Un frammento del Vangelo di Marco del primo secolo?

«Con questo articolo diamo avvio alla collaborazione con Piero Piccoli, studioso di cristianesimo delle origini, del “Gesù storico” e degli immaginari della modernità relativi al cristianesimo e alla storia della Chiesa. Ha studiato storia del cristianesimo antico presso l’università di Roma “La Sapienza” e teologia presso la Pontifica Università Lateranense. Ha fatto per anni parte del comitato direttivo di una ONLUS e da oltre un quindicennio è bibliotecario presso una plurisecolare istituzione pontificia, per la quale si occupa di gestire e catalogare il patrimonio librario posseduto»

 

di Piero Piccoli*
*studioso di Cristianesimo delle origini

 

Il mondo accademico neotestamentario in questi giorni è in fibrillazione. Durante un recente dibattito tra Bart D. Ehrman, che immagino non abbia bisogno di presentazioni, e Daniel B. Wallace, professore di Nuovo Testamento presso il Dallas Theological Seminary, nonché direttore esecutivo del Center for the Study of New Testament Manuscripts, uno dei massimi esperti al mondo dei manoscritti del Nuovo Testamento, quest’ultimo, nel rispondere alle solite argomentazioni di Ehrman sull’inaffidabilità dei manoscritti del Nuovo Testamento in nostro possesso e quindi sull’impossibilità di ricostruirne il testo originale, ha dato in anteprima una notizia che se confermata avrebbe praticamente dello straordinario. Secondo Wallace infatti sono stati recentemente scoperti, o meglio identificati, alcuni manoscritti, su papiro, contenti brani del Nuovo Testamento e databili al primo secolo d.C.

Come è noto, sinora eravamo in possesso solamente di alcuni frammenti del secondo secolo e nessuno del primo (se si escludono alcuni frammenti provenienti da Qumran, come il 7Q5, ma la cui identificazione è quantomeno dubbia). Tra questi manoscritti però, secondo Wallace, ce ne è uno in particolare, contenente una porzione del Vangelo di Marco, che potrebbe essere datato al primo secolo secondo alcuni noti paleografi, la cui identità non è stata resa nota, interpellati a tale proposito. Sarebbe, se se fosse vero, il più antico testimone testuale in nostro possesso! Wallace non è stato più preciso, aggiungendo che questo era quanto poteva al momento dire, ma che entro un anno sarebbe uscita, per i tipi della Brill, nota casa editrice scientifica, una edizione critica di questi frammenti con tutti i dati necessari. Inutile dire che un simile annuncio ha scatenato la curiosità di esperti e non esperti, che hanno cercato immediatamente di avere ulteriori notizie e conferme, soprattutto riguardo al frammento marciano databile paleograficamente forse al primo secolo d.C.

Le notizie a proposito sono tuttora scarse, ma qualcosa di più è filtrato. I frammenti ritrovati e identificati farebbero parte della Collezione Green, probabilmente la maggiore collezione privata al mondo di manoscritti di ogni epoca, molti dei quali non ancora studiati e catalogati. Sarebbero stati ritrovati all’interno dei bendaggi di alcuni resti mummificati la cui origine non è nota. I frammenti in questione sarebbero:
1. frammento del II secolo con Ebrei 1
2. frammento del II secolo con 1Corinti 8-10
3. frammento del II secolo con passi non meglio identificati di Matteo
4. frammento del II secolo con Romani 8-9
5. frammento del II secolo con parte di una lettera di Paolo, forse Ebrei
6. frammento del II secolo con passi non meglio identificati di Luca
7. frammento forse databile al I secolo con passi non meglio identificati di Marco.

Benché tutti questi frammenti, data la loro antichità, sono estremamente importanti, l’attenzione di tutti si è subito concentrata sul frammento di Marco, portando anche a ipotesi alquanto ardite sia sulla trasmissione testuale dei vangeli sia sulla affidabilità degli stessi. A questo proposito è bene pertanto mettere in chiaro alcuni punti. Innanzitutto si tratta solamente di un annuncio, peraltro vago, con troppi pochi dati a disposizione (ad esempio la grandezza e i contenuti di questo frammento) per poter formulare un giudizio che non sia avventato. Certo, Wallace è persona preparatissima e affidabile e nessuno si sogna di dargli del fanfarone, ma questi frammenti necessitano di essere analizzati dalla comunità scientifica prima di poter formulare un giudizio ragionato e condiviso, se mai peraltro sarà possibile farlo (come nel caso del famoso frammento 7Q5, per il quale non c’è accordo tra gli studiosi). Per il momento bisogna semplicemente prendere questa notizia con estrema cautela, necessaria anche perché la datazione paleografica non è mai una datazione precisa, ma ha sempre un margine di errore che può essere anche di decine di anni, così che tale frammento potrebbe risultare in effetti del secondo secolo.

