L’uomo, il linguaggio e la sua irriducibilità

LinguaggioI linguisti dibattono da tempo se i bambini realmente capiscono la grammatica che stanno utilizzando o stanno semplicemente memorizzando e imitando gli adulti. Un nuovo studio della University of Pennsylvania ha fatto luce su questo: i bambini, dai 2 anni in poi capiscono le regole grammaticali di base appena imparano a parlare, ma non lo fanno semplicemente come imitazione degli adulti.

I ricercatori hanno poi applicato la stessa analisi statistica sui dati di uno dei più famosi esperimenti di acquisizione-linguaggio negli animali (Project Nim), rilevando che gli scimpanzé a cui è stato insegnato il linguaggio dei segni nel corso di molti anni, non hanno mai afferrato le regole grammaticali che invece appaiono innate nei bambini di 2 anni. La conclusione tratta è molto semplice e contraria ad ogni scienza riduzionista: l’apprendimento della lingua è una caratteristica unicamente umana.

Filippo Tempia, ordinario di Fisiologia presso l’Università di Torino e direttore di un laboratorio di ricerca presso il Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi ha a sua volta spiegato che «negli animali manca completamente un omologo del linguaggio umano» (Complessità, evoluzione, uomo p. 192). Come già messo in luce dal biologo evoluzionista americano Marc Hauser, esiste un «divario fondamentale e senza precedenti» nell’evoluzione dell’uomo e dell’animale.

Esiste cioè una irriducibilità dell’uomo al suo substrato chimico, biologico e genetico, egli è ontologicamente differente da qualsiasi cosa lo circondi. L’uomo non è un animale semplicemente più evoluto, ma appartiene ad un’altra dimensione che non deriva dal graduale operare della selezione naturale nel corso del tempo (anche perché l’evoluzione non procede in modo graduale e la selezione naturale non è la sua unica protagonista).

Un’altra notizia recente circa il linguaggio riguarda la scoperta di una lingua comune e madre, un idioma arcaico nato probabilmente dalle parti dell’Anatolia o del Caucaso, comune a tutti i popoli dell’Europa e dell’Asia e di cui esistono ancora oggi delle tracce.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

La centralità dell’uomo e la discontinuità con l’animale

Evoluzione FacchiniPoco prima di Natale, il quotidiano della Santa Sede, l’Osservatore Romano, ha pubblicato un estratto del nuovo libro dell’antropologo e paleontologo Fiorenzo Facchini, professore emerito di Antropologia dell’Università di Bologna, intitolato: Evoluzione. Cinque questioni nel dibattito attuale (Jaca Book 2012).

Facchini inquadra inizialmente la questione-chiave riconoscendo che «quando si affronta il tema della evoluzione ciò che riguarda l’uomo assume sempre un particolare interesse. Ammettere che anche noi abbiamo una storia che ci ha preceduti non come uomini, ma come membri di un raggruppamento animale suscita non di rado qualche difficoltà. Nello stesso tempo riconoscere le origini animali dell’uomo per taluni ha come conseguenza ovvia che siamo animali come gli altri», tanto che c’è «una fitta schiera di antropologi, zoologi ed etologi che accentuano la condizione biologica che accomuna l’uomo con gli animali e vogliono mettere in ombra o non riconoscere la specificità umana».

L’uomo è una scimmia più intelligente, si legge o si sente dire frequentemente dalla vulgata riduzionista. »Si ha l’impressione», commenta Facchini, «che alcuni abbiano quasi pudore a riconoscersi uomini, differenti dagli animali, il timore di cadere in un sorta di etnocentrismo». Sembra quasi che l’uomo debba scusarsi di essere uomo, notava G.G. Simpson, ma «questo atteggiamento appare più ideologico che scientifico, si ispira a una filosofia decisamente riduzionista». Anche Darwin stesso ha parlato di continuità e gradualità evolutiva come ipotesi dell’esistenza di differenza soltanto di grado fra l’uomo e l’animale, ma «questa affermazione appare più propriamente di carattere filosofico, nella linea del naturalismo riduzionistico e non tiene adeguatamente conto di ciò che è specifico del comportamento umano, che appare qualitativamente diverso, perché caratterizzato dalla cultura, pur nella continuità biologica tra ominide non umano e uomo».

L’estratto del libro prosegue indicando l’attuale datazione dell’apparizione dell’uomo moderno o Homo sapiens (in Africa circa 150.000 anni fa), sottolineando che «è soprattutto sulle discontinuità che può essere sviluppato il discorso per cogliere l’identità dell’uomo come specie. Esse riguardano essenzialmente il comportamento che manifesta aspetti e interessi che non sono più di ordine biologico. La maggiore discontinuità nel comportamento dell’uomo rispetto all’animale viene ritenuta da molti il linguaggio simbolico», e «le manifestazioni dell’arte e le pratiche funerarie», nelle quali «si dimostra chiaramente una discontinuità rispetto al mondo animale. Esse non appartengono propriamente alla sfera biologica. La cultura si caratterizza come capacità di progetto e di simbolo, entrambi rivelatori di intelligenza astrattiva, di coscienza e autodeterminazione». Altri esempi possono essere le manifestazioni che rivelano senso estetico o religioso, i prodotti della tecnologia strumentale e della organizzazione del territorio, direttamente legati a strategie di sussistenza, i quali «rivelano intelligenza astrattiva nel prefigurare lo strumento che si vuole ottenere proiettandolo nel futuro e, quindi, capacità di progetto.»

