Buzz Aldrin, l’astronauta che fece la Comunione sulla Luna

Nel 1969 i membri dell’Apollo 11, Buzz Aldrin e Neil Armstrong, furono i primi a toccare la superficie lunare ma anche a celebrare l’Eucarestia al di fuori della Terra: «Nessun modo migliore per ringraziare Dio».

 
 
 

Da poche ore Samantha Cristoforetti ed i membri della capsula Crew Dragon Freedom hanno raggiunto la Stazione Spaziale Internazionale.

Ogni missione spaziale porta alla mente quella più celebre avvenuta il 20 luglio 1969, quando l’Apollo 11 portò per la prima volta due umani sulla Luna, i loro nomi erano Neil Armstrong e Buzz Aldrin.

Una volta atterrati, prima di poter aprire i portelloni, i due astronauti dovettero aspettare alcune ore.

 

Buzz Aldrin portò con sé l’ostia e il vino consacrati

Aldrin, nell’attesa di scendere, volle fare qualcosa di inaspettato, che nessun uomo aveva mai fatto prima: prese parte al primo sacramento cristiano mai celebrato al di fuori della Terra, il rito dell’Eucarestia.

Il compagno di Armstrong, infatti, oltre ad essere astronauta era anche un membro della Chiesa presbiteriana e prima di dirigersi nello spazio ottenne il permesso speciale dal vescovo di portare con sé l’ostia ed il vino già consacrati.

Molti suoi colleghi, prima di Aldrin, avevano pregato nello spazio Gli astronauti dell’Apollo 8, ad esempio, avevano letto il Libro della Genesi durante il loro collegamento nel giorno di Natale del 1968, quando furono i primi umani a orbitare attorno alla luna.

Entrambi gli astronauti, sia Armstrong che Aldrin, erano totalmente consapevoli dell’importanza della loro missione: «E’ stata il culmine del lavoro di 300.000 o 400.000 persone in un decennio e le speranze e la reputazione della nazione si basavano in gran parte sul risultato della missione», ricordò successivamente Neil Armstrong.

 

L’Eucarestia a bordo dell’Apollo 11

Mentre i due uomini si preparavano per la camminata sulla superficie lunare, Aldrin si rivolse al sistema delle comunicazioni e parlò con l’equipaggio sulla Terra: «Vorrei richiedere alcuni momenti di silenzio», disse. «Vorrei invitare ogni persona ad ascoltare, ovunque e in qualunque luogo, a contemplare per un momento gli eventi delle ultime ore e ringraziare a modo suo».

Quindi prese il vino ed il pane consacrati che aveva con sé, lesse alcuni brani delle Scritture, mangiò e bevve. Armstrong assistette in raccoglimento ma non partecipò all’Eucarestia. Il motivo non è noto, furono direttive della NASA oppure una sua personale decisione.

Nel 1988, vent’anni dopo, Armstrong si recò tuttavia a Gerusalemme assieme a Thomas Friedman, professore di archeologia biblica, volendo visitare i luoghi in cui poteva essere certo che Gesù avesse camminato. Di fronte al tempio costruito da Erode il Grande, l’astronauta si raccolse in preghiera e si rivolse a Friedman con queste parole: «Per me, aver camminato su queste scale, ha un significato maggiore dell’aver camminato sulla Luna».

 

Il crocifisso di Samantha Cristoforetti

Per coloro che vanno nello spazio è evidente ed inevitabile la domanda sul significato di ciò che vedono, il senso religioso è stimolato in maniera profonda.

Per questo, ad esempio, nel 1994 tre astronauti cattolici presero la Santa Comunione a bordo dello Space Shuttle Endeavour, mentre l’astronauta israeliano Ilan Ramon recitò la preghiera ebraica di Shabbat Kiddush.

Il cosmonauta ortodosso Sergei Ryzhikov portò con sé una reliquia di San Serafino di Sarov, mentre nel 2011 Papa Benedetto XVI si collegò con gli astronauti a bordo della Stazione Spaziale Internazionale.

Nel 2014, sempre all’interno della Stazione spaziale internazionale, alcune immagini hanno mostrato alle spalle dell’italiana Samantha Cristoforetti e dei suoi colleghi, delle icone cristiane e un crocifisso appesi alle pareti della navicella.

 

Fu la cosa giusta da fare?

Nel suo libro di memorie pubblicato nel 2010, Buzz Aldrin si è domandato se avesse fatto la cosa giusta celebrando l’Eucarestia cristiana nello spazio. «Siamo andati sulla Luna in nome di tutta l’umanità, siano essi cristiani, ebrei, musulmani, animisti, agnostici o atei», scrisse.

Eppure, aggiunse, «allora non riuscii a pensare ad un modo migliore per riconoscere l’esperienza dell’Apollo 11 che ringraziare Dio». E’ il Salmo 8, infatti, che sottolinea la sproporzione tra l’immenso disegno di Dio e la piccolezza dell’uomo: «Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi ed il figlio dell’uomo perché te ne curi?».

La redazione

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L’Unitalsi nata da un ateo deciso a suicidarsi a Lourdes

La storia dell’Unitalsi: fondata da Giovanni Battista Tomassi, giovane che maturò il suo suicidio a Lourdes, bestemmiando quel Dio che riteneva responsabile della sua disabilità fisica: tornò convertito ed in pace con se stesso, colpito dalla carità dei volontari verso gli ammalati.

 
 
 

L’Unitalsi accompagna gli ammalati in pellegrinaggio verso tutti i santuari italiani ed internazionali, ma è indubbiamente legata fin dalla sua nascita a Lourdes.

E’ incredibile l’instancabile lavoro dei volontari verso i più bisognosi e certamente rappresenta uno dei migliori esempi di carità del cattolicesimo italiano.

Anche durante il periodo di maggior potenza del Covid-19, quando i pellegrinaggi erano sospesi, l’Unitalsi (Unione Nazionale Italiana Trasporto Ammalati a Lourdes e Santuari Internazionali) ha continuato ad essere una presenza importante per le persone ammalate.

Barellieri, volontari, animatori di ogni età si sono reinventati nella realizzazione di mascherine, cuffie e gambali destinati agli ospedali in emergenza, insegnandone la realizzazione ai ragazzi disabili.

Donne ed uomini desiderosi di donare gratuitamente parte del loro tempo, tenendo viva la speranza e regalando continui ma importanti frammenti di umanità. «Non si tratta di ottemperare solo ad un servizio», ha spiegato il presidente Antonio Diella, «ma di trascorrere assieme del tempo. Di dire a queste persone che per noi sono importanti».

 

La storia dell’Unitalsi ed il (quasi) suicidio a Lourdes.

Pochi conoscono la storia di Unitalsi, in particolare quella del fondatore Giovanni Battista Tomassi.

Nel 1903, all’epoca ventenne, era affetto da dieci anni da una grave forma di artrite deformante irreversibile che lo costringeva in carrozzella.

La situazione di sofferenza acuì di rabbia il suo ateismo, maturò così la decisione di recarsi davanti alla grotta di Massabielle del santuario francese e suicidarsi tramite un gesto clamoroso che certamente sarebbe rimasto nella storia: un colpo di pistola, maledicendo quel Dio tanto odiato.

Una volta giunto dinanzi alla grotta venne però tramortito da un altro colpo: quello dell’amore e dalla dedizione con cui i volontari aiutavano i malati a raggiungere il luogo delle apparizioni.

 

La conversione a Lourdes grazie alla carità dei volontari.

A Lourdes qualche volta avvengono miracoli fisici, come le guarigioni istantanee, ma sono statisticamente più numerosi (e più importanti) i miracoli spirituali, che guariscono le ferite dentro alle persone, create dalla durezza della vita.

Tomassi beneficiò di questo tipo di miracolo e raccontò di aver percepito improvvisamente un profondo ed inedito senso di sollievo e di serenità, mai sperimentato prima.

Partito da ateo con l’intenzione di suicidarsi, ritornò da Lourdes convertito ed in pace con se stesso, con Dio e con la sua malattia.

Consegnò la pistola al direttore spirituale del pellegrinaggio, mons. Radini Tedeschi: «Ha vinto la Madonna. Tenga, non mi serve più! La Vergine ha guarito il mio spirito. Se Lourdes ha fatto bene a me, farà bene a tanti altri ammalati».

Tomassi fondò l’Unitalsi, strutturando in maniera organizzata quell’assistenza amorevole che davanti alla grotta di Lourdes guarì il suo male interiore. Oggi l’associazione conta 70.000 soci che ogni anno sono lo strumento attraverso cui il Mistero opera la rinascita spirituale (e a volte anche fisica) dei pellegrini.

 

I miracoli spirituali di Lourdes e lo scrittore laico Amurri.

Un esempio recente di questi miracoli è la storia della produttrice televisiva francese Maryel Devera, passata dal deridere i cattolici sui social network alla fondazione di un gruppo di evangelizzazione a cui partecipano alcuni professionisti della televisione francese.

Anche lo scrittore laico Lorenzo Amurri, su una sedia a rotelle dal 1997, si è recato al santuario mariano con l’Unitalsi: «È stata una delle poche volte in cui non ricevevo sguardi pietosi o comportamenti imbarazzanti da parte degli altri», raccontò in seguito.

«I volontari», ha proseguito Amurri, «si ammazzano di lavoro, si pagano il viaggio e la sera ci portavano anche al pub. Sono stato parte di un qualcosa di importante in un luogo dove la diversità si integra alla perfezione con il mondo che la circonda. E questo, già di per sé, è un miracolo. Ho visto volti rilassati e felici. Nessuna delusione. Ho toccato con mano la tolleranza e l’aiuto disinteressato dei volontari, che insieme alla fede, sono il motore che alimenta il pellegrinaggio. Pagano per essere lì ad aiutare gli altri».

Così, ha concluso lo scrittore (morto nel 2016), «ho portato a casa la percezione nitida della forte energia che sgorga dalla grotta di Massabielle, l’unico posto che ha davvero un senso, e ne toglie a tutto quello che gli uomini le hanno scolpito attorno. Magari è solo un punto di particolare magnetismo sulla Terra, chissà. È un’energia alla quale è stato dato un nome e un credo, ma che a mio avviso non può essere battezzata».

 

Qui sotto la storia di un volontario di Unitalsi, barelliere da 50 anni

La redazione

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Da Ricolfi a Rampini: la sinistra che non si piega al progressismo

Aumentano le voci di dissenso, nella sinistra italiana, verso la gogna democratica del progressismo. Dopo i sociologi Luca Ricolfi e Paola Mastrocola si aggrega Federico Rampini, editorialista del Corriere e profondo conoscitore del giogo repressivo degli ambienti progressisti statunitensi. Liberi pensatori crescono.

 
 
 

Mentre le destre, almeno su questo, sembrano avere qualche anticorpo in più, la sinistra è da anni in ostaggio del progressismo.

 

Cos’è il progressismo e da dove arriva

Con questo termine si intende l’ansia esistenziale di sentirsi dalla parte giusta della storia spendendosi ossessivamente nella purificazione del mondo tramite l’esaltazione dittatoriale di qualunque minoranza (etnica, culturale, sessuale), terrorizzando ogni dibattito in nome dell’uniformità di pensiero e del politicamente corretto.

I nemici? Il pluralismo delle idee, la libertà di ricerca, di coscienza e d’opinione.

Si tratta nient’altro che dell’applicazione del pensiero marxista, passato dalla lotta di classe ai fantomatici “diritti civili”, con il supporto quasi totale e schierato del regime mediatico e delle grandi multinazionali, a partire dai social network.

Un’ideologia nata in particolare nei paesi anglofoni, su tutti il Canada e gli Stati Uniti.

 

La persecuzione dem a Jordan Peterson e J. K. Rowling

Qualche mese fa proprio in Canada, il principale intellettuale del paese, lo psicologo Jordan Peterson, si è platealmente dimesso dall’Università di Toronto dov’era professore ordinario denunciando il giogo repressivo del progressismo che discrimina e impedisce «ai miei studenti migliori di fare carriera solo perché maschi bianchi eterosessuali, nonostante i loro curriculum scientifici siano stellari».

Nonostante sia uno dei pensatori più influenti al mondo, lo stesso Peterson subisce da anni limitazioni di pensiero a causa di una «spaventosa ideologia che oggi sta demolendo le università e, a valle, la cultura generale». «Tutti i miei colleghi», denuncia, «devono fare solo certi tipi di dichiarazioni per ottenere una borsa di studio, tutti mentono ed insegnano ai loro studenti a fare lo stesso. E lo fanno costantemente, dandosi giustificazioni, corrompendo ulteriormente quella che è già un’impresa straordinariamente corrotta».

Il progressismo è all’origine della cancel culture, l’epurazione violenta di tutto ciò che è ritenuto offensivo e superato del passato. Sempre in Canada, da tempo si bruciano letteralmente i libri ritenuti “dannosi” perché divulgano “stereotipi negativi”, ovvero capolavori come Il signore delle mosche di William Golding (rappresenterebbe le strutture di potere dell’uomo bianco), Il buio oltre la siepe di Harper Lee, fumetti “moralmente obsoleti” come Tintin e Asterix e Obelix ecc.

In queste cerimonie di purificazioni i promotori si illudono che abbattendo statue e bruciando libri possano diventare finalmente un paese “inclusivo”, grande mantra del progressismo. Roghi e violenze in nome dell’antirazzismo e della tolleranza, ma anche deturpazione del linguaggio con asterischi e schwa.

L’ossessione psicologica dell’evitare l’offesa offendendo chi non si schiera, la morbosità dell’inclusività escludendo chi è d’ostacolo (pensiamo alle donne escluse rispetto ai trans e discriminate se osano difendere la femminilità, come J. K. Rowling).

La buona notizia è che non tutti accettano passivamente, esistono ancora liberi pensatori e sempre più anche tra le file della sinistra c’è chi dice “no”.

 

Il marxista Zizek contro l’immigrazionismo radicale

Abbiamo già citato Jordan Peterson ma anche l’Italia vanta diversi “eretici”.

Il filosofo marxista Slavoj Zizek, profondo conoscitore degli Stati Uniti, ha denunciato ad esempio il progressismo applicato all’immigrazionismo radicale:

«Il problema con questa strategia», scrive, «non è solo che il sistema non può venire incontro a queste richieste, ma anche che coloro che le enunciano non vogliono veramente che esse vengano realizzate. Quando i radicali accademici chiedono pieni diritti per gli immigrati e l’apertura delle frontiere, sono consapevoli del fatto che l’adempimento diretto di questa richiesta inonderebbe, per ovvie ragioni, i paesi sviluppati occidentali di milioni di nuovi venuti, così da provocare una violenta reazione razzista da parte della classe operaia che poi metterebbe in pericolo la posizione di privilegio di quegli stessi accademici? Naturalmente costoro ne sono consapevoli, ma contano sul fatto che la loro richiesta non verrà accolta, in questo modo essi possono ipocritamente conservare la loro limpida coscienza radicale mentre continuano a godersi la loro posizione di privilegio»1S. Zizek, Il nano e il manichino, Ponte delle Grazie 2021, p. 48

 

Il Manifesto del libero pensiero di Ricolfi e Mastrocola

L’editorialista di Repubblica, il sociologo Luca Ricolfi, assieme a Paola Mastrocola, ha firmato il Manifesto del libero pensiero denunciando la «grande cappa che aleggia sopra di noi, un opprimente clima, fatto di censura e intimidazione, che sovrasta ogni nostra parola e pensiero, con imposizioni e divieti più o meno velati su che cosa è bene dire e pensare».

«La parola è stravolta, strumentalizzata, incattivita, imprigionata», spiegano, «nei social, nelle grandi aziende e nelle istituzioni, nel mondo della comunicazione, della pubblicità e dello spettacolo. Una parola imbavagliata, sorvegliata, censurata e autocensurata. Mai veramente libera. Che grida vendetta. E merita di essere liberata».

«Se l’ideologia fondamentale progressista è divenuta il politicamente corretto, e il politicamente corretto stesso è diventato il verbo dell’establishment, non stupisce che la censura di ogni posizione disallineata sia diventata una tentazione per la sinistra», denunciano su La Stampa.

 

Il nuovo libro di Federico Rampini in difesa dell’Occidente

Recentemente anche Federico Rampini, saggista ed editorialista de Il Corriere, ha titolato Suicidio Occidentale (Mondadori 2022) il suo ultimo libro.

A sua volta ha denunciato «la schiavitù conformista del politicamente corretto» che «colpevolizza e demolisce la nostra storia descrivendola come un concentrato di arroganza, imperialismo e sopraffazione. Questo processo a noi stessi esige riti di epurazione, auto-flagellazione. Il capitalismo politically correct è affollato di giovani educati a 70mila dollari di retta annua nelle grandi università americane, dove il veteromarxismo è tornato di moda».

Rampini accusa anche la grande ipocrisia delle big tech e della grande politica democratica che «non vuole sentire parlare della grande questione sociale, il dramma delle disuguaglianze di massa. Perciò abbraccia cause iper-progressiste: salvare il pianeta, esaltare le minoranze etniche, concentrarsi sui trasgender».

Ma nel farlo ideologizza tutto, perciò la tematica ambientale si trasforma in «neo-paganesimo panteista» diventando «estremismo ambientalista», la battaglia per le minoranze sessuali «perseguita le femministe storiche», l’immigrazione incontrollata finisce per danneggiare l’economia e la sicurezza degli Stati.

Nessuno degli intellettuali citati finora è cattolico anzi, Rampini recentemente è stato protagonista di uno scontro molto duro con il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, accusandolo (molto vigliaccamente) di essere “stipendiato da Putin”.

Il libro di Rampini ha trovato stranamente eco sui grandi media, recensito in un editoriale del Corriere in cui Danilo Taino conferma che «in molte università è impossibile, per chi non si accoda anche alle posizioni più estreme su sesso e genere, avere diritto di parola. Spesso, docenti che osano esprimere opinioni diverse da quelle di gruppi di militanti organizzati devono poi umiliarsi in autocritiche pubbliche e rischiano comunque di essere allontanati dall’insegnamento da autorità accademiche impaurite».

Perfino Concita De Gregorio, autorevole membro della sinistra radicale, ha sperimentato pochi giorni fa la «gogna democratica», ovvero «quel tribunale in servizio permanente tutto attorno a noi».

La redazione

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Amalia Ercoli-Finzi, la scienziata italiana che “parla” con il Padreterno

Una bella intervista del Corriere all’astrofisica italiana Amalia Ercoli-Finzi, prima laureata in Italia in Ingegneria aerospaziale. Una scienziata dalla fede cattolica semplice e umile.

 
 
 

È stata la prima donna in Italia a laurearsi in ingegneria aerospaziale.

Amalia Ercoli-Finzi è chiamata la “Signora delle comete”, a lungo docente di Meccanica orbitale è considerata una delle personalità più importanti al mondo nel campo delle scienze e tecnologie aerospaziali.

 

Amalia Ercoli-Finzi e le differenze con Margherita Hack

Soltanto negli ultimi anni i giornali hanno cominciato a parlare di lei avendole preferito, almeno fino ad una decina di anni fa, la sua collega Margherita Hack.

Eppure, come ha scritto l’astrofisico Marco Bersanelli, la Hack ha avuto popolarità e influenza nell’immaginario collettivo «non tanto per i suoi meriti scientifici», quanto per la radicalità delle sue posizioni in tema politico e religioso.

La Hack è stata una brava divulgatrice scientifica ma non ha scoperto nulla, come lei stessa ammise.

Conquistò per decenni la fama sui media nazionali per l’orgoglioso impegno nel comunismo marxista, tacciando di infantilismo e superficialità chi vive una posizione religiosa.

Ercoli-Finzi, al contrario, realizzò un teorema legato al comportamento dei fluidi non newtoniani e ha dimostrato l’esistenza del monopolo magnetico, ama la famiglia (cinque figli) e non ha mai vissuto la sua profonda fede cattolica in opposizione a chi non ce l’ha, deridendo e insultando i non religiosi.

 

Amalia Ercoli-Finzi: famiglia, stelle e religione.

Nell’intervista di ieri al Corriere ha raccontato della sua vita, dell’aver patito la fame per anni (il 25 aprile per lei fu il poter ricominciare a mangiare), rispondendo ad una domanda sulla conciliazione tra fede e scienza.

«Sono due mondi diversi», spiega Amalia Ercoli-Finzi, «la fede è una forma di umiltà. Alla mia felicità concorre il mio senso della trascendenza: parlo tutti i giorni con il Padreterno, non sempre andiamo d’accordo, ma tanto alla fine decide Lui».

Nel 2019, interrogata ancora dal Corriere, aveva pronunciato una frase spesso ripetuta dal fisico Antonino Zichichi, ovvero che «la fede non è credere a cose che vanno contro la logica, ma credere alle cose che la logica non spiega».

E che dire allora del male presente nel mondo? «Noi siamo come le formiche che camminano su un tappeto», rispose l’eminente scienziata. «Non riusciamo a vedere il disegno meraviglioso che c’è sopra il tappeto. Io credo che ci sia un Dio buono che cerca il nostro bene e che riuscirà a salvare tutta l’umanità».

Le affermazioni di Amalia Ercoli-Finzi sono state inserite nel nostro dossier sulle citazioni dei principali scienziati credenti.

La redazione

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Le atrocità della Bibbia, il New York Times: “Rinunciare a Dio”

Violenza nella Bibbia. Il venerdì santo sul New York Times la proposta di abbandonare Dio da parte di un ex ebreo ortodosso scandalizzato dalla violenza nell’ Antico Testamento. Una lettura fuorviante del testo biblico, che non è un trattato di storia ma un testo che ha uno scopo pedagogico.

 
 
 

L’8 aprile 1966, nel venerdì santo di quell’anno, il Times metteva in copertina una domanda audace e diretta: “Dio è morto?”.

A distanza di 56 anni, nel venerdì santo di quest’anno, il New York Times, ha titolato: «In questo tempo di guerra, propongo di rinunciare a Dio».

Si conferma costante negli anni la “generosa” sensibilità del regime mediatico occidentale verso cristiani ed ebrei (il Venerdì santo è il primo giorno di Pasqua del calendario ebraico). L’articolo sul NYT è accompagnato dalla raffigurazione di Dio come un gigante arrabbiato, simile a Godzilla.

 

La violenza nella Bibbia scandalizza l’ex ebreo.

L’autore di questo editoriale è Shalom Auslander, un ex ebreo ortodosso che ha perso la fede rimanendo visibilmente turbato dalla rigida educazione ricevuta in gioventù sul Dio dell’Antico Testamento.

Nel testo Auslander ricorda la cattiveria del Dio biblico in occasione delle piaghe d’Egitto, le punizioni inflitte agli egizi per non aver liberato gli ebrei dalla schiavitù.

Addirittura sostiene che «le madri che allattavano i loro bambino scoprirono che il loro latte si era trasformato in sangue». Il Libro dell’Esodo non riferisce nulla del genere, ma Auslander ricorda che i rabbini che seguiva gli insegnarono questo questo. E’ vero invece che nel libro si legge che «il Signore percosse ogni primogenito nel paese d’Egitto» (Esodo 12,29-32).

«Se fosse mortale», commenta Auslander, «il Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani verrebbe trascinato all’Aia. Eppure lo lodiamo. Lo emuliamo. Imploriamo i nostri figli a essere come lui».

L’ex ebreo ortodosso compie poi un controverso salto nell’attualità della guerra in Ucraina, delle fosse comuni di Bucha e dei missili sulla popolazione, aggiungendo: «E’ un buon momento per smettere di emulare questo Dio odioso. Forse possiamo smettere di esaltare la sua brutalità. Forse ora è un buon momento per insegnare ai nostri figli a tralasciare Dio, ad essere il più diversi possibile da lui».

Pur risultando davvero arduo per Auslander sostenere che i militari russi stiano “imitando” il Dio biblico (perché non dire niente sulle opere di carità ebree e cristiane a favore degli ucraini?), prendiamo sul serio la sua provocazione.

Il tema della violenza del Dio biblico non è certo nuovo, già alla fine del XIX secolo scandalizzava gli illuministi come Robert Ingersoll, per i quali Yahweh era una Persona selvaggia, ingiusta e terribile. Nel secolo scorso abbiamo visto reincarnare queste tesi nei discorsi dei famosi atei militanti come Bill Maher, Christopher Hitchens e Richard Dawkins.

Non sorprende che un ex ebreo ultra-ortodosso si sia accodato a questa interpretazione tanto letterale quanto scorretta dell’Antico Testamento. Consigliamo l’ottimo libro del filosofo Paul Copan, docente alla Palm Beach Atlantic University, intitolato per l’appunto: Dio è un mostro morale? Dare un senso al Dio dell’Antico Testamento (Baker Books 2011). Un manuale sulla corretta interpretazione dei passi biblici più controversi.

 

Linguaggio antico e umano per educare il popolo d’Israele

L’Antico Testamento non è un trattato di storia o di scienza e non deve essere letto in quest’ottica.

I profeti biblici, inspirati da Dio, scrissero successivamente agli eventi di cui narrano spesso utilizzando un linguaggio antico di guerra, punizione e violenza, ben comprensibile ai costumi dell’epoca.

Lo fecero per educare il popolo ebraico al concetto morale che chi ostacola le opere di Dio non si attira senz’altro la sua benedizione. Ad esempio, tramite il racconto delle terribili piaghe d’Egitto, l’obbiettivo dei profeti era insegnare il timore di Dio ai loro contemporanei, anche attraverso immagini cruente come l’uccisione dei primogeniti.

Già nella costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II, parlando dell’Antico Testamento, si suggerisce che «le parole di Dio, espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo» (DV 28). Dio si rivelò attraverso il linguaggio e la cultura umana del tempo.

Sant’Agostino definiva appunto la Bibbia come «il libro della pazienza di Dio che vuole condurre gli uomini e le donne verso un orizzonte più alto».

Un racconto per immagini e metafore, lo stesso utilizzato da Gesù di Nazareth nelle sue famose parabole (quella del buon Samaritano, della pecorella smarrita, del figlio prodigo ecc.), il cui obbiettivo è un insegnamento morale non la descrizione dettagliata e fedele di eventi storici del passato.

Ovviamente ciò non esclude il rintracciare tratti di storicità (come fa l’archeologia biblica, ad esempio), ad esempio l’esodo degli ebrei dall’Egitto pare essersi effettivamente verificato ma non certo nei numeri raccontati nella Bibbia.

Ma, ancora una volta, il fine di questi racconti è rivelare al popolo eletto la natura di Dio, un Padre spesso geloso che si adira per il bene e la salvezza dei suoi figli. Se a volte, invece, è un padre amorevole, altre è un educatore severo che intende forgiare Israele, “popolo di dura cervice”.

Il card. Carlo Maria Martini spiega infatti che quello biblico è «un Dio che prende per mano il suo popolo, lo corregge, lo educa e lo colloca nuovamente nel suo originario progetto di felicità»1C.M. Martini, Guida alla lettura della Bibbia, San Paolo 1995, p. 14. E ancora: «Dio si era proposto di raggiungere il cuore dell’uomo, inteso come il luogo delle decisioni e delle scelte più impegnative, e in Gesù lo ha raggiunto. È stato un cammino lento e graduale, come dimostra la storia del popolo biblico, ma la gradualità è un tratto squisito della pedagogia di Dio».

 

Perché si dimenticano i brani biblici contro la violenza?

Oltre a questa lenta pedagogia, ben rintracciabile nella Bibbia, occorre ricordare che nell’Antico Testamento a fianco degli insegnamenti duri e scandalosi ai nostri occhi, si condanna e corregge anche la violenza.

Michel Sabbah, patriarca di Gerusalemme, ha raccolto (1.11.1993 e intitolata Leggere e Vivere la Bibbia oggi nel paese della Bibbia.) alcuni esempi in cui Dio rimprovera e respinge re Davide perché ha versato troppo sangue e non gli permette di costruirgli un tempio (cfr. 1 Cr 22,8), ordina di evitare i cattivi che «mangiano il pane dell’empietà e bevono il vino della violenza» (Pr 4,17), condanna esplicitamente il ricorso alla violenza: «La violenza degli empi li travolge, perché rifiutano di praticare la giustizia» (Pr 21,7).

Nel Salmo 62 si legge: «Non confidate nella violenza, non illudetevi della rapina» (Sal 62,11), mentre altri passi biblici condannano con veemenza gli atti violenti commessi dal popolo di Israele: «Non c’è sincerità, né amore del prossimo, né conoscenza di Dio nel paese. Si giura, si mente, si uccide, si ruba, si commette adulterio, si fa strage e si versa sangue su sangue» (Os 4,1-2).

Nel Deuteronomio si ordina di rispettare i diritti degli stranieri e dei poveri e tali precetti vengono ripresi dai profeti: «Maledetto chi sposta i confini del suo prossimo… Maledetto chi lede il diritto del forestiero, dell’orfano, della vedova…» (Dt 27 17-19 cfr. anche Dt 24,17; Ez 22,7; Ger 22,3).

Nel libro dell’Esodo si invita all’equità tra lo straniero ed il cittadino: «Vi sarà una sola legge per il nativo e per il forestiero, che è domiciliato in mezzo a voi» (Es 12,49). E quanto ai diritti di ogni uomo in generale, Geremia dice: «Quando schiacciano sotto i loro piedi tutti i prigionieri del paese, quando falsano i diritti di un uomo in presenza dell’Altissimo, quando fan torto a un altro in una causa, forse non vede il Signore tutto ciò?» (Lam 3,34-36). Isaia respinge la forza materiale: «Non prevarrà l’uomo malgrado la sua forza» (1 Sam 2,9), ma «nell’abbandono confidente sta la vostra forza» (Is 30,15).

Isaia profetizza la figura di Gesù Cristo parlando del «Servo sofferente», cioè colui che è il «Giusto», che «non ha commesso violenza» che «è stato schiacciato per le nostre iniquità» e che «ha consegnato se stesso in espiazione» (Is 53).

 

L’Antico Testamento è un testo di pedagogia non di storia

Ecco, l’Antico Testamento può essere visto come un testo di pedagogia, più che di storia o di scienza.

Lo riferisce sempre il Concilio Vaticano II quando afferma che i libri dell’Antico Testamento «sebbene contengano cose imperfette e caduche, dimostrano tuttavia una vera pedagogia divina» (DV 28).

Mentre il libro della Genesi «vuole mostrare a quale degrado l’uomo giunga quando si allontana da Dio, al punto da non distinguere il bene dal male», spiega il domenicano Angelo Bellon, «la legge del taglione era una prima maniera per respingere la riparazione smodata del male» all’interno di un mondo estremamente vendicativo, qual era il mondo degli ebrei e anche quello delle popolazioni vicine.

Ai tempi dell’Esodo, il popolo di Israele era una popolazione nomade dove ognuno era portato a farsi giustizia da se stesso, spesso in maniera spropositata rispetto all’offesa ricevuta. Così, l’insegnamento del rispondere all’offesa in una maniera proporzionata fu un netto miglioramento morale. La Bibbia di Gerusalemme scrive in una nota che la «legge del taglione, imponendo un castigo uguale al danno causato, tende a limitare gli eccessi della vendetta».

Agli occhi odierni, dopo secoli di cristianesimo, l’“occhio per occhio” appare una legge barbara ma ai tempi si trattò di una pratica più equa rispetto ai costumi in voga. Esattamente come la natura di Dio, spiega Bellon, anche «la rivelazione della legge di Dio è stata progressiva».

Nel libro di Tobia, appare un successivo progresso nell’etica dei rapporti: «Non fare a nessuno ciò che non piace a te» (Tb 4,15).

Infine, nel Nuovo Testamento e con Gesù Cristo, avviene il progresso più rivoluzionario ancora oggi perseguito come massima aspirazione nelle società contemporanee, la legge dell’amore che sostituisce quella del taglione e che invita all’amore per i nemici: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”; ma io vi dico di non opporvi al malvagio… Avete inteso dire che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Mt 5,38.43-44).

 

La Pontificia Commissione biblica nel 2008, nel documento Bibbia e morale, osservò che «Dio entra nel mondo e si rivela sempre di più, si rivolge alle persone e le sfida a capire più profondamente la sua volontà e le abilita a seguirlo sempre più da vicino». I cristiani sono così invitati a decifrare «il messaggio morale dello Antico Testamento definitivamente nella pienezza del contesto del Nuovo Testamento».

Una nota finale di colore. Nel 2015 perfino il polemista Corrado Augias dimostrò di aver (finalmente) compreso come affrontare la violenza nell’Antico Testamento scrivendo che «numerose pagine nella Bibbia vanno prese non alla lettera ma come illuminanti -anche se terrificanti- metafore. Vero anche che ai nostri occhi si tratta di episodi che restano intollerabili anche sotto metafora, frutto come sono di una cultura pastorale arcaica» ma «c’è ben altro sotto le somiglianze superficiali con un film dell’orrore».

La redazione

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Uno sguardo cattolico sul ’68: ribellione e desiderio di autenticità

La nostra intervista sul Sessantotto alla storica Maria Bocci. Un giudizio affascinante sulle contestazioni sessantottine che apprezza l’ideale iniziale e ne percepisce una sfida interessante per il presente, soprattutto per chi ha un ruolo di educatore.

 
 
 

«Vogliamo tutto». E’ il titolo di uno dei resoconti che più ci ha colpito sul Sessantotto.

La mostra ed il relativo convegno si svolsero nel 2018 al Meeting di Rimini, ne parlammo anche noi riprendendo il giudizio dei tre storici invitati in quell’occasione: Eugenio Capozzi, Giovanni Orsina ed Edoardo Bressan.

Una lettura di quegli anni come una ribellione antropologica, una protesta sulla mancanza del senso della vita e la frustrazione verso un moralismo soffocante. L’ideale dei giovani del Sessantotto fu legittimo e allo stesso tempo disperato: lo smarrimento esistenziale.

Questo sguardo inedito sul Sessantotto è emerso anche in un recente articolo, attribuendolo a Pier Paolo Pasolini. Prima entusiasta, poi critico, Pasolini celebrò solo “il Sessantotto degli inizi” come ricerca di un senso della vita.

 

Nella nostra intervista del venerdì abbiamo dialogato su questo una delle responsabili della già citata mostra del Meeting del 2018, la prof.ssa Maria Bocci, ordinario di Storia contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.

 

I cattolici ed il Sessantotto: contributo e spirito iniziale.

 

DOMANDA – Prof.ssa Bocci, solitamente in ambito cattolico il giudizio sul Sessantotto non è positivo per diversi (e giustificati) motivi. Nella mostra del 2018 avete però definito l’origine delle proteste come una «istanza di autenticità rivendicata dai giovani». A cosa vi riferite?

RISPOSTA – In ambito cattolico il Sessantotto è stato valutato molto diversamente: se alcuni ne sottolineano gli aspetti e gli esiti negativi, per altri è stata un’occasione importante, originata da spinte ideali notevoli e da un nuovo approccio all’esistenza umana, non esclusa – in alcune esperienze e in alcuni momenti – la dimensione religiosa.

Qualcuno ha persino parlato di apertura rinnovata al trascendente, cogliendola in diversi filoni della mobilitazione giovanile di fine anni Sessanta.

In effetti, se si guarda alla genesi della contestazione giovanile, si può parlare di esigenza di «autenticità», a livelli differenti ma collegati fra loro, da quello esistenziale a quello sociale, un’esigenza che si coglie in diverse componenti che hanno animato il ’68. Sono considerazioni che la storiografia negli ultimi anni ha avvalorato, scoprendo, tra l’altro, il contributo che al Sessantotto è arrivato dalla componente cattolica.

 

DOMANDA – Quale fu il contributo cattolico al Sessantotto?

RISPOSTA – Fino a poco tempo fa la componente cattolica era piuttosto sottovalutata e ci si limitava a constatare che la contestazione ha travolto la gioventù cattolica, perché i ragazzi di estrazione cattolica si sono inseriti nel Sessantotto di tutti, spesso annegando nella nuova sinistra la propria tensione religioso-sociale.

Oggi questo approccio è stato messo in discussione da studiosi che hanno ricostruito il percorso dei ragazzi appartenenti ad associazioni e a realtà studentesche cattoliche, europee ed italiane, rilevando che sono arrivati al ’68 dopo aver compiuto un cammino iniziato nella seconda metà degli anni Cinquanta e che la loro mobilitazione era favorita da specificità peculiari, precedenti il Concilio e poi potenziate nel clima del post-Concilio, pur essendo collegate ai sintomi del disagio giovanile più ampiamente diffusi.

Il Sessantotto, quindi, non ha solo influito sul mondo cattolico, ma è stato preparato dalle dinamiche dell’associazionismo giovanile cattolico e dalla mobilitazione degli studenti delle università cattoliche nei decenni precedenti, perlomeno in Italia e in diversi paesi europei. Qualche storico ha anzi sottolineato il ruolo di avanguardia degli studenti cattolici e la scarsa presenza di ragazzi non cattolici nelle tensioni che coinvolgono gli studenti prima del ’68.

Insomma, ancor prima dei loro compagni, i ragazzi cattolici hanno vissuto gli anni Sessanta come un anticipo di contestazione, risentendo di aspirazioni antiborghesi collegate a un nuovo protagonismo generazionale e a una vocazione antiautoritaria che era declinata sia in ambito ecclesiale, sia a livello sociale.

Nel 1968 hanno aderito a prospettive e metodi tipici della contestazione, ma hanno anche continuato a esprimere punti di vista peculiari, potenziando la critica alle istituzioni cattoliche e all’associazionismo da cui provenivano, ma portando in dote alla mobilitazione globale un contributo di idee e aspirazioni meno vincolato a una genesi di tipo politico, come era il caso, invece, di altre componenti della contestazione che erano più contigue agli organismi giovanili della sinistra.

Se il desiderio di «autenticità» era una della molle della contestazione di tutti, i ragazzi cattolici lo hanno interpretato con particolare intensità: lo si percepisce nella tensione religioso-esistenziale e nel bisogno di rapporti sociali significativi e autenticamente comunitari, nella propensione a «vivere le dimensioni del mondo» – un mondo che doveva essere più «giusto», basti pensare agli impulsi terzomondisti – e nell’impellenza a verificare se ciò che era indicato in sede autorevole fosse davvero all’altezza della proprie aspirazioni individuali e comunitarie.

Anche il bisogno di «partecipare» in prima persona (al percorso formativo, alle scelte che investivano la vita personale e collettiva, ai travagli del mondo contemporaneo) ha a che fare con l’esigenza di autenticità, declinata non solo individualmente ma alla luce di una tensione solidaristica che trovava un fondamento proprio nell’ispirazione religiosa.

Era una sfida impegnativa lanciata al mondo degli adulti, una sfida che gli adulti hanno faticato a raccogliere, a volte illudendosi che gli approcci tradizionali – sia pure ritoccati a contatto con la crisi giovanile – potessero far fronte all’emergenza. Credo che il Sessantotto abbia messo in luce un problema di fondo che le agenzie educative dell’epoca, non escluse quelle cattoliche, non sempre sono state in grado di affrontare.

 

Come si perse l’iniziale desiderio di autenticità del ’68.

 

DOMANDA – Nell’articolo su “Il Secolo XIX” si cita il pensiero di Pasolini, favorevole al “Sessantotto degli inizi”: una trasgressione morale anticonsumistica ed insofferente al secolarismo, alla ricerca di un nuovo senso della vita. Si ritrova in questo giudizio? Che differenza ci fu tra il Sessantotto degli inizi e quello della fine?

RISPOSTA – Se si considerano i cambiamenti dell’universo giovanile tra anni Cinquanta e Sessanta, si capisce che il Sessantotto ha accelerato un processo avviato nella società occidentale dalle conseguenze socio-culturali del boom economico.

In realtà il problema è più antico e più ampio: non solo il Sessantotto, ma le ideologie del Novecento si sono confrontate con i timori suscitati dalla modernizzazione e dalla prospettiva di un universo dominato dalla tecnica disumanizzante.

Per reazione, si sono mosse alla ricerca di una modernità «diversa», che si è strutturata in progetti politici massimalisti di diverso segno. Ciò significa che la contestazione giovanile riproduce, a suo modo, le angosce innescate dal processo di modernizzazione che hanno caratterizzato la storia europea nell’ultimo secolo.

Non per niente, nei giovani sessantottini tornerà la visione apocalittica e schematica tipica del sovversivismo di inizio Novecento, che rifiuta il riformismo e approda alla violenza come «levatrice» della storia. La novità degli anni Sessanta è che la ribellione contro la civiltà della produzione e del consumo si innesca dentro quella stessa società consumistica che viene rifiutata in nome della lotta contro l’alienazione di massa.

Come scrive Angelo Ventrone, la mobilitazione giovanile si basa su ciò che rifiuta: la società dei consumi, ormai capace di fornire una tale abbondanza di beni da riuscire a garantire la sopravvivenza dei giovani che la contestano.

Il desiderio di autenticità è rimasto impigliato in questo cortocircuito, che alla lunga ha fatto prevalere le istanze di liberazione individuale sull’obiettivo della giustizia sociale, paradossalmente con la complicità di quello «spirito borghese» che i giovani sessantottini contestavano con accanimento.

 

Il Sessantotto sfida ancora il presente e gli educatori.

 

DOMANDA – Conosciamo tutti gli esiti negativi di quella rivoluzione (individualismo, consumismo, libertinismo). Esistono, secondo lei, anche risvolti positivi per la società? In generale, oggi cosa rimane del Sessantotto?

RISPOSTA – Credo che dopo il Sessantotto non si possa più essere educatori, genitori o professori come si poteva esserlo prima.

In questo senso, la contestazione mi sembra uno stimolo interessante con cui fare i conti quotidianamente, proprio a partire dal desiderio di autenticità dei ragazzi di allora, che poi è il fattore senza il quale un rapporto educativo non può essere significativo, e non solo dal punto di vista di chi viene educato, ma di chi deve educare il quale, a sua volta, deve essere autentico per essere credibile.

Tanto è vero che di fronte a ragazzi che oggi apparentemente sembrano sentir meno questo desiderio (o che forse lo manifestano in modo diverso) chi ha il compito di educarli se ne lamenta.

Il Sessantotto ha almeno in parte messo sotto i riflettori quel «punto infuocato» che al fondo ci costituisce e che è imprescindibile per chi voglia fare un cammino umano, sebbene poi l’abbia declinato – a causa dell’immediatismo e della pretesa di un compimento completo e istantaneo, che salta le fatiche della storia individuale e collettiva – in modi di essere e di esprimersi che si sono rivelati fragili, se non fallimentari.

Anche dal punto di vista della famiglia si potrebbe dire altrettanto, sebbene il cambiamento sia iniziato prima, perché il Sessantotto ha accelerato processi già avviati nella società occidentale.

Sta di fatto che, come ha ricordato Benedetto XVI, ogni generazione è un nuovo inizio: i ragazzi del Sessantotto hanno fatto il loro tentativo, ma oggi tocca a noi capire come affrontare in maniera non fallimentare il tempo che stiamo vivendo. Non credo sia utile né possibile riproporre schematicamente ricette del passato; semmai è da capire se il passato può offrire spunti interessanti per affrontare in modo nuovo le sfide del presente.

 
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Leggi le altre interviste del venerdì.

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«L’universo è senza senso, procreare è una crudeltà»

La visione coerente del filosofo David Benatar: senza un Infinito che la trascende, la vita è una breve processione di frustrazioni e delusioni. E’ così che ha abbracciato il denatalismo: perché fare figli in un universo privo di senso, rendendoli infelici?

 
 

«Se il Cristo non è risorto», scrisse Ludwig Wittgenstein, «noi siamo di nuovo in esilio, soli. Siamo in un inferno dove possiamo soltanto sognare, separati dal cielo come da un soffitto»1Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi 1980, p. 68.

E’ questo che pensa anche il filosofo vegano David Benatar, direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Città del Capo (Sudafrica) ed uno dei principali sostenitori del movimento denatalista (o anti-natalista).

Senza Dio, senza un significato ultimo e trascendente dell’esistenza, per quale sadico motivo bisognerebbe procreare e buttare in questo tragico destino un figlio? E’ coerente, nella sua disperazione la sua tesi.

«Essere nati non è sempre un danno, è sempre un danno molto serio» scrive nel suo ultimo libro Better Never to Have Been: The Harm of Coming Into Existence (Oxford University Press 2008).

 

«La vita, una scadente opera teatrale: basta procreare».

«La vita è una processione di “frustrazioni e irritazioni”», afferma Benatar. «Stare nel traffico, in fila, compilare moduli, avere sempre fame o sete, dover andare in bagno, sperimentare “disagio termico” o essere stanchi e incapaci di fare il riposino».

Il filosofo entra nei dettagli dell’esistenza umana: «Soffriamo di pruriti, allergie e raffreddori, dolori mestruali o vampate di calore. Coloro che amano il proprio lavoro possono avere aspirazioni professionali che rimarranno insoddisfatte. Le persone vogliono essere guardate, sentirsi più giovani, eppure invecchiano senza sosta. Hanno grandi speranze per i loro figli, che puntualmente si dimostrano una delusione, in un modo o nell’altro. Quando quelli vicini a noi soffrono, soffriamo a nostra volta. Quando muoiono, qualcosa muore dentro di noi». E uccidersi, conclude, è ancora peggio che vivere.

Le persone più intelligenti si chiedono se la vita valga la pena di essere vissuta.

Benatar opta per altre domande, altrettanto provocatorie: vale la pena continuare a vivere? Sì, perché la morte è cattiva. Vale la pena iniziare la vita? Assolutamente no.

«Non dovremmo introdurre nel mondo nuovi esseri senzienti», afferma. Il mondo è un inferno ed il filosofo concorda con il Buddha, per il quale l’esistenza è l’unica causa della vecchiaia e della morte: se l’uomo si rendesse conto di questo, smetterebbe immediatamente di procreare.

«Ogni coppia può decidere di non avere un figlio: un’enorme quantità di sofferenza sarebbe evitata. Avere un figlio è abbastanza orribile, vista la situazione in cui si troverà ad essere».

La vita è descritta da Benatar come un’opera teatrale che non si vedeva l’ora di vedere, hai comprato il biglietto e hai partecipato allo spettacolo, che però risulta scadente. Se avessi saputo in anticipo che non era quello che pensavi, non avresti perso tempo.

Le migliori esperienze nella vita compensano le cattive? No, è convinto Benatar, il dolore è quasi sempre peggiore della bontà del piacere (e dura più a lungo).

 

Senza Dio, l’Universo e la sofferenza sono senza senso.

Il valore della riflessione di Benatar è essenzialmente la coerenza con la sua visione esistenziale.

Egli mostra quanto sia per nulla soddisfacente al cuore dell’uomo un significato dell’esistenza posticcio, fintamente ottimista, contingente. Quello per cui è sufficiente essere al mondo e non nuocere agli altri, con lo scopo secolarizzato di realizzare i propri sogni, essere in pace con se stessi, cercare di rendere il mondo un posto migliore, lasciare un buon ricordo di noi ai posteri. Tutte menzogne.

O la vita è vinta da un’Infinito che la abbraccia -qui e ora-, oppure “siamo di nuovo in esilio”. «Ci vorrebbe la carezza del Nazareno», disse il grande cinico Enzo Jannacci, poco prima della sua sorprendente conversione (e poco prima della sua morte).

Che l’antinatalismo sia coerente con il nichilismo e necessariamente legato ad una problematica religiosa, è lo stesso Benatar a riferirlo: «La vita umana è cosmicamente priva di significato: noi esistiamo in un universo indifferente, forse persino un “multiverso”, e siamo soggetti a forze naturali cieche e prive di scopo. In assenza di significato cosmico, solo il significato “terrestre” rimane – e c’è qualcosa di circolare nel sostenere che lo scopo dell’esistenza dell’umanità è che gli umani si aiutino l’un l’altro».

Una visione coerente e disincantata che non si distanzia poi di molto dalla convinzione ateista dello zoologo Richard Dawkins, per il quale «l’universo che osserviamo ha precisamente le proprietà che ci aspetteremmo se, in fondo, non vi è alcun disegno, nessuno scopo, nessun male, nessun bene, nient’altro che una cieca, spietata indifferenza»2R. Dawkins, The God Delusion, Mariner Books 2008.

 

Si potrebbe dire che Benatar è semplicemente un Dawkins onesto e coerente con se stesso.

Forse entrambi, prima o poi, arriveranno dove è giunto Ludwig Wittgenstein: «Posso rifiutare tranquillamente la soluzione cristiana al problema della vita. Tuttavia con questo non si risolve il problema della mia vita, perché io non sono né buono, né felice. Non sono redento»3L. Wittgenstein, Diari segreti, Laterza 2001.

La redazione

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Sofia Goggia: «No trans vs donne». E la gogna Lgbt fa cilecca

L’atleta azzurra difende le donne contro la scelta dei trans negli sport femminili. Il movimento Lgbt avvia la tipica campagna diffamatoria sui social che costringe alle scuse Sofia Goggia, ma i post più condivisi sono quelli in sostegno della sciatrice, soprattutto da parte di donne.

 
 
 

Tre volte campionessa del mondo di discesa, l’azzurra Sofia Goggia è diventata la nuova Guido Barilla.

Nel 2013 il presidente della nota multinazionale in un’intervista radiofonica affermò che gli spot Barilla sono orientati verso «la famiglia tradizionale. Non è per mancanza di rispetto agli omossessuali, ma perché non la penso come loro e penso che la famiglia a cui ci rivolgiamo noi è una famiglia classica».

La lobby Lgbt fece partire la solita campagna di diffamazione, chiedendo il boicottaggio della Barilla, con al seguito lo schieramento mediatico al completo.

Il povero Guido dovette umiliarsi pubblicamente, i marchi concorrenti ne approfittarono per avviare campagne Lgbt e Barilla fu costretta a colorarsi d’arcobaleno. In due anni è diventata una delle principali imprese gay-friendly italiane.

 

Sofia Goggia, l’intervista e le dichiarazioni su gay e sport

Nei giorni scorsi lo spettacolo si è ripetuto con la sciatrice Sofia Goggi.

Alla (assurda) domanda se ci fossero omosessuali tra gli atleti, in un’intervista al Corriere, ha risposto: «Tra le donne qualcuna sì. Tra gli uomini direi di no. Devono gettarsi giù dalla Streif di Kitz…».

In una seconda domanda, relativa alla presenza dei transgender nelle categorie sportive femminili, ha risposto: «A livello di sport, un uomo che si trasforma in donna ha caratteristiche fisiche, anche a livello ormonale, che consentono di spingere di più. Non credo allora che sia giusto».

Le polemiche social contro Sofia Goggia si sono soffermate quasi esclusivamente sulla prima affermazione, al momento non risultano post di successo critici sulla seconda.

L’atleta, come già fece Guido Barilla, ha dovuto scusarsi per la sua opinione e piazzare un bell’arcobaleno nel tweet. Al momento non pare ancora voler intraprendere la completa rieducazione morale diventando portabandiera Lgbt alle prossime Olimpiadi.

 

Trans e sport, ecco perché Sofia Goggia ha ragione.

Rispetto alla prima risposta, nonostante la condivisibile difesa di Luigi Mascheroni su Il Giornale, può essere comprensibile la polemica, ma è evidente che l’atleta azzurra stia scherzando sugli stereotipi.

E’ moralmente riprovevole farlo? Non più dei commentatori Lgbt che ogni giorno scherzano sull’omosessualità latente dei senatori pro-life o dell’obesitàdi Mario Adinolfi.

Occorre anche ricordare che sono gli stessi partecipanti dei Gay Pride che mantengono alto lo stereotipo dell’omosessuale iper-effemminato, lo stesso stilista Giorgio Armani chiede da anni: «Non vestitevi da omosessuali, un uomo deve essere un uomo».

La seconda risposta di Sofia invece risulta assolutamente condivisibile e, d’altra parte, sono ormai quasi 20 gli Stati americani che negli ultimi quattro mesi hanno emanato leggi federali per vietare ai transessuali di gareggiare negli sport femminili.

Tra gli ultimi ad attivarsi anche la Florida con la legge falsamente definita dai critici Don’t say gay, la quale però ha trovato il consenso del 61% degli elettori statunitensi contro il solo 26% di contrari.

Dopo il caso di Lia Thomas, mediocre nuotatore trans che ha infranto ogni record da quando ha potuto gareggiare contro le donne, centinaia di sportive, medici dello sport e femministe hanno contrastato apertamente l’ultima deriva dell’inclusivismo radicale, che come al solito finisce per discriminare le donne.

 

L’odio social non riesce, i tweet sono a favore.

Molti quotidiani hanno stigmatizzato la diffamazione social ai danni della Goggia, parlando di “massacro” e prendendo le difese dell’azzurra. Uno dei più condivisi è stato l’articolo di Hoara Borselli.

Eppure almeno su Twitter, come ci è stato fatto notare, la coordinatissima gogna Lgbt sembra aver fatto cilecca questa volta, lasciando il campo agli innumerevoli post a sostegno di Sofia (soprattutto di donne ed atlete), che risultano essere i più apprezzati e condivisi.

Ecco una breve carrellata dei tweet più condivisi:

 
La redazione

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Dieci prove della resurrezione di Gesù Cristo: nuovo dossier UCCR

Il nostro nuovo dossier è dedicato alle prove storiche della resurrezione di Gesù. 10 argomenti oltre ai quali abbiamo risposto ad altrettante obiezioni avanzate nei secoli. Il risultato è che l’ipotesi della resurrezione è la spiegazione più ragionevole agli eventi ritenuti storici dagli studiosi.

 
 
 

«Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni, può credere, credere proprio, alla divinità del Figlio di Dio, Gesù Cristo?».

E’ questa la provocazione più grande, forse, che ci ha lasciato Dostoevskij e che dovrebbe interrogarci ogni giorno, ogni mattina.

Ma per credere nella divinità di Gesù, non basta l’incontro cristiano con dei testimoni, quella dinamica ripetutasi miliardi e miliardi di volte nella storia umana che ha portato al diffondersi del cristianesimo in ogni parte del mondo.

 

Le prove della resurrezione: sono importanti a chi crede?

La fede nel cristianesimo non è una convinzione intimistica ma si basa sempre sulla realtà. Ed è anche indispensabile che l’evento storico di Gesù sia stato reale e che le fonti cristiane siano autentiche, questo spiega l’insistenza da parte nostra di articoli e post sulla storicità del cristianesimo.

«Una persona che rinunci ai fondamenti storici della fede», ha scritto infatti Ben Witherington III, docente di Nuovo Testamento all’Asbury Theological Seminary, «sta rinunciando alla possibilità di una reale continuità tra la propria fede e quella di Pietro, Paolo, Giacomo, Giovanni, Maria Maddalena o Priscilla. La prima comunità cristiana aveva un forte interesse per la realtà storica, in particolare la realtà storica di Gesù e della sua risurrezione. Era radicata in essa»1B. Witherington, New Testament History, Baker Academic 2001, p. 167.

Ecco allora il motivo del corposo e dettagliato dossier, unico sul web in qualunque lingua, che pubblichiamo oggi su quelle che consideriamo le “prove” (meglio dire “argomenti”) della resurrezione di Cristo.

 

Clicca qui per consultare il nuovo dossier:

                                  Le prove storiche della resurrezione di Gesù

 
 

 

Ma la resurrezione di Gesù si può dimostrare?

Abbiamo selezionato 10 prove e fin da subito abbiamo premesso che va considerata la forza cumulativa di questi dieci argomenti, presi singolarmente avrebbero poco da dire. Consigliamo, per questo, l’uso del menù iniziale per muoversi agilmente tra le varie sezioni.

Non si tratta di “argomenti” diretti a favore della resurrezione, essendo un evento soprannaturale e trascendente per sua natura non può essere oggetto di indagine storica e scientifica.

Eppure, la resurrezione di Gesù ha lasciato inevitabilmente delle tracce visibili e accessibili agli storici e la moltitudine di studiosi di primi piano che abbiamo citato (circa 300 fonti), docenti e ricercatori nelle principali università del mondo di ogni credo, concordano sul fatto che «l’analisi delle testimonianze e degli avvenimenti può portare a concludere che senza il fatto reale della resurrezione molte cose rimarrebbero senza spiegazione»2J.M. Garcia, Il protagonista della storia, BUR 2008, p. 274.

 

Clicca qui per consultare il nuovo dossier:

                                  Le prove storiche della resurrezione di Gesù

 
 

 

La resurrezione di Gesù come migliore spiegazione

Oltre alle tesi a favore, infatti, abbiamo preso sul serio e considerato tutte le obiezioni alla resurrezione che sono state avanzate nel corso dei secoli. Dall’accusa di totale invenzione a quella delle allucinazioni degli apostoli, dall’accusa di aver copiato dagli dei di morte e rinascita pagani a quella che le fonti cristiane sarebbero inattendibili perché di parte.

Così, alla luce di tutto ciò, emerge che la resurrezione di Cristo resta la spiegazione più ragionevole per dar conto di tutti i fattori e le tracce storiche analizzabili che, altrimenti, rimarrebbero non spiegabili.

Infatti, l’ipotesi della resurrezione diventa storicamente plausibile tanto più riesce a giustificare adeguatamente quelle tracce storiche (accertate come storiche), molto più delle spiegazioni alternative.

Il dossier rimarrà accessibile nell’area del sito web dedicata a tutti i dossier relativi alla storicità del cristianesimo.

Come ha spiegato Gerhard Lohfink, docente di Nuovo Testamento all’Università di Tubinga, «la fede ha sempre qualcosa a che fare con la ragione e con la cognizione ragionevole. Le prove della risurrezione di Gesù sono importanti affinché le mie convinzioni non diventino irrazionali».

 

Clicca qui per consultare il nuovo dossier:

                                  Le prove storiche della resurrezione di Gesù

 

 

La redazione

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No, la Pasqua non ha alcun legame con il paganesimo

Una breve analisi storica dei simboli pasquali smentisce la loro origine pagana. Né l’usanza delle uova, né quella del coniglio risalgono al paganesimo, nessuna dipendenza nemmeno con le divinità pagane Ishtar, Eostre e Ostara. L’unico collegamento è con la Pesach ebraica.

 
 
 

Tra le non molte certezze della vita, una è che a Pasqua qualcuno sicuramente dirà che ha un’origine pagana.

Nulla a che vedere con l’ondata di immagini social sul “Natale pagano” che si scatena puntualmente ogni dicembre, alla quale abbiamo dedicato un dettagliato dossier storico.

Ma anche la Pasqua cristiana ha i suoi detrattori, tanto che qualche anno fa perfino Scientific American ha sentito il dovere di smentire il collegamento con il paganesimo, limitandosi però a concludere che «devono ancora esserci prove storiche a sostegno di tali affermazioni».

 

La Pasqua cristiana deriva dalla Pesach ebraica.

Innanzitutto occorre sottolineare che la Pasqua cristiana deriva dalla Pasach ebraica, nei vangeli viene scritto che gli apostoli e lo stesso Gesù di Nazareth si recavano annualmente a Gerusalemme per festeggiarla.

Con questa festività veniva festeggiato il passaggio (Pasqua significa “passaggio”) dalla schiavitù egizia alla libertà nella Terra Promessa.

Nel libro biblico del Levitico (23,5), è Dio stesso che chiede che «il primo mese, al decimoquarto giorno, al tramonto del sole sarà la pasqua del Signore», mentre nel libro dell’Esodo (12,12-14) Dio afferma: «Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione, lo celebrerete come un rito perenne».

Secondo quanto riferito dai vangeli, Gesù di Nazareth morì in croce il venerdì precedente la festa ebraica della Pasqua, che quell’anno cadeva di sabato. La cosiddetta Ultima Cena, nient’altro era che il pasto rituale che celebrava la Pesach ebraica e che Gesù, riunitosi con i suoi apostoli, trasformò per istituire l’Eucarestia, prima di morire in croce e risorgere la domenica successiva.

Gli ebrei suoi discepoli, diventati cristiani, videro nella resurrezione di Gesù un richiamo ed una continuità con la Pesach ebraica, ovvero il passaggio questa volta dalla schiavitù del peccato alla libertà della salvezza. Iniziarono così a celebrare quel giorno come la Pasqua cristiana: non più il venerdì, ma la domenica.

Inoltre, sempre riferendosi alla tradizione biblica, individuarono in Cristo l’agnello pasquale che risparmia la morte. Scrisse San Paolo: «Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità» (1Cor 5,7-8).

 

Pasqua pagana? Nessuna associazione con la dea Ishtar.

Nonostante questa stretta e trasparente dipendenza e continuità tra Pesach ebraica e Pasqua cristiana, soprattutto nei paesi anglofoni si sostiene che la Pasqua avrebbe invece origini pagane.

Il motivo sarebbe la somiglianza fonetica tra il nome inglese per chiamare la Pasqua, cioè Easter e la divinità babilonese Ishtar (o Ištar).

C’è un po’ di antropocentrismo anglofono in questo, dato che nelle altre lingue europee la parola “Pasqua” non c’entra nulla con Ishtar ma è una variante del termine greco Πάσχα, il quale deriva a sua volta dall’ebraico פֶּסַח (Pesach), che significa…Pasqua!

Francese: Paques;
Rumeno: Paşti;
Portoghese: Páscoa;
Italiano: Pasqua;
Spagnolo: Pasqua;
Faroese: Páskir;
Svedese: Påsk;
Islandese: Páskar;
Gallese: Pasg;
Norvegese: Påske;
Danese: Påske;
Olandese: Pasen;

 

Il nome inglese Easter e la dea della primavera Eostre

Un’altra associazione tra la Pasqua ed il paganesimo è che proverrebbe invece dalla divinità Eostre, una “dea della primavera e della fertilità”.

Con grande sicurezza viene scritto su alcuni siti web che questa dea «recava una cesta piena di uova ed era accompagnata da lepri». Ma non viene citata alcuna fonte storica.

L’unica volta che nella storia si riferisce di questa dea Eostre è nell’opera cristiana altomedievale del monaco Beda il Venerabile (725 d.C.), il quale discute dell’uso di diversi calendari, fornendo una breve spiegazione sul nome dei mesi in lingua inglese.

Alcune etimologie nell’inglese antico si riferiscono effettivamente ai cicli agricoli dell’anno, come Weodmonath (agosto) o “mese delle erbacce” o Thrimilcemonath (maggio) “mese delle tre mungiture”, così chiamato perché si mungeva il bestiame tre volte al giorno grazie alla rigogliosa erba primaverile.

Altri mesi, spiega Beda, si riferiscono a pratiche: Halgemonath (settembre) è “mese Santo” perché era un mese di riti sacri, forse associato alla vendemmia, Hrethmonath (marzo) deriverebbe dalla dea Hrêða (Rheda, in italiano), mentre aprile verrebbe da Eostremonath, derivante dalla dea Eostre.

Ecco cosa scrisse precisamente il monaco Beda:

«Eostremonath ha un nome che ora è tradotto con Mese della Pasqua, e che un tempo era chiamato in onore di una loro dea di nome Eostre, per la quale si celebravano feste in quel mese. Ora designano quel tempo pasquale con il suo nome, chiamando le gioie del nuovo rito con il nome secolare dell’antica osservanza»1Beda, De temporum ratione, XV.

Non esistono altri riferimenti espliciti a questa “Eostre” in alcun altra fonte ma lo studioso di inglese antico, Philip A. Shaw, ha sostenuto l’esistenza di luoghi e nomi personali anglosassoni che interpreta come riferiti a questa dea.

Così, probabilmente, il nome di questa dea era conosciuto in Inghilterra e, a differenza del resto d’Europa, gli anglosassoni presero in prestito il nome del suo mese per chiamare la festa cristiana della Pasqua che si celebrava nello stesso periodo dell’anno.

Questo non significa che la Pasqua sia pagana, i cristiani infatti celebravano la resurrezione di Cristo in questo periodo dell’anno almeno dