Jozef Tiso, la deportazione degli ebrei e le proteste della Chiesa cattolica

Molto spesso chi attacca la Chiesa usa una singolare tattica: ammette che alcuni uomini del clero hanno avuto un atteggiamento eticamente corretto, ma afferma che in realtà queste persone furono delle mosche bianche che hanno agito contro la loro stessa gerarchia. Al contrario, porta spesso l’esempio di preti e vescovi che hanno compiuto misfatti per dimostrare la criminalità della Chiesa presa nel suo insieme. Ad esempio, taluni portano il caso del presidente slovacco, il presbitero Jozef Tiso, che durante la seconda guerra mondiale fu a capo di un regime responsabile della deportazione di migliaia di ebrei, per dimostrare la complicità della Chiesa nell’Olocausto. I fatti però smentiscono questa teoria.

Quando Hitler invase la Cecolosvacchia impose ai slovacchi un protettorato e alla guida del movimento nazionale s’impose appunto Jozef Tiso. Il suo ruolo politico fu malvisto dalla Santa Sede perché riteneva inopportuno un simile coinvolgimento del clero in uno stato affiliato alla Germania nazista e il Vaticano rifiutò quindi di sottoscrivere il concordato che Tiso, per rafforzare il regime, propose alla Santa Sede. Al Papa infatti non sfuggiva il fatto che la Slovacchia si trovasse in un evidente condizione di subalternità politica verso la Germania e che questa sarebbe potuta ben presto diventare anche ideologica.

Non mancava però, la convinzione che Tiso agisse in buona fede e l’ambasciatore della Santa Sede in Slovacchia, Giuseppe Burzio annottò che “egli [Tiso] è convinto o almeno spera che, rimanendo al potere, riesca a salvare il salvabile e che l’applicazione dei metodi nazionalsocialisti non sarà portata alle estreme conseguenze”. (G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Milano 2007 p. 387). Questa visione però cominciò a cambiare quando il regime slovacco cominciò ad introdurre la legislazione razziale ad imitazione dei nazisti: il 9 settembre 1941 venne emanato, sotto forma di un’ordinanza governativa, il “codice ebraico” basato sul modello delle leggi di Norimberga. Questo passo dispiacque molto alla Santa Sede che decise di declassare Tiso togliendoli il titolo di “monsignore”. (M. Phayer, Il papa e il diavolo , Roma 2008 p. 29).

La situazione però era destinata a peggiorare perché nel 1942 la Slovacchia cominciò a deportare gli ebrei. Il regime infatti concluse un accordo con i tedeschi nella quale s’impegnava al versamento di cinquecento marchi per coprire il costo di ogni singolo deportato a patto che i nazisti non reclamassero le loro proprietà. La notizia delle deportazioni allarmò il Vaticano che intervenne subito per cercare di fermarle: il 14 marzo, il segretario di stato Luigi Maglione convocò il rappresentate slovacco presso la Santa Sede, Karol Sidor, per comunicargli che “non poteva credere che un paese che sosteneva d’ispirarsi ai principi cristiani avesse preso misure così gravi che avrebbero avuto effetti terribili su molte famiglie”. Lo stesso Pio XII intimò al governo di prendere immediatamente provvedimenti per fermare le deportazioni. Maglione incaricò Burzio di incontrare il ministro degli interni, Vojetch Tuka per cercare di persuaderlo a porvi fine e commentò che nel governo slovacco vi erano due pazzi: “l’uno Tuka che è l’esecutore e l’altro Tiso che permette che accadono”.

Anche i vescovi fecero circolare una lettera pastorale nella quale, pur giustificando alcune misure di discriminazione antisemita, specificavano che “gli ebrei sono gente come noi e dunque devono essere trattati umanamente”. I rappresentati slovacchi, pur dichiarando la loro professione di cattolicesimo, disobbedirono agli ordini vaticani e continuarono a trasferire gli ebrei. Tuttavia, le insistenti proteste del Vaticano unite al malumore della popolazione contraria alle deportazioni, indussero il governo a porvi fine. Si trattava solo di una proroga dato che le guardie Hlinka (i fascisti slovacchi) erano intenzionate a riprenderle: “Verrà marzo e poi verrà anche aprile e i trasporti partiranno ancora” dichiarò il ministro degli Esteri Sano Mach. Ciò però non avvenne perché i vescovi e i rappresentati vaticani intervennero efficacemente affinché questo non accadesse. Tra i molti interventi, Maglione inviò una nota al governo spiegando che “la Santa Sede rischierebbe di sottrarsi al suo compito divino se non deplorasse le disposizioni e le misure che offendono gravemente i diritti naturali per la semplice ragione che queste persone appartengono ad una determinata razza.” (M. Burleigh, In nome di Dio, Bergamo 2007 pp. 301-302).

Ciò permise che per un breve periodo di tempo la Slovacchia divenne paradossalmente un rifugio sicuro per gli ebrei polacchi in fuga dallo sterminio. Questa situazione durerà fino all’autunno del 1944 ossia quando dopo un’insurrezione, i tedeschi assunsero il diretto controllo del territorio iniziando a deportare tutti gli ebrei che fino ad ora erano riusciti a scampare all’Olocausto. Anche stavolta la Chiesa intervenne sebbene vi fosse ben poco che si potesse fare: Pio XII diede istruzioni al suo diplomatico di recarsi da Tiso e riferirgli il dovere di aiutare quelle persone colpite “a motivo della loro nazionalità o stirpe” facendo leva anche sui suoi doveri di sacerdote e sul fatto che le ingiustizie commesse sotto il suo governo avrebbero arrecato danno all’immagine del suo paese e alla stessa Chiesa. Tiso fu però irremovibile e giustificò le deportazioni tedesche come misura di sicurezza dello stato (sic!). La Santa Sede deciderà dunque di spostare le sue richieste verso la Legazione slovacca che si era mostrata profondamente contrariata di fronte ai soprusi effettuati contro gli ebrei. (Alessandro Duce, La Santa Sede e la questione ebraica, Roma 2006 pp. 337-339).

La Chiesa non diede quindi la sua benedizione al governo di Tiso e anzi, fu per essa una fonte di grave imbarazzo tanto che monsignor Domenico Tardini si rammaricherà per il fatto che il presidente della Slovacchia fosse un prelato perché mentre tutti potevano capire che la Santa Sede non aveva il potere di fermare Hitler, difficilmente si poteva intuire che la Santa Sede non fosse in grado neppure di richiamare un prete. Che il papa disapprovasse Tiso lo si poté comunque comprendere all’epoca del suo processo: quando il prelato, fuggito in Germania, fu ricondotto in patria per essere processato e impiccato, la Santa Sede ne prese le distanze e Radio Vaticana commentò negativamente il suo operato osservando che “ci sono leggi a cui bisogna obbedire, non importa quanto si ami il proprio paese”. (M. Phayer, Il papa e il diavolo , Roma 2008 p. 63).

Mattia Ferrari

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