La discontinuità culturale, inoltre, si documenta grazie al «simbolismo di ordine spirituale, svincolati da necessità di ordine biologico, espressioni di una vita sociale più intensa e di interessi extrabiologici, come quelli riferibili alla sfera dell’arte e della religione». L’adattamento culturale, oltre a quello biologico è proprio soltanto dell’uomo e indica «la capacità progettuale e innovativa che caratterizza il comportamento umano. Nel caso dell’uomo la differenza è rappresentata dal fatto che non è un comportamento stereotipo, dettato dal Dna o dall’imprinting o da altri fattori non intenzionali, ma è un comportamento pensato e trasmesso anche per via non parentale, che può anche andare contro l’interesse dell’individuo o della specie. L’uomo ha la capacità di intervenire nei processi di adattamento modificando sia l’ambiente per adattarlo a sé, sia il proprio comportamento per adattarsi all’ambiente. Di conseguenza l’uomo ha la possibilità di modificare e anche contrastare intenzionalmente la selezione naturale operata dall’ambiente. Ciò rappresenta un caso unico nella natura».

In questo senso, si conclude, «la centralità che la teoria darwiniana toglie all’uomo, considerandolo come un evento fortuito, gli viene restituita dalla sua unicità nella responsabilità che ha nella gestione dell’ambiente. La discontinuità culturale e la discontinuità ecologica suggeriscono una discontinuità di altro ordine, di carattere ontologico, sul piano dell’essere, che invece non viene ammessa in una concezione riduzionista, secondo la quale lo psichismo riflesso e la coscienza sono ricondotte all’attività neuronale e ai geni. A nostro modo di vedere le differenze espresse dal comportamento culturale non sono della stessa natura di quelle fisiche, cioè quantitative, ma qualitative, perché si collocano a un livello diverso da quello biologico e implicano proprietà che non sono riconducibili a quelle di ordine fisico, chimico o biologico. L’autocoscienza, come capacità di riconoscere sé e gli altri, come consapevolezza di esistere è propria dell’uomo. Nell’autocoscienza c’è la capacità di abbracciare il passato e il futuro, oltre al presente, non in termini deterministici. L’uomo sa e sa di conoscere, pensa e sa di pensare». Il pensiero, la coscienza, la libertà, il senso morale e religioso esprimono un’attività intrinsecamente non determinata da proprietà biologiche e sono esclusivi dell’uomo.

«Certamente c’è un rapporto o interfaccia tra sfera biologica e sfera mentale, tra sentimenti e reazioni sul piano biologico neuronale, tra comportamenti e stimolazioni esterne», afferma Facchini, ma «il divario ontologico non comporta separazione, ma distinzione sul piano dell’essere, con interazione o interfaccia tra sfera biologica e sfera mentale». Il pensiero di Facchini risulta così essere in linea con quello del genetista Theodosius Dobzhansky, coautore della sintesi moderna, il quale ha affermato: «La diversità degli organismi diviene ragionevole e comprensibile se il Creatore ha creato il mondo vivente non per capriccio, ma attraverso l’evoluzione spinta dalla selezione naturale. E’ sbagliato ritenere creazione ed evoluzione come alternative che si escludono a vicenda. Io sono un creazionista e un evoluzionista. Evoluzione è il modo con cui Dio e Natura creano» (T. Dobzhansky, Nothin in Biology Makes Sense except in the Light of Evolution, The American Biology Teacher, 1973, p.129).

 

Qui sotto la presentazione del libro al Meeting di Comunione e Liberazione nell’agosto 2012

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Il darwinismo non ha detronizzato l’uomo, egli resta irriducibile


 
di Francesco Agnoli*
*scrittore e saggista

 
 

Occorre premettere, anzitutto, che Darwin è meglio non venga arruolato da nessuno. Coloro che lo hanno fatto, in passato, per darsi un’aura di scientificità, non gli hanno reso un grande servizio. Penso all’entusiasmo per il darwinismo di Galton, fondatore dell’eugenetica; o a quello di Marx, di Stalin e di Lenin, che videro nell’evoluzionismo la conferma del loro materialismo; a quello dei social-darwinisti e dei biologi guerrafondai di primo Novecento, soprattutto in Germania; a quello di Benito Mussolini che a Trento, nel 1908, in occasione dell’inaugurazione di una statua al darwinista Canestrini, rivendicava la scientificità dell’ateismo in nome, appunto, del naturalista inglese. E’ anche a causa di queste appropriazioni, non poco ideologiche, delle ipotesi darwiniane, che ancora oggi la discussione è spesso più ingarbugliata del previsto.

Fatta questa breve premessa, vorrei sostenere quello che mi sembra un concetto innegabile: nonostante il tentativo insistente e forzato di alcuni darwinisti di stabilire una continuità netta, totale, assoluta, tra l’animale e l’uomo, continuità del resto suggerita da Darwin stesso ne L’origine dell’uomo, non vi sono ancor oggi prove di tutto ciò. Anzi, quello che sappiamo ci indica una evidente discontinuità. Per l’uomo contemporaneo, come pure per Sir Alfred Wallace, colui che insieme a Darwin illustrò per primo al mondo la moderna teoria evolutiva, rimangono ancora inspiegate la pelle glabra, l’andatura bipede, la stazione eretta e la volumetria del cervello: tutte caratteristiche proprie dell’uomo e non dei primati, per giustificare le quali gli evoluzionisti hanno portato svariate argomentazioni, sempre divergenti e contrastanti tra loro.

Ma soprattutto rimane a tutt’oggi innegabile l’esistenza di un salto ontologico incolmabile tra l’animale e l’animale-uomo. Questo perché, se da una parte è dimostrabile che molte caratteristiche animali sono presenti nell’uomo, come del resto si è sempre pensato anche prima di Darwin, dall’altra è ugualmente provato che una serie di facoltà sono invece peculiari e distintive dell’uomo e solo di lui: il pensiero, l’idea di Dio, il linguaggio, il senso morale, la libertà, l’altruismo…tutte facoltà non giustificabili alla luce della pura evoluzione, che lo scienziato ateo Edoardo Boncinelli ha catalogato abilmente come “incidenti congelati”, cioè come avvenimenti fortuiti, casuali, che non sappiamo spiegare, e che pure esistono. Catalogazione, lo si comprende facilmente, che nasconde, dietro una formula brillante, ma vuota, la cruda verità e cioè l’irriducibilità dell’anima umana a meccanismi puramente materiali ed evolutivi, tanto più se casuali.

Tra gli oratori del Darwin day di Ancona nel 2009, vi era il biologo evolutivo Vincenzo Caputo, dell’istituto di Biologia e Genetica dell’università Politecnica delle Marche, che si considera certamente un grande estimatore di Darwin, e con cui ho avuto modo spesso di discutere via email. Ebbene, Caputo è autore di un breve saggio “Mente e coscienza negli animali: un excursus etologico”, in cui si prendono le distanze dalle forzature di quegli etologi che tentano di equiparare ogni capacità umana con una analoga facoltà animale, finendo appunto per identificare animali ed uomini, e, a seguire, diritti animali e diritti umani. Il leit motiv di questi etologi darwinisti è che ogni differenza tra animali e uomini sia solo quantitativa, e cioè colmabile, e non qualitativa. Eppure scrive Caputo, «non occorre riflettere a lungo per riconoscere la differenza qualitativa essenziale tra il padroneggiare le pratiche del calcolo differenziale o la trigonometria, da una parte, e il saper apprezzare la differenza tra due muchi di caramelle (come sanno fare determinate bestie, ndr), dall’altra”. Analizzando le differenze tra il linguaggio animale e quello umano, Caputo, riprendendo un celebre linguista, scrive che proprio la parola rappresenta ancora oggi «il nostro Rubicone che nessuna scimmia potrà attraversare». Infatti, «nonostante un filone di ricerca etologica intrapreso fin dai primi del Novecento, a tutt’oggi non sono stati scoperti chiari equivalenti del linguaggio umano (cfr. Deacon, 1992, 2000)».

«Anche il tentativo -continua Caputo- di insegnare a primati superiori linguaggi simbolici semplificati (sia il linguaggio americano dei segni, sia l’uso di lessigrammi) ha evidenziato le difficoltà di apprendimento apparentemente insuperabili nel passaggio dalle associazioni condizionate a quelle simboliche (Deacon, 2001). In effetti, l’insegnamento del linguaggio dei segni agli scimpanzé sembrava inizialmente indicare una notevole competenza linguistica di questi primati. Tuttavia, verifiche successive basate sull’esame al rallentatore di filmati eseguiti durante le sessioni di addestramento, rivelavano che la maggior parte dei segni formulati dalla scimmia erano suggeriti inconsciamente dai suoi stessi insegnanti e che l’animale non faceva altro che imitarli nell’intento di ottenere un premio. Altrettanto controversi sono risultati i test in cui si insegnava a degli scimpanzé a disporre dei lessigrammi secondo un ordine prescritto, in modo da formare “frasi” e ottenere premi: gli scimpanzé impararono tutti a maneggiare una certa quantità di simboli, svelando un’impressionante capacità cognitiva. Ma rimane tutt’altro che chiaro se in qualcuno di questi casi di uso dei simboli ci fosse una reale comprensione dei simboli stessi. Ed è proprio “la differenza fondamentale fra l’usare i simboli e il comprenderli a costituire la discontinuità fra gli animali e gli umani, e ciò che porta alla manifesta ed enorme distanza fra le richieste automatiche delle scimmie addestrate al linguaggio e ai voli concettuali degli umani” (Budiansky, 2007). In definitiva, la diversità fra comunicazione umana e animale emersa dagli studi etologici rende difficile tracciare le origini evolutive delle parole facendole risalire a un precursore animale. La maggioranza degli autori sembra invece ipotizzare che il linguaggio si sia originato dopo il distacco della diramazione ominide dagli altri primati (Hauser, 2002; Mithen, 2007) e che costituisca un istinto, una dotazione specie specifica innata che sarebbe rintracciabile soltanto nell’uomo (cfr. Pinker, 2007)…».

Concludendo il suo studio il professor Caputo attribuisce a Dawin il merito di averci lasciato «la consapevolezza che noi umani siamo inestricabilmente (= filogeneticamente) legati agli altri animali. Questo dato scientifico ci rende “meno soli” nell’universo, anche se la nostra peculiarità cognitiva esalta innegabilmente la distinzione di Homo sapiens entro il mondo animale. Una variante del dualismo cartesiano sembra perciò resistere (umano vs animale), malgrado le ingegnose indagini di quegli etologi e psicologi evolutivi che tentano di colmare l’abisso cognitivo che ci separa dagli altri animali. Pinker (2007) ha giustamente fatto rilevare che gli sforzi di questi ricercatori…sono destinati a uno scontato fallimento.

L’altra eredità darwiniana che ha profondamente inciso sulla nostra visione della natura è il “gradualismo”, cioè l’idea secondo la quale l’evoluzione si verificherebbe secondo un costante e continuo passaggio tra forme di vita impercettibilmente diverse: per Darwin infatti le specie non esistono, se non come costrutti metafisici della mente umana. In realtà, le ricerche svolte nel corso del Novecento hanno chiaramente dimostrato che le specie sono “prodotti” reali della natura e il meccanismo che le crea è la cladogenesi o speciazione, che Darwin non aveva pienamente compreso (cfr. Mayr, 1990). Ed è proprio la speciazione che, generando in perpetuo discontinuità fra gli organismi, tende a saturare quelle opportunità ecologiche che il divenire del Pianeta offre costantemente alla vita. Se il cambiamento evolutivo si verificasse, come Darwin pensava, esclusivamente secondo la modalità del gradualismo filetico, che può solo modificare una stessa linea di discendenza, la vita prima o poi perirebbe sotto i colpi spietati dell’estinzione.

Questa visione gradualistica del processo evolutivo, enfatizzando la continuità uomo-animale (cfr. Rachels, 1996), ha inoltre fornito all’attuale movimento animalista un potente argomento a favore dei “diritti animali”. I più accesi sostenitori della filosofia animalista hanno addirittura introdotto il termine “specismo” per stigmatizzare la discriminazione nei confronti dei “non-umani”, sottolineando che questa attitudine discriminatoria è simile al razzismo e al sessismo (cfr. Rachels, 1996). Secondo uno dei massimi esponenti del movimento di “liberazione animale”, così come il razzista attribuisce maggior peso agli interessi della sua etnia e il sessista a quella del suo sesso, “lo specista permette che gli interessi della sua specie prevalgano su interessi superiori di membri di altre specie” (Singer, 2003). L’animalismo più avanzato si è poi dedicato al cosiddetto “Progetto Grande Scimmia”, esposto in un libro che esordisce col seguente proclama “Noi chiediamo che la comunità degli eguali sia estesa a includere tutti i grandi antropoidi: esseri umani, scimpanzè, gorilla e oranghi” (citato in Castignone, 1997; cfr. anche Marks, 2003). Non c’è chi non veda in questo vero e proprio fanatismo zoofilo la forma più estrema di antropomorfismo. Attribuendo infatti diritti agli animali ed elevandoli di conseguenza a membri della comunità morale, li vincoleremmo a obblighi che non possono né comprendere né tantomeno ottemperare. Perseverando in questa assurda pretesa, si arriverebbe al paradosso per cui una volpe dovrebbe rispettare il diritto alla vita del pollo e intere specie sarebbero condannate ipso facto all’estinzione in quanto creature istintivamente criminali (Scruton, 2007, 2008)!».

«In realtà– conclude Caputo- pur nella piena consapevolezza del vincolo filogenetico che ci unisce agli altri animali, mi sembra pura cecità ideologica non voler vedere le incommensurabili differenze cognitive che ci separano da essi, come lucidamente sostenuto dal più grande biologo evolutivo del Novecento, Ernst Mayr (1904-2005): “L’ondata di sgomento per la “detronizzazione” dell’uomo non si è ancora placata. Privare l’uomo della sua condizione di privilegio, come imponeva la teoria della discendenza comune, fu il primo effetto della rivoluzione darwiniana, ma, non diversamente da altre rivoluzioni, anch’essa finì con l’andare troppo oltre, come dimostra l’affermazione fatta da alcuni estremisti, secondo cui l’uomo non è “niente altro” che un animale. Ciò naturalmente non è vero; certamente, da un punto di vista zoologico, l’uomo è un animale, ma un animale unico, che differisce da tutti gli altri per così tanti aspetti fondamentali da giustificare una scienza separata specificamente dedita al suo studio. Fermo restando questo punto, non si deve dimenticare in quanti modi, spesso insospettati, l’uomo riveli la sua ascendenza. Nel contempo l’unicità dell’uomo giustifica in qualche misura un sistema di valori riferito all’uomo e a un’etica antropocentrica. In questo senso una forma profondamente modificata di antropocentrismo continua a essere legittima” (Mayr, 1990, pag. 384)».

L’unicità dell’uomo, l’antropocentrismo biblico: questo è quello che un credente difende senza possibilità di arretrare, e che “il più grande biologo evolutivo del Novecento”, riconosce. Perché è solo questa unicità che salva l’uomo dal non senso, e che gli attribuisce quella dignità che gli ha permesso di dominare la natura, di alzare gli occhi al cielo, di interrogarsi sul senso dell’esistenza, di costruire, in ogni tempo necropoli e sepolcri, nella convinzione che solo le bestie sono destinate a divenire per sempre polvere e terra. Nessun darwinismo, per quanto ideologico e agguerrito, potrà mai scalfire questa verità, autoevidente da quando l’uomo esiste; autoevidente, potremmo dire, come il concetto per cui l’uomo comprende in sé la natura animale, mentre l’animale, al contrario, non è in grado di farlo.

Alla luce di queste considerazioni, anche l’espressione di Mayer, secondo cui il darwinismo avrebbe “detronizzato” l’uomo, è solo un tributo ad un certo darwinismo ideologico negato subito dopo, con l’affermazione della unicità dell’uomo. Bastava già Aristotele, senza Darwin per dirci che l’uomo è anche animale; bastava la narrazione del genesi, con la terra vivificata dal soffio di Dio creatore a renderci consapevoli della nostra natura anche animale, anche mortale. Anche, appunto…ma non solo. Nè Copernico, come si usa spesso dire, né Marx, né Darwin, né Freud, hanno dunque in alcun modo detronizzato l’uomo, se non nella lettura ideologica di chi vuole negare la sua dignità, la sua anima, per negare, al contempo, Dio i valori.

Da Scritti di un pro-life (Fede&Cultura 2009)

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Scienziati si accorgono che l’uomo è uomo e la scimmia è scimmia

Pochi mesi fa il filosofo laico Raymond Tallis ha scritto un articolo interessante contro il biologismo: «Il mondo accademico è attualmente in preda a un’epidemia, uno strano e preoccupante biologismo, che ha anche catturato l’immaginazione popolare. Scienziati e filosofi credono che nulla di fondamentale separi l’umanità dall’animalità». Questo biologismo, secondo Tallis -uno che è membro della  British Humanist Association e ha firmato nel 2010 una lettera aperta contro la visita di Benedetto XVI nel Regno Unito- si manifesta in due modi: «uno è l’affermazione che la mente è il cervello o l’attività del cervello», l’altro è «l’affermazione che il darwinismo spiega non solo come l’organismo dell’Homo sapiens sia nato, ma anche ciò che motiva il comportamento delle persone giorno per giorno», ovvero il riduzionismo genetico 

Tallis indica nuovi studi e nuovi libri che sempre più contrastano queste visioni neopositiviste, chiedendosi se queste pubblicazioni siano «un indicatore del fatto che questo potente edificio filosofico stia iniziando a cadere a pezzi, ci aspetta «un futuro migliore in cui il compito di cercare di dare un senso a ciò che siamo non venga ostacolato da uno scientismo riduttivo che ci identifica con l’attività del cervello evolutosi per servire il successo evolutivo? Spero di sì». Chiude poi ovviamente da laico: «Anche se non siamo angeli caduti dal cielo, non siamo solo macchine neurali. Né siamo meramente scimpanzé eccezionalmente intelligenti».

Come spiegava Francesco Agnoli qualche tempo fa su questo sito, c’è un chiaro progetto anti-teista che «non si rassegna a negare Dio», ma vuole «ridurre l’uomo ad un elemento della natura, equivalente ad un sasso o un albero; ridurlo via via a frutto del Caso, a un “esito inatteso”, a una “eccezionale fatalità”, a un aggregato di materia senz’anima, a un meccanismo geneticamente determinato». Negare Dio ha sempre significato negare l’uomo e la sua unicità: ecco che i neodarwinisti, strumentalizzando il darwinismo, lo hanno quindi tentato di livellare alla scimmia, informando che il nostro patrimonio genetico è condiviso al 99% con lo scimpanzé, ma evitando di dire che per l’80% è  in comune con un verme di 1 mm (Caenorhabditis elegans), il 50% è condiviso invece con il dna della banana, e abbiamo lo stesso numero di geni della gallina. Secondo i riduzionisti, dunque, saremmo per l’80% dei vermi e per il 50% delle banane.

Vale la pena comunque notare i risultati di studi in cui gli scimpanzé vengono confrontati con i bambini, come ad esempio quello appena pubblicato circa la cultura cumulativa: i ricercatori hanno addestrato scimpanzé a risolvere dei puzzle e poi a dimostrare le tecniche ad altri scimpanzé. Ma essi non hanno imparato, al contrario di un gruppo di bambini della scuola materna. Affermano: «Gli scimpanzé possono imparare gli uni dagli altri, ma la loro conoscenza non sembra accumularsi e diventare più complessa nel corso del tempo», e questa è una «caratteristica degli esseri umani, che ha dato luogo a realizzazioni come i computer e la medicina moderna». Concludono basiti gli studiosi: «Le differenze tra gli esseri umani e le altre specie sono in realtà più forti di quanto avessimo immaginato prima di avviare questo test». Caspita, ci volevano proprio degli scienziati per fare questa incredibile deduzione! Chi lo dice ora a Telmo Pievani che è stato messo un altro tassello per l’emancipazione dell’uomo dalla scimmia?

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Sottolineare la differenza tra l’uomo e l’animale è sempre più necessario

Esiste oggi una forma di animalismo sfrenato che è davvero deleteria. Non si parla certo di chi difende e protegge gli animali dalla inutile violenza, cosa di grande valore e sensibilità, ma l’accusa è verso quella forma di fanatismo che diventa un vero accanimento verso l’uomo, ritenuto “cancro del pianeta”, un ritorno al panteismo o alla devozione di una Terra Madre (Gea). Ovviamente la componente laicista della società ne approfitta per diffondere il riduzionismo dell’uomo all’animale, si veda ad esempio il pensiero di Singer, Dawkins, Zapatero, Hack, Veronesi. Proprio quest’ultimo ha parlato qualche giorno fa di scimmie come «nostri fratelli e sorelle». Il loro scopo è sempre lo stesso: denigrare la Creatura per negare il Creatore. Contro questo isterico eco-animalismo si è scagliato di recente il filosofo laico Fernando Savater.

E’ evidente che oggi, purtroppo, difendere l’eccezionalità dell’uomo viene oggi visto come una discriminazione diretta degli animali, un preludio per una loro discriminazione. Ma questa è una deduzione folle e completamente ingiustificata: esistono tantissimi cattolici vegani, vegetariani e ambientalisti e con maggiore sensibilità di altri circa le sorti del Creato. Cattolici che si battono per interrompere le crudeltà verso i suini e cattolici che propongono l’ambientalismo blu, altri invece che preferiscono usare il loro tempo per assistere gli uomini, i bambini, gli anziani e gli ammalati. Ognuno fa il suo, senza nessuno fondamentalismo, senza voler paragonare l’uomo all’animale (anzi, solo certi animali, quelli più teneri) o estendere loro i diritti umani. Questa è pura antropomorfizzazione.

In proposito, il filosofo Tommaso Scandroglio ha ottimamente commentato una recente vicenda giudiziaria tra alcune orche e i proprietari di tre grandi parchi acquatici americani. Gli avvocati di Peta (People for Etichal Treatment of Animals) hanno trascinato in giudizio questi ultimi perché le orche sono ridotte in schiavitù dato che sono state tolte dal loro ambiente naturale, sono costrette a nuotare in piccole vasche e obbligate – come se fossero lavori forzati – ad esibirsi per il divertimento di noi uomini. Questo cozzerebbe con il 13° emendamento della Costituzione americana che vieta la schiavitù e i lavori forzati. Le orche, dicono, non devono essere lese nella loro libertà “personale”, ma devono far ritorno nell’Oceano. I giudici hanno tuttavia respinto la richiesta stabilendo che l’emendamento si applica solo agli esseri umani: «Nella storica frase “We the people…” (“Noi, il popolo…”) nessuno alludeva alle orche». Attenzione: certamente ci sono situazioni in cui in questi parchi acquatici gli animali vengono maltrattati, e quindi è opportuno vigilare come fanno questi attivisti, ma è la strategia usata ad essere assurda, proprio in quanto si è tentato di difendere gli animali paragonandoli agli uomini.

 

Il filosofo ha fatto alcune considerazioni molto interessanti da cui abbiamo preso spunto per smontare questa ideologia fanta-ecologista disumana, nel vero senso della parola.

1) PERCHE’ SOLO ALCUNI ANIMALI? PERCHE’ NON LE PIANTE?  “Le orche hanno dei diritti”, dicono. E’ possibile essere d’accordo, ma a patto che per non discriminare nessuno dovremmo riconoscere dei diritti non solo ai tenerissimi panda, ma anche a pulci, zecche, pidocchi, ragni, piccioni, topi, scarafaggi, formiche, mosche, zanzare ecc. Ma anche i batteri appartengono al regno animali, dunque se l’animale vale quanto l’uomo dovremmo smettere di curarci l’influenza o l’HIV? Bisognerebbe che questi militanti smettessero anche di girare a piedi o in auto per le loro battaglie, dato che ogni loro movimento comporta il massacro di milioni di animali (sotto le scarpe, sul parabrezza ecc.). E perché poi discriminare le piante? Questi fanatici, aggressivi verso chi non è vegetariano, fanno scorpacciata di vegetali, anche se è dimostrato che vi sia in essi attività neurologica e, addirittura, gli ortaggi comunicherebbero tra loro lanciandosi richieste di aiuto. Magari quando scorgono in lontananza Michela Brambilla o Margherita Hack? Il diritto delle piante dove va a finire?

2) ESTENDERE LORO ANCHE DIRITTI MINORI? Se le orche hanno diritto alla libertà ciò comporta necessariamente riconoscere riconoscere loro anche diritti minori o di pari importanza: diritto di compravendita, di voto, alla pensione, di coniugio, etc. Tutte modalità attraverso cui la libertà di un individuo si esprime e che quindi non possono essere negate.

3) RICADUTE TRAGICOMICHE? Se la sentenza americana avesse avuto esito positivo le ricadute sarebbero state tragicomiche: obbligo di tutti i possessori di bocce in vetro contenenti pesci rossi di sversare il contenuto in mare o nel lago. Anche cardellini, fringuelli, pappagalli e canarini avrebbero visto aprirsi le porte delle loro gabbiette a motivo di questo animalesco indulto (per entrambe le specie ovviamente il risultato sarebbe stato la morte improvvisa dato che sono animali domestici). Da qui ovviamente il divieto perpetuo di trasmettere il cartone animato Gatto Silvestro perché il canarino Titty dietro le sbarre avrebbe sicuramente configurato apologia di reato. Infine il dubbio: forse che anche l’amato cane Fido implicitamente ci chiede di lasciarlo in mezzo ad una strada per ritornare libero allo stato brado condizione originaria dei suoi lontani progenitori, piuttosto che restare legato ad un guinzaglio impacchettato in un maglioncino rosso. Però se lo facessimo saremmo di certo travolti dall’ira di una pletore di animalisti convinti. Insomma ci troveremmo tra due fuochi: Fido libero o ridotto in schiavitù ma non abbandonato? Un’altra domanda: ama di più i pesci o i pappagalli chi li tiene nell’acquario/gabbietta o chi li lascia liberi nel loro ambiente?

4) AVERE DEI DIRITTI COMPORTA DEI DOVERI Se vogliamo estendere agli animali i diritti destinati agli uomini, questa stessa libertà per forza di cose comporterà delle responsabilità. Da che mondo è mondo se io uomo uso male della mia libertà dovrò pagarne le conseguenze: libero di andare in giro in auto, ma se investo una persona me ne assumerò le conseguenze anche legali. La dolce Tilly, una di queste cinque orche, in passato ha sbranato ben due dei suoi addestratori. Nulla di scandaloso: ci sarà pur un motivo se questi cetacei in inglese sono conosciuti con l’appellativo di killer whales. Essendo in America però la nostra Tilly si meriterebbe un’immensa sedia elettrica. In Italia, a Livorno, un branco di cani ha sbranato in questi giorni un camionista, padre di famiglia. Un cane non randagio, addomesticato e “amico dell’uomo” ha massacrato un bimbo di 9 anni nel 2008, nel 2009 la stessa sorte è toccata a un bimbo di un anno, pochi mesi fa un neonato è morto dopo l’aggressione del cane dei genitori. Di fronte a tutto questo, chi invocasse la scriminante “l’animale è innocente perché è l’istinto ad averlo costretto ad agire così”, entrerebbe in palese contraddizione:  se è l’istinto a presiedere alle azioni degli animali, allora dobbiamo concludere che i loro atti sono determinati da madre natura e quindi non sono liberi, come quelli umani. Ma allora significa che cagnolini e orche sono schiavi dell’istinto. E dunque, che senso ha berciare tanto nel difendere i loro diritti “umani” di libertà? Oppure vale anche il contrario: dato che si vuole ridurre l’uomo ad un animale sociale, come la formica o la scimmia, perché non esigiamo che il trattamento di impunità riservato agli animali sia esteso anche agli assassini della nostra specie?

In questo periodo storico in cui ci si batte così tanto per valorizzare le differenze quando si parla di omosessualità, esiste una violenta oppressione verso chi valorizza la differenza tra uomini e animali o, nel campo umano, tra maschi e femmine. Un altro incredibile paradosso?

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Il filosofo Savater: «nessun diritto umano agli animali»

La Chiesa cattolica esige «il rispetto dell’integrità della creazione». Gli animali «sono creature di Dio», e «anche gli uomini devono essere benevoli verso di loro». È contrario alla dignità umana «far soffrire inutilmente gli animali e disporre indiscriminatamente della loro vita».

Tuttavia la natura «è destinata al bene comune dell’umanità passata, presente e futura», «è dunque legittimo servirsi degli animali per provvedere al nutrimento o per confezionare indumenti», è «indegno dell’uomo spendere per gli animali somme che andrebbero destinate, prioritariamente, a sollevare la miseria degli uomini», e sopratutto «si possono amare gli animali; ma non si devono far oggetto di quell’affetto che è dovuto soltanto alle persone».

Questa visione, sensata e razionale, non è tuttavia scontata in chi è lontano dalla Chiesa. Anzi, esiste un legame molto stretto tra neodarwinismo, ecologismo, ambientalismo radicale, ed eugenetica. Colui che tiene il filo rosso di tutto si chiama Ernst Haeckel, biologo, zoologo e filosofo tedesco di inizio ‘900, considerato tra i più famosi darwinisti dell’Europa continentale. Egli fu il diretto ispiratore della teoria sulla superiorità della razza ariana propagandata dal nazismo, lui stesso era dichiaratamente razzista in quanto riteneva che i neri fossero «incapaci di una vera cultura interiore e di uno sviluppo mentale superiore». Proprio lui, guarda caso, fu l’inventore del termine “ecologia”, e sempre casualmente fu un forte promotore dell’eutanasia e dell’eugentica  umana sul modello spartano (uccisione di deboli e storpi). Feroce nemico del cristianesimo, non poté che considerare l’uomo alla stregua di un animale sociale. Scrisse ad esempio: «L’uomo non si distingue dagli animali per uno speciale tipo di anima, o da qualche particolare ed esclusiva funzione psichica, ma solo da un elevato grado di attività psichica, uno stadio superiore di sviluppo» E ancora: «Come la nostra madre terra è un granello nell’universo sconfinato, così l’uomo stesso non è che un piccolo granello di protoplasma nel quadro deperibile di natura organica. Questo indica chiaramente il vero posto dell’uomo nella natura, e dissipa l’illusione diffusa di una suprema importanza dell’uomo e l’arroganza con cui lui si contraddistingue nell’universo sconfinato ed esalta la sua posizione come elemento più prezioso» (E. Haeckel, “The Riddle of the Universe”, Harper 1900).

Da Haeckel nacquero così tutti quei movimenti “eco-isterici” (come sottolineato continuamente da questo interessante e aggiornato sito web), ancora oggi molto presenti e attivi in ogni Paese. Essi non raramente considerano l’uomo un “cancro per il pianeta” e non solo lo equiparano all’animale, ma lo considerano addirittura inferiore ad esso. L’ecologismo in questi termini è una vera e propria religione “verde”, di cui il fondatore del WWF, Filippo duca di Edimburgo, fu noto adepto. E’ famoso per questa frase: «Se rinascessi, vorrei essere un virus letale per contribuire a risolvere il problema dell’eccesso di popolazione. Il maggiore dramma del mondo è che ci sono più culle che casse da morto». Invece, il fondatore e presidente onorario del WWW Italia, Fulco Pratesi, si definisce «un verde credente e praticante, nonché leggermente fanatico» (in questo articolo un approfondimento sulla sua persona e la scarsa considerazione dell’uomo).

L’equiparazione uomo-animale è anche uno dei cavalli di battaglia del neodarwinismo ateo (ridurre l’uomo per negarne lo status di creatura), e infatti il Progetto Grandi Scimmie Antropomorfe –ovvero il tentativo di estendere a tutti i primati antropomorfi i diritti dell’uomo-, è sostenuto fortemente dai “New Atheist”: Peter Singer (già promotore dell’infanticidio) e Richard Dawkins all’estero, Umberto Veronesi e Margherita Hack in ItaliaL’ex premier spagnolo, Luis Zapatero, ha esteso nel 2008 i diritti umani anche agli scimpanzé. Ecco quindi l’intreccio esplosivo tra tutte queste varie ideologie anti-cristiane.

Accogliamo per questo con interesse una intervista, apparsa su “Repubblica”, al filosofo Fernando Savater, docente presso l’Università di Madrid e uno dei più noti intellettuali spagnoli. E’ l’autore del recente libro, Tauroetica (Laterza 2012), «un saggio sul rapporto fra uomini e animali», spiega. Il problema oggi è che «si stenta a vedere in cosa essi siano diversi dagli uomini. Ciò ha portato a una sorta di antropomorfizzazione degli animali. Una tendenza che spinge ad accreditare le forme più estreme di animalismo, come l’antispecismo di Peter Singer, ossia l’idea che tra le specie animali non ci siano distinzioni di sorta. Non distinguere gli uomini dagli altri esseri viventi è nefasto. Perché la morale riguarda solo gli esseri umani». Continua quindi con una riflessione molto politicamente scorretta: «Purtroppo però ormai si tende a scambiare la morale con la compassione. Ora, la compassione è un sentimento buono, per carità, e tuttavia non è la morale. Mettiamo che passeggiando trovo un passerotto caduto dal nido. So che è in pericolo e poiché sono persona compassionevole, lo raccolgo e lo metto in salvo. Questo è molto bello. Ma è ben diverso dal caso in cui io mi imbattessi in un neonato abbandonato per strada. Lì non si tratta di compassione. Io ho il dovere morale di occuparmene. Questa differenza non la intendono gli antispecisti. Singer è arrivato a dire che se mi trovo di fronte un bambino con tare mentali o fisiche irreversibili e un vitello in perfetto stato devo scegliere il vitello e sopprimere in culla il bambino senza farlo soffrire».

Gli animalisti isterici  ritengono che sia l’interesse ad unire gli esseri viventi, ma «l‘interesse è la possibilità di optare per diverse condotte anziché una sola. Gli animali sono mossi dall’istinto, laddove io, essere umano, nonostante abbia un istinto, posso anteporre un interesse diverso. Quando non si può che seguire una sola condotta, chiamarlo interesse mi pare completamente assurdo. Non è che la solita proiezione antropomorfizzante. La dimensione in cui ha senso parlare di interessi è una dimensione di libertà dalle necessità della natura, il libero arbitrio insomma». Gli antispecisti lo negano, poi però vanno a «chiedere agli uomini di optare per soluzioni diverse rispetto a quelle che magari preferiscono, come mangiare carni, usare pelle animale per le scarpe e così via. Con il risultato paradossale che gli uomini dovrebbero rifiutarsi di uccidere la tigre ma certo la tigre non potrebbe che continuare a fare quello che fa secondo l’istinto, ossia anche divorare l’ uomo. L’uomo sarebbe dunque l’unico tra gli animali a rispettare la nuova legge. Dimostrando quindi che qualche differenza tra lui e le altre specie in fondo c’è». Nei promotori dei “diritti agli animali” predomina «il sentimentalismo e in cui l’umanitarismo sta sostituendo l’umanismo. Chi è umanitario si preoccupa del benessere degli altri ma non della loro umanità, che risiede in aspirazioni, desideri e così via. Io con un cane posso essere umanitario ma non umanista», e infatti oggi purtroppo «è assai più semplice avere una relazione con un animale domestico piuttosto che con un essere umano». Se questo animalismo diventasse dominante, paradossalmente, «si realizzerebbe la forma perfetta di protezione degli animali: l’estinzione». Conclude infine così Savater: «I veri barbari sono coloro che non distinguono uomini e animali. Caligola che fece senatore un cavallo e uccise centinaia di persone che non apprezzava. Quello era un barbaro. Perché trattava gli uomini come gli animali e gli animali come gli uomini».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace