventa più debole prima di questa data, anche se non si può escludere la presenza crescente a partire dall’inizio della seconda metà della gestazione.

 

Il 13 giugno 2011 il governatore dell’Alabama, Robert Bentley, ha trasformato in legge un ddl sul divieto di aborto a 20 settimane (e dopo) della gravidanza. E’ ormai un’evidenza scientifica, dicono, che dopo questo tempo il feto prova sicuramente dolore.

 

Il 20 ottobre 2010 i media hanno annunciato che il governatore del Nebraska, Dave Heineman, ha trasformato in legge un ddl sul divieto di aborto dopo 20 settimane di gestazione sulla base del dolore fetale. Tra le motivazioni che hanno convinto gli esperti, c’è la testimonianza di Kanwaljeet “Sunny” Anand, il già citato docente dell’Università di Arkansas per le scienze mediche e maggior esperto mondiale sull’argomento, il quale ha più volte richiesto il divieto di aborto dopo le 20 settimane di gestazione poiché il feto subirebbe un “grave e lancinante dolore”. Si è inoltre verificato che i bambini non ancora nati, durante le osservazioni, «tentano di eludere certi stimoli dolorifici e rispondono ad essi con uno stress ormonale».

 

Il 18 ottobre 2010 l’equipe ostetrica londinese del professor Stuart Campbell ha ritratto, con una metodica detta Esplorazione 4-D, un feto di 17 settimane nell’atto di sorridere. In passato erano stati rilevati dei feti umani mentre piangevano alla 18°-19° settimana, ma finora nessun sorriso. Tale reperto è contestato dall’equipe del professor Eric Jauniaux, sempre di Londra, che lo ritiene un artefatto casuale poiché prima della 24° settimana, secondo lui, i collegamenti tra il cervello e il resto del corpo sono troppo incompleti perché si possa ritenere un’espressione del viso la manifestazione di un sentimento.

 

Il 27 giugno 2010 il neurologo dell’Università di Toronto, Paul Ranalli, ha analizzato lo studio del Royal College of Obtetrics and Gynecologists trovando parecchie contraddizioni, errori (scientifici, logici e filosofici) e sostenendo che sulla base della nostra attuale comprensione dello sviluppo anatomico, ormonale e comportamentale del feto umano, il momento scientificamente corretto del dolore fetale è a 20 settimane. Gli autori dello studio, sottolinea lo specialista, sembrano ignorare le recenti scoperte sulla “piastra neuronale” presente nel feto, la quale non è solo una caratteristica transitoria nella maturazione del cervello del feto, ma è una zona altamente attiva di attività neuronale, che crea consapevolezza nel feto sull’ingresso di segnali neuronali, compreso il dolore. Sostiene anche che le prove fornite sull’incoscienza del feto non siano sufficienti.

 

Nel 2010 su Best Pratice & Research Clinical Obstetrics and Gynaecology, il dr. Derbyshire ha dichiarato: «Per il feto, l’esistenza del dolore si fonda sulla presenza di uno stimolo che rappresenti una minaccia per il tessuto, che sia rilevato dal sistema nervoso e che sappia rispondere agli stimoli che rappresentano una minaccia. L’intera esperienza è completamente delimitata dai limiti del sistema sensoriale e la relazione tra questo sistema e lo stimolo. Se il dolore è concepito in questo modo allora diventa possibile parlare di sofferenza fetale in qualsiasi momento tra la 10 e la 17 settimane di gestazione, quando i nocicettori sono sviluppati e maturi».

 

Il 25 giugno 2010 un gruppo di studiosi britannici del Royal College of Obstetrics and Gynecologists (RCOG) ha sostenuto che il feto non può sentire dolore per almeno 24 settimane di gestazione, ovvero più di 5 mesi. Lo studio è stato intitolato Fetal awareness (coscienza fetale), ed in esso si spiega che il feto non ha connessioni nervose con la corteccia cerebrale e in tutta la gravidanza non ha mai una vera veglia, ma è tenuto dal contenuto chimico dell’utero in uno stato di incoscienza o sedazione.

 

Il 26 giugno 2010 il ginecologo e neonatologo Carlo Bellieni, dalle colonne del quotidiano “Avvenire”, ha commentato lo studio del Royal College, ricordando che, come emerge dal campo degli studi sullo stato vegetativo, per provare dolore non è necessaria l’attivazione della corteccia, ma solo il sottostante nucleo di cellule dette “talamo”, come ha affermato anche Sunny Anand, maggior esperto mondiale di dolore fetale, nella rivista ufficiale della Società degli studi sul dolore (Iasp). La convinzione che il feto umano sia in uno stato di continuo sonno, continua Bellieni, viene inoltre contraddetta dall’osservazione e da vari studi scientifici che, sulle riviste specializzate, hanno descritto approfonditamente le reazioni di fuga, di sobbalzo e spavento e perfino il pianto del feto in utero. Dopo aver sottolineato altre contraddizioni, ricorda come negli Stati Uniti si stia abbassando a 20 settimane il limite legale per l’aborto proprio per l’evidenza che da quel momento in poi percepisce, senza dubbio, il dolore.

 

Nel 2008 su Reproductive Health Matters è apparso un articolo del Dr. Stuart Derbyshire, docente di psicologia presso l’Università di Birmingham, intitolato “Fetal Pain: Do We Know Enough to Do the Right Thing?”, nel quale si sostiene che «il feto inizia a rispondere allo stimolo tattile verso la 7-8° settimana di gestazione, flettendo lateralmente il capo. I palmi delle mani invece diventano sensibili alle carezze verso le 10-11 settimane di gestazione e il resto del corpo diventa sensibile intorno alle 13-14 settimane di gestazione […]. Un’altra fase di sviluppo neurale avviene a 18 settimane, quando è stato dimostrato che il feto produce una risposta ormonale per diretta stimolazione nociva. La risposta prodotta comprende alterazioni emodinamiche del flusso sanguigno per proteggere organi essenziali, come il cervello».

 

Il 5 giugno 2008, commentando l’uscita del volume “Neonatal Pain: Suffering, Pain and the Risk of Brain Damage in the Fetus and Unborn” (ed. Springer), di Giuseppe Buonocore e Carlo Bellieni (prodotto da un lavoro congiunto di 9 esperti), entrambi membri del dipartimento di Pediatria, Ostetricia e Medicina Riproduttiva dell’Università di Siena, hanno dichiarato che «con l’introduzione dell’ultrasonografia a tre e a quattro dimensioni si è riusciti ad ottenere una valutazione molto più dettagliata del feto e delle sue reazioni a determinate stimolazioni. In casi di intervento sui feti, si registra una reazione allo stimolo invasivo sin dall’età di 16 settimane di gestazione. Persino a 12 settimane si può vedere come il feto si ritragga se viene toccato. Anand, ora professore di Medicina dell’Università dell’Arkansas e pediatra presso l’Arkansas Children’s Hospital a Little Rock, ha detto al New York Times di ritenere che il feto sia in grado di provare dolore sin dalla 20ª settimana di gravidanza, e forse anche prima».

 

Ancora nel 2008, un articolo scientifico di R. Gupta, M. Kilby e G. Cooper su Continuing Education in Anaesthesia, recita: «i recettori nervosi periferici si sviluppano tra la 7 e 20 settimane di gestazione, le fibre spinotalamico (responsabili della trasmissione del dolore) tra la 16 e 20 settimana di gestazione, e le fibre talamo-corticale tra la 17 e 24 settimana di gestazione». Hanno anche dichiarato che: «il movimento del feto in risposta a stimoli esterni si verifica a partire dalla 8° settimana di gestazione […], una risposta a stimoli dolorosi si verifica dalla 22° settimana di gestazione [= 20 settimane dopo la fecondazione]», e ancora: «lo stress fetale in risposta a stimoli dolorosi è dimostrato dall’aumento delle concentrazioni di cortisolo e β-endorfine, da movimenti vigorosi e respirazione sforzata. Questo tipo stress avviene dalla 18° settimane di gestazione».

 

Nel 2008 il dr. Van Scheltema del Dipartimento di ostetricia al Liden University Medical Centre, nei Paesi Bassi, su Fetal and Maternal Medicine Review, ha dichiarato: «Il collegamento tra il midollo spinale e il talamo (un via obbligata attraverso la quale quasi tutte le informazioni sensoriali devono passare prima di raggiungere la corteccia) inizia a svilupparsi a partire dalla 14° settimana e termina a 20 settimane» (Van Scheltema PNA, Bakker S, Vandenbussche FPHA, Oepkes, D. “Fetal Pain”, Fetal and Maternal Medicine Review. 19:4 (2008) 311-324).

 

Nel dicembre 2006 uno studio di Roland Brusseau e Laura Myers su International Anesthesiology Clinics chiamato “Developmental Perpectives: is the Fetus Conscious?”, ha stabilito che: «Il primo requisito indispensabile per la nocicezione è la presenza di recettori sensoriali, i quali si sviluppano prima nella zona periorale a circa 7 settimane gestazione. Da qui si sviluppano nel resto del viso e nella superficie delle mani e delle piante dei piedi a 11 settimane. Dopo le 20 settimane sono presenti su tutta la superifice cutanea». Facendo un paragone con i neonati, ha affermato: «Nonostante l’assenza totale o quasi totale della corteccia cerebrale nei neonati, in modo molto chiaro essi dimostrano gli elementi di coscienza. Pare dunque che questi bambini dimostrino che lo sviluppo anatomico o l’attività funzionale della corteccia può non essere richiesta nella consapevolezza della percezione sensoriale. Essi possono rispondere a stimoli dolorosi o piacevoli nel modo che potremmo facilmente descrivere come “consapevolezza”».

 

Il 21 aprile 2006 si è diffusa la notizia di una controversa relazione pubblicata sul British Medical Journal, la quale sostiene che i feti non sono in grado di provare dolore, e che questa capacità può essere sviluppata solo dopo la nascita.

 

Il 19 aprile 2006, alla fine del Convegno di Bologna di Neonatologia, presso l’Aula Magna della Clinica Pediatrica dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna Policlinico Sant’Orsola-Malpighi, si è dichiarato: «è maturata negli ultimi anni la consapevolezza che anche i neonati d’età gestazionale estremamente bassa, così come quelli nella fase terminale della loro vita, siano in grado di percepire dolore. L’elaborazione di linee-guida relative alle cure compassionevoli, vale a dire quegli interventi non curativi che vanno incontro ai bisogni fisici, emozionali, sociali, culturali e spirituali dei neonati e delle loro famiglie non possono prescindere da tale consapevolezza».

 

Il 24 agosto 2005, un’importante metanalisi apparsa sul Journal of the American Medical Association, ha stabilito che il feto umano inizia a sentire dolore intorno al settimo mese di gravidanza, quando ha circa 28 settimane di vita (anche ” target=”_blank”>qui).

 

Il 12 ottobre 2004 il noto neonatologo ed esperto di bioetica Carlo Bellieni, segretario del Comitato di Bioetica della Società Italiana di Pediatria e docente di Terapia intensiva neonatale all’Università di Siena, ha dichiarato: «Sunny Anand e molti altri dopo di lui hanno evidenziato che il feto sente dolore per l’efficace sviluppo delle vie anatomiche del dolore. Già a 7 settimane di gestazione sono presenti recettori per il tatto nella regione periorale e può essere evocata una “avoiding reaction” o “reazione di fuga” toccando il feto. Per percepire un dolore servono dei recettori, delle vie neuronali funzionanti e una corteccia capace di ricevere e integrare l’informazione. Dalla metà della gestazione questo è già presente. I recettori cutanei coprono tutta la superficie corporea dalle 20 settimane di gestazione. Le vie nervose efferenti sono in sede dalla sesta settimana e numerosi neurotrasmettitori specifici compaiono dalle 13 settimane. Queste vie arrivano al talamo alla base del cervello dalle 20 settimane. Raggiungono la corteccia nel periodo 17-26 settimane. Il fatto che le fibre ancora non siano completamente mielinizzate (ovvero non abbiano la guaina che le isola chiamata “mielina”) non inficia il fatto che possano trasmettere stimoli».

 

Nel giugno 2004 in un articolo scientifico su Best Practice & Research Clinical Anaesthesiology, firmato da Myers LB, Bulich LA, Hess, P, Miller, e chiamato “Fetal endoscopic surgery: indications and anaesthetic management“, si legge: «Il primo requisito indispensabile per la nocicezione è la presenza di recettori sensoriali, che si sviluppano prima nella zona periorale a circa 7 settimane di gestazione e sono diffusamente presenti in tutto il corpo dalla 14° settimana […]. Una prima risposta motoria può essere vista come un allontanamento del corpo del feto da uno stimolo ed è notato in ecografia già a partire da 7,5 settimane dell’età gestazionale. La zona periorale è la prima parte del corpo a rispondere al tocco verso circa l’8° settimana, ma già dalla 14° la maggior parte del corpo è sensibile al tatto». Dopo aver citato diversi studi, ha concluso: «si può concludere che l’ipotalamo-ipofisi-surrenale del feto umano è funzionalmente abbastanza maturo per produrre una β-risposta di endorfina dalla 18° settimana e per la produzione di risposte al cortisolo e noradrenalina dalla 20° settimane di gestazione […]. Esistono prove sostanziali che dimostrano la capacità del feto di creare una risposta neuroendocrina in seguito a stimoli nocivi nel secondo trimestre».

 

Il 20 agosto 2001 è apparso uno studio realizzato dal prof. Eva Johnstone della Edinburgh University e pubblicato sul Medical Research Council, in cui si sosteneva come il nascituro può essere in grado di sentire dolore a non meno di 20 settimane di gravidanza, dunque intorno al quinto mese.

 

Nel 2000 la Camera dei Lord in Gran Bretagna ha condotto un’inchiesta sulla “sensibilità del feto”. Una parte dello studio ha affrontato con la capacità del feto di provare dolore, opponendosi a coloro che sostengono che la corteccia cerebrale sia l’unica zona in cui il dolore può essere sentito, chiamando in causa un’area inferiore del cervello. Essi hanno ipotizzato che il feto possa essere in grado di percepire qualche “forma di sensazione di dolore o sofferenza” prima che la corteccia sia collegata ai livelli inferiori del cervello, rilevando che i neonati con difetti importanti al cervello sono in gradi di percepire il dolore, come gli idrocefali che hanno gli emisferi cerebrali parzialmente o del tutto assenti. Hanno quindi concluso che dopo le 23 settimane di concepimento i nervi che trasmettono i segnali del dolore sono formati e attivi. Entro le 24 settimane il cervello è sufficientemente sviluppato per elaborare i segnali di dolore ricevuti tramite il talamo. Dopo le 6 settimane gli elementi del sistema nervoso cominciano a funzionare e quindi gli specialisti concordano sul fatto che questo momento segna il punto minimo possibile al quale la sensazione di dolore possa verificarsi.

 

Nel settembre 1999, sul British Journal of Obstetrics and Gynaecology, la prof Vivette Glover, medico abortista del Queen Charlotte’s and Chelsea Hospital, docente di Psicobiologia Perinatale presso l’Imperial College di Londra ed esperta degli effetti dello stress durante la gravidanza sullo sviluppo del feto e del bambino, ha dichiarato: «La maggior parte dei percorsi in entrata, inclusi quelli nocicettivi, vengono instradati attraverso il talamo e penetrano nella “zona della piastra” a circa 17 settimane. Queste fibre cominciano a invadere la “zona della piastra” a 13 settimane e raggiungono la corteccia a circa 16 settimane. Questo porta alla probabilità che il feto possa essere a conoscenza di tutto ciò che sta succedendo nel suo corpo o altrove. Dalle evidenze anatomiche, è possibile stabilire che il feto senta dolore dalla 20° settimana, percepisce invece uno stress già a partire dalla 15° o 16° settimana». Il 29 agosto 2000 sul The Telegraph ha invece pubblicato la richiesta di far terminare tutte le gravidanze tra la 17 e 24 settimana sotto anestesia per evidenza di dolore fetale. Il 22 dicembre 2004, sulla rivista Conscience, la Glover, ha invece dichiarato: «Il feto inizia a compiere movimenti in risposta all’essere toccato dalle otto settimane, e compie movimenti più complessi, come rilevato dagli ultrasuoni, nel corso delle successive settimane».

 

Nel 1996 il fisiologo Peter McCullagh al Parlamento britannico ha dichiarato: «In quale fase dello sviluppo umano prenatale appaiono quelle strutture anatomiche che sottendono la sensibilità del dolore? L’insieme delle prove, in questo momento, indica che queste strutture sono presenti e funzionali prima della decima settimana di vita intruterina».

 

Nel 1995 Sir Albert Lilley, considerato tra i padri della fetologia, ha affermato in un’intervista che «durante dall’8° alla 10° settimana, come ha dimostrato il Dr. Davenport Hooker, i feti sono sensibili al tatto. Risponde anche violentemente agli stimoli dolorosi, alle iniezioni di freddo o a stimoli di soluzioni ipertoniche. Il dolore è un’esperienza personale e soggettiva e non c’è alcun test biochimico o fisiologici che possiamo fare per dire che uno è in fase di sofferenza. Allo stesso modo, ci manca qualsiasi prova sul fatto che gli animali sentano il dolore. Tuttavia, a giudicare dalle risposte della gente, sembra che essi soffrano, tanto da avere un’organizzazione come la Society for Prevention of Cruelty to Animals» (R.L. Sassone, “The tiniest humans”, American Life League 1995).

 

Il 19 novembre 1987 su New England Journal of Medicine, è apparso un articolo scientifico di K.S. Anand, considerato il maggior esperto mondiale di dolore fetale, direttore del Pain Neurobiology Laboratory presso l’Arkansas Children‟s Hospital Research Institute, e docente di Pediatria, Anestesiologia, Farmacologia e Neurobiologia presso l’University of Arkansas College of Medicine. Egli sostiene che i recettori sensoriali cutanei appaiono nella zona periorale del feto umano durante la 7a settimana di gestazione, si diffondono nel resto della faccia, sui palmi delle le mani, e sulle piante dei piedi, durante l’11a settimana, sul tronco e le parti prossimali delle braccia e delle gambe durante la 15a settimana, e per tutte le altre superfici cutanee e le mucose entro la 20a settimana». Nel 2005, chiamato a testimoniare davanti alla Congresso americano della Camera dei Rappresentanti, ha dichiarato sotto giuramento: «La mia opinione è che molto probabilmente la maggior parte dei feti a 20 settimane dopo il concepimento sarà in grado di percepire uno spiacevole dolore in seguito a stimoli nocivi».. Un anno dopo, nel 2006, sulla rivista Pain: Clinical Updates, dirà: «La nostra attuale comprensione dello sviluppo prevede l’attuarsi delle strutture anatomiche, dei meccanismi fisiologici, e delle prove funzionali per la percezione del dolore, durante il secondo trimestre, non certo nel primo, ma ben prima che inizi il terzo trimestre di gestazione» (Anand KJS. Fetal Pain? Pain: Clinical Updates. 14:2 (2006) 1-4 anand 2006).

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L’aborto e la probabilità di infezioni all’utero: rassegna scientifica

Infezioni all’utero dovute all’aborto. L’interruzione di gravidanza comporta numerose e possibili conseguenze per la donna, tra le quali danni cronici all’utero. Ecco una raccolta di studi scientifici che lo provano.


Uno sguardo attento e oggettivo della letteratura scientifica porta a concludere che la donna che si sottopone all’interruzione di gravidanza avrà un rischio maggiore di soffrire di depressione e traumi emozionali nel post-aborto, un aumentato rischio di placenta previa, di mortalità materna, di cancro al seno, di nascite premature e aborti spontanei.

Oltre a ciò, una discreta mole di ricerca indica anche l’aumento del rischio di danni (anche cronici) all’utero. Elenchiamo qui sotto alcuni degli studi che lo dimostrano (l’elenco è in costante aggiornamento).

 

 

ELENCO DI STUDI SCIENTIFICI SU ABORTO E INFEZIONI ALL’UTERO

 

Il 15 novembre 1984 l’American Journal of Obstetrics and Gynecology ha pubblicato un articolo intitolato “Pelvic infection is a common and serious complication of induced abortion and has been reported in up to 30% of all cases.” L’articolo riconosce che l’infezione pelvica è una complicanza frequente e grave dell’aborto indotto (30% dei casi). I rischi che ne conseguono riguardano l’infertilità futura, dolore cronico addominale o una gravidanza ectopica[1].

 
Nel numero di agosto dell’anno 1989 dell’American Journal of Obstetrics and Gynecology, un articolo intitolato “The frequency and management of uterine perforations during first-trimester abortions”, tre noti abortisti hanno riconosciuto che le perforazioni uterine durante gli aborti di routine nel primo trimestre avvengono sette volte di più di quanto si pensasse. E concludono: «Maggior parte delle perforazioni uterine non vengono riconosciute e trattate». Queste perforazioni sono pericolose non solo perché possono provocare emorragie interne letali, ma anche perché lasciano un tessuto cicatriziale nel grembo materno che ostacola una successiva gravidanza. L’articolo stima che circa il 2% di tutti gli aborti durante il primo trimestre di gravidanza provocano perforazioni all’utero[2].

 
Sempre nel 1989 sul “British Journal of Cancer” è stato pubblicato uno studio realizzato da ricercatori italiani dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano, nel quale si riconosce che i casi di neoplasie della cervice uterina, cioè l’insieme di tumori che colpiscono il collo dell’utero delle donne, tende a presentarsi più frequentemente in seguito ad aborti indotti[3].

 
Nel marzo 2002 su The Lancet viene pubblicato uno studio scientifico che dimostra come un uso prolungato di contraccettivi orali possa essere un cofattore che aumenta il rischio di carcinoma della cervice uterina[4].

 
Nell’aprile 2003 su The Lancet è apparso uno studio scientifico realizzato dall’International Agency for Research on Cancer di Lione, nel quale si conferma che l’uso prolungato di contraccettivi ormonali è associato ad un aumentato rischio di cancro cervicale[5].

 
Il 6 gennaio 2007 lo scrittore Antonio Socci ha riportato sul quotidiano “Libero” le parole della dottoressa Kustermann, storica ginecologa abortista e primario di ostetricia e ginecologia della Mangiagalli di Milano, pubblicate sulla rivista laicista “Micromega”. La Kustermann riconosce: «l’aborto chirurgico legale presenta un rischio del 4 per cento di complicazioni più o meno gravi, che vanno dalla necessità di ripetere l’intervento, all’emorragia, alla perforazione dell’utero, all’infezione dell’utero che si manifesta nei giorni seguenti con febbre alta e dolori intensi. Quindi permangono dei rischi che possono determinare anche conseguenze di lungo periodo per la donna: per esempio un’infezione grave o una perforazione uterina che può determinare una sterilità permanente»[6].

 
Nel dicembre 2011, sulla rivista “Acta et Obstetricia Gynecologica Scandinavica” è stato dimostrato un legame significativo tra un aborto indotto precedentemente e l’aumento del rischio di isterectomia post-partum. Le donne sono state seguite dal gennaio 2003 ad ottobre 2009[7].

 
Sempre nel dicembre 2011, la rivista “Contraception” ha pubblicato uno studio basato su 4.931 donne che hanno abortito con la RU486 (ovvero con lo steroide mifepristone). Queste sono state messe a confronto con 4.925 donne senza una storia di aborto indotto e 4.800 donne con un precedente aborto chirurgico e le hanno seguite durante la gravidanza e il parto. Le donne con un precedente aborto farmacologico (RU486) avevano un più alto rischio di sanguinamento vaginale rispetto a coloro che non avevano mai abortito. Il rischio era tuttavia simile a coloro che avevano un precedente aborto chirurgico[8].

 

 

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NOTE
[1]^ http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/6541876
[2]^ http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/2527465
[3]^ http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2247205/
[4]^ http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/11943255
[5]^ http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12686037
[6]^ http://www.kattoliko.it/leggendanera/modules.php?name=News&file=article&sid=1929
[7]^ Ultimissima 5/01/12
[8]^ Ultimissima 5/01/12

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L’aborto minaccia la salute mentale delle donne: sindrome Post Aborto

Le conseguenze psicologiche più ricorrenti dell’interruzione di gravidanza sono descritte dalla sindrome post aborto volontario, che provoca ripercussioni psicologiche importanti nelle donne. Troppo spesso, per motivi ideologici, tutto ciò viene minimizzato dai media: ma ecco cosa dice la letteratura scientifica.


Il termine “Sindrome Post Aborto” (PAS) è stato utilizzato per la prima volta nel 1981 durante un’audizione al Senato degli Stati Uniti. Lo ha usato lo psicologo Vincent Rue, testimoniando che, per le sue osservazioni, l’interruzione di gravidanza porta abbastanza frequentemente a disturbi da stress post-traumatico.

Nonostante una vasta campagna mediatica per minimizzarne le conseguenze sulle donne, sono numerosi gli studi scientifici che si sono susseguiti nel corso degli anni e che avvalorano indiscutibilmente l’esistenza della sindrome post aborto e la sua alta probabilità. Li presentiamo in questa lista, costantemente aggiornata.

 

ELENCO DI STUDI SCIENTIFICI SULLA SINDROME POST ABORTO

 

 

 

  • Nel dicembre 2016 su JAMA Psychiatry è stato pubblicato uno studio secondo il quale le donne che affrontano una gravidanza indesiderata non subiscono alcun impatto negativo sulla loro salute mentale se praticano l’aborto. E’ il primo studio ad affermare questo. Tuttavia, è stato osservato che i ricercatori hanno esaminato le donne subito dopo l’aborto, presupponendo che l’assenza di problemi psicologici non si manifestasse nei successivi cinque anni. Ma ignorare il ruolo dei meccanismi psicologici a lungo termine è una scelta errata in quanto è stato dimostrato, ad esempio, che quasi i due terzi delle donne che hanno riconosciuto l’impatto negativo del loro aborto sulla loro salute mentale, hanno anche affermato che sono passate da un significativo periodo in cui negavano tali conseguenze sulla loro salute. Caso vuole che la durata media di questo periodo di apparente assenza di emozioni negative si è dimostrato essere proprio di cinque anni. Questo indica che la donna media che soffre psicologicamente a causa dell’aborto indotto non riconosce tale malessere nei primi cinque anni.

 

  • Nel luglio 2016 lo studio intitolato Abortion, Substance Abuse and Mental Health in Early Adulthood: Thirteen-Year Longitudinal Evidence from the United States ha stabilito che su un campione di 8.005 donne con età dai 15 ai 28 anni, l’aborto è costantemente associato ad un moderato aumento del rischio di disturbi di salute mentale durante la tarda adolescenza e la prima età adulta. Lo studio conferma altre ricerche derivanti da Norvegia e Nuova Zelanda.

 

  • Nel novembre 2013 la Sindrome Post Aborto è stata riconosciuta dalla Corte Suprema spagnola.

 

  • Nel luglio 2013 la rivista scientifica Psychiatry and Clinical Neurosciences ha pubblicato una sintesi delle ricerche sulle conseguenze psichiatriche e psicologiche dell’aborto sulle donne: su 36 studi esaminati, 13 indicano che le donne che hanno abortito volontariamente hanno un più alto rischio di depressione, ansia o abuso di sostanze; probabilità aumentata del 30% circa.

 

  • Nell’aprile 2012 un team di ricercatori cinesi dell’Anhui Medical Colledge nel loro studio “The Impact of Prior Abortion on Anxiety and Depression Symptoms During a Subsequent Pregnancy”, pubblicato dal Bulletin of Clinical Psychopharmacology, hanno rilevato che le donne che hanno abortito, rispetto a quelle la cui gravidanza ha potuto proseguire, si mostravano in media il 114% più portate a stati di ansia e depressione, a prescindere che l’aborto fosse spontaneo o “scelto”. Su questo studio è interessante il commento della dottoressa Priscilla Coleman, professoressa allo Human Development and Family Studies della Green State University in Ohio: «Anche in una cultura in cui l’aborto è diffuso e viene ordinato dal governo dopo che le donne partoriscono già una volta (nella Cina moderna è ancora vietato avere più di un figlio a famiglia, ndA), l’entità dei rischi psicologici è paragonabile a quelli individuati in altre parti del mondo».

 

  • Nel marzo 2012 Cinzia Baccaglini, laureata in Psicologia clinica e di comunità, una delle massime esperte italiane della sindrome postaborto, ha evidenziato i due quadri gnoseologici che ricorrono nella pratica clinica, cioè la “psicosi post-aborto” e il “disturbo post-traumatico da stress”, soffermandosi anche sulle differenze tra i disturbi psicologici in cui incorrono le donne che praticano un aborto chirurgico rispetto a quelle che utilizzano la pillola Ru486.

 

  • Nel dicembre 2011, il British Journal of Psychiatry ha presentato un nuovo studio, ad oggi la più grande stima quantitativa dei rischi per la salute mentale associati all’aborto disponibili nella letteratura mondiale. Il campione della metanalisi ha compreso 22 studi e 877.181 partecipanti ed è stato concluso che le donne che hanno subito un aborto presentano un rischio maggiore dell’81% di avere problemi di salute mentale, e quasi il 10% di incidenza di problemi di salute mentale ha dimostrato di essere direttamente attribuibile all’aborto. I ricercatori si augurano che queste informazioni vengano fornite alle donne in procinto di abortire.

 

  • Nell’ottobre 2011, Stefano Bruni, pediatra, già dirigente medico presso il Dipartimento di Emergenza e Urgenza Pediatrica dell’Ospedale Materno Infantile di Ancona, ricercatore e docente della Clinica Pediatrica dell’Università Politecnica delle Marche e responsabile scientifico per l’Italia di un gruppo internazionale che fa ricerca nel campo della terapia per malattie genetiche rare ha parlato della “PASS”: Post Abortion Survivors Syndrome, sofferenza psicologica cui vanno incontro i bambini sopravvissuti all’aborto di un fratellino, o sopravvissuti, a seguito di una pratica di fecondazione assistita, alla soppressione di un certo numero di embrioni “soprannumerari” e non desiderati. Nell’articolo seguono dichiarazioni di specialisti nel campo.

 

  • Nel settembre 2011, dopo venti anni di lavoro con centinaia di organizzazioni di diversi paesi, l’Istituto Elliot, guidato dal dottor David C. Reardon, riconosciuta autorità mondiale in questo campo, ha pubblicato una metanalisi con la quale dimostra che l’aborto indotto è molto più “devastante” nelle donne di quanto si pensasse. Dal 1980 i professionisti della salute mentale hanno cominciato a trattare un numero sempre crescente di donne con difficoltà mentali ed emotive a seguito dell’aborto. Amy Sobie, portavoce dell’Elliot Institute, ha dichiarato: «l’aborto continua a uccidere le donne. Può essere legale, ma non è sicuro». Ha argomentato la sua affermazione spiegando che le principali riviste mediche hanno segnalato un alto tasso di mortalità associato all’aborto e tassi di suicidio 7 volte maggiori. Inoltre, la ricerca ha anche collegato direttamente con l’aborto indotto l’abuso di sostanze, la depressione, l’infertilità e il divorzio. Infine, mentre il 90% delle donne che abortisce dice di non avere informazioni sufficienti, l’83% ha ammesso che avrebbe continuato la gravidanza se avesse ricevuto un sostegno. Amy Sobie ha quindi concluso: «gli studi dimostrano che le donne che hanno avuto un aborto non supportano i gruppi pro-aborto. Sanno sulla loro pelle che l’industria dell’aborto ha fallito».

 

  • Nel settembre 2011, sul “British Journal of Psychiatry” è apparsa una ricerca basata su 877.000 donne, nella quale si è dimostrato che coloro che si sottopongono all’interruzione di gravidanza hanno quasi il doppio di probabilità di soffrire di problemi di salute mentale rispetto a chi decide di partorire. Inoltre è stato appurato che il 10% di tutti i problemi di salute mentale deriva dall’aborto. In particolare, le donne che hanno subito un aborto hanno registrato un aumento del 34% di probabilità di disturbi d’ansia, del 37% di depressione, il 110% (più del doppio) in più del rischio di abuso di alcool, il 220% (più del triplo) in più di consumare cannabis e il 155% in più del rischio di suicidio.

 

  • Nel 2009 su Cuadernos de bioetica, la rivista ufficiale dell’Asociacion Espanola de Bioetica y Etica Medica ha pubblicato uno studio di due ricercatori del Dipartimento di Psicologia e Psichiatria dell’Università di Granada (Spagna), i quali sostengono che nessuno studio di ricerca ha mai scoperto che l’aborto indotto sia associato ad un esito di migliore salute mentale, al contrario, molti studi sottolineano le significative associazioni tra l’aborto volontario e l’abuso di alcool, disturbi dell’umore, tossicodipendenza, depressione e disturbi d’ansia. Consigliano dunque di dedicare molti sforzi per la cura della salute mentale delle donne che hanno avuto un aborto indotto.

 

  • Nel 2009, sulla Revista da Associação Médica Brasileira (RAMB), uno studio scientifico ha rilevato che le donne che hanno avuto un aborto indotto sono risultate più ansiose e depresse, piene di sentimenti problematici e bisognose di un sostegno psicologico.

 

  • Nel dicembre 2008, su The British Journal of Psychiatry, è apparso uno studio basato su un campione (n = 1223) di donne nate tra il 1981 e il 1984 in Australia, le quali sono state ricoverate per disturbi psichiatrici e uso di sostanze illecite. I ricercatori hanno trovato che le giovani donne che avevano abortito presentavano quasi il triplo delle probabilità di fare uso di droghe illecite, di alcol e di soffrire di depressione.

 

  • Nel maggio 2008, su Gynécologie obstétrique et fertilité, il mensile di informazione scientifica dei medici francesi, sono apparsi i risultati di un’analisi i cui dati rivelano il trauma psicologico causato dall’aborto “terapeutico”, il significativo disagio vissuto dalla donna, accentuato dall’onnipresente senso di colpa e i sintomi persistenti di ansia e depressione. I ricercatori rivelano anche che tale situazione porta anche spesso al conflitto coniugale. Viene infine sottolineata la necessità di un sostegno psicologico all’individuo e alla coppia in seguito all’aborto.

 

  • Ancora nel 2008, su Scandinavian Journal of Public Health è apparso uno studio di ricercatori norvegesi, intitolato Abortion and depression: A population-based longitudinal study of young women. Basandosi su 768 donne tra i 15 e i 27 anni, ha stabilito che le giovani che si sottopongono all’aborto indotto possono aumentare il rischio di soffrire di depressione successivamente

 

  • Il 16 marzo 2008 è apparso un comunicato del Royal College of Psychiatrists, nel quale si nota un’insolita apertura per questo problema, infatti si legge che «lo specifico problema dell’esistenza o meno del fatto che un aborto indotto ha effetti nocivi sulla salute mentale delle donne deve essere ancora pienamente risolto […] Il personale sanitario che valuta o offre consulenza a donne che chiedono di abortire deve valutare i disturbi mentali e i fattori di rischio che possono essere associati al successivo sviluppo. Il consenso non può essere informato senza l’adeguata fornitura di informazioni appropriate in merito ai possibili rischi e benefici per la salute fisica e mentale. Ciò può richiedere l’aggiornamento dei foglietti illustrativi approvati dalle competenti Royal Colleges per l’istruzione e la formazione di operatori sanitari pertinenti, al fine di sviluppare un buon percorso di prassi». L’ente scientifico consiglia quindi di approfondire le prove circa il legame tra aborto e disturbi psicologici. Un’editoriale di The Times, intitolato “Royal college warns abortions can lead to mental illness” (“Il Royal College avverte che l’aborto può portare alla malattia mentale“), riprende questo comunicato. Si legge che «il collegio medico ha messo  veramente in guardia che le donne possono essere a rischio di problemi di salute mentale se hanno aborti. Il Royal College of Psychiatrists dice che alle donne non dovrebbe essere consentito di avere un aborto fino a quando non vengono valutati i possibili rischi per la loro salute mentale. Questo capovolge il consenso che si è distinto per decenni sui rischio per la salute mentale nel continuare una gravidanza indesiderata siano maggiori dei rischi di vivere con possibili rimpianti per aver fatto l’aborto. Un sondaggio di oggi dimostra il 59% delle donne sostiene una riduzione da 24 settimane a 20 settimane del limite per l’aborto, con solo il 28% il sostegno allo status quo». Il noto quotidiano inglese riporta ache alcune vicende di donne che si sono suicidate per motivi legati all’interruzione di gravidanza e cita la dichiarazione del Dr. Peter Saunders, segretario generale del Christian Medical Fellowship: «Come può ora un medico giustificare un aborto per motivi di salute mentale, se gli psichiatri affermano che non vi è alcuna prova evidente che il continuare la gravidanza porti a problemi di salute mentale».

 

  • Nel 2007 uno studio pubblicato sull‘Internet Journal of Pediatrics and Neonatology, ha dimostrato che una storia di aborti è associata frequentemente ad atti di aggressione fisica nei confronti dei figli successivi. Il Dr. David Reardon, direttore dell’Elliot Institute, ha affermato che questo studio conferma i risultati generali di precedenti ricerche che collegano l’aborto ad un maggiore rischio di abusi o negligenza, come rischio aumentato di alcolismo, uso di droghe, ansia, rabbia e ricovero in ospedale psichiatrico. I ricercatori hanno concluso che «per anni, l’aborto è stato interpretato come una benigna procedura medica, senza alcuna possibilità di effetti negativi duraturi. Tuttavia negli ultimi anni abbiamo scoperto che l’aborto per molte donne è un problema con una profonda dimensione fisica, psicologica, spirituale, intimamente legato a molti aspetti della loro vita».

 

  • Nel 2007 uno studio condotto da Sharain Suliman e pubblicato su BMC Psychiatry, ha stabilito che il 18,2% delle donne nel post-aborto soddisfano i criteri per una diagnosi di “Post-Traumatic Stress Disorder” entri i tre mesi dall’interruzione di gravidanza. La ricerca è stata condotta da ambienti abortisti per trovare un migliore anestetico.

 

  • Nel 2006 su Obstetricia et Gynecologica Scandinavica (ACTA) sono apparsi i risultati di uno studio concentrato a valutare l’ansia e la depressione nelle donne che hanno sperimentato un aborto spontaneo o un aborto indotto. I ricercatori hanno rilevato che l’aborto spontaneo porta ad un livello significativamente più alto di ansia e depressione nei primi dieci giorni rispetto alla popolazione generale, mentre l’aborto indotto causa livelli significativamente più alti di ansia e depressione fino a 6 mesi.

 

  • Nel gennaio 2006 sul Journal of Child Psychology and Psychiatry è apparso un importante studio epidemiologo -il più grande del suo genere a livello internazionale- sponsorizzato dal Canterbury Health and Development Study e realizzato da D.M. Fergusson, L.J. Horwood e E.M. Ridder. I ricercatori hanno rilevato, basandosi su un campione di ricerca di un grande studio longitudinale, che le donne sotto i 25 anni in Nuova Zelanda che avevano avuto un aborto indotto presentavano un alto tasso di rischio di avere problemi di salute mentale (42%) tra cui depressione, ansia, comportamenti suicidi e disturbi da abuso di alcool (50%) e sostanze illecite (67%) rispetto a coloro che non erano mai state in gravidanza (21%) e di coloro che avevano proseguito la gravidanza (35%). La conclusione dello studio è che i risultati suggeriscono che l’aborto nelle donne giovani può essere associato ad un aumentato rischio di problemi di salute mentale[10]. I risultati sono in netto contrasto con la dichiarazione del 2005 dell’American Psychological Association e hanno implicazioni enormi poiché il 98% degli aborti effettuati in Nuova Zelanda sono motivati per evitare ripercussioni psicologiche della donna. In seguito a questo studio un portavoce dell’American Psychological Association, Nancy Felipe Russo, si è affrettato a dichiarare: «l’APA nel 1969 ha adottato la posizione che l’aborto dovrebbe essere un diritto civile. Per i sostenitori pro-choice gli effetti sulla salute mentale non sono rilevanti per il contesto giuridico di argomenti per limitare l’accesso all’aborto». L’opinionista Tom Gilson ha risposto: «Deduco quindi che la salute mentale è secondaria alla libera scelta. L’aborto è una questione di diritti civili? Certo. Di chi sono i diritti? I sostenitori pro-life ricodano che ci sono due persone coinvolte in ogni aborto, e uno di loro muore». Il responsabile dello studio, il Dr Fergusson, psicologo ed epidemiologo (dichiaratamente “non credente” e “pro-choice”), ha a sua volta risposto dalle colonne de The Washington Times dichiarando che le conclusioni dell’APA rivelano una maggiore certezza di quanto sia giustificato dagli studi esistenti. Ha poi aggiunto: «E’ quasi scandaloso che una delle più comuni procedure chirurgiche eseguite su donne giovani sia così scarsamente studiata e valutata. Se si fosse trattato del Prozac o del Vioxx, segnalazioni di danno associato sarebbero state presa molto più seriamente».
    In un’intervista per The Age ha detto che invece «i risultati fanno pendere la bilancia delle prove scientifiche verso la conclusione che l’aborto crea maggiore disagio psicologico piuttosto che alleviarlo». Sempre nell’intervista per il The Washington Times sopracitata, ammette: «avremmo potuto non trovare quello che abbiamo trovato, ma lo abbiamo trovato e non si può essere intellettualmente onesti e pubblicare solo i risultati che ti piacciono».
    Intervistato dal The New Zeland Herald ha dichiarato di avere una visione “pro-choice” e essere consapevole di aver prodotto una forte prova per chi è contro l’aborto, ma «sarebbe stato “scientificamente irresponsabile” non pubblicare i risultati solo perché sono così critici», ha detto. Non stupisce quindi -rivela lo psicologo- che essi sono stati rifiutati da un certo numero di riviste, «è molto insolito per noi. Normalmente il lavoro viene accettato al primo tentativo», ha dichiarato. Ha concluso l’intervista ironizzando sulle pressioni e critiche ideologiche che gli sono piovute addosso.

 

  • Nel 2005, sul Medical Research Methodology (BMC) sono apparsi i risultati di uno studio lungo 5 anni che ha analizzato le conseguenze psicologiche di aborti indotti e aborti spontane. I ricercatori norvegesi hanno rilevato che le donne dopo un aborto spontaneo hanno riscontrato più disagio mentale nei primi 6 mesi rispetto a coloro che avevano subito un aborto volontario. Tuttavia hanno mostrato un miglioramento significativamente più veloce da complicazioni come dolore, senso di colpa e rabbia. Le donne che hanno subito un aborto indotto hanno mostrato complicanze significativamente maggiori nei 2-5 anni successivi all’intervento, come sentimenti di colpa e vergogna rispetto a chi ha subito un aborto spontaneo. Rispetto alla popolazione generale, le donne che hanno subito indotto l’aborto mostrano punteggi significativamente più elevati di ansia e depressione, mentre coloro che hanno avuto un aborto spontaneo mostrano gli stessi valori solo nei primi 6 mesi. I ricercatori concludono dunque che le donne sottoposte ad un aborto volontario mostrano valori di complicanze psicologiche più elevati rispetto alla popolazione generale e a coloro che hanno avuto un aborto spontaneo.

 

  • Nel 2005 è comparso su The European Journal of Public Health uno studio realizzato in Finlandia tra il 1987 e il 2000 con lo scopo di analizzare il rapporto tra la gravidanza, l’aborto e le morti per cause esterne su donne di età compresa tra 15-49 anni. I ricercatori hanno rilevato che a causa di un elevato tasso di suicidi e omicidi, il rischio di mortalità di una donna dopo l’aborto aumenta notevolmente. In conclusione, il basso tasso di decessi per cause esterne suggerisce l’effetto protettivo del parto, ma è presente un rischio elevato di morte se la gravidanza termina con un aborto.

 

  • Nel 2004, sul Medical Science Monitor, sono comparsi i risultati di uno studio che metteva a confronto donne americane che avevano abortito volontariamente con quelle russe. I ricercatori hanno rilevato reazioni da stress post-traumatico associabili all’aborto. Quindi, concludono: «i dati suggeriscono che l’aborto può aumentare lo stress e diminuire le capacità di emergere da tale situazione, in particolare per quelle donne che hanno una storia precedente caratterizzata da eventi avversi e traumi infantili».

 

  • Nel maggio 2003 sul Canadian Medical Association Journal è apparso uno studio epidemiologo sui legami tra aborto e conseguenti disturbi psicologici. Hanno utilizzato i dati archiviati nel 1989 dal California Medicaid su donne tra i 13 e i 49 anni che hanno abortito o portato a termine la gravidanza e che non avevano ricoveri psichiatrici o altre gravidanze in precedenza. I ricercatori canadesi hanno quindi rilevato che coloro che avevano scelto di abortire presentavano un rischio significativamente più alto di essere ricoverate per problemi psicologici. Hanno quindi concluso che successivi ricoveri psichiatrici sono più comuni tra le donne che hanno subito un aborto indotto rispetto coloro he portano a termine una gravidanza, sia a breve che a lungo termine.

 

  • Nel 2003, su Medical science monitor sono apparsi i risultati di uno studio scientifico in cui si è analizzato il rapporto tra aborto indotto e la depressione. I ricercatori del dipartimento di Psicologia dell’Università del Texas hanno dimostrato che le donne che avevano abortito avevano oltre il 65% in più di possibilità di soffrire di depressione clinica rispetto alle donne che avevano scelto la nascita. L’aborto, concludono, può essere un fattore di rischio per la depressione, anche per 8 anni dopo l’intervento medico.

 

  • Nel gennaio 2003 ricercatori del Department of Epidemiology dell’University of North Carolin, hanno pubblicato uno studio sul Obstetrical and Gynecological Survey, intitolato “Long-Term Physical and Psychological Health Consequences of Induced Abortion: Review of the Evidence[4]. Con esso rilevano alcune conseguenze psicologiche dell’aborto indotto ed evidenziano collegamenti tra aborto indotto e nascite premature, la placenta previa, il cancro al seno e gravi problemi di salute mentale. In particolare notano l’associazione tra aborto indotto e tentato suicidio o suicidio. Questi dati indicano la presenza nella persona disturbi come la depressione, o vari effetti nocivi sulla salute mentale. Questo fenomeno -sottolineano- non è osseervato dopo l’aborto spontaneo. Hanno anche dimostrato che un aumentato rischio di depressione o di problemi emotivi dopo l’aborto indotto in alcuni sottogruppi possono spiegare la psicopatologia che culmina nella deliberato autolesionismo.

 

  • Nel dicembre del 2002, sul Journal of Obstetrics and Gynaecology, em>è apparso uno studio scientifico ha dimostrato che, rispetto alle donne che hanno partorito, coloro che avevano avuto un aborto indotto erano significativamente più propense ad usare marijuana, varie droghe illecite e alcool durante la gravidanza successiva.

 

  • Nell’agosto 2002 ricercatori americani hanno voluto approfondire uno studio nazionale finlandese che mostrava tassi di mortalità significativamente più elevati a causa dell’aborto rispetto che del parto. Hanno quindi esaminato questa associazione nella popolazione americana per un periodo più lungo, cioè tra il 1989 e il 1997. I risultati, pubblicati sul Southern Medical Journal, hanno confermato lo studio finalndese poiché si è rilevato che le donne che avevano abortito presentavano un rischio significativamente più alto -indipendentemente dall’età- di morte. Le cause erano: varie (1,62), suicidio (2,54), incidenti (1,82), cause naturali (1,44), Aids (2.18), malattie circolatorie (2,87) e malattie cerebrovascolari (5.46). Hanno concluso che l’alto tasso di mortalità associato all’aborto persiste nel tempo e attraversa i confini socio-economici. Questo -hanno sottolineato- può essere spiegato da tendenze autodistruttive, depressione, e altri comportamenti non salutari che conseguono l’esperienza dell’aborto.

 

  • Nel 1996 sul prestigioso British Medical Journal vengono presentati i risultati di uno studio a firma di Mika Gissler ed altri ricercatori finlandesi. L’équipe di Gissler ha preso in considerazione i 9192 decessi di donne in età fertile avvenuti in Finlandia tra il 1987 e il 1994, di cui 1347 avvenuti per suicidio. Dagli archivi sanitari nazionali sono quindi state individuate le donne che, nei dodici mesi precedenti alla morte per suicidio, avevano concluso una gravidanza, differenziando tra donne che avevano partorito, donne che avevano avuto un aborto spontaneo e donne che avevano abortito volontariamente. I ricercatori hanno rilevato che il tasso di suicidi relativo alle donne che hanno partorito è generalmente inferiore alla media, quello delle donne che hanno avuto un aborto spontaneo è generalmente 1-2 volte superiore alla media, quello delle donne che hanno abortito volontariamente è nettamente superiore sia al tasso medio sia al tasso relativo all’aborto spontaneo (qui il grafico relativo). Gli stessi ricercatori riconoscono che quel che è emerso «fa pensare che una gravidanza portata a termine prevenga il suicidio o che le donne in grado di arrivare al parto non sono ad alto rischio di suicidio. Il tasso di suicidio dopo un aborto è il triplo del tasso generale di suicidio, e il sestuplo del tasso di suicidio associato alla nascita». L’equipe medica ha anche notato che «l’aumento del rischio di suicidio dopo un aborto procurato può essere causato da un effetto negativo dell’aborto volontario sul benessere mentale. I nostri dati mostrano chiaramente che le donne che hanno abortito hanno un maggior rischio di suicidio, cosa di cui si dovrebbe tener conto nella prevenzione di queste morti».

 

  • Nel 1989 sulla Rivisita Psichiatrica dell’Università di Ottawa è apparso uno dei primi studi critici sull’argomento. Oltre a sottolineare come in letteratura non ci sia alcuna indicazione sul fatto che l’aborto migliori lo stato psicologico della madre, i ricercatori riconoscono che diversi studi cominciano a rilevare un tasso allarmante di complicanze post-aborto come infiammazioni ed infezioni e infertilità. Si passa poi a criticare quegli studi che hanno cercato di dimostrare che l’aborto non sia nocivo per lo stato di una donna della mente, ammettendo la scoperta di un certo numero di donne che hanno subito traumi psicologici in seguito all’aborto e che esse sono superiori di numero rispetto a coloro che hanno portato a termine la gravidanza. I ricercatori informano anche di studi recenti che mostrano il collegamento diretto tra aborto e eclampsia, emorragia, aborto spontaneo, mortalità materna e complicanze post-partum.

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Aborto e cancro al seno: il legame c’è, ecco gli studi scientifici

Esiste un legame tra aborto indotto, interruzione di gravidanza e il cancro al seno? Sì, secondo una vasta gamma di pubblicazioni, spesso oscurate dai media. Eccole raccolte qui di seguito.


Il cancro al seno è la forma più diffusa tra i tumori ed esiste una chiara correlazione con l’aborto indotto. E’ imprescindibile su questo il lavoro di Joel Brind, docente di biologia ed endocrinologia dell’University of New York e fra i massimi conoscitori dell’argomento, che ha realizzato una completa rassegna delle “battaglie scientifiche” e politiche degli ultimi 20 anni per mostrare questa correlazione, intitolata The Abortion–Breast Cancer Connection.

Qui di seguito abbiamo raccolto una lista (in continuo aggiornamento) di studi scientifici che dimostrano la pericolosità dell’interruzione di gravidanza, dovuta all’alto rischio di contrarre il cancro al seno.

 

ELENCO DI STUDI SCIENTIFICI

 

 

 

  • Nel novembre 2015 uno studio dell’Imperial College di Londra ha rilevato che essere madri riduce del 20% il rischio di contrarre malattie come il cancro.

 

  • Nell’aprile 2015 l’American College of Pediatricians ha avvertito le donne con un comunicato ufficiale segnalando che «l’aborto indotto aumenta la probabilità che una donna svilupperà il cancro al seno. Questo rischio aumenta particolarmente per gli adolescenti. Il College invita tutti gli operatori sanitari ad informare le donne sui rischi connessi all’aborto indotto, tra cui l’aumento del rischio di cancro al seno».

 

  • Nel novembre 2014 i ricercatori del Fox Chase Cancer Center di Filadelfia hanno rilevato che la gravidanza è una fonte di protezione verso il cancro al seno. Il motivo sta nei cambiamenti genetici indotti dall’ormone gonadotropina corionica (HCG), prodotto durante la gravidanza.

 

  • Nel gennaio 2014 uno studio sull’Indian Journal of Cancer ha rilevato che le donne che hanno avuto un aborto hanno mostrato 6,26 volte più probabilità di sviluppare il cancro al seno rispetto alle donne che non hanno abortito.

 

  • Nel novembre 2013 una metanalisi pubblicata sulla rivista “Cancer Causes & Control” ha rivelato che l’aborto indotto è significativamente associato ad un aumentato rischio di cancro al seno tra le donne cinesi. In particolare: un aborto +44%; due aborti +76%; tre aborti +89% di rischio di cancro alla mammella.

 

  • Nel 2013 una ricerca pubblica sul “Journal of Dhaka Medical College” ha analizzato un campione di donne del Bengala, una zona dove il cancro al seno ha un’incidenza ridottissima. I ricercatori hanno verificato che l’aborto procurato ne aumenta il rischio di ben il 20%. 

 

  • Nel novembre 2012 due ricerche cinesi pubblicate su Asian Pacific Journal of Cancer hanno rilevato una correlazione tra il rischio di cancro al seno, l’età avanzata alla nascita del primo figlio e la mancanza di allattamento, il ciclo mestruale breve, l’uso di pillole contraccettive, il non aver mai partorito e soprattutto l’età postmenopausale che purtroppo quintuplica il rischio della temuta malattia.

 

  • Nell’aprile 2012 il dottor Hatem Azim, oncologo presso il Jules Bordet Institute di Bruxelles ha effettuato in un periodo di 5 anni uno studio approfondito su 333 donne, di età fra 21 e i 48 anni, che è rimasta incinta dopo una diagnosi di cancro al seno e un gruppo di controllo di 874 donne con diagnosi di cancro al seno simili, ma che non erano rimaste incinta. Diventare incinta in qualsiasi momento dopo una diagnosi di cancro al seno non aumenta il rischio di ricaduta, anche se la gravidanza si verifica durante i primi due anni dopo la diagnosi. Inoltre le pazienti che iniziano una gravidanza sembrano sopravvivere più a lungo rispetto a quelle che non lo fanno.

 

  • Nell’agosto 2011, il docente di biologia e endocrinologia dell’University of New York, Joel Brind, e tra i massimi esperti al mondo di cancro al seno, ha affermato che l’aborto indotto ha causato almeno 300 mila casi di cancro al seno con conseguente morte della donna dal 1973 (anno in cui l’aborto è divenuto legale negli USA).

 

  • Il 22 giugno 2010, uno studio condotto da ricercatori dello Sri Lanka, ha rilevato che le donne che hanno abortito hanno avuto un aumento di rischio di cancro al seno rispetto a quelle che hanno tenuto il bambino. Questo studio epidemiologico ha confermato i risultati di tre altre ricerche eseguite nei 14 mesi precedenti da parte di équipe degli Stati Uniti, Cina e Turchia.

 

  • Nel 2009, il docente di biologia e endocrinologia dell’University of New York, Joel Brind, ha pubblicato uno studio chiamato “The abortion-breast cancer connection“, col quale esamina il dettaglio storico-scientifico che riguarda la connessione tra aborto-cancro al seno. Lo specialista sottolinea che «anche se sono stati promulgati studi politicamente corretti per neutralizzare i dati comprovanti il collegamento tra cancro al seno e aborto, dati ancora più forti sono emersi negli ultimi anni, i quali puntano con forza a connettere l’aborto a nascite premature nelle gravidanze successive, che a loro volta aumentano il rischio di cancro al seno nelle madri e la paralisi cerebrale nei bambini nati prematuramente». Il ricercatore elenca e approfondisce tutti questi studi scientifici.

 

  • Sempre nell’aprile 2009 viene pubblicato uno studio sul cancro al seno nel peer-reviewed World Journal of Surgical Oncology, in cui si conclude che l’aborto indotto ha aumentato del 66% il rischio di cancro al seno: «I nostri risultati suggeriscono che l’età e l’interruzione di gravidanza sono risultati significativamente associati all’aumento del rischio di cancro al seno», hanno concluso i ricercatori dell’Università di Instanbul.

 

  • Nell’aprile 2009 uno dei principali organizzatori del seminario su aborto e cancro al seno all’interno del National Cancer Institute nel 2003, Louise A. Brinton, è diventato co-autore di uno studio peer-reviewed nel quale si ammette che il legame tra aborto e cancro al seno è reale, definendo l’aborto «un noto fattore di rischio»[38]. Sottolinea anche la possibilità di un ripensamento futuro da parte dell’ente per riconoscere questo collegamento. Questo nuovo studio è apparso sulla prestigiosa rivista specializzata Cancer Epidemiology, Biomarkers and Prevention ed è stato condotto da Jessica Dolle in collaborazione con il gruppo Janet Daling del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle. Si rileva un aumento di rischio di cancro al seno del 320% in chi ha usato contraccettivi orali rispetto a chi non ne ha fatto uso. L’effetto dei fattori di rischio più significativi, tra cui l’aborto indotto, sono stati descritti come «coerenti con gli effetti osservati in precedenti su studi di donne più giovani». Il dott. Joel Brind, eminente ricercatore sul cancro al seno, ha dichiarato che «questo documento fornisce un chiaro sostegno per l’esistenza del nesso tra aborto e cancro al seno-aborto».

 

  • Nella primavera del 2008 la Dr. Angela Lanfranchi, specialista in cancro al seno e professore clinico assistente di Chirurgia presso la Robert Wood Johnson Medical School, ha pubblicato un articolo sull’argomento per il Journal of American Physicians and Surgeons, nel quale scrive: «Esiste una buona documentazione fisiologica sul fatto che i contraccettivi orali e l’aborto sono fattori di rischio per il cancro al seno. Tuttavia è presente uno sforzo per sopprimere queste informazioni da parte degli organismi federali e da parte della medicina accademica. Senza queste informazioni, le donne non possono fare una scelta pienamente informata sulla scelta del metodo di controllo della fertilità o sul fatto di mantenere una gravidanza non pianificata. L’etica medica esige che siano informate». Nel dicembre 2010 definirà i contraccettivi ormonali «una sostanza cancerogena del gruppo 1». Una gravidanza portata a termine, ha scritto la Lanfranchi, offre protezione contro il cancro perché le ghiandole mammarie della madre sono a completa maturazione e più resistenti agli agenti cancerogeni.

 

  • Nel settembre 2005, la Dr. Angela Lanfranchi, specialista in cancro al seno e professore clinico assistente di Chirurgia presso la Robert Wood Johnson Medical School, ha pubblicato un articolo scientifico in cui ha spiegato la fisiologia e l’epidemiologia del collegamento aborto-cancro al seno. Ha inoltre rivelato che «nello scorso mese di agosto, a Minneapolis, Patrick Carroll -direttore della Pension and Population Research Institute of London, ha presentato un documento per il più grande raduno di statistici del Nord America. Egli ha dimostrato che l’aborto è stato il miglior predittore di tumore al seno in Gran Bretagna. Il carcinoma della mammella ha in Gran Bretagna la sua più alta incidenza e tasso di mortalità tra le classi sociali superiore, piuttosto che quelle inferiori. L’aborto è stata la migliore spiegazione di questa incidenza». Egli ha anche trovato che vi era stato un aumento del 70% del rischio di cancro al seno tra il 1971 e il 2002, e che per le donne tra i 50 ei 54 anni di età l’incidenza è stata fortemente correlata con l’aborto.

 

  • Nel gennaio 2005 a Portland (Oregon) alcune donne hanno denunciato enti abortisti a cui si erano rivolte in passato (Dave Andrusko, “Plaintiff Wins Suit against Abortion Clinic”, National Right to Life
    News 32.2 (February 2005): 15). Questi casi indicano che siamo all’inizio di ciò che può diventare una “valanga giuridica”.

 

  • Verso la fine del 2003 è emerso un caso di malasanità importante. Alcune donne di Philadelphia hanno denunciato alcuni enti abortisti per non averle informate circa il rischio di cancro al seno e di complicazioni psicologiche. La diatriba si è conclusa con un riconosciemtno in denaro, anche se non sostanziale (Stephanie Carter v. Charles E. Benjamin and Cherry Hill Women’s Center, Philadelphia Court of Common Pleas, April Term, 2000, No. 3890)

 

  • Nel febbraio 2003, il National Cancer Institute (NCI) ha tenuto un seminario sul possibile collegamento tra aborto indotto e aumento del rischio di cancro al seno. Nella sintesi finale la conclusione è stata che «un aborto indotto non è associato ad un aumento di rischio di cancro al seno». Tuttavia, sempre nel 2003, nel Volume 8 del Journal of American Physicians and Surgeons è apparso un’approfondimento storico sugli studi scientifici che hanno rilevato collegamenti tra il cancro alla mammella e l’aborto. Si cita la conclusione del NCI anche se con molto scetticismo: «La questione è stata oggetto di una votazione di oltre 100 tra i maggiori esperti mondiali, tuttavia il sito del NCI non indica il risultato di questa votazione. Inoltre, nella sintesi, non viene fatto accenno ad alcun dissenso, mentre sul sito web veniva informato che all’interno degli specialisti vi era una minoranza dissenziente dal risultato finale, convinta di evidenze biologiche circa l’associazione positiva tra l’aborto indotto e il cancro al seno». Si conclude quindi raccomandando una maggiore correttezza politica. Lo studio rivela comunque un’infinità di studi scientifici che si discostano completamente dalla dichiarazione del National Cancer Institute, confermando pienamente il legame aborto-cancro al seno. Il rapporto include anche una parte in cui viene sottolineato il totale silenzio su questi dati da parte della maggior parte delle organizzazioni mediche e un’ostilità perenne contro coloro che li rendevano pubblici. Allo stesso modo, si ricorda, di quanto ha fatto l’industria del tabacco nascondendo il rischio di cancro per decenni.

 

  • Nel gennaio 2003 ricercatori del Department of Epidemiology dell’University of North Carolin, hanno pubblicato uno studio sul Obstetrical and Gynecological Survey, intitolato “Long-Term Physical and Psychological Health Consequences of Induced Abortion: Review of the Evidence“. Con esso rilevano alcune conseguenze psicologiche dell’aborto indotto, come depressione e autolesionismo. Rispetto al link ABC dichiarano: «Noi crediamo al momento che i medici debbano essere tenuti ad informare alle donne in gravidanza che la decisione di abortire può aumentare quasi del doppio il rischio di sviluppare il cancro al seno a causa della perdita dell’effetto protettivo dovuto al completamento della gravidanza. Inoltre crediamo che le donne devono essere consapevoli degli studi che vedono l’aborto indotto come un fattore di rischio indipendente per il carcinoma mammario».

 

  • Nel 2001 Joel Brind, docente di biologia e endocrinologia dell’University of New York, ha pubblicato uno studio in cui dimostra che l’aborto è la spiegazione dell’improvviso aumento di casi di tumore al seno a partire dalla prima metà degli anni ’80. Brind ha stimato che nel 1996 un eccesso di 5.000 casi di cancro al seno era da attribuire all’aborto, e che l’aumento da quella data in poi sarebbe stato di 500 casi all’anno. Lo scienziato ha osservato: «I ricercatori ammettono ampiamente la plausibilità biologica dell’aborto come una causa indipendente di cancro al seno».

 

  • Il 18 novembre del 1999 il Dott. Lynn Rosenberg, epidemiologo alla Boston University Medical School, da sempre negatore di una qualsiasi connessione tra aborto e cancro al seno e colui che scrisse nel 1994 l’editoriale per il Journal of the National Cancer Institute tentando di minimizzare lo studio -citato poco sopra- pubblicato sulla stessa rivista dalla Dr. Janet Daling, venne chiamato come consultente esterno dal tribunale della Florida. A questa domanda del procuratore: «Una donna che si ritrova incinta all’età di 15 anni avrà un più alto rischio di cancro al seno se sceglie di interrompere la gravidanza, piutosto che portare a termine la gravidanza, giusto?», Rosenberg, sotto giuramento, è stato costretto a rispondere: «Probabilmente si». Il procuratore ha quindi specificato meglio la domanda: «Confrontiamo due donne. Diciamo che una sia rimasta incinta all’età di 15 anni e termina la gravidanza, anche l’altra è rimasta incinta a 15 anni ma decide di interrompere la gravidanza. Entrambe le donne si sposano e hanno due bambini, diciamo all’età di 30 o 35 anni. Il rischio di cancro al seno sarà più alto per la donna che ha abortito all’età di 15 anni o per la donna che ha portato avanti la gravidanza all’età di 15 anni, oppure avranno entrambe la stessa probabilità di tutti?». L’epidemiologo confermò la sua risposta: «E’ probabilmente più elevato il rischio per chi ha avuto un aborto a 15 anni» (.

 

  • Tra il 1998 e il 2002 sono emerse prove demografiche a sostegno del collegamento aborto-cancro al seno. I tassi di cancro sono infatti molto più bassi nei paesi occidentali in cui è proibito l’aborto rispetto a quello in cui è promosso. In Irlanda, ad esempio, è vietato l’aborto e il tasso di cancro al seno è di 1 a 13, cioè quasi la metà del tasso di 1 a 8 presente negli Stati Uniti, dove invece l’aborto è legale (vedi anche K. O’Flaherty, R. Oakley, “Self-checks ‘useless’ in breast cancer fight“, Sunday Tribune 6/10/02). Il tasso di cancro al seno aumenta costantemente man mano che si viaggia dall’Irlanda, dove l’aborto è illegale, all’Irlanda del Nord, dove l’aborto è legale ma raro, fino all’Inghilterra, dove l’aborto è comune. In Romania, un altro esempio, l’aborto è rimasto illegale fino al 1989 e il Paese godeva uno dei più bassi tassi di cancro al seno di tutto il mondo in quel periodo, di gran lunga inferiore rispetto ai tradizionali Stati occidentali. Era addirittura un sesto del tasso degli Stati Uniti (A. Khan, “The role of fat in breast cancer“, The Independent 18/5/98). Dopo il 1989, la Romania ha legalizzato l’aborto al punto che la Romania ha ora uno dei tassi abortivi tra i più alti al mondo. Nel luglio del 1997, durante la World Conference on Breast Cancer, organizzata dalla Women’s Environment and Development Organization (WEDO) un osservatore rumeno ha denunciato: «La liberalizzazione dell’aborto in Romania nel 1990 e l’aumento significativo del numero di aborti a intervalli di tempo relativamente brevi, hanno determinato un aumento dell’incidenza del cancro alla mammella e alla cervice uterina nel mio paese» (vedi anche North Florida Women’s Health and Counseling Services, Inc., et al. vs State of
    Florida et al.
    , official transcript of videotape deposition of Lynn Rosenberg, Sc.D., for
    purposes of trial testimony, Nov. 18, 1999, p. 77).

 

  • Nell’ottobre del 1996 ricercatori del Department of Natural Sciences dell’University of New York hanno pubblicato sul Journal of Epidemiology and Community Health, rivista della British Medical Association (BMA), i risultati di una importante meta-analisi (cioè una revisione globale di tutti gli studi sull’argomento noti fino ad allora). Gli specialisti volevano verificare se, come dimostravano i reports pubblicati fino ad allora, l’aumento significativo del rischio di cancro al seno era specificatamente attribuibile ad un aborto indotto in precedenza. Dopo un ampio studio di tutto il materiale hanno concluso che l’aborto indotto (e non quello spontaneo) era tra i fattori indipendenti più significativi nell’aumento di rischio di cancro al seno (circo del 30%). L’alta incidenza trovata suggerisce -scrivono i ricercatori americani- un sostanziale impatto su migliaia di casi in eccesso nell’anno in corso e un impatto potenzialmente molto maggiore nel successivo secolo. Le istituzioni coinvolte nella meta-analisi -cioè il Baruch College, il Penn State Medical College e la British Medical Association (BMA)- hanno richiamato l’attenzione dei media e la notizia è stata riportata ampiamente in tutto il mondo.

 

  • Nel giugno 1995 sul Journal of the National Cancer Institute compaiono i risultati di uno studio intitolato “Oral Contraceptives and Breast Cancer Risk among Younger Women“. I ricercatori hanno esaminato la relazione tra l’uso di contraccettivi orali e il cancro al seno su donne di età inferiore ai 45 anni. La conclusione è: «La relazione tra contraccettivi orali e cancro al seno nelle giovani donne sembra avere una base biologica, piuttosto che essere un artefatto o il risultato di errori sistematici».

 

  • Nel 1994 è esplosa l’attenzione su questo problema grazie allo studio della Dr. Janet Daling e i colleghi del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle. I risultati sono stati pubblicati sul Journal of National Cancer Institute (JNCI). La constatazione generale dell’équipe guidato dalla Daling è l’aver rilevato un aumento del 50%, quindi statisticamente significativo, del rischio di cancro al seno tra le donne che avevano scelto l’aborto. Anche il New York Times ha parlato di questa ricerca con un articolo dal titolo “New Study Links Abortions and Increase in Breast Cancer Risk“. Il rischio aumenta –più del 100%– per le donne che hanno abortito prima dei diciotto anni o dopo i trenta. La Daling è una nota supporter del diritto all’aborto ma ha comunque dichiarato: «Ho tre sorelle con tumore al seno e mi offendono le persone che pasticciano con i dati scientifici per promuovere la loro ideologia, siano esse pro-choice o pro-life. Mi sarebbe piaciuto avere trovato alcuna associazione tra cancro al seno e l’aborto, ma la nostra ricerca è solida come una roccia ed i nostri dati sono corretti». Il National Cancer Instituite dopo aver fatto diverse pressioni su questi ricercatori, non volle accettare questi risultati e mantenne fino al 1997, sul suo sito web, una scheda che definiva la ricerca “incoerente e inconcludente” scritta dal dott. Lynn Rosenberg (che cambierà totalmente idea dopo qualche anno, come viene detto più sotto). Accadde poi che alcuni membri del Congresso, come l’ostetrico Dr. Tom Coburn, scrissero una lettera di protesta al direttore del NCI e gli sprezzanti giudizi sono  improvvisamente scomparsi. Nel 2002, dopo altri pasticci, il National Cancer Institute ha ricevuto una denuncia da parte del Congresso e ha definitivamente rimosso la scheda sul proprio sito Web che indicava la non dimostrazione dell’esistenza di un legame ABC.

 

  • Nel 1994 la rivista medica Genetic Epidemiology ha pubblicato uno studio che rivelava come le donne di colore che hanno alle spalle almeno un aborto indotto avevano aumentato il rischio di cancro al seno del 144%. I ricercatori si sono dichiarati sicuri del risultato al 95% (A. E. Laing et al, “Reproductive and Lifestyle Factors for Breast Cancer in African-American Women”, Genetic Epidemiology 11 (1994): 300)

 

  • Nel 1992 è stato pubblicata una ricerca svolta da ricercatori russi dal titolo: “The endocrinological aspects of breast cancer diagnosed after abortion“. Dopo aver valutato il profilo ormonale di pazienti con cancro della mammella che avevano subito un’interruzione di gravidanza si è concluso che «questi risultati confermano l’opinione che la gravidanza e la sua cessazione creano le condizioni che contribuiscono alla progressione del processo tumorale».

 

  • Tra il 1980 e il 1990 diversi ricercatori hanno studiato popolazioni di donne più anziane che erano state esposte all’aborto legalizzato. Citiamo lo studio realizzato in Giappone e pubblicato sul Shikoku Medical Journal con il titolo: “The Epidemiology of Breast Cancer in Tokushima Prefecture” (F. Nishiyama, “The Epidemiology of Breast Cancer in Tokushima Prefecture”, Shikoku Medical Journal 38 (1982): 333–343). Un secondo studio realizzato dal New York State Department of Health e pubblicato con il titolo “Early Abortion and Breast Cancer Risk among Women under Age 40“, sull’International Journal of Epidemiology ha studiato un campione di 1451 soggetti sotto i 40 anni registrati al Cancer Registry negli anni 1976-1980, è emersa la necessità di segnalare ai promulgatori delle leggi statali il collegamento tra l’incidenza del cancro e l’interruzione di gravidanza volontaria, oltre che quella spontanea. L’aumento di rischio tra le donne con alle spalle un aborto indotto è risultato essere del 90% (rischio relativo = 1,9). La ricerca è stata anche pubblicata sul Journal of the National Medical Association, dove si sottolinea che anche il controllo delle nascite tramite l’uso della pillola anticoncezionale ha conferito un significativo aumento del rischio. I ricercatori fanno notare che l’aborto e l’uso di contraccettivi orali sono stati indicati come i possibili contributori del recente aumento di cancro al seno nelle giovani donne afro-americane. Un terzo studio è stato realizzato da alcuni ricercatori svedesi nel 1986 su un campione di donne di Svezia e Norvegia. E’ apparso su The Lancet con il titolo “Oral contraceptive use and breast cancer in young women” e anche in questo caso il risultato è univoco: l’uso prolungato di contraccettivi orali può aumentare il rischio di cancro al seno nelle giovani donne. Un quarto studio è stato realizzato in Grecia tra gennaio e dicembre del 1989 e pubblicato sull’International Journal of Cancer. I ricercatori hanno presentato le conclusioni dicendo: «E’ evidente che una storia di aborto indotto è stata associata ad un aumentato rischio di cancro al seno. Un aborto indotto prima di portare a termine un’altra gravidanza è associato a un rischio più elevato di quanto sia un aborto effettuato dopo una gravidanza portata a termine. Una gravidanza interrotta non sembra poter imprimere l’effetto di protezione a lungo termine attribuibile ad una gravidanza portata al termine».

 

  • Nel marzo 1982 su Science, una delle riviste scientifiche più importanti a livello internazionale, viene pubblicata una recensione sul legame ABC a cura di Willard Cates del Centers for Disease Control and Prevention (CDC), intitolata “Legal abortion: the public health record“. Si sottolinea che «la crescente disponibilità e l’utilizzo dell’aborto legale negli Stati Uniti ha avuto diversi effetti importanti sulla salute pubblica dal 1970», si registra anche «una certa preoccupazione per la possibilità di alti rischi di carcinoma mammario in alcune donne».

 

  • Nel 1981 compare il primo vero studio epidemiologico che si concentra sul legame ABC (aborto-cancro al seno) nelle donne americane. Viene pubblicato sul British Journal of Cancer (BJC) da Malcolm Pike e colleaghi della University of Southern California. L’aborto negli Stati Uniti era legale da circa 10 anni (è stato legalizzato nel 1973) è i soggetti erano quindi donne molto giovani. I risultati dello studio dimostrano che le donne che hanno fatto un lungo uso di contraccettivi orali e che hanno avuto un abortito indotto risultavano avere 2,4 volte (cioè il 140%) di probabilità di veder aumentato il rischio di cancro al seno.

 

  • Nel 1980 la ricerca sperimentale in laboratorio sui ratti (la specie animale più importante per studiare la riproduzione umana) ha fornito un’altra possibile strada per verifica il collegamento ABC. Jose e Irma Russo, ricercatori a capo di un équipe presso il Cancer Michigan Foundation di Detroit (oggi sono al Fox Chase Cancer Center di Philadelphia), hanno dimostrato che quasi l’80 per cento dei topi che avevano subito un aborto chirurgico avevano sviluppato il cancro al seno, mentre coloro ai quali venne consentito di portare a termine la gravidanza sono stati completamente protetti dallo sviluppare la malattia. Il motivo è stato attribuito alla differenziazione incompleta della ghiandola mammaria al momento della somministrazione della sostanza cancerogena. I corpi degli animali hanno potuto essere esaminati al microscopio durante e dopo l’esperimento. In questo modo, i Russo sono stati i principali protagonisti della scoperta dei cambiamenti che si svolgono nel seno mammifero prima, durante e dopo la gravidanza. Il completamento di una gravidanza fornisce dunque un certo livello di protezione permanente contro il cancro al seno, perché lascia la donna meno vulnerabile dalle cellule indifferenziate che possono dare origine al cancro. Più bassa è l’età a cui è portata a termine la gravidanza e tanto maggiore è la protezione.

 

  • Nel 1976, uno studio realizzato da due ostetrici svizzeri, Kunz and Keller, pubblicato sul British Journal of Obstetrics and Gynaecology, ha documentato una chiara differenza tra l’enorme aumento di estrogeni e progesterone nel primo trimestre di gravidanza e la loro pochezza e breve vita nelle gravidanze interrotte con aborti spontanei. Questi risultati combaciano perfettamente con i patterns delle differenze nel rischio di cancro al seno dopo diversi esiti della gravidanza che sono stati delinati con chiarezza dai dati epidemiologici.

 

  • Dopo il 1973, anno in cui è stato legalizzato l’aborto negli Stati Uniti, una moltitudine di studi epidemiologici hanno rivelato un quadro chiaro degli eventi fisiologici spiegando che il legame ABC cominciava ad emergere. In particolare sono stati gli studi nel campo della endocrinologia riproduttiva (lo studio degli ormoni della riproduzione) a fornire una importante linea di elementi di supporto biologico al link ABC. Sono stati promulgati anche diversi studi contrari, ma le obiezioni non sono mai riuscite a confutare più di tanto queste ricerche. Come ha scritto Joel Brind, docente di biologia e endocrinologia dell’University of New York, nel 2005 «si sarebbe potuto pensare, soprattutto in considerazione della natura prevalentemente facoltativa dell’aborto indotto, che il principio di precauzione avrebbe prevalso, se non in termini di leggi e regolamenti almeno in termini di raccomandazione da parte delle società mediche. Vale a dire, anche se fossero esistiti soltanto uno o due studi che mostrano una significativa associazione tra l’aborto indotto e il futuro rischio di cancro al seno, avrebbero dovuto sollevarsi alcune bandiere rosse sulla sicurezza della procedura. Eppure pochi hanno avuto queste preoccupazioni, nonostante gli studi scientifici critici siano un numero decisamente consistente».

 

  • Nel 1970 i risultati di un importante studio collaborativo internazionale sul cancro al seno in 7 aree del mondo sono stati pubblicati sul Bolletino dell’Organizzazione Mondiale della Sanità da parte di ricercatori di una multinazionale con sede ad Harvard, i quali suggeriscono un aumento dei rischi associati all’aborto indotto.

 

  • Già nel 1957 uno studio nazionale in Giappone pubblicato in lingua inglese sul Japanese Journal of Cancer Research. ha mostrato una correlazione positiva tra l’aborto indotto e il cancro al seno. Più precisamente ha rivelato che le donne con un cancro al seno sviluppato avevano una frequenza tre volte più alta di aver avuto gravidanze concluse con un aborto indotto.

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L’aborto e la mortalità materna: rassegna scientifica

L’aborto chirurgico aumenta o diminuisce la mortalità materna? Cosa dice la letteratura scientifica in merito? Abbiamo raccolto una serie di studi scientifici che dimostrano il collegamento tra l’interruzione di gravidanza ed un aumentato rischio di mortalità della donna.


Anche se non sempre citati dai media, una discreta mole di studi scientifici peer-review rileva un collegamento tra l’aborto procurato e un maggiore tasso di mortalità per le donne che vi ricorrono, dato più elevato se paragonato all’aborto spontaneo e alla gravidanza portata a termine. In altri dossier abbiamo invece esaminato la letteratura scientifica riguardante i rischi per chi si sottopone all’aborto di soffrire di depressione e traumi emozionali nel post-aborto, un aumentato rischio di placenta previa, di infezioni (croniche) all’utero, di placenta previa, cancro al seno, di nascite premature e aborti spontanei.

Qui di seguito una serie di studi scientifici (elenco costantemente aggiornato) sul legame tra interruzione di gravidanza e aumento del rischio di mortalità materna.

 

ELENCO STUDI SCIENTIFICI SU ABORTO E MORTALITA’ MATERNA

 

 
 

Nel gennaio 2017 la rivista Contraception ha pubblicato uno studio firmato da Blair Darney, della Oregon Health & Science University, il quale ha tentato di smentire una precedente indagine realizzata dall’epidemiologo cileno Elard S. Koch (Melisa Institute), la quale dimostrava che in Cile, da quando l’aborto è stato vietato dal 1989, non si è verificato alcun aumento della mortalità materna e, anzi, è ancora oggi uno dei Paesi con il tasso più basso di mortalità materna nel mondo. Finanziato per 250mila dollari dalla Society of Family Planning (ente pro-aborto) -la cui rivista è proprio Contraception, dove è apparso lo studio-, Darney ha pubblicato la sua ricerca per dimostrare che vietare l’aborto significa aumentare la mortalità delle donne scoprendo però una diminuzione della mortalità materna nei 31 stati dell’America latina che limitano l’aborto rispetto a quelli relativi a Città del Messico, dove non vi sono restrizioni. Tuttavia, nelle conclusioni il ricercatore ha scritto l’esatto opposto, cioè che «Città del Messico (l’unico stato con accesso all’aborto su richiesta) è associato a una diminuzione di 22,5 unità in MMR rispetto ai 31 stati con accesso limitato». Dopo che sono emerse le manipolazioni, la rivista ha subito ammesso alcuni errori presenti nell’indagine di Darney ed è arrivata a ritirare totalmente lo studio e a ritrattarne le conclusioni.

 

Nel gennaio 2015 uno studio pubblicato sul “Scandinavian Journal of Public Health” ha mostrato che il tasso di suicidi dopo aborto volontario in Finlandia, seppur in calo, rimane molto alto rispetto alla popolazione generale.

 

Nell’estate 2013 sul “Journal of American Physicians and Surgeons” si sono confrontati i dati sanitari nazionali per un periodo di 40 anni tra l’Irlanda e la Gran Bretagna, rilevando migliori risultati per quanto riguarda la salute materna e quella dei neonati in Irlanda, dove l’aborto è fortemente ristretto, rispetto alla Gran Bretagna, dove l’aborto è legale dal 1968.

 

Nel novembre 2012, uno studio del Center for Disease Control and Prevention ha rilevato che 12 donne sono morte per complicazioni legate all’aborto legale nel 2008, numero raddoppiato rispetto all’anno precedente.

 

Nel settembre 2012 uno studio delle cartelle cliniche di quasi mezzo milione di donne in Danimarca, pubblicato sulla rivista “Medical Science Monitor”, ha rivelato tassi di mortalità materna significamene più elevati a fronte di un aborto indotto. I ricercatori, hanno esaminato i tassi di mortalità a seguito della prima gravidanza di donne in età riproduttiva, e i grafici dei tassi di mortalità dopo 180 giorni, 1 anno e 10 anni dalla prima gravidanza.

 

Il 30 agosto 2012 sulla rivista Medical Science Monitor è stato pubblicato uno studio intitolato: Short and long term mortality rates associated with first pregnancy outcome: Population register based study for Denmark 1980–2004. E’ basato sulle cartelle cliniche di quasi mezzo milione di donne in Danimarca, e sono stati rilevati tassi di mortalità materna significamene più elevati a fronte di un aborto indotto. I ricercatori, hanno esaminato i tassi di mortalità a seguito della prima gravidanza di donne in età riproduttiva, e i grafici dei tassi di mortalità dopo 180 giorni, 1 anno e 10 anni dalla prima gravidanza. I risultati delle ricerche –come abbiamo osservato– hanno evidenziato tassi di mortalità significativamente più alti tra le donne che hanno abortito in ogni periodo di tempo esaminato; nel complesso, lo studio ha rivelato che le donne che hanno avuto aborti nel primo trimestre avevano un rischio di morte superiore dell’89% entro il primo anno, e un rischio superiore dell’80% nell’intero periodo preso in esame.

 

Nel luglio 2012 è morta per emorragia Tonya Reaves, 24 anni, in seguito ad un aborto in una clinica di Chicago di “Planned Parenthood”.

 

Nel maggio 2012 sulla rivista scientifica PLoS One è stato pubblicato uno studio nel quale si smentisce che l’aborto illegale è associato alla mortalità materna. Uno degli autori dello studio, Elard S. Koch, epidemiologo del Dipartimento di Medicina dell’Università del Cile, ha commentato: «Spiegare la diminuzione del tasso di mortalità materna in Cile come conseguenza dell’uso di farmaci come il misoprostol, il mifepristone o la RU-486 è una speculazione non supportata dai nostri dati epidemiologici». Anche perché l’utilizzo di contraccettivi è diffuso solo tra il 36% delle donne in età riproduttiva. «Questi dati suggeriscono che nel corso del tempo, le leggi restrittive sull’aborto possono avere effetto. In effetti, il Cile presenta oggi uno dei più bassi tassi di morti materne legate all’aborto in tutto il mondo con un calo del 92,3% dal 1989 e una diminuzione del 99,1% accumulata in 50 anni. E’ necessario sottolineare che il nostro studio conferma che il divieto di aborto non è legato ai tassi globali di mortalità materna. In altre parole, rendendo illegale l’aborto non si aumenta la mortalità materna: è un dato scientifico dimostrato nel nostro studio».

 

Il 27 maggio 2011 un medico australiano, James Latham Peters, è stato accusato di mettere in pericolo la vita dei pazienti dopo aver infettato quasi 50 donne di epatite C in una clinica per aborti a Melbourne.

 

Il 26 maggio 2011 un’altra clinica abortista è stata chiusa in America, la Gentilly Medical Clinic for Women, dopo un controllo a sorpresa, dove si è constato che le pessime condizioni igieniche mettevano a rischio le pazienti

 

Il 10 marzo 2011 il The Washington Times ha annunciato la chiusura di altre due cliniche abortive a Philadelphia per “misere condizioni igieniche”

 

Il 3 marzo 2011 la Golden Gate Community Health (GGCH), un ex affiliato di Planned Parenthood e principale fornitore di servizi di aborto di San Francisco, ha annunciato che chiuderà tutte le sue strutture. I guai sono iniziati dopo la morte di una paziente e una cattiva gestione finanziaria

 

Il 22 gennaio 2011 ha definitivamente chiuso la “clinica degli orrori”, il centro abortivo gestito dal medico abortista Kermit Gosnell, dove almeno due donne sono morte sotto i ferri. Il New York Times rivela che gli agenti di polizia hanno trovato che la clinica era «puzzolente, in condizioni generalmente squallide, sangue sul pavimento, un odore di urina nell’aria e feci di gatto sulle scale»

 

Nel maggio 2011 i quotidiani internazionali hanno dato la notizia della morte di una ragazza portoghese di sedici anni a causa dell’utilizzo della pillola RU486. Le vittime accertate della RU486 salgono così a 32. Il Ministero della Salute italiano ha segnalato il caso all’Ema, l’agenzia di farmacovigilanza europea, chiedendo un supplemento di indagine e un aggiornamento sulle segnalazioni di decessi e complicanze.

 

Nell’ottobre 2010 il Cdc («Centres for Disease Control and Prevention») di Atlanta, nell’ultimo numero della prestigiosa rivista scientifica New England Journal of Medicine, ha annunciato la morte di due donne a causa di shock settico da «Clostridium sordellii», entrambe dopo aborto medico.

 

Il 9 dicembre 2009 il sito web www.christianpost.com ha informato, tramite un’intervista a Troy Newman, presidente di Operation Rescue, che dal 1991, 2/3 delle clinche abortiste americane sono state chiuse per illegalità e procedure mediche pericolose. Allora erano presenti 2.200 cliniche, oggi ci sono solo 713 ambulatori.

 

Il 31 luglio 2009 il ginecologo radicale Silvio Viale, colui che ha iniziato a Torino la sperimentazione della pillola abortiva RU486, ha dichiarato che 29 donne morte a causa della pillola non sono per nulla un problema: «La RU486 non è assolutamente pericolosa. E 29 decessi sono nulla. Non sono un problema per nessun farmaco»[]. Solo un’incidente di percorso quindi, una piccola sfortuna. Sappiamo che qualcuno ha inviato le parole di Viale alle famiglie delle ragazze morte.

 

Il 27 settembre 2007 la The Alternatives abortion clinic di Atlantic City (New Jersey), ha dovuto chiudere per mancanza di adeguate condizioni igieniche. Il personale ha mostrato “un atteggiamento di disprezzo per la salute e la sicurezza dei loro pazienti”.

 

Nell’ottobre del 2006, durante il congresso di Roma della FIAPAC, un’associazione che raggruppa operatori sanitari nel settore della contraccezione e dell’aborto, è stata data la notizia che a Cuba un’altra donna è deceduta a seguito dell’aborto farmacologico. La procedura ha comportato l’impiego delle sole prostaglandine somministrate con uno schema di 4 dosi da 400 mcg ciascuna per via vaginale. Una sepsi da batterio del genere clostridium sarebbe all’origine del quadro settico che ha ucciso la donna.

 

Nel gennaio 2006 il docente di Chimica fisica all’Università di Perugia e membro nazionale del Comitato di Bioetica, Assuntina Morresi, ha informato che sono stati segnalati 607 “eventi avversi” a seguito dell’aborto con la pillola Ru486 alla “Food and drug administration” (l’ente americano preposto alla registrazione dei farmaci) fra il 2000 e il 2004. I 607 casi sono stati analizzati in un articolo pubblicato sugli Annals of Pharmacotheraphy, disponibile in rete.

 

Il 29 dicembre 2005 il ginecologo radicale Silvio Viale, colui che ha iniziato a Torino la sperimentazione della pillola abortiva RU486, ha dichiarato«in nazioni come la Francia, la Gran Bretagna, la Svezia, dove questo farmaco è usato da 15 anni, non siano mai stati rilevati decessi o conseguenze devastanti per la salute della donna».

 

Nel luglio del 2005 il New York Times ha dato notizia di altre due donne morte a causa della pillola abortiva RU486.

 

Nel febbraio 2004 ricercatori finlandesi, basandosi sulle cause di morte di donne tra i 15 e i 49 anni tra il 1987 e il 2000 e associando i dati registrati al Cause-of-Death Register, al Medical Birth Register, al Register on Induced Abortions e al Hospital Discharge Register, hanno rilevato che il tasso di mortalità è più basso dopo un parto (28.2/100, 000), rispetto che dopo un aborto spontaneo (51.9/100, 000) o -ancor di più- rispetto ad un aborto indotto (83.1/100, 000). I ricercatori quindi riconoscono un alto rischio di mortalità per le donne che interrompono la gravidanza rispetto a coloro la portano a termine. Lo studio è pubblicato sull’American Journal of Obstetrics & Gynecology.

 

Il 25 novembre 2003 è morta Leigh Ann Stephens Alford, 34 anni, dopo un aborto sicuro e legale per mano del dottor Malachia DeHenre al Summit Medical Center of Alabama, una clinica del National Abortion Federation a causa di un’emorragia provocata da perforazione uterina.

 

Nel giugno 2003 uno studio sulla mortalità associata alla gravidanza, pubblicato nel numero del “Journal of Obstetrics and Gynecology” (AJOG), ha scoperto che il tasso di mortalità associato all’aborto è 2.95 volte più alto rispetto a quello associato alla gravidanza portata a termine. Lo studio ha coinvolto l’intera popolazione di donne dai 15 ai 49 anni di età in Finlandia tra il 1987 e il 2000. Il tasso di mortalità annuale delle donne che hanno avuto un aborto si è rivelato del 46% superiore a quello delle donne non gravide, mentre le donne che hanno portato a termine la gravidanza hanno rivelato un tasso di mortalità significativamente inferiore alle donne non gravide. Gli autori, guidati da Mika Gissler del Finland’s National Research and Development Centre for Welfare and Health, hanno concluso che la gravidanza contribuisce ad un effetto salutare per le donne.

 

Nel 2002, David C. Reardon ha pubblicato uno studio chiamato “Deaths Associated with Pregnancy Outcome: A Record Linkage Study of Low Income Women” sul Southern Medical Journal in cui dimostra che su 173.279 donne in gravidanza tra il 1989 e il 1997, coloro che avevano abortito presentavano un rischio significativamente più alto di morte (quasi il doppio nei successivi due anni), a breve e lungo termine (anche fino a 8 anni dopo l’aborto), rispetto alle donne che avevano portato a termine la gravidanza. Esisteva anche un tasso più alto del rischio di morte per suicidio (2,54), incidenti (1,82), cause naturali (1,44), compresa la sindrome di AIDS (2.18), le malattie circolatorie (2,87) e le malattie cerebrovascolari (5.46). Ha dunque concluso che i tassi di mortalità più elevati sono associati all’aborto e che essi persistono nel tempo e attraverso i confini socio-economici

 

Nell’agosto 1997 uno studio finlandese, pubblicato su Acta et Obsetricia Gynecolgica Scandinavica, ha dimostrato che il rischio di morire entro un anno dopo un aborto è molte volte superiore al rischio di morire dopo aborto spontaneo o il parto. Il tasso di mortalità su 100.000 casi si è rivelato essere del 27% per le donne che avevano partorito, del 48% per le donne che avevano avuto aborti spontanei o gravidanze ectopiche, e del 101% per le donne che avevano avuto aborti volontari. Rispetto alle donne che hanno portato avanti la gravidanza, le donne che hanno abortito avevano dunque 3,5 volte più probabilità di morire entro un anno.

 

Il 16 settembre 1997 è morta Gracealynn “Tammy” Harris, 19 anni, dopo un aborto eseguito dal Dr. Mohammad Imran alla Delaware Women’s Health Organization. I rapporti indicano che Tammy ha avuto un attacco cardiaco di fronte ad alcune infermiere della clinica. La famiglia di Tammy ha presentato una denuncia contro Imran e contro la clinica, vincendola

 

Nel dicembre 1996 i quotidiani americani hanno informato di un’altra donna morte in seguito ad un aborto, eseguito presso la clinica abortista A Lady’s Choice Women’s Medical Center in Moreno Valley. Si tratta di Sharon Hampton, 27 anni, uccisa dal medico abortista Bruce S. Steir durante un’interruzione di gravidanza al secondo trimestre. La donna è morta di emorragia interna causata dalla perforazione dell’utero perforato

 

Il 2 novembre 1994 la diciottenne Christine Mora è morta in seguito ad un aborto legale presso il Doctors’ Surgical Center in Cypress, California. Era circa 17 settimane di gravidanza e una scuola superiore di alto livello. La causa della morte è dovuta alla violazione delle cure standard da parte dei medici abortisti. La famiglia ha presentato una denuncia contro la clinica

 

L’11 maggio 1994 è morta la quindicenne Sara Neibel al Midtown Hospital di Atlanta a causa di aborto sicuro e legale a 17 settimane di gravidanza. Le fu dato un certificato di buona salute e venne inviata a casa. Il giorno seguente è morta a causa dal liquido amniotico infettato nel suo sangue. Il Midtown Hospital era allora membro del National Abortion Federation

 

Il 5 settembre 1992 è morta Deanna Bell, 13 anni, dopo che ha subito un aborto multi-fase sicuro e legale presso l’Edward Allred’s Albany Medical Surgical Center di Chicago, membro del National Abortion Federation

 

Il 2 novembre 1991 Latachie Veal, 17 anni e da 22 settimane in gravidanza, è morta in seguito ad un aborto procurato dal dott. Robert Dale Crist. Secondo il racconto della famiglia, la donna a causa della copiosa fuoriuscita di sangue chiese aiuto allo staff della clinica abortista. Le dissero che i suoi sintomi erano normali, e la mandarono a casa. Diverse ore più tardi Latachie ha smesso di respirare

 

Il 17 ottobre 1990 è morta Christina Goesswein, 19 anni e alla 23 settimana di gravidanza, in seguito ad un aborto sicuro e legale praticato dal dottor Moshe Hachamovitch. Al medico abortista è stata sospesa la licenza a causa della sua falsa documentazione in merito alla somministrazione di ossigeno e la perdita di sangue della ragazza

 

Nel 1990 uno studio apparso su Journal of Obstetrics and Gynecology ha dimostrato che, su 5.797 donne con diagnosi di gravidanza extrauterina tra il 1972 e il 1985, il tasso di mortalità della donna che aveva proceduto ad abortire era 1,3 volte superiore al tasso di mortalità tra le donne non sottoposte all’aborto

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L’aborto non è un diritto, mai è stato definito così dalla legge

L’aborto è un diritto della donna, si sente dire spesso. Ma dove sta scritto? Secondo quale legge? Oltre alla controversia etica del presunto diritto di interrompere una vita umana seppur allo stadio embrionale, nessuna legge lo ha mai dichiarato un “diritto”.

«La Corte europea non ha mai affermato che esista un “diritto all’aborto”», ha dichiarato Vladimiro Zagrebelsky, magistrato (comunista) ed ex giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo. Anzi, la Corte «ha negato che possa pretendersi una pura e semplice libertà di scelta da parte della donna». Inoltre, ha proseguito, «nemmeno la legge italiana prevede un “diritto all’aborto”, essa regola la difficile, drammatica contrapposizione tra la prosecuzione della gravidanza e la tutela della madre». D’altra parte, l’interruzione di gravidanza potrebbe essere considerata un diritto soltanto se il feto umano venisse equiparato ad un dente da rimuovere o ad un tumore da estirpare. Cioè, appena si riconosce che al momento della fecondazione appare un essere nuovo, autoreferente, diverso dalla madre, allora la donna perde immediatamente il diritto all’autodeterminazione poiché non si tratta più solo del suo corpo (su cui il principio invece permane).

In questo dossier -continuamente aggiornato- documentiamo meglio tutto questo, dando spazio ai documenti giuridici internazionali e alla posizione di molti esperti e specialisti che si sono pronunciati in materia.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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1. EVIDENZE SCIENTIFICHE SULL’EMBRIONE

Il mondo scientifico considera all’unanimità l’embrione e il feto come esseri umani appartenenti alla specie “Homo Sapiens”[1]. Due esempi (abbiamo affrontato specificamente l’argomento in una pagina apposita: “La scienza dimostra che embrione e feto sono esseri umani”). In uno dei testi scientifici maggiormente citati, Human Embryology and Teratology” (2001), di R. O’Rahilly e F. Müller, si trova scritto: «Anche se la vita è un processo continuo, la fecondazione (che, per inciso, non è un ‘momento’) è un punto di riferimento critico perché, in circostanze normali, un nuovo organismo umano geneticamente distinto forma quando i cromosomi del pronucleo maschile e femminile si fondono nell’ovocita»[2]K.L. Moore in “The Developing Human: Clinically Oriented Embryology” (2003), spiega invece: «Lo sviluppo umano inizia al momento della fecondazione, cioè il processo durante il quale il gamete maschile o spermatozoo si unisce ad un gamete femminile (ovulo) per formare una singola cellula chiamata zigote. Questa cellula totipotente altamente specializzata segna il nostro inizio come individuo unico […]. Un zigote è l’inizio di un nuovo essere umano (cioè, l’embrione)»[3].  L’embrione è dunque fin da subito riconosciuto dalla scienza come un “organismo umano“, un “individuo unico“, un nuovo “essere umano“.

 

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2. LA DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI

Tutti sanno che l’articolo 1) della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani recita: «Tutti gli “esseri umani” nascono liberi ed eguali in dignità e diritti», mentre l’articolo 3) dice: «Ogni “individuo” ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona»[4]. Va da sé che se si applica correttamente il responso dell’embriologia che individua l’inizio della persona umana al concepimento, l’aborto non solo non è un diritto ma si configura addirittura una violazione dei diritti umani.

 

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3. I DIRITTI ANIMALI

Su un sito web che si batte per il riconoscimento dei diritti agli animali, troviamo questa domanda: «Perché un uomo ha il diritto di non essere torturato ed ucciso mentre un animale non ha questo diritto? Perché la libertà e la vita di un uomo sono inviolabili mentre la libertà e la vita di un animale sono ritenute senza valore?»[5]. Questi movimenti si battono per dare diritti agli animali, che certamente non sono “esseri umani”, tuttavia molti animalisti non riconoscono i diritti del nascituro,  sicuramente un “essere umano”. Un essere umano varrebbe dunque meno di un essere animale. La posizione più ambigua è quella di Peter Singer, ateo dichiarato, filosofo a Princeton e fondatore del movimento del diritto agli animali. Nel suo noto libro “Liberazione animale“, afferma: «Se il possesso di un superiore livello di intelligenza non autorizza un umano ad usarne un altro per i suoi fini, come può autorizzare gli umani a sfruttare i nonumani per lo stesso scopo?»[6]. Gli esseri non-umani avrebbero dunque un diritto da rivendicare. Peccato che sostiene anche che: «I feti, i bambini appena nati e i disabili sono non-persone, meno coscienti e razionali di certi animali non umani. E’ legittimo ucciderli»[7]. Dunque capiamo che embrioni, feti e neonati hanno meno diritti di un gatto o di un topo. Quindi è sicuramente coerente quando sostiene: «Molti anni fa, nel 1994, proposi di fare eutanasia fino a un mese dalla nascita. Oggi penso che non dovremmo porre alcun limite temporale. Più aspettiamo più cresce il legame fra il bambino e i genitori, quindi l’eutanasia deve essere eseguita prima possibile. I feti, i neonati e i menomati cerebrali non hanno diritto alla vita»[8].

 

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4. DIRITTO ALL’ABORTO? PAROLA AGLI ESPERTI E AGLI ORGANI LEGISLATIVI

Di seguito abbiamo elencato una serie di dichiarazioni in ordine cronologico (e saranno aggiornate continuamente) circa il presunto “diritto all’aborto”. Troviamo intellettuali, giuristi, abortisti, religiosi, non credenti ecc…

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Il 15 luglio 2013 Vladimiro Zagrebelsky, magistrato ed ex giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha spiegato che «la Corte europea ha affermato che, in materia così delicata, legata come è a Valutazioni di natura etica, gli Stati hanno un margine di apprezzamento nazionale che giustifica l’adozione di soluzioni diverse. Essa non ha mai affermato che esista un “diritto all’aborto”, anzi ha negato che possa pretendersi una pura e semplice libertà di scelta da parte della donna. Secondo la Corte, la disciplina nazionale relativa all’aborto riguarda il diritto al rispetto della vita privata della donna, con la conseguenza che sono ammesse restrizioni al suo esercizio. Il diritto al rispetto della vita privata, infatti, non è un diritto assoluto, insuscettibile di limitazioni e regole». «Nemmeno la legge italiana prevede un “diritto all’aborto”», ha concluso il magistrato, «essa regola la difficile, drammatica contrapposizione tra la prosecuzione della gravidanza e la tutela della madre».

 

Il 21 giugno 2012 il giurista Cesare Mirabelli, già presidente della Corte costituzionale, ha dichiarato: «Nelle sue sentenze passate la Corte costituzionale ha sempre affermato che non esiste alcun diritto all’aborto e che vanno tutelati anche i diritti dell’embrione e non solo quelli della madre […]. Bisogna però vedere quale dei due diritti finisca per prevalere nei casi in cui si debba scegliere tra evitare un danno per la salute della donna e salvare la vita all’embrione. E’ sempre escluso però che l’aborto possa essere un diritto, perché non esiste un diritto all’aborto, anche nella giurisprudenza della Corte costituzionale».

 

Il 6 gennaio 2011 il giudice della Corte suprema americana, Antonin Scalia, intervistato sul tema dell’aborto dalla rivista California Lawye, ha dichiarato che l’aborto non è un diritto riconosciuto dalla Costituzione degli Stati Uniti. Ha aggiunto: «Volete il diritto all’aborto? Non c’è nulla a tal proposito nella Costituzione Usa. Se si attribuisce a certe parti della Costituzione un significato mutevole in modo che esse assumano quello che la società attuale pensa che debbano avere, non ci sono affatto limitazioni per la stessa società»[9]

 

Il 16 dicembre 2010 il Tribunale Europeo dei Diritti Umani ha deciso che non c’è un “diritto umano all’aborto” in un caso relativo a una sfida alla Costituzione irlandese. Le leggi che rendono illegale l’aborto, come accade in Irlanda, non violano dunque la Convenzione Europea dei Diritti Umani. Il tribunale ha dichiarato che l’unico diritto è quello “al rispetto della vita privata e familiare”. Grégor Puppinck, direttore del Centro Europeo di Diritto e Giustizia, ha lodato questo riconoscimento storico, assieme al fatto che sia stato decretato “il diritto alla vita del non nato come diritto legittimo”[10].

 

Il 28 giugno 2009 Carlo Casini, membro del Comitato Nazionale per la Bioetica e Presidente del Movimento per la Vita italiano, ha riflettuto sul diritto all’aborto. Egli spiega che è inammissibile il diritto di un essere umano ad uccidere un altro essere umano, innocente per di più. L’embrione e il feto sono esseri umani. Viene chiamato in causa il diritto di autodeterminazione, tuttavia la libertà finisce dove comincia quella dell’altro, dove iniziano i diritti di altri. Il concepito è evidentemente un “altro” e non è certo una parte della madre. Non c’è alcuna differenza in termini di qualità tra il neonato o il bimbo che sta nel seno materno, anzi, la distanza tra un feto e un neonato è meno grande della distanza tra un neonato e un adulto. Casini continua il ragionamento dicendo che è evidente che l’utero appartenga alla donna, ma l’essere umano, il figlio, che dopo il concepimento sta dentro l’utero. Nessun essere umano può essere in proprietà di alcuno. Le unghie e i capelli appartengono al soggetto, il quale ha il potere di decide se farli crescere o tagliarli. Ma l’embrione e il feto umano non possono essere paragonati ad un unghia o ad un dente da togliere. Il diritto d’autodeterminazione esiste solo quando le scelte di un soggetto non riguardano l’altro. Esiste solo per i comportamenti del soggetto agente e non toccano la sua stessa vita, che è indisponibile. Scegliamo quando andare a letto ma non possiamo invocare l’autodeterminazione per schiaffeggiare una persona antipatica o per ucciderla. Ci si può autodeterminare anche a commettere un furto o a testimoniare il falso, ma ciò non costituisce un diritto[13].

 

L’8 settembre 2008 nell’aula del Parlamento di Melbourne, in Australia, Gianna Jessen ha tenuto una testimonianza. E’ una delle tante «sopravvissute all’aborto», che ritiene di essere stata soppressa per i diritti della donna. Dopo aver raccontato la sua storia afferma: «Sono felice di essere viva. Sono quasi morta. Non mi considero un sottoprodotto del concepimento, un pezzo di tessuto. Ho incontrato altri sopravvissuti all’aborto, sono tutti grati per la vita. Lo slogan oggi è: “libertà di scelta, la donna ha il diritto di scegliere”, e intanto la mia vita veniva soppressa nel nome dei diritti della donna»[15].


 

Il 26 agosto 2008 è apparso un video su Youtube, pubblicato dal gruppo “Prolifenews”, in cui una ragazza, Brandi Lozier, racconta di essere una delle tante sopravvissute all’aborto. Racconta: «Ho 25 anni e sono una vera sopravvissuta all’aborto. Sono stata bruciata viva nell’utero di mia madre a 4 mesi e mezzo di gestazione con un aborto salino. La chiara intenzione era di uccidermi! Sono qui per essere la voce per quelli che non avranno mai una possibilità di scelta. Dei bambini non ancora nati, come ero io, dicono che non abbiamo “alcun diritto” e “nessuna scelta”, il che è sbagliato! Quando parli con me, stai parlando al volto della “scelta”! Sono viva, e quindi sono la realtà dell’aborto. L’aborto non può essere ignorato e/o “falsamente giustificato”. Comunque non si può negarlo, e non è mai davvero giustificato! Quando avevo 15 anni mia zia, che mi ha allevato, è morta e sono andata a vivere con mia madre. Mia madre non mi accettava e non mi ama neanche adesso. Mio padre è un alcolista violento ed è tossicodipendente. Divorziò da mia mamma quando ero giovane e non ha fatto parte della mia vita. Ho sentimenti contrastanti verso i miei genitori e mi sforzo di onorarli come Dio mi comanda di fare. Sono impegnata nelle attività pro-life da quando sono adulta e impiegherò la mia vita per amore dei bambini non ancora nati, senza esitazione. I bambini uccisi dagli aborti salini vengono bruciati vivi, dentro e fuori, e buttati nella spazzatura. Alcuni nascono vivi e vengono lasciati morire. Questo è ciò che doveva capitare a me, ma Dio aveva altri progetti»[16].

 

Il 26 aprile 2008 mons. mons. Elio Sgreccia, eminente bioeticista e presidente della Pontificia Accademia per la Vita si è chiesto: «Su quali basi si potrebbe giustificare il diritto di interrompere la vita di un essere umano innocente e, per di più, debole e indifeso? A meno di adottare criteri antropologici discriminatori e arbitrari, che non riconoscano a ogni essere umano uguale dignità e diritti fondamentali, questa pretesa è del tutto infondata e arrogante. Essa può essere giustificata solo da impostazioni di pensiero fortemente ideologiche e parziali, che non pongono la persona umana — o almeno, non ogni singola persona umana — come fine ultimo e misura della vita sociale, e quindi della regolazione legislativa». Egli ribadisce che la dignità essenziale del feto umano è legata alla sua stessa natura, al fatto stesso di appartenere alla specie umana e non alle tappe del suo sviluppo biologico. Non esistono dunque «limiti gestazionali ragionevoli» entro i quali sia possibile derogare a tale diritto fondamentale, poiché la vita umana individuale possiede il suo valore peculiare ed inalienabile in ogni momento della sua storia personale. Se è sacrosanto rivendicare il rispetto per l’integrità corporea della madre, altrettanto lo è affermare e rivendicare quella del figlio, tanto più che quest’ultimo non è in condizioni di reclamare e difendere da solo i propri interessi[17].

 

Il 7 aprile 2008 il Centro Studi Separazione e Affido Minori, un’associazione di professionisti che si occupa di separazioni coniugali e delle problematiche che ne derivano a minori ed adulti prende posizione sull’aborto con le parole del presidente, lo psicologo Gaetano Giordano: «Il corpo mio me lo gestisco io: l’ideologia femminista assume come “corpo delle donne” quello che non è più corpo delle donne, ma è l’embrione in via di sviluppo, cioè un sistema di vita che ha una capacità autoreferenziale di definire il proprio destino e la propria crescita, e che si autodefinirà come corpo irreversibilmente diverso da quella del corpo della donna. Il diritto all’aborto viola questa autoreferenzialità dell’embrione, dotato in tal senso di una propria “autonomia”, cioè della capacità di definire sé stesso da sé stesso, sia pure con una dipendenza “diversa” rispetto al vivente già fuoriuscito dal corpo del materno. Il diritto di disporre del proprio corpo si ferma al momento del concepimento, quando la donna ha ancora la possibilità di disporre del (e solo del) proprio corpo.  La libertà di scelta di ogni individuo non può che fermarsi di fronte a ciò che ormai è – sia pure con modi e tempi di sviluppo assolutamente propri – irrimediabilmente altro sistema vitale, con una propria autoreferenzialità di organizzazione e crescita. Il concetto di “indipendenza” è in realtà frutto delle prospettive dell’osservatore, che definisce come “indipendente” l’essere vivente dotato di caratteristiche simili alle sue. In realtà il vivente è appunto sempre “dipendente” da qualche altra cosa (aria, cibo, integrità fisica) e l’embrione è dipendente solo in modo differente dal vivente che invece è posto fuori dall’utero (l’embrione ha cioè solo altre regole di dipendenza per il proprio sostentamento. L’aria, il cibo, l’ambiente di sviluppo, gli devono essere fornitio in modo diverso da quelli di un adulto). L’embrione ha in sé ogni autonomia, perché capace di autodefinirsi come organismo assolutamente altro rispetto all’organismo della donna. La dipendenza dell’embrione dalla madre è solamente “diversa” ma non inferiore alla dipendenza degli adulti umani da altre categoprie e regole del vivere. L’embrione è identico all’adulto, ma solo dotato di una dipendenza dal corpo della donna che ce lo fa apparire – ma non essere – parte di quel corpo. D’altra parte, se non si rispetta il concetto di “autonomia del vivente” per definire i limiti del rispetto dovuto ai viventi, e si accetta come solo punto cardine il concetto di “indipendenza”, si aprono per il genere umano scenari da incubo, appunto, nei quali è possibile eradicare tutti coloro che non hanno come badare a sé stessi»[18]

 

Il 19 febbraio 2008, su Il Manifesto è apparso un articolo, intitolato “A chi piace il diritto all’aborto?“, di Ida Dominijanni, storica femminista italiana. La militante critica Giuliano Ferrara e Giorgio Merlo poiché, prendendo prendendo entrambi le distanze dal diritto all’aborto da parte della donna, attribuiscono questo slogan al mondo femminista di ieri e di oggi. La Dominijanni replica: «E quando mai? Qui non si tratta di un immaginario perverso, ma di una proiezione in piena regola. La traduzione del problema dell’aborto in termini di diritto (da ridurre) è tutta loro oggi, così come fu dei Radicali (per conquistarlo) negli anni 70. Ma sfidiamo i Ferrara, i Merlo e quant’altri, a trovare nella letteratura femminista in materia un solo riferimento all’aborto come diritto». L’aborto -continua la filosofa- è da sempre nel vocabolario femminista un’eccedenza irriducibile al linguaggio del diritto e dei diritti. Elenca quindi una serie di libri femministi a conferma. Secondo lei «una parte significativa del femminismo degli anni ’70 era più favorevole alla semplice depenalizzazione che non alla legalizzazione dell’aborto». Conclude difendendo la legge 194, che definisce «legge di compromesso tra de-criminalizzazione e statalizzazione dell’aborto», la legge funziona «non come legge abortista, ma come cornice di regolazione e limitazione degli aborti»[19].

 

Il 21 agosto 2007 in una nota ufficiale di Amnesty International, la Ong impegnata a livello internazionale nella difesa dei diritti umani ha comunicato che: «In occasione del XXVIII Congresso internazionale di Amnesty International l’organizzazione per i diritti umani ha ratificato la sua posizione sull’aborto. La posizione di Amnesty non è per l’aborto come diritto ma per i diritti umani delle donne che devono vivere libere dalla paura, dalla violenza e dalle coercizioni quando affrontano le conseguenze dello stupro e di altre violazioni dei diritti umani». Amnesty non chiede di rendere l’aborto illegale ma nemmeno di legalizzarlo. Tuttavia è a favore dell’aborto in caso di violenza sessuale, incesto o per rischi alla salute. Rifiuta inoltre di giudicare «se l’aborto sia giusto o sbagliato»[20].

 

L’8 maggio 1981 Il Corriere della Sera intervistava il laico Luigi Bobbio, il quale disse: «Non parlo volentieri di questo problema dell’aborto. È un problema molto difficile, è il classico problema nel quale ci si trova di fronte a un conflitto di diritti e di doveri. Innanzitutto il diritto fondamentale del concepito, quel diritto di nascita sul quale, secondo me, non si può transigere. È lo stesso diritto in nome del quale sono contrario alla pena di morte. C’è anche il diritto della donna a non essere sacrificata nella cura dei figli che non vuole. E c’è un terzo diritto: quello della società. Il diritto della società in generale e anche delle società particolari a non essere superpopolate, e quindi a esercitare il controllo delle nascite. Il primo, quello del concepito, è fondamentale; gli altri, quello della donna e quello della società, sono derivati. Inoltre, e questo per me è il punto centrale, il diritto della donna e quello della società, che vengono di solito addotti per giustificare l’aborto, possono essere soddisfatti senza ricorrere all’aborto, cioè evitando il concepimento. Una volta avvenuto il concepimento, il diritto del concepito può essere soddisfatto soltanto lasciandolo nascere. Le femministe dicono: “Il corpo è mio e lo gestisco io”. E’ aberrante farvi rientrare l’aborto. L’individuo è uno, singolo. Nel caso dell’aborto c’è un “altro” nel corpo della donna. Il suicida dispone della sua singola vita. Con l’aborto si dispone di una vita altrui. Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il “non uccidere”. E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l’onore di affermare che non si deve uccidere»[21].

 

Il 9 febbraio 1975 sull’Espresso è apparas un’intervista a Marco Pannella, leader storico dei radicali. Oggi è uno dei militanti per l’aborto, ma allora disse: «E l’eutanasia per quando? M’è stato chiesto in un recente dibattito sull’aborto. Deluderò nemici in agguato e amici impazienti, ma io sono contro. Nessuno ha il diritto di compiere la scelta della morte dell’altro, finché in chi soffre e fa soffrire ci sia un barlume e la speranza d’un barlume di volontà e di coscienza»[22].

 

Il 19 gennaio 1975 il Corriere della Sera pubblicava un articolo di Pier Paolo Pasolini col titolo “Sono contro l’aborto“, il grande intellettuale diceva: «Sono traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio. Nei sogni, e nel comportamento quotidiano – cosa comune a tutti gli uomini – io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente. Mi limito a dir questo, perché, a proposito dell’aborto, ho cose più urgenti da dire. Che la vita sia sacra è ovvio: è un principio forte ancora che ogni principio della democrazia, ed è inutile ripeterlo. Io so intanto, come ho detto, che la maggioranza è già tutta, potenzialmente, per la legalizzazione dell’aborto (anche se magari nel caso di un nuovo “referendum” molti voterebbero contro, e la “vittoria” radicale sarebbe molto meno clamorosa). L’aborto legalizzato è infatti – su questo non c’è dubbio – una enorme comodità per la maggioranza. Soprattutto perché renderebbe ancora più facile il coito – l’accoppiamento eterosessuale – a cui non ci sarebbero più praticamente ostacoli. Ma questa libertà del coito della “coppia” così com’è concepita dalla maggioranza – questa meravigliosa permissività nei suoi riguardi – da chi è stata tacitamente voluta, tacitamente promulgata e tacitamente fatta entrare, in modo ormai irreversibile, nelle abitudini? Dal potere dei consumi, dal nuovo fascismo. Esso si è impadronito delle esigenze di libertà, diciamo così, liberali e progressiste e, facendole sue, le ha vanificate, ha cambiato la loro natura»[23]

 

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5. CONCLUSIONI

Appare dunque evidente che la promozione dell’aborto come diritto della donna di autodeterminarsi si poggia su un assunto assolutamente sbagliato. La coppia non è stata costretta a creare una nuova vita e, una volta scelto di procedere, deve essere capace di assumersi le sue responsabilità umane. Certamente occorrono leggi politiche che possano aiutare e facilitare questa decisione per la vita e l’adozione rappresenta sempre e comunque un’alternativa, l’unica che non lede nessun diritto. Né quello della donna, né quello del figlio, permette di vivere una sessualità responsabile e magari rende felice un’altra coppia.

 

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NOTE
[1]^
[2]^ R. O’Rahilly & F. Müller, “Human Embryology and Teratology“, Wiley-Liss, 2001, p. 8
[3]^ K. Moore, “The Developing Human: Clinically Oriented Embryology“, Saunders 2003, pp. 2
[4]^ http://boes.org/un/itahr-b.html
[5]^ http://www.unhappyanimal.org/diritti_animali_violati
[6]^ P. Singer, “Liberazione animale”, NET 1975
[7][8]^ http://s2ew.mpv.glauco.it/mpv/s2magazine/
[9]^ http://www.ilsussidiario.net/News/Esteri/2011/1/6
[10]^ http://www.zenit.org/article-24965 e http://www.avvenire.it/Mondo/corte+europea
[11]^ http://www.corriere.it/cronache/10_aprile_01/papa_aborto papa 2010
[12]^ http://www.tgcom.mediaset.it/mondo/articoli/articolo378440.shtml
[13]^ http://www.zenit.org/article-18794?l=italian
[14]^ http://www.zenit.org/article-16197
[15]^ Ultimissima 26/11/10
[16]^ http://www.youtube.com/watch?
[17]^ http://www.scienzaevitafirenze.it/cms/
[18]^ http://www.centrostudi-ancoragenitori.it/politica-famiglia
[19]^ http://www.womenews.net/spip3/spip.php?article1638
[20]^ http://www.amnesty.it/flex/cm/pages/
[21]^ http://www.europaoggi.it/content/view/534//
[22]^ http://www.antoniosocci.com/2006/04/pannella-sconfessato/
[23]^ http://www.europaoggi.it/content/view/1358/45/

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Si accede all’aborto per motivi superficiali e risolvibili: cosa dice la ricerca

Quali sono le cause dell’aborto? Perché le donne scelgono di interrompere la gravidanza? Gravi problemi di salute o rischi di mortalità, vittime di stupro o malformazioni irreversibili del concepito? Niente di tutto ciò, gli studi mostrano che l’accesso all’aborto avviene per motivi superficiali e risolvibili per la maggior parte.


Secondo la legge italiana che depenalizza l’interruzione di gravidanza (legge 194 del 1978), all’aborto potrebbero accedere le donne che riscontrino «un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito». Oltre al fatto che secondo un’ampia letteratura scientifica l’aborto aumenta il tasso di mortalità della donna, dimostriamo qui di seguito che i motivi per cui si giunge ad interrompere la gravidanza non rientrano in quelli previsti dalla legge, ma sono per la maggior parte assolutamente risolvibili con semplici iniziative politiche e culturali. Le donne vittime di violenza non raggiungono (fortunatamente) nemmeno il 5%, così come coloro che sono preoccupate per la propria salute.

Qui di seguito abbiamo raccolto (una lista in costante aggiornamento) i principali studi sociologici sul tema che dimostrano i motivi superficiali per cui si decide, con il consenso della legge, di mettere fine alla vita umana nascente.



ELENCO DELLE RICERCHE SULLA MOTIVAZIONE AD ABORTIRE

 
 

  • Nel gennaio 2014 sulla rivista peer-reviewed PLoS Medicine, i ricercatori hanno scoperto che la violenza domestica è associata a più elevati tassi abortivi e ripetizione di aborti. Per molte donne, hanno concluso, la decisione di abortire non è fatta liberamente ma generata dalla paura, da un aumento del senso di colpa, dalla rabbia. Non è un “motivo superficiale”, ma certamente risolvibile con benefici per la donna e, ovviamente, per il bambino.

 

  • Nel gennaio 2012 il neonatologo Carlo Bellieni ha informato che da uno studio inglese sul destino dei feti cui è diagnosticata la sindrome di Turner emerge che il 65% di essi è stato abortito. Sono tutte femmine e la sindrome di Turner porta ad essere abbastanza basse di statura e in certi casi a non poter aver figli. Accade anche in Italia, in Emilia Romagna dal 2006 al 2008 su 22 feti con sindrome Turner, ne sono stati abortiti 14, cioè il 63,6%. Che i genitori che le hanno abortite siano stati atterriti dallo “spaventoso dramma” di non poter diventare nonni?, si è chesto Bellieni.

 

  • Nel 2005 il The Alan Guttmacher Institute, istituto legato a Planned Parenthood (l’ente abortista più grande del mondo) ha condotto un sondaggio su più di 1.200 pazienti sottoposte ad aborto indotto in 11 grandi strutture abortiste degli Stati Uniti. E’ stato chiesto alle donne di identificare i motivi per cui facevano tale scelta, individuando la ragione principale. Le ragioni citate più frequentemente sono state: “un bambino cambierebbe drasticamente la mia vita” (74%), “non posso permettermi un bambino adesso” (73%), “non voglio essere una madre single” o “ho problemi nel rapporto sentimentale” (48%). Le donne più giovani hanno spesso riferito di essere impreparate per tale evento, mentre quelle più anziane hanno parlato di responsabilità familiari. Le preoccupazioni circa la propria salute sono state citate solo dal 13% delle donne, mentre il 12% hanno detto di essere preoccupate per la salute del bambino, anche se solo il 3% e 4% rispettivamente, hanno dichiarato di abortire proprio per questo motivo. Interessante notare che solo il 14% ha indicato “mio marito/partner vuole che io abortisca” quale motivo principale, dato in calo del 24% rispetto ad un’indagine del 1987. Questo è in conflitto con le indagini svolte sulle donne in post-aborto, il 64% delle quali riferisce di aver interrotto la gravidanza a causa di pressioni da parte di altri. L’1% ha indicato che era stata vittima di stupro, e meno di 0,5% hanno detto di essere rimase incinte in seguito ad un incesto

 

  • Sempre nel 2005, le statistiche del Focus on the Family, hanno dimostrato che circa l’80% delle donne che ha la possibilità di vedere una ecografia del loro feto umano, decide di non procedere all’aborto.

 

  • Nel 2003 uno studio sul Journal Epidemiol Community Health, ha rivelato che la decisione principale per abortire di una giovane donna è l’essere studente e single. Tra i 25-34 anni, la risposta più comune era non voler avere altri figli. Per le donne più anziane il motivo principale era la preoccupazione per il lavoro o la mancanza di un partner. Interessante notare che un elevato livello di istruzione, della donna e del partner, aumenta la probabilità di abortire

 

  • Nel 2000 uno studio realizzato da The Alan Guttmacher Institute, l’istituto legato a Planned Parenthood (l’ente abortista più grande del mondo) e pubblicato con il titolo Induced Abortion, Facts in Brief, ha rilevato che solo l’1% sui 1.31 milioni di aborti legali realizzati in quell’anno era motivato da stupro. In media, le donne hanno dato tre motivi per giustificare la decisione di interrompere la gravidanza: tre quarti di esse ha dichiarato che un bambino potrebbe interferire con il lavoro, la scuola o altre responsabilità, i due terzi ha invece sostenuto di non potersi permettersi un figlio, mentre la metà delle intervistate ha detto di essere single o di avere problemi di relazione con il partner

 

  • Nel 2000-2001, uno studio concentrato sulla contraccezione e realizzato da The Alan Guttmacher Institute, l’istituto legato a Planned Parenthood (l’ente abortista più grande del mondo), ha rilevato che tra le 10.683 donne intervistate, lo 0,6% ha abortito a causa di stupro/incesto, mentre il 17% lo ha fatto in seguito al malfunzionamento del contraccettivo, nonostante fosse stato usato in modo corretto

 

  • Nel 1998 su International Family Planning Perspectives uno studio ha rilevato che il 25% delle donne che si sono sottoposte all’aborto lo hanno fatto per posticipare la nascita di un figlio, mentre il 21% ha dichiarato di non potersi permettere economicamente un bambino. Il 14% ha motivato la decisione con problemi di rapporto col partner (o che lui non voleva la gravidanza), il 12% si sente troppo giovane, il 10% non vuole interrompere gli studi o il lavoro, mentre l’8% non desidera avere più figli. Il 3% è preoccupata per la salute del feto e un altro 3% è preoccupata per la sua salute.

 

  • Nel 1996 uno studio pubblicato su Ugeskrift For Laeger, ha indagato le risposte di 339 donne danesi e anche in questo caso le risposte più frequenti per giustificare l’aborto era il non volere figli in più, il non avere una relazione stabile, la preoccupazione circa l’occupazione e l’istruzione e infine l’economia e l’abitazione.

 

  • Sempre nel 1996, uno studio apparso sull’American Journal of Obstetrics and Gynecology ha analizzato il comportamento delle donne dopo essere state vittime di uno stupro. Sulle 30 mila donne intervistate, il 32% ha optato per mantenere il bambino, il 6% lo ha messo in adozione, il 50% si è sottoposta all’aborto e il 12% ha avuto aborto spontaneo

 

  • Tra il 1990, un questionario distribuito a donne in attesa di abortire nel Frederikssund Hospital in Danimarca, ha rivelato che tra le motivazioni addotte dalle donne, la preoccupazione per la loro occupazione o l’istruzione era quella più frequente. Le condizioni di stabilità economica è stato il secondo motivo più frequente. Le donne anziane non volevano più figli mentre la maggioranza di quelle più giovani non si sentivano ancora pronte. Donne con bambini hanno spesso dichiarato che volevano abortire per il bene della famiglia. Il 19% ha dichiarato come ragione la mancanza del rapporto con un uomo

 

  • Nel 1988 un altro studio, pubblicato questa volta sul Family Planning Perspectives, ha rivelato che il 21% delle donne intervistate è principalmente motivata a voler interrompere la gravidanza poiché si sente impreparata alla responsabilità, l’11% si sente invece troppo immatura, il 12% è single, l’1% si è lasciata convincere dal partner, l’8% non desidera altri bambini, il 21% ha parlato di indisponibilità economica mentre il 16% non vuole rivoluzionare la sua vita. L’1% ha motivato l’aborto a causa di uno stupro o incesto, il 3% lo ha giustificato per un rischio della sua salute e un altro 3% per la salute del feto.

 

  • Nel 1985 è apparso uno studio sul Social Work and Health Care, e realizzato su 517 donne in attesa di interrompere la gravidanza nelle cliniche ambulatoriali del Kansas (Stati Uniti). Ha rivelato che l’impreparazione a diventare genitori era il motivo più citato per giustificare la scelta abortiva. Il secondo motivo principale è risultato essere la mancanza di risorse finanziarie, seguito dall’essere donne senza marito.
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L’aborto causa nascite premature e aborti spontanei: ecco gli studi

Aborto e nascite premature: la letteratura scientifica mette in guardia sulle conseguenze dell’interruzione di gravidanza in quanto comporta alto rischio di successivi aborti spontanei e nascite premature. In questo dossier abbiamo raccolto gli studi.


Le nascite premature sono diffusissime negli Stati Uniti e in molti paesi sviluppati e continuano ad essere la ragione principale di morte infantile (mortalità) e malattia (morbilità), come paralisi cerebrale, ritardo mentale, epilessia, deficit visivo, disabilità uditiva, lesioni gastrointestinali, sofferenza respiratoria e di infezioni gravi. Numerosi studi, elencati qui sotto (lista in continuo aggiornamento), dimostrano il legame diretto tra aborto indotto e aumento del rischio di future nascite premature e tra aborto indotto e aborto spontaneo.

Oltre a questo, i media solitamente nascondono altre conseguenze dell’interruzione di gravidanza sul corpo delle donne. A queste abbiamo dedicato altrettanti dossier, raccogliendo la letteratura scientifica in merito: alto rischio di depressione post-aborto, di placenta previa, di mortalità materna, di cancro al seno, di nascite premature e aborti spontanei.

 

 

ELENCO DI STUDI SCIENTIFICI SU ABORTO E NASCITE PREMATURE

 

 

Nel maggio 2016 sull’American Journal of Obstetrics & Gynecology è stata pubblicata una meta-analisi di ben 36 studi internazionali, che sommariamente hanno coinvolto più di un milione di donne, concludendo, ormai definitivamente, che «nella popolazione generale, le donne con alle spalle un’interruzione volontaria di gravidanza o un aborto spontaneo, hanno un rischio significativamente più elevato di successive nascite premature» (titolo studio: Prior uterine evacuation of pregnancy as independent risk factor for preterm birth: a systematic review and metaanalysis).

 

Nel novembre 2015 lo studioso Brent Rooney ha riassunto in una metanalisi quattro studi sulle nascite premature in cui compare non solo una correlazione con un precedente aborto volontario, ma anche un nesso diretto di causalità.

 

Nell’agosto 2012 uno studio pubblicato sulla rivista medica “Human Reproduction”, ha scoperto che su 300.858 madri finlandesi, 31083 avevano avuto un aborto prima di un parto tra il 1996 e il 2008, 4417 ne aveva avuti due e 942 ne avevano avuti tre o più. Coloro che avevano avuto tre o più aborti hanno avuto un aumento del rischio di nascita prematura e il doppio del rischio di peso alla nascita molto basso per il parto successivo, rispetto alle donne che non avevano avuto aborti. Si è verificato un leggero aumento del rischio di parto prematuro anche per le donne che avevano avuto due aborti.

 

Nel 2010 su The Journal of Paediatric and Perinatal Epidemiology sono stati pubblicati i risultati di uno studio australiano basato su circa 1400 donne in gravidanza tra l’aprile 2002 e l’aprile 2004 in 73 diversi ospedali. L’analisi ha dimostrato l’esistenza di rischi coerenti e similari di nascita prematura dopo una storia di aborti spontanei o indotti

 

Su The Australian and New Zealand Journal of Obstetrics and Gynaecology, ancora nel 2009, è invece stato citato uno studio che dimostra come l’interruzione della gravidanza tramite misoprostolo (metodo molto usato in Nuova Zelanda) aumenta il rischio di parto pretermine in una successiva gravidanza.

 

Uno studio tedesco pubblicato nel 2009 su The Journal of Paediatric and Perinatal Epidemiology, basato su un campione di 247.593 donne incinte, tra il 1998 e il 2000, e che avevano subito un aborto indotto precedentemente, ha dimostrato che il tasso di nascite pretermine aumenta con il numero degli aborti precedenti.

 

Sempre nel 2009, su Acta et Obstetricia Gynecologica Scandinavica, è apparso uno studio sul rapporto tra aborto indotto e aborto spontaneo. Sono state valutate tutte le donne tra i 15-49 anni di età di Oslo (Norvegia) incinte durante il triennio di studio (un totale di 27.932 donne). Il rischio di aborto spontaneo è risultato essere maggiore nel gruppo che presentava il più alto tasso di aborto indotto.

 

Un studio apparso nel 2009 sul Journal of Maternal-Fetal and Neonatal Medicine, ha analizzato le nascite nel Sud dell’Australia tra il 1998-2003 (n = 42.269). I fattori di rischio che hanno aumentato il rischio di nascite premature che sono emersi sono stati: l’essere indigeni, essere single, avere oltre 40 anni, fumare e avere avuto un precedente aborto indotto.

 

Ancora nel 2009, in una metanalisi apparsa sull‘International Journal of Obstetrics & Gynaecology, sono stati messi a confronto l’interruzione volontaria di gravidanza e la nascita di un bambino sottopeso in una gravidanza successiva, la nascita pretermine e la bassa età gestazionale. Dai 37 studi analizzati si ricava che l’aborto indotto è associato ad un aumento significativo del rischio di basso peso alla nascita e nascita prematura, ma non una bassa età gestionale.

 

Nel 2009, su The Journal of Reproductive Medicine è stata pubblicata una metanalisi condotta dal Dipartimento di Pediatria dell’University of South Alabama, la quale prova senza mezzi termini, valutando tutti gli studi realizzati fino ad allora, l’associazione tra aborto indotto o spontaneo e l’aumento del rischio di parto prematuro.

 

Sempre nel 2008, sul Journal of Epidemiology & Community Health, sono apparsi i risultati di uno studio in cui si è messo in relazione un aborto precedente con la nascita sottopeso (LBW) e il parto prematuro (PB). Ebbene, basandosi sui dati dell’United States Collaborative Perinatal Project, i ricercatori hanno concluso che un aborto precedente è un fattore di rischio significativo sia per LBW che per il PB, e il rischio aumenta con la crescita del numero di aborti precedenti.

 

Nel 2008, la celebre rivista medica britannica The Lancet (solitamente orientata su posizioni abortiste), ha ammesso che l’aborto aumenta il rischio di parto prematuro. Si è sostenuto: «Occorre una maggiore consapevolezza pubblica e professionale delle prove che la ripetuta strumentazione uterina – ad esempio, il raschiamento uterino o la biopsia dell’endometrio- è associata ad un aumentato del rischio di successive nascite premature e questo potrebbe col tempo influenzare il processo decisionale in merito alla procedura».

 

Nel 2007 su The Journal of Reproductive Medicine è apparso uno studio intitolato Cost consequences of induced abortion as an attributable risk for preterm birth and impact on informed consent”, nel quale ci si è concentrati sulle conseguenze dei costi umani e monetari del parto prematuro in relazione all’aborto indotto. I ricercatori hanno stabilito che l’aborto indotto contribuisce ad un aumento significativo dei costi della salute neonatale, provocando il 31,5% di tutte le nascite premature.

 

Nell‘aprile 2005 un altro studio epidemiologico ha dimostrato l’associazione aborto chirurgico-nascita prematura. Compare sul Obstetrical and Gynecological Survey ed è chiamato “Previous induced abortions and the risk of very preterm delivery: results of the Epirage study”. Anche qui la conclusione è la stessa: «I precedenti aborti indotti sono associati ad un aumento del rischio di parto prematuro. La forza dell’associazione aumenta al diminuire dell’età gestazionale».

 

Nel settembre del 2005 invece, sul Journal of Obstetrics and Gynaecology, uno studio americano ha descritto gli esiti ostetrici dopo aborti chirurgici alle 20 settimane, avvenuti tra il 1996 e il 2003. Le donne che avevano abortito con il metodo della dilatazione del collo dell’utero avevano più probabilità di avere successivamente un parto prematuro. Le pazienti sottoposte al metodo abortivo dilatazione ed evacuazione (D&E) avevano invece tassi di rischio di parto prematuro identici a coloro che avevano preferito il metodo abortivo “dilatazione ed estrazione (D&X). Tutte le tipologie di aborto hanno comunque dato risultati associabili al parto prematuro.

 

Nel 2004, uno studio apparso su International Journal of Obstetrics & Gynaecology ha studiato un campione di 1709 donne in gravidanza tra il giugno e l’ottobre del 2002 per identificare le cause della nascita prematura. I ricercatori hanno rilevato che tra gli altri fattori (come una vita lavorativa molto stressante e inadeguate cure prenatali) tra le principali cause vi era anche l’aborto indotto procurato meno di 12 mesi prima.

 

Nel 2004 su una rivista dell’Università di Oxford, chiamata Human Reproduction, è apparso uno studio con il quale si è voluto indagare il rapporto tra l’aborto indotto in precedenza e il parto prematuro in varie parti d’Europa. In totale sono state analizzate circa 2938 nascite pretermine. I ricercatori hanno concluso che precedenti aborti indotti erano significativamente associati ad un parto pretermine e il rischio di parto pretermine aumentava con l’aumentare del numero di aborti.

 

Nel 2003 sull’ International Journal of Epidemiology, è apparso uno studio cinese che valuta l’impatto dell’aborto indotto al primo trimestre sul rischio di aborto spontaneo in una successiva gravidanza. E’ stato svolto a Shanghai tra il novembre del 1993 e il marzo del 1998 su un campione di 2953 donne in gravidanza. I ricercatori hanno rilevato che l’aborto indotto, in particolare utilizzando il metodo di “aspirazione a vuoto”, è associato ad un maggiore rischio di aborto spontaneo nel primo trimestre della gravidanza successiva.

 

Nell’ottobre del 2003, su Human Reproduction, rivista di medicina della Oxford University è apparso uno studio dal titolo: “History of induced abortion as a risk factor for preterm birth in European countries: results of the Europe survey” (“Storia dell’aborto indotto come rischio di nascita prematura in sondaggi europei”). I ricercatori, dopo aver spiegato il metodo di analisi del campione selezionato, concludono: «Gli aborti indotti precedente sono significativamente associati ad un parto prematuro e il rischio di parto prima del termine aumenta all’aumentare del numero di aborti»

 

Nel 2003 è apparso sul Journal of American Physicians and Surgeons una ricerca intitolata: “Induced Abortion and Risk of Later Premature Births” (“Aborto indotto e rischio di nascite premature”). I ricercatori, Brent Rooney e Byron C. Calhoun, introducono dicendo: «Esistono almeno 49 studi specialistici che dimostrano un aumento statisticamente significativo di nascite premature (PB) o basso peso alla nascita (LBW) per i figli di donne che hanno alle spalle aborti indotti (IAS)». Il parto prematuro causa tragicamente danni cerebrali e un’altra serie di gravi lesioni perenni, dalla paralisi cerebrale alla cecità, e addirittura la morte. Almeno 17 studi hanno trovato che i precedenti aborti indotti aumentano anche il rischio di paralisi cerebrale nei bambini. Concludono dicendo: «Questi risultati suggeriscono che le donne che contemplando l’interruzione di gravidanza devono essere informate di questo rischio potenziale per le gravidanze successive, e i medici dovrebbero essere consapevoli della potenziale responsabilità e l’eventuale necessità di intensificare la cura prenatale».

 

Nel gennaio 2003 ricercatori del Department of Epidemiology dell’University of North Carolin, hanno pubblicato uno studio sul Obstetrical and Gynecological Survey, intitolato “Long-Term Physical and Psychological Health Consequences of Induced Abortion: Review of the Evidence”. Con esso rilevano alcune conseguenze psicologiche dell’aborto indotto. Hanno inoltre trovato una connessione diretta tra l’aborto indotto e il rischio di parto prematuro nelle gravidanze successive. Alla luce di questi dati, concludono, «riteniamo che le donne devono essere informate che le procedure dell’aborto chirurgico possono aumentare il rischio di successive nascite pretermine»

 

Una prova demografica sulla connessione tra aborto e nascita prematura sembra emergere dall’unione di due studi epidemiologi. Il primo è realizzato dal The Centers for Disease Control and Prevention (CDC) nel 2002, nel quale si sono analizzati i dati sugli aborti legalmente indotti negli Stati Uniti fino a quel momento, concludendo che il tasso di aborto per le donne di colore è circa tre volte superiore a quella delle donne bianche. Il secondo studio, realizzato dalla Washington University School of Medicine nel 2007, nel quale si sono analizzati i dati legati all’aborto indotto tra il 1989 e il 1997, concludendo che le donne di colore hanno tre volte più probabilità di partorire bambini prematuramente rispetto alle donne caucasiche. Associando i due risultati si ottiene che all’aumentare del tasso di aborto, aumentano anche le nascite premature.

 

Nel maggio 2001 uno studio comparativo realizzato dal Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia dell’Università di Tel Aviv (Israele) e intitolato “Are singleton assisted reproductive technology pregnancies at risk of prematurity?”, è stato pubblicato sul Journal of Assisted Reproduction and Genetics. I ricercatori stabiliscono che le singole gravidanze con riproduzione assistita aumentano il rischio di parto prematuro rispetto alle singole gravidanze avvenute da concepimento spontaneo. Il tasso più elevato può essere anche attribuito al fatto che precedenti interruzioni di gravidanza hanno dilatato il collo dell’utero.

 

Nel 2001 lo studio intitolato “Impatto di aborti indotti sull’esito della gravidanza successiva: risultati di un’indagine nazonale perinatale francese del 1995 pubblicato ancora una volta sul Journal of Obstetrics and Gynaecology, conclude che «una storia di aborti indotti aumenta il rischio di parto pretermine, in particolare per le donne che hanno avuto aborti ripetuti».

 

Nel dicembre del 1999 su Journal of Obstetrics and Gynaecology compare uno studio intitolato: “Interruzione della gravidanza e durata della gravidanza successiva“. I ricercatori norvergesi, tra altri risultati, hanno rilevato un aumento di gravidanze pre-termine e post-termine dopo aborti indotti.

 

Nel 1997 su “Epidemiology” è comparso uno studio con il quale si è cercato di individuare le cause dell’aumento del rischio di aborti spontanei nel primo trimestre di gravidanza. Fra i diversi fattori determinanti l’aborto spontaneo (come ad esempio lo status socio-economico), i ricercatori hanno anche trovato l’utilizzo di metodi contraccettivi.

 

Nel novembre del 1985 i ricercatori RM Pickering e JF Forbes hanno esaminato le schede di dimissione ospedaliera in Scozia per gli anni 1980-81 e hanno pubblicato i risultati sul Journal of Obstetrics and Gynaecology, i quali evidenziano che le donne con una storia di aborto indotto o aborto spontaneo sperimentano un aumentato rischio di parto prematuro, ma non di basso peso alla nascita per l’età gestazionale

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L’aborto legato all’eugenetica: Lenin e Hitler i primi a legalizzarlo

L’aborto è stato legalizzato sulla scia della promozione dell’eugenetica e le prime leggi a permetterlo furono promulgate in paesi fortemente illiberali.

 

La storia dell’aborto ha migliaia di anni ed è una pratica nata ed equiparata da sempre all’eugenetica e alla selezione della specie migliore. Basta solo ricordare, come faremo qui sotto, che la prima volta che venne legalizzato fu sotto la dittatura dell’Unione Sovietica, seguita dalla Germania nazista e dalla Cina comunista.

In questo dossier abbiamo ricostruito brevemente la storia dell’aborto e i passaggi fondamentali nell’epoca moderna che hanno portato alla luce le prime leggi di depenalizzazione di una pratica da sempre accostata all’eugenetica e praticata da secoli in clandestinità.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


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1. EBRAISMO

In Levitico 12, 2-6 si legge che la donna dopo il parto rimarrà immonda per 40 giorni se partorisce un maschio e 80 se partorisce una femmina. La fede ebraica è stata sempre generalmente contraria a infanticidio ed aborto, salvo eccezione che la gravidanza non rappresentasse un rischio per la vita della donna incinta o di altri figli. In alcuni casi la donna era obbligata ad abortire. L’ebreo Filone di Alessandria (20 aC – 47 dC), ha scritto sull’infanticidio e sulll’aborto condannando i non ebrei per la diffusione di queste pratiche[1].

 

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2. ANTICA GRECIA

Per gli antichi greci, solo l’uomo buono/bello (kalokagathia) poteva realizzarsi, non quello malato e deforme. Così a Sparta il legislatore Licurgo aveva imposto la regola che ogni neonato deforme doveva essere lanciato dal picco del Taigeto, mentre gli altri dovevano dormire all’aperto perché potessero sopravvivere i più forti. Un corpo disabile era immorale e andava eliminato[2]. Platone appoggiava completamente questa visione. Proponeva addirittura di non nutrire i bambini deboli o i figli di genitori troppo vecchi o malsani. Credeva infatti non si dovesse avere figli prima dei 37 e dopo i 55 anni (per gli uomini) e limitava il numero di figli per famiglia. Consigliava quindi l’aborto e l’abbandono dei bambini deboli o deformi. Aristotele, invece, credeva che un feto in gestazione avesse l’anima di un vegetale Dopo 40 giorni dal concepimento per i feti di sesso maschile e 90 giorni per quelli femminili, l’anima diventava “animata” [3]. Di conseguenza, l’aborto non era da lui condannato se eseguito precocemente.

 

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3. ANTICA ROMA

Nella civiltà romana un uomo poteva liberarsi di un figlio indesiderato semplicemente non riconoscendolo. I bambini non avevano alcun diritto e l’abbandono per strada, e il conseguente commercio di schiavi, era cosa assai frequente. È a fine repubblica che le donne romane cominciano a rifiutare la prole facendo uso di pozioni contraccettive e abortive, a base di ruta, ellèboro, artemisia, tutte estremamente nocive. È con le XII tavole che si ha una legislazione in materia di aborto: questo spetta al padre, e la donna che si procura l’aborto senza il suo consenso può essere ripudiata.
 

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4. CRISTIANESIMO

Si pensa che i primi cristiani fossero influenzati su questo argomento dal pensiero ebraico e greco, ma J.M. Roskamp conferma che in seguito rifiutarono completamente l’aborto, adottando «un nuovo concetto di preoccupazione per il feto»[4]. J.M. Gorman dichiara che «la posizione cristiana si distingue da tutte le altre quando disapprova l’aborto»[5]. Il Nuovo Testamento non contiene alcun riferimento esplicito a questo tema, tuttavia già dalle fonti del primo Cristianesimo, come la Didaché (fine I° sec.), emerge un rifiuto nei confronti dell’aborto: «Non uccidere, […] […] non devi abortire un bambino e non devi uccidere un neonato»[6]. Tertulliano (150-300 d.C.) scrive: «Posto una volta per tutte il divieto di uccidere un essere umano, ne consegue che nemmeno l’embrione nel corpo della donna […] può essere distrutto. Vi è omicidio anticipato quando si impedisce una nascita; non importa se si priva della vita un essere umano dopo la nascita oppure già prima, mentre essa è ancora in divenire. Un essere umano è già tale nella fase in cui lo sta divenendo, al pari di ogni frutto che è già contenuto nel suo seme»[7]. Nel Sinodo di Elvira (300-313 d.C.)[8] e nel Concilio di Ancira (314 d.C.)[9] si condannò esplicitamente la pratica abortiva, cosa che fece anche San Basilio Magno (330-379 d.C.). Sant’Agostino, in Manuale sulla fede, speranza e carità (421 d.C.), afferma:«Mi pare che ci voglia un bel coraggio, in effetti, per rifiutarsi di considerare come individui viventi quei feti che vengono estratti completamente smembrati dall’utero di donne incinte, per evitare, che rimanendovi ormai morti, finiscano per uccidere anche le madri. In realtà è da quando l’uomo comincia a vivere, che comincia già certamente a morire: una volta morto però, dovunque gli sia potuto capitare di morire, non riesco ad immaginare come costui possa essere escluso dalla risurrezione dei morti»[10]. San Tommaso d’Aquino aderì invece alla riflessione sull’epigenismo ispirandosi ad Aristotele. Non considerava quindi l’aborto un crimine anche se lo riteneva una violazione del diritto naturale[11]. Ricordiamo che solo nei tempi moderni la scienza embriologica ci ha mostrato che già a partire dal concepimento degli zigoti inizia l’esistenza di un organismo con un genotipo dotato di un’individualità e di caratteristiche specifiche, ossia di un nuovo essere umano unico e irripetibile[12]. Con la Decretum Gratiani (1140) e fino al 1869 il diritto canonico cattolico distinse tra feto “inanimato” e feto “animato”. Un’interruzione volontaria della gravidanza è sempre stata giudicata un peccato e come tale punita con una penitenza, tuttavia veniva considerata un assassinio solo nel caso in cui il feto che la subisse fosse “animato”. La distinzione tra feto inanimato e feto animato venne abolita da Papa Pio IX nel 1869, l’anima esiste già al momento del concepimento. Il Papa si basò anche sulle convinzioni del medico Paolo Zacchia[13].

 

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5. GIURAMENTO DI IPPOCRATE

Nel 400 a.C., Ippocrate, colui che è generalmente considerato il “Padre della Medicina”, ha realizzato (lui o un suo allievo) ciò che rimane della tradizione più duratura di tutta la medicina storia: “Il giuramento di Ippocrate”, cioè una dichiarazione che stabilisce le linee guida per un’etica medica. Nella sua forma originale, si legge quanto segue: «Io non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo»[14]. Eutanasia e aborto sono quindi fin dal primo codice etico proibiti. Tuttavia nei tempi moderni sono nate diverse varianti del giuramento originale, più politicamente corrette. In particolare, riporta un articolo della BBC[15], da un sondaggio nel 1993 condotto in oltre 150 scuole di medicina statunitensi e canadesi si è riscontrato che solo il 14% dei “giuramenti moderni” vietano l’eutanasia e l’8% vieta l’aborto. Eppure, si commenta, tutti questi sono punti chiave del giuramento originale. Fra i giuramenti moderni più importanti c’è la Dichiarazione di Ginevra, adottata dall’assemblea della Associazione Medica Mondiale nel 1948 ed emendata fino al 2006. Nacque dopo i crimini medici commessi dai medici nazisti nei campi di concentramento in Germania. In essa si legge: «Manterrò il massimo rispetto per la vita umana, dal momento del suo concepimento, anche sotto minaccia, non userò la mia conoscenza medica contro le leggi dell’umanità»[16]. Ancora una volta l’aborto è quindi vietato. Venne comunque modificata e oggi recita: «manterrò il massimo rispetto per la vita umana»[17]. Tali cambiamenti sono stati fortemente criticati e visti come un ulteriore allontanamento dalla tradizione ippocratica e deviati dalla preoccupazione emersa a Norimberga dopo l’epilogo del nazismo[18]. Un buon riassunto di tutte le interpretazione ideologiche moderne che hanno riguardato il Giuramento di Ippocrate lo si può trovare qui.

 

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6. MARCHESE DE SADE E L’ABORTO

Nel 1980 il Journal of Medical Ethics ha pubblicato uno studio storico in cui attribuisce ad uno scritto del Marchese de Sade il momento in cui l’aborto venne accettato per la prima volta dalla società e in medicina. Nel 1795 venne infatti pubblicato “Philosophic dans le boudoir“, nella quale de Sade, ateo dichiarato, propose l’uso dell’aborto procurato per motivi sociali e come strumento di controllo della popolazione. E’ in gran parte a causa della popolarità degli scritti di de Sade -concludono i riceratori- che la concezione di aborto procurato ricevette l’impulso adatto per essere portato alla sua successiva diffusione nella società occidentale[19]. De Sade è considerato un esponente dell’ala estremista del Libertinismo, è quindi facile da immaginare che avesse diversi problemi con le donne di cui abusava mettendole in stato di gravidanza[20]. L’aborto viene dunque socialmente accettato a partire da un atto di egoismo da parte dell’uomo sulla donna, e l’attenzione non è certo rivolta ai diritti femminili.

 

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7. LEGALIZZAZIONE DELL’ABORTO IN URSS

Nel 1920 l’URSS divenne il primo Paese a legalizzare l’aborto sotto il dittatore ateo Vladmir Lenin. Invertì la sua posizione nel 1936, per poi legalizzarlo nuovamente nel 1955, espandendolo anche ai Paesi occupati, come Estonia, Lettonia e Lituania. Il comunismo riteneva la famiglia un istituto artificiale e non naturale, opponendosi al giusnaturalismo. Per Lenin (ispirato da Dom Deschamps, Morelly, Babeuf, Fourier e Marx), l’abolizione della proprietà privata significa anche abolizione dei rapporti familiari moglie-marito, genitori-figli, così oltre all’aborto introdusse anche il divorzio. Questa convinzione era supportata anche dal cardine del pensiero comunista, cioè il materialismo. L’uomo, e così pure il bimbo nel ventre materno, è pura materia, senza anima e destino immortali[21]. L’aborto venne usato come mezzo principale di “controllo delle nascite” e in alcuni anni gli aborti superarono le nascite[22]. Le conseguenze furono disastrose poiché ancora oggi nei Paese ex-sovietici l’aborto raggiunge numeri altissimi. Nel gennaio 1992 il direttore del Centro per gli studi demografici dell’Universita’ di Mosca, il prof. Elisarov, ha mostrato che per ogni cento nascite, si registrano 130.140 interventi abortivi, che secondo la legislazione sovietica non sono sottoposti ad alcuna restrizione[23]. Nei primi nove mesi del 2003 in Romania, ad esempio, sono stati commessi 170 mila aborti, numero più elevato delle nascite in quel periodo. Nel 1990 la Romania ci furono tre aborti per ogni nascita. In Russia, stime al ribasso, indicano che oggi il tasso di aborto è il 60% di tutte le gravidanze. Nel 2000 un rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rilevato che «in Russia e il centro-est europeo, che rappresentano il 10% della popolazione mondiale, si contano dai 30 ai 40 milioni di aborti registrati all’anno»[24].

 

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8. ABORTO, EUGENETICA E PLANNED PARENTHOOD

Ma l’approvazione dell’aborto arrivò innanzitutto dall’approvazione sociale dell’eugenetica, sinonimo stesso di aborto, come rivela il dizionario: «Disciplina che si propone il miglioramento genetico della specie umana»[25]. Il termine “eugenetica” fu coniato nel 1883 da Sir Frances Galton, cugino di Charles Darwin. Gli Stati Uniti sono stati il Paese in cui l’eugenetica si è affermata principalmente. Nel 1910 venne fondata la prima grande istituzione di ricerca eugenetica, la Eugenics Records Office, nel 1923 si costituì l’American Eugenics Society, con filiali in 29 stati entro in breve tempo. Nel 1928 erano già nati 376 corsi universitari sull’eugenetica, anche nelle prestigiose Oxoford, Harvard e Princeton, e l’argomento lo si poteva trovare nei testi delle scuole superiori[26]. Nel 1916 venne anche fondato da Margaret Sanger il Planned Parenthood, ancora oggi l’ente abortista più grande del mondo. La Sanger non credeva alla distinzione tra “fit” (“idonei”) e “unfit” (“non idonei”), come sosteneva il nazismo, perché per lei c’erano soltanto i “tinfit” (cioè i poveri, gli epilettici, gli alcolisti, i criminali, i disabili fisici e mentali) cui doveva essere impedito di riprodursi, con la forza se necessario[27]. Nel suo “Birth Control Review” (Ottobre 1921, p. 5), dichiarò: «Forse metodi drastici e spartani potranno essere usati se la società continua a compiacersi di incoraggiare la possibilità e l’allevamento caotico causato dal nostro sentimentalismo stupidamente crudele»[28]. La Sanger non credeva solo al controllo delle nascite ma anche all’uso di esso tramite la sterilizzazione e la promozione dell’eugenetica. Sorprendentemente non sostenne apertamente l’aborto e il Planned Parenthood mantenne questa posizione fino alla sua morte nel 1966. Tuttavia, pur approvando il controllo delle nascite (compresa la sterilizzazione forzata) e l’eugenetica, la posizione anti-abortista fu una mossa tattica. Lo rivelò il suo amante Havelock Ellis, fu lui stesso a consigliarla in questo modo, convincendola del fatto che la società industriale non era ancora pronta. Infatti, prima di adottare questa posizione tattica, aveva sostenuto in più occasioni «il diritto di distruggere il non ancora nato»[29]. La Sanger e gli eugenisti americani ebbero molti contatti con i riformatori del sesso in Germania.

 

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9. ABORTO E NAZISMO

Abbiamo visto che i moderni giuramenti di Ippocrate nascono all’indomani della fine del nazismo. Attingiamo dall’importante documento presentato nel 2001 alla riunione annuale dell’Association for Interdisciplinary Research in Values and Social Change[30] .

Democrazia di Weimar. All’inzio del 1900, nello Stato di Prussia, si verificò un forte calo del tasso di natalità e un’importante immigrazione di slavi dall’est. Per questi motivi si decise inizialmente di aumentare il tasso di natalità in “quantità”. Tuttavia gli uomini erano notevolmente inferiori rispetto alle donne a causa della prima guerra mondiale e così diversi centri di consulenza matrimoniale cominciarono a favorire il concetto di una prole “sana” (“qualità”) più che la “quantità” di prole[31]. Sotto questo spirito nacquero organizzazioni di riforma sessuale interessate progressivamente alla sterilizzazione, all’eugenetica e alla liberalizzazione/legalizzazione dell’aborto, come ad esempio la National League for Birth Control and Sexual Hygiene (1915). La sua filiale di Amburgo iniziò a tenere conferenze intitolate “Teoria della razza, eugenetica e sterilizzazione” o “Lo sterminio della vita non idonea”, attraverso le quali promuoveva il benessere collettivo come principale preoccupazione nella riproduzione[32]. Nel 1928 i funzionari ministeriali del Department of Health tennero sessioni segrete con i luminari della razza per promuovere la sterilizzazione forzata e l’uccisione dei mentalmente disabili[33]. Nel 1932 il Consiglio di Stato prussiano (la Prussia occupava il 60% dell’area della Germania) disse a riguardo dei disabili: «L’umanità sarebbe stata risparmiata da una quantità enorme di sofferenza se molte di queste persone non furono mai nate»[34]. La campagna per la legalizzazione dell’aborto diventò un obiettivo per quasi tutta la storia della democrazia di Weimar e da crimine venne ridotto a reato non punibile[35]. Gli argomenti di promozione che utilizzavano era gli stessi di oggi: le donne hanno il diritto di selezionare, i bambini devono essere pianificati e voluti, la vita nascente è priva di senso, la morale è una questione personale, è un passaggio che la società deve attraversare ecc…[36].

Leggi naziste. Nel 1933, meno di sei mesi dopo il loro arrivo al potere, i nazisti approvarono una legge per prevenire “le nascite congenitamente difettose”. Entro un anno arruolarono circa 250 giudici, la cui funzione era di decidere chi fosse degno di procreare e chi no[37]. Nel marzo 1934, la Corte di Amburgo pronunciò una sentenza con la quale affermava che praticare l’aborto per motivi di salute razziale non era più reato[38]. Nel giugno 1935 venne modificata la legge sulla sterilizzazione consentendo l’aborto anche per motivi eugenetici e permettendo la sterilizzazione della donna. L’aborto divenne quindi legale, sia per motivi culturali come la negazione di un’anima personale[39], sia per questione eugenetiche. Oltre ai nazisti, anche i progressisti, liberali e la sinistra approvarono i cambiamenti sostenendo il “diritto di scelta”. Si opposero inutilmente il centro e la destra politica, così come le chiese e la maggior parte dei medici[40]. Il 15 giugno 1937 il Dr. Ley, igienista razziale nazista, durante una riunione di pianificazione delle nascite disse qualcosa di molto familiare anche oggi: «L’aborto è un male necessario che dobbiamo accettare per rispetto della vita»[41]. Associazioni come la Lebensborn, fondata da Himmler, potevano scegliere donne non sposate da accoppiare a riproduttori ariani. Guarda caso, contemporaneamente le feste cristiane e popolari vennero sostituite con festività della natura o di ispirazione laica[42]. Nel 1938 il governo annunciò che gli ebrei avrebbero potuto essere abortiti in qualunque momento della gravidanza, in quanto questo era vantaggioso per il popolo tedesco[43]. Gli ebrei divennero così “non idonei” e i tedeschi giustificarono questo come un “diritto di scelta”. Durante la seconda guerra mondiale (1939-1945), i nazisti usarono la sterilizzazione e l’aborto, il controllo delle nascite e la promozione dell’omosessualità nell’Europa orientale con l’obiettivo di indebolire queste nazioni e ostacolare la riproduzione dei popoli slavi[44]. Nel 1942 Adolf Hitler dichiarò: «Noi non siamo interessati al fatto che la popolazione non-tedesca si moltiplichi. Dobbiamo usare tutti i mezzi per inculcare nella popolazione l’idea che è pericoloso avere molti bambini, le spese che essi causano e l’effetto pericoloso sulla salute delle donne. Sarà necessario aprire speciali istituzioni per l’aborto e i medici dovranno essere capaci di venirne fuori nei casi in cui ci sia una violazione della loro deontologia professionale»[45].

Congresso di Norimberga. Nel 1948, alla fine della guerra, un procuratore del Congresso di Norimberga -parlando di ciò che in una certa cultura oggi è dichiarato essere una vittoria dei diritti umani- dichiarò: «L’aborto procurato in Oriente contro la popolazione slava è un crimine contro l’umanità. Esso costituisce un atto di sterminio, di persecuzione per motivi razziali, è un atto disumano. Anche se per ipotesi la sua richiesta fosse stata autenticamente volontaria, costituisce comunque un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità»[46]. Il 10 marzo 1948, due ufficiali delle SS hanno ricevuto 25 anni per aborti procurati e altri crimini[47]. Oggi paradossalemnte si può finire in galera se ci si oppone all’aborto.

 

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10. LEGALIZZAZIONE ABORTO IN CINA E POLITICA DEL FIGLIO UNICO

La Cina popolare comunista, guidata dall’ateismo governativo dal 1912, ha autorizzato l’aborto e la contraccezione nel 1957. Nel 1962 sono stati imposti: ritardo obbligatorio dell’età del matrimonio, sterilizzazione, tecniche contraccettive spesso forzate. L’obbligo di un figlio solo a famiglia, impartito dal 1979[48], ha determinato, oltre al precoce invecchiamento della popolazione, una strage delle figlie femmine: i genitori cinesi, potendo avere un solo figlio, spesso uccidono una eventuale figlia femmina dal momento che non potranno giovarsi del suo aiuto nella lavorazione della terra. Oppure è il governo stesso ad eliminarle, tramite aborti selettivi e forzati, anche all’ottavo e nono mese e infanticidi[49]. Avviene addirittura che i medici vengano pagati dallo Stato a seconda delle sterilizzazioni forzate o degli aborti effettuati (che spesso vengono spacciati, alle povere madri, per terapeutici)[50]. Nel migliore dei casi alcune famiglie, dopo il primo figlio, decidono di non uccidere le loro bambine e riescono, pagando chi di dovere, a non farle registrare, per evitare che siano gli impiegati statali ad eliminarle: in tal caso però queste bimbe, di fronte alla legge, non esistono, e non hanno quindi accesso all’istruzione, alla sanità ecc[51]. Slogan come “avere meno figli ti fa vivere una vita migliore” e “stabilizzare la pianificazione familiare crea un futuro più luminoso” sono dipinti sugli edifici delle zone più rurali. Slogan come “Meno bambini, più maiali”, “Più bambini, più tombe”, oppure “Se partorisci figli in più, la tua famiglia sarà distrutta”, sono stati banditi nel 2007 in seguito alla rabbia dei contadini[52]. Si ha così uno squilibrio all’interno della popolazione, per cui oggi mancano all’appello, in Cina circa 40 milioni di donne e vi sono più di 20 milioni di uomini che non possono sposarsi[53]. Un funzionario del governo cinese ha dichiarato che la politica del figlio unico ha impedito circa 300 milioni di nascite, l’equivalente della popolazione europea[54]. Nel 2009 gli aborti in Cina sono stati 30 milioni[55].

Finanziamenti europei. In questo panorama desolante si inserisce l’appoggio economico per l’incentivazione dell’aborto dato al governo cinese dall’agenzia Unfpa (dell’ONU) e dall’Ippf: quest’ ultime, fino al luglio 2002, erano a loro volta finanziate dagli Stati Uniti, che però hanno poi deciso di sospendere i versamenti, non volendo più collaborare a programmi di “aborto forzato o di sterilizzazione non voluta”. Prontamente è intervenuta la Commissione Europea, guidata dall’italiano Romano Prodi, che, con una decisione di straordinaria gravità, ha stanziato contributi per ben 32 milioni di euro, facendo così dell’Europa il motore della diffusione dell’aborto (anche forzato, e tardivo) nel mondo[56]. Nel 2007 la Commissione sullo status delle donne (Csw), l’organismo delle Nazioni Unite, ha rifiutato di condannare l’aborto selettivo delle bambine cinesi, indiane e di altri paesi asiatici. Canada e e tutti i paesi dell’Unione europea hanno contributo all’affossamento della proposta di eliminare “tutte le forme di discriminazione e violenza contro giovani donne e bambine”[57].

 

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11. LEGALIZZAZIONE ABORTO IN INGHILTERRA

Dopo il mondo comunista è quello anglosassone ad introdurre l’aborto. L’Inghilterra lo legalizza nel 1968. Già nel 1932 però, Aldous Huxley (figlio di un famosissimo biologo darwiniano), scrisse “Il Mondo Nuovo” dove ipotizza un mondo i cui abitanti sono rigidamente controllati, manipolati, soggiogati dal potere in ogni aspetto della loro vita. Nel 1958 dira che non esistono «l’intelligenza e la volontà, che quasi mai ritroviamo nel formicaio di analfabeti che popolano il mondo, per attuare il controllo delle nascite. Forse non è impossibile la gestazione in vitro come non è impossibile il controllo centralizzato della riproduzione. Ma è chiaro che per molti anni a venire la nostra rimarrà una specie vivipara, che si riproduce a casaccio. Il nostro sregolato capriccio non solo tende a sovrappopolare il pianeta, ma anche, sicuramente, a darci una maggioranza di uomini di qualità biologicamente inferiore». Suo fratello, Sir Julian Huxley, diverrà primo direttore generale dell’UNESCO, il cervello dell’ONU, e porterà all’interno di questo organismo un’avversione alla vita che rimane tutt’oggi. La sua filosofia è ben espressa in un suo opuscolo[58] in cui si fanno proposte estremamente simili a ciò che succede nel romanzo di Aldous. Inoltre sir Julian è anche nel 1920 uno dei fondatori della Società Eugenetica Britannica. Il 6 settembre 1962, a nome del Comitato per la legalizzazione della sterilizzazione eugenetica, scriveva: «Gli argomenti a favore della sterilizzazione di certe classi di genti anormali o deficienti mi sembrano schiaccianti»[59]

 

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12. LEGALIZZAZIONE ABORTO NEGLI USA

Negli Stati Uniti l’aborto viene introdotto nel 1973 dopo il famoso processo “Roe v. Wade”. Ne è protagonista una donna, Norma Mc Corvey, detta Roe, la quale ha subito un’infanzia terribile, tra il riformatorio, lavori precari, mariti che la picchiano, stupri e droga[60]. Grazie a lei l’aborto viene legalizzato anche in America. Oggi si è convertita al cattolicesimo e da anni si è pentita e sta tentando di riscrivere la storia chiedendo che la sua vittoria sia revocata[61]. Tuttavia gli USA sono oggi i motori dell’abortismo nel mondo.

 

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13. LEGALIZZAZIONE ABORTO IN EUROPA

Dopo l’America l’aborto venne introdotto in Germania, in Francia (1975) e gradualmente in quasi tutti i paesi europei. Rimane fuori l’Irlanda cattolica (EIRE), anche grazie a Niamh Nic Mhathuna, presidente di Youth Defence, vincitrice per sette anni del titolo per la migliore musica tradizionale irlandese[62].

 

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12. LEGGE 194 E LEGALIZZAZIONE ABORTO ITALIA

Diossina a Seveso. Nel 1976 in Italia, a Seveso (MB), esplose un reattore dell’industria chimica Icmesa, producendo vari tipi di diossine nocive per l’ambiente e per gli abitanti dei dintorni. La paura si diffuse in un attimo, amplificata dalla stampa. Immediatamente partì la campagna mediatica promossa da radicali affinché fosse permesso alle donne incinte di Seveso e dintorni di abortire. Si sostenne che chi avesse abortito, avrebbe partorito dei mostri. Il sindaco di allora, Franesco Rocca, ha raccontato recentemente in un libro gli avvenimenti[63]. Alcuni radicali arrivarono addirittura ad agitare cartelli con minaccie molto esplicite per le vie della cittadina, affinché le gestanti “non facciano le sentimentali”, e capiscano che è essenziale comportarsi da persone “mature”, “consapevoli”. Le conseguenze, dissero, sarebbero state malformazioni, tumori e deformazioni di ogni genere. Il quotidiano “La Stampa” propose l’aborto coatto per tutte le donne incinte. Solo il cardinale di Milano, Giovanni Colombo, si battè per offrire una possibilità alternativa, invitando le donne impaurite per eventuali malformazioni a partorire ugualmente, e chiese alle famiglie di offrirsi per accogliere i futuri bambini malati. La sua prospettiva era quella della carità reciproca: la società, la comunità, è chiamata a farsi carico delle debolezze e dei dolori dei fratelli, non ad isolarli in una scelta solitaria e dolorosa. In realtà, a Seveso, non muorì proprio nessuno. Gran parte delle donne incinte decidettero di tenersi il figlio e pochissime abortiranno utilizzando un escamotage legislativo (cioè l’aborto eugenetico). A Seveso e dintorni i bambini nati dopo l’esplosione risulteranno sani, nella norma, anche dopo analisi nel lungo periodo. I pochi feti abortiti, spediti in un laboratorio straniero per essere analizzati, non riveleranno alcun problema particolare. Putroppo l’esito delle indagini rimarrà a lungo nascosto, tanto che ancor oggi, nell’immaginario collettivo, Seveso rimane una catastrofe di portata epocale. La battaglia per la legalizzazione dell’aborto nacque da qui e avvenne sull’onda dell’emozione[64].

La falsità sull’aborto clandestino. Nel 1978, dopo gli avvenimenti di Seveso (MB), si pensò di utilizzare il falso problema dell’aborto clandestino per portare l’aborto nella legalità. Questa volta i radicali riuscirono nell’intento, pur basandosi su dati completamente gonfiati, del tutto incontrollati e mai provati. Vediamo perché: secondo Marco Pannella gli aborti clandestini erano 1,5 milioni, il Psi al Senato nel 1971 parlava di 2-3 milioni con circa 20 mila donne morte, ma alla Camera le morti lievitavano a 25 mila. “Il Giorno” del 7/9/1972 dichiarava 3-4 milioni di aborti clandestini all’anno, Il Corriere della sera del 10/9/1976 parlava dai 1,5 a 3 milioni[65]. Anche se ipotizzassimo 3-4 milioni di aborti clandestini si deriverebbe un tasso medio di abortività in base al quale – alla fine – tutte le donne italiane avrebbero praticato nella loro vita almeno 8 aborti clandestini. Solo questo basta per rendere assurde le cifre. Un’altra prova della truffa si può ricavare dai dati sull’aborto legale di oggi, che sono sui 130 mila all’anno. Domanda: come è possibile che, nonostante oggi ci sia facile accesso all’aborto, sia continuamente propagandato e sia una pratica legale e assistita in qualunque ospedale, esso sia assolutamente inferiore di quando era illegale, tanto da rischiare il carcere per chi lo praticasse? Anche le 25 mila donne morte a causa dell’aborto clandestino erano false: dall’Annuario Statistico del 1974 risulta infatti che le donne in età feconda (cioè dai 15 ai 45 anni) decedute nell’anno 1972, cioè prima della legge 194, furono in tutto 15.116 e quindi la metà delle presunti morti per aborto. Inoltre, tra queste, solo 409 risultavano morte di gravidanza o parto. E fra queste bisogna ancora dividere le morti “per gravidanza o parto” da quelle dovute ad aborto clandestino. Sostanzialmente le vittime dell’aborto clandestino erano qualche decina ogni anno[66]. Ogni morte è drammatica ma si trattava di emergenza nazionale?

Fallimento legge 194. L’entrata in vigore della significativa e improvvisa diminuzione statistica, la 194 non ha modificato alcunché. In legge 194, poi, non ha affatto diminuito la mortalità delle donne in età feconda, non ha avuto alcunaoltre non ha portato neanche alla sparizione dell’aborto clandestino. Sull’Espresso del 10/11/2005, Chiara Valentini scrive che la relazione del ministro della Salute nell’anno 2005 stima circa in 20 mila gli aborti clandestini. E la stessa cifra è ribadita dal demografo Massimo Livi Bacci. Dunque la 194 è clamorosamente fallita: non ha estirpato neanche la piaga della clandestinità. Lo stesso fenomeno è accaduto in Gran Bretagna, nei Paesi Scandinavi, in Germania, Giappone, Russia Polonia, Romania e via dicendo. L’unica cosa che ha fatto la 194 è stata quella di portare 20-30 mila aborti clandestini a 150-200 mila aborti legali. Due ricercatori dell’Università di Trento, Erminio Guis e Donatella Cavanna hanno inoltre scoperto che il 32% delle donne che hanno abortito non l’avrebbe fatto se non ci fosse stata la legge 194 a permetterlo[67]. Quindi migliaia di aborti che – in mancanza della 194 – sarebbero stati evitati.

Effettivamente si è verificata una relativa diminuzione degli aborti legali dal 1978 ad oggi, ma bisogna innanzitutto considerare la capillare diffusione di abortivi chimici. In secondo luogo il fenomeno è tutto italiano ed è dovuto a una forte sensibilizzazione sui temi della vita fatta dalla Chiesa italiana e dai Centri di aiuto alla vita, i quali hanno salvato dall’aborto circa 80 mila bambini e altrettante mamme. Negli altri Paesi europei, come Francia e Inghilterra, dove la presenza cattolica (e la cultura della vita) è irrilevante, gli aborti legali non sono in discesa, ma semmai in salita.

 

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Note

[1]^ Filone di Alessandria, “Sulle singole leggi“, 3, 20, 110
[2]^ K.P. Depierri,”One Way of Unearthing the Past“, The American Journal of Nursing 1968, pp. 521–524 e Plato “Theaetetus. in Harold North Fowler“, Harvard University Press 1921
[3]^ Aristotele “Storia degli animali“, libro VII, capitolo 3, 583b.
[4]^ J.M. Röskamp, “Christian Perspectives On Abortion-Legislation In Past And Present“, GRIN Verlag 2005
[5]^ M.J. Gorman, “Abortion and the Early Church: Christian, Jewish and Pagan Attitudes in the Greco-Roman World“, WIPF & Stock Publishers 1998, p. 77
[6]^ http://docs.google.com/viewer?a=v&q=cache:Em1owsggWIIJ
[7]^ Tertulliano, “Apologeticum“ 9.8.
[8]^ http://www.earlychurchtexts.com/main/elvira/canons_of_elvira_04.shtml
[9]^ http://www.synaxis.org/canon
[10]^ http://www.augustinus.it/italiano/enchiridion/index2.htm
[11]^ http://www.catholic.com/thisrock/quickquestions/keyword/abortion/page2
[12]^ scienza embrione
[13]^ http://www.mamma.ch/it/buono-a-sapersi/che-cosa-dicono-
[14]^ http://it.wikipedia.org/wiki/Giuramento_di_Ippocrate#Giuramento_antico
[15]^ http://www.bbc.co.uk/dna/h2g2/A1103798
[16]^ http://en.wikipedia.org/wiki/Declaration_of_Geneva
[17]^ http://it.wikipedia.orgdichiarazione
[18]^ Trials of War Criminals before the Nuremberg Military, Tribunals, October, 1946-April, 1949, v, 153, pp. 16061, 166.
[19]^ http://jme.bmj.com/content/6/1/7.abstract
[20]^ http://it.wikipedia.org/wiki/Donatien_Alphonse_
[21][22][24]^ http://www.lifesitenews.com/news/archive/ldn/2005/nov/05112407
[23]^ http://archiviostorico.corriere.it/1992/gennaio/
[25]^ http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/E/eugenetica.shtml
[26]^ G.E. Allen, “Science Misapplied: The Eugenics Age Revisited“, Technologv Review, August-September 1996
[27][28][29]^ M. Grey, “Margaret Sanger: A Biography of the Champion of Birth Control“, Richard Marek Publishers 1979, pp. 159, 280
[30]^ http://www.lifeissues.net/writers/air/air_vol16no1_2001.html
[31][32][33][34]^ A. Grossman, “Reforming Sex: The German Movement For Birth Control and Abortion Reform, 1920- 1950”, Oxford University Press 1995
[35]^ Ibidem, pp 82-83; C. Usborne, “The Politics of the Body in Weimar Germany: Women’s Reproductive Rights and Duties”, The University of Michigan Press 1992, pp 173-74
[36][37]^ C. Koonz, “Mothers in the Fatherland: Women. the Family and Nazi Politics”, Jonathan Cape 1986, p. xxxii
[38][40][43]^ J. Stephenson, “Women in Nazi Germany”, Barnes and Noble Books 1975, p. 62 1934
[39]^ Grossman, p. 151; Bulletin 6. Mav 27, 1980, Deutsche Bundesverlag, GmBH, p. 13 e http://www.fuocovivo.org/nazismo/
[41]^ Persoenlicher Stab Reichsfuehrer-SS, (Personal Staff Files of SS Head, Heinrich Himmler), German National Archives, Berlin, Germany. pp. 85-88
[42]^ http://www.fuocovivo.org/storiadell%27aborto.htm
[44]^ Trials of War Criminals before the Nuremberg Military Tribunals, October. 1946-April. 1949. Vols. IV-V
[45]^ http://en.wikipedia.org/wiki/Talk%3ANazism%2FArchive_11
[46][47]^ Prosecutor at the Nuremberg RuSHA (Race and Resettlement Office) trial, March 1948, NWCT, microfilm 894, roll 31, pp. 13-14.
[48][52][54]^ http://factsanddetails.com/china.php?itemid=128&catid=4&subcatid=15
[49]^ http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=9061 e http://www.avvenire.it/Mondo/Costretta+ad+abortire+in+
[50]^ http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2005/09
[51]^ http://blog.panorama.it/mondo/2010/04/23/
[53]^ http://blog.panorama.it/mondo/2010/01/18/cina e http://www.bmj.com/content/338/bmj.b1211.abstract e http://www.asianews.it/notizie-it/Rischio-aborto-per-40-60-milioni-di-bambine-entro-10-anni-546.htm
[55]^ http://www.laogai.it/?p=12198
[56]^ http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/35724
[57]^ http://www.fattisentire.org/modules.php
[58]^ J. Huxley, “Unesco: its purpose and its philosophy“, Ed. M.B. Schnapper 1948
[59]^ http://www.culturacattolica.it/default.asp?id=266&id_n=10486 e “L’Italia settimanale” 22.3.95
[60]^ http://archiviostorico.corriere.it/2003/giugno
[61]^ Ultimissima 21/2/11
[62][65][66]^ http://www.tradizione.biz/aborto/67-breve-storia-dellaborto-nel-mondo
[63][64]^ http://www.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?articolo=67 e I giorni della diossina. Seveso: la verità di un protagonista“, Fede & Cultura 2006
[67]^ E. Guis e D. Cavanna, “Maternità negata”, Milano 1988

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