Ipotizzando che venga confermata tale datazione bassa, ovvero che si crei un consenso accademico sulla datazione al primo secolo di questo frammento: quali sono le effettive conseguenze di questo? Cosa ne possiamo ricavare e cosa soprattutto non ne possiamo dedurre? Per quel che riguarda il primo aspetto, mi sembra non necessario insistere particolarmente su quanto un frammento del primo secolo d.C. possa essere importante quale testimone fisico e testuale. La sua importanza certo dipende anche dalla sua grandezza e dai suoi contenuti, tuttavia sembra indubbio che esso possa darci notizie preziose, così come del resto i restanti sei frammenti, sulla trasmissione testuale del Nuovo Testamento. Sappiamo che la maggior parte delle varianti sono state originate probabilmente entro il II secolo, così che riuscirne ad individuare di questo frammento e anche degli altri sei, rispetto a quanto attualmente in nostro possesso, potrebbe portare a individuare meglio ad esempio l’origine di alcune famiglie testuali o il modo in cui sono sviluppate, o al contrario potrebbe rafforzare l’ipotesi di una trasmissione testuale, in alcuni ambienti e tradizioni, sostanzialmente integra e fedele almeno all’interno del primo secolo o nella prima parte del secondo. Sarebbe questo un grande risultato.

E’ importante tuttavia anche sottolineare cosa non ci si deve aspettare da questo frammento: innanzitutto non ha alcuna relazione con il frammento 7Q5 sopra citato, non proviene infatti, per quanto è dato sapere, da Qumran e non può essere utilizzato per sostenere l’attribuzione marciana del 7Q5. Questo frammento non può essere preso come prova per una retrodatazione del Vangelo di Marco rispetto all’attuale data di composizione posta attorno al 70 d.C. L’analisi paleografica, così come quella filologica in generale, non possiede questa precisione a meno di indizi precisi presenti nel testo stesso, nel supporto o addirittura nell’ambiente in cui è stato ritrovato il reperto in esame. Nulla fa supporre che nel caso in questione vi siano indicazioni di questo genere (cosa che per questo genere di frammenti sarebbe più unica che rara). Ogni conclusione nel senso di una retrodatazione sarebbe pertanto del tutto arbitraria. Per quanto possa essere importante un frammento papiraceo così antico, esso non ha influenza sulla ipotizzata data di composizione del Vangelo di Marco, giacché oramai tutti gli esperti la collocano ben entro il primo secolo, attorno al 70 d.C. (senza contare le varie ipotesi di retrodatazione, che però al momento non sono riuscite a conquistare un consenso maggioritario in ambito accademico). Nulla di nuovo dunque può dirci questo frammento riguardo alla datazione di Marco. Altresì importante è sottolineare come quand’anche fosse confermata (con tutti i limiti noti che hanno queste datazioni) la datazione del I secolo, questo nulla ci dice sull’affidabilità dei Vangeli, ovvero sul loro contenuto. Ciò che al massimo questo frammento può dirci è in che misura già nel primo secolo la trasmissione testuale dei vangeli fosse più o meno integra e fedele (quantomeno rispetto al testo del Nuovo Testamento sinora ricostruito). Non è possibile inferire infatti da qualsiasi stadio della trasmissione testuale il grado di affidabilità di un testo, ovvero dei suoi contenuti, rispetto a quanto descritto nello stesso, ma solo eventualmente la sua maggiore o minore corrispondenza a un presunto originale che tra l’altro neppure possediamo e neppure siamo sicuri sia mai esistito. Per quanto si possa essere tentati di usare in maniera apologetica questa importantissima scoperta, si deve tenere ben presente che operazioni del tipo illustrate sopra sarebbero fallaci e fallimentari. Aspettiamo pertanto di poter leggere e studiare l’edizione critica di questi frammenti per poterli inserire in maniera adeguata all’interno della storia del Nuovo Testamento.

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Ecco perché i Vangeli sono un’opera di grande attendibilità storica


di Marco Fasol*
*docente di storia e filosofia

 

La rivelazione cristiana ha portato la più radicale rivoluzione etica della storia. L’amore è diventato il sentimento fondamentale. Le discriminazioni sono state superate, perchè ad ogni persona è stata riconosciuta la dignità di un figlio di Dio. Si è aperto per tutti noi un orizzonte di risurrezione, un senso per cui vivere. E’ dunque molto importante conoscere criticamente le fonti storiche di questa rivoluzione, che non si può ridurre solo ad un messaggio morale. Se gli adulti non sanno rispondere ai giovani quando chiedono: “Il Vangelo non è un mito? Una leggenda?” “La Chiesa ci ha imbrogliato?”, diventano responsabili, almeno in parte, delle loro crisi di fede. E’ chiaro che dobbiamo tener distinta la ricerca storica dalla scelta di fede. La fede nel Risorto non è subordinata alle ricerche storiche che saranno sempre approssimative e parziali. Milioni di persone hanno avuto una fede profonda pur senza conoscere niente delle documentazioni storiche che esamineremo. Tuttavia nella società contemporanea è indispensabile confortare la fede anche con una conoscenza razionale, capace di rispondere alle obiezioni ed alle critiche. Il fideismo, cioè una fede senza ragione, è il grande pericolo del nostro tempo. Un credente adulto deve conoscere almeno in sintesi quello che le scienze storiche ci dicono sulla sorgente della fede, che risulterà così purificata, non inquinata dal sospetto di falsificazioni o imbrogli.

Quali sono le fonti storiche su Gesù di Nazareth? Da due millenni i quattro vangeli canonici di Matteo, Marco, Luca e Giovanni sono stati considerati le fonti principali. Solo recentemente è sorta la questione dei vangeli apocrifi. Tuttavia ormai tutti gli storici competenti confermano l’attendibilità dei soli quattro vangeli canonici ed ora vedremo in base a quali criteri oggettivi, laici. Esamineremo in seguito invece i vangeli apocrifi. Un criterio importante è l’antichità delle fonti. La critica storica ottocentesca tendeva a collocare la stesura scritta dei vangeli canonici anche dopo duecento anni dagli eventi. Sembrava che i vangeli fossero “favole popolari”, amplificate e deformate dalla fantasia. Ma le recenti scoperte papirologiche e l’analisi linguistica del greco dei vangeli hanno imposto una datazione anteriore, molto vicina agli eventi, di origine ebraica. Cerchiamo dunque di ricostruire i fatti.

La morte di Gesù è avvenuta intorno all’anno trenta. Dopo di allora, gli apostoli sono rimasti a Gerusalemme circa trent’anni, per costituire la prima comunità cristiana, fedele agli insegnamenti del maestro. E’ la fase della predicazione orale. Nel giudaismo dell’epoca la tradizione orale veniva tramandata seguendo regole precise e rigide di fedeltà, parola per parola. Nelle scuole rabbiniche gli insegnamenti venivano imparati a memoria, con il controllo e l’autorità del maestro. E’ quindi verosimile che anche la prima comunità cristiana, costituita da ebrei, abbia seguito questa prassi di trasmissione fedele delle parole del maestro, fissate dall’autorità degli Apostoli. Fu raccolto così il materiale della cosiddetta Fonte Q, probabilmente scritta in ebraico, anteriore alla redazione scritta dei vangeli. Un passo ulteriore fu la traduzione dall’ebraico o aramaico in greco, la lingua parlata in tutto il mondo antico. A partire dagli anni Cinquanta presero dunque forma scritta i primi tre vangeli, detti sinottici, di Matteo, Marco e Luca. Il lavoro di redazione, in cui venivano collegate insieme le varie raccolte orali per arrivare alla versione definitiva, si colloca tra il 50 e il 70 d. C. Mentre il quarto vangelo, di Giovanni, venne redatto alla fine del primo secolo. Vediamone ora il perché.

Gli scritti evangelici si distinguono rispetto a tutti gli altri testi dell’antichità classica per una straordinaria ricchezza di manoscritti. Tutti i testi dell’antichità sono stati copiati a mano dagli amanuensi lungo i secoli, fino all’invenzione della stampa (nel 1450 circa). Questi manoscritti prendono il nome di papiri, codici, pergamene, rotoli, ecc. Quanto maggiore è il numero di manoscritti, tanto più si dice che l’opera è ben documentata. Ad esempio, dell’Iliade ed Odissea ci sono rimasti circa 600 manoscritti. Si tratta di un record. Infatti tutti gli altri capolavori antichi hanno un numero inferiore di manoscritti. Virgilio ne ha poco più di 100, Platone ne ha solo undici e così la maggior parte dei grandi autori dell’antichità. Tacito ne ha solo un paio e talora un unicum. Quando lo storico si domanda invece quanti siano i manoscritti del Nuovo Testamento (quattro Vangeli, Atti degli Apostoli, lettere paoline, lettere di Giovanni, Pietro, Giacomo, Giuda Taddeo, Apocalisse) rimane stupito dalla loro quantità. Abbiamo infatti circa 5.300 manoscritti greci, 8 mila latini, migliaia di traduzioni in lingue antiche quali armeno, siriaco, copto…! Complessivamente più di quindicimila manoscritti (l’elenco completo dei cinquemila manoscritti greci si può trovare in Nestle – Aland, “Novum Testamentum graece”, 27^ ed. Stuttgart, 1993, oppure nel testo di K. e B. Aland sotto citato). Il fatto più importante è che queste migliaia di manoscritti sono concordanti! Riportano cioè tutti lo stesso testo, parola per parola. Ovviamente ci sono errori ortografici o di trascrizione, come in ogni opera umana, ma questi errori non intaccano mai i contenuti fondamentali. Gli amanuensi hanno voluto rispettare con la massima fedeltà il testo originale, senza aggiungervi niente. Se nessuno dunque ha mai dubitato sull’autenticità di Platone o di Tacito, a maggior ragione nessuno dovrebbe dubitare sulla fedeltà di trasmissione dei testi evangelici che hanno migliaia di copie manoscritte. Si noti inoltre che ai più di 15 mila manoscritti bisogna aggiungere tutto il materiale delle citazioni degli scrittori cristiani dei primi tre secoli (i “Padri della Chiesa”) diffuse in tutto il mondo antico, dall’Europa, al nord Africa all’Asia: circa 20 mila citazioni!

E’ chiaro che i manoscritti sono tanto più preziosi, quanto più sono antichi. Anche qui il confronto con gli autori dell’antichità classica è impressionante. Si deve premettere che i manoscritti originali, autografi, scritti di propria mano dagli autori antichi, sono andati tutti perduti. Per lo stesso Dante non abbiamo il manoscritto autografo completo della Divina Commedia. L’autore classico che ha il manoscritto più antico è Virgilio; si tratta di una testo copiato circa 350 anni dopo la morte del poeta. Per tutti gli altri autori classici la distanza tra l’originale e il manoscritto più antico pervenutoci è molto superiore. Per Cesare, ad esempio, il codice più antico risale a 900 anni dall’originale. Per Platone ci sono 1300 anni tra originale e codice più antico. Quando invece gli storici studiano i manoscritti del Nuovo Testamento rimangono stupiti di fronte alla loro antichità. Possediamo centinaia di manoscritti che risalgono ai primi secoli. Per numerosi papiri la distanza tra testo autografo e manoscritto più antico si riduce a poche decine di anni. La datazione viene formulata in base a criteri paleografici (si conoscono le tipologie di scrittura nelle varie epoche), comparativi, archeologici e chimici. Per i manoscritti dei vangeli la documentazione risulta dunque estremamente più attendibile rispetto agli autori classici. I manoscritti più antichi sono: Papiro Rylands (P 52): forse il più antico documento dei Vangeli. Risale al 125 d. C. Fu ritrovato in Egitto e venne datato in base a criteri paleografici nel 1950 dal prof. Roberts. La datazione venne confermata dai maggiori filologi successivi. Quindi il Vangelo di Giovanni non poteva esser stato scritto, come dicevano alcuni studiosi, nel 150 o nel 200 d. C. ma fu scritto tra il 90 e il 100, perché per arrivare da Efeso (dove fu scritto l’originale) all’Egitto dovette intercorrere circa una generazione. Il papiro misura 9 x 6 cm, contiene 114 lettere greche. Papiro Bodmer II (P 66): venne pubblicato nel 1956. Contiene quasi per intero il vangelo di Giovanni. La pubblicazione suscitò grande scalpore tra gli studiosi; il papiro risale infatti a non oltre la metà del secondo secolo. E’ stato datato dal prof. H. Hunger di Vienna nel 1960. Questo manoscritto concorda perfettamente con i manoscritti maggiori del quarto secolo (Cod. Vaticano, Sinaitico, Alessandrino…). Dimostra così una fedeltà rigorosa nella copiatura degli amanuensi. Bodmer XIV, XV. (P. 75) del 200 d. C., papiro Chester Beatty II, (P 46, Bibl. di Dublino): 86 fogli, contiene 7 lettere di S. Paolo e risale al 70 circa ma potrebbe anche essere del II secolo. Vi sono poi i “codici maggiori” che contengono quasi per intero il Nuovo Testamento. Fra questi: il Codice Vaticano (B 03, Roma, Biblioteca Vaticana), 759 fogli; metà del quarto secolo. Il Codice Sinaitico, (01, Londra, Brit. Libr.) 346 fogli. Il Codice Alessandrino (A 02, Londra, Brit. Libr.) 773 pagine, metà quinto secolo. 15 manoscritti del III sec. 40 del IV sec. 43 del V sec.

Le ricerche filologiche degli ultimi anni hanno convinto numerosi scienziati che il frammento più antico in assoluto sia il Papiro P. 7 Q 5 (Rockfeller Lib. Gerusalemme), scoperto a Qumram, studiato da O’ Callaghan dal 1972 in poi. Contiene solo 11 lettere alfabetiche complete ed altre 8 parziali, disposte su 5 righe. Dallo studio di tutte le combinazioni possibili (una ricerca computerizzata ha analizzato tutte le combinazioni della letteratura greca del Thesaurus Linguae Graece dell’Università di California Irvine: 3.700 autori, 91 milioni di lettere) risulta che l’unica compatibile è quella di Mc 6, 52-53. Questo papiro risale al 50 d. C. (a soli 20 anni dai fatti), in base allo stile paleografico, che è il cosiddetto ornato erodiano, utilizzato fino al 50 d.C. In ogni caso tutti i manoscritti di Qumram non possono essere posteriori al 68 d. C., anno in cui la comunità essena venne massacrata dalla legione romana Fretensis, per cui le grotte con i testi vennero sigillate per evitare la distruzione dei codici. La decifrazione proposta da O’ Callaghan è stata però contestata da studiosi che non conoscevano ancora la prova informatica.

I manoscritti neotestamentari si trovano sparsi nelle più prestigiose Biblioteche tutto il mondo. Raccolte di particolare importanza si trovano nel monastero del Monte Athos (900 manoscritti), nel monastero di Santa Caterina nel Sinai, (300), a Roma (367), Parigi (373) Atene (419), Londra, San Pietroburgo, Gerusalemme, Oxford, Cambridge, Mosca e in molte altre località. Queste migliaia di manoscritti riportano tutti lo stesso testo evangelico, con una concordanza ammirevole. Essi garantiscono che ci troviamo di fronte al testo di gran lunga più controllato e documentato nella storia. Come ha scritto il celebre biblista card. Carlo Maria Martini: “Lo studio dei manoscritti è una vera e propria avventura scientifica condotta col sussidio di un’immensa e puntuale documentazione. E la scoperta fondamentale è sempre quella sorprendente di un testo che, nonostante il fluire dei secoli e le molteplici trascrizioni, si è conservato fedelmente, permettendo così agli studiosi e ai traduttori di farlo risuonare, intatto nelle nostre comunità e per i singoli lettori, credenti e no” (Kurt e Barbara Aland, “Il testo del Nuovo Testamento”, Marietti 1987, p. XII).

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La profezia delle “Settanta Settimane”: vaticinio della passione di Cristo?

Allontanando qualsiasi posizione catastrofista o apocalittica tipica di alcune sette cristiane e dei Testimoni di Geova, rimane comunque interessante domandarsi se la Bibbia contenga qualche tipo di profezia, essendo essa ispirata da Dio, come insegna la Chiesa. La tradizione cattolica, sempre molto realista, ha riconosciuto come veritiera in particolare la cosiddetta “Profezia delle Settanta Settimane”, contenuta nel Libro di Daniele (Dan 9,24-27).

E’ certificato che questa profezia sia conosciuta in questa forma sicuramente dal 167/164 a.C. (anche se alcune fonti portano al 500 a.C.). Essa dice testualmente: «Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città per mettere fine all’empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l’iniquità, portare una giustizia eterna, suggellare visione e profezia e ungere il Santo dei santi. Sappi e intendi bene. Da quando uscì la parola sul ritorno e la ricostruzione di Gerusalemme fino a un principe consacrato, vi saranno sette settimane. Durante sessantadue settimane saranno restaurati, riedificati piazze e fossati e ciò in tempi angosciosi. Dopo sessantadue settimane un unto sarà soppresso senza colpa in lui. Il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario. Egli stringerà una forte alleanza con molti per una settimana e, nello spazio di metà settimana, farà cessare il sacrificio e l’offerta. Sull’ala del Tempio porrà l’abominio della desolazione e ciò sarà sino alla fine, fino al termine segnato sul devastatore» (Dan 9,24-27).

Appena si legge di questo “unto soppresso senza colpa”, viene ovviamente in mente Gesù Cristo, La pretesa è dunque enorme: la profezia annuncerebbe, sicuramente oltre 100 anni prima, la passione di Gesù Cristo. Ma è davvero così? Approfondendo la questione si capisce che c’è un unico modo corretto per interpretare questa profezia e seguendo questa strada: i calcoli portano effettivamente al 32 d.C., viene identificato il “principe consacrato” (ovvero Esdra) e viene centrata perfettamente la data della distruzione di Gerusalemme e del Tempio (70 d.C.).  La questione è dunque scottante, se fosse così sarebbe una prova dell’ispirazione divina del profeta.

Per questo motivo, su questa profezia si è scatenato il finimondo, il razionalismo illuminista ha agitato così tanto le acque che perfino gli esegeti cattolici post-conciliari si sono intimoriti nel proseguire con il giudizio della tradizione cattolica e, improvvisamente, hanno ritenuto questa profezia un “vaticinio post-eventum”, ovvero una profezia scritta dopo i fatti (dunque falsa). Essa non parlerebbe di Gesù ma di Onia III. Aprendo la Bibbia di casa infatti (quelle recenti), tutti possono osservare nelle note sotto questa profezia l’interpretazione moderna, razionalista. Eppure, nel nostro approfondimento, abbiamo rilevato come non sia possibile affermare l’interpretazione (le interpretazioni) razionaliste senza cadere in errori storici e di banale calcolo matematico. Inoltre, tutte le alternative proposte si scontrano con il fatto che Gesù stesso si riconobbe nella profezia di Daniele. Infine, un sostegno all’ipotesi tradizionale arriva anche dagli esseni (ovvero dalle grotte di Qumran) e dagli scritti dello storico ebreo Giuseppe Flavio.

Per chiunque voglia approfondire tutto questo, annunciamo dunque il nostro nuovo dossier, inserito nell’area “Fede e Storicità”La profezia delle “settanta settimane”

 

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L’abbondanza di graffiti scoperti in Israele rafforza l’attendibilità dei Vangeli

Il dibattito sull’autenticità dei Vangeli si sofferma spesso sulla questione se Gesù predicò ad una popolazione quasi del tutto analfabeta o se i suoi ascoltatori avessero la possibilità di prendere appunti scritti. Chi vuole indebolire l’affidabilità dei Vangeli opta ovviamente per la prima opzione: se la popolazione era analfabeta solo tradizione orale ha conservato le sue parole e quindi c’è ampia possibilità di aggiunte e modificazioni, in buona o cattiva fede. Al contrario, coloro che credono nell’affidabilità dei Vangeli, tendono a sottolineare che la società ebraica, legata alla profonda conoscenza della Bibbia, aveva senza dubbio numerose persone capaci di scrivere e prendere appunti, anche tra gli apostoli stessi (Matteo era un esattore delle tasse, ad esempio).

Ancora una volta però è il progresso dell’archeologia ad offrire sostegno ai difensori dell’attendibilità dei Vangeli. Infatti, esistono sempre più prove che la popolazione ebraica era abbastanza alfabetizzata. In questa linea si trova l’archeologo israeliano Boaz Zissu, professore della Bar Ilan University, ex comandante delle unità di protezione delle antichità in Israele, specializzato in graffiti. Proprio l’alto numero di graffiti trovati in Israele è una testimonianza del modesto tasso di alfabetizzazione della società. Dice al “The Jerusalem Post”: «”Quando parliamo di alfabetizzazione, i graffiti ci mostrano che la capacità di leggere e scrivere era condivisa da una percentuale molto elevata della popolazione». Certo, sono semplici frasi, a volte brevi citazioni delle parole di Gesù, oppure preghiere o semplici disegni, tanto che l’archeologo paragona questo modo di esprimersi a Twitter o a Facebook: «In un periodo in cui Internet e i blog non esistevano, qualcuno ha voluto esprimersi e dire quello che stava facendo con un chiodo su una parete di una caverna».

Ricorda ad esempio di aver trovato in una grotta il nome di Daniele seguito da quello di Giovanni, circondati dalle immagini di due leoni, evocativo del racconto biblico “Daniele nella tana dei leoni”. «Abbiamo un sacco di raffigurazioni di Daniele con i leoni», dice Zissu, «perché è la storia della salvezza».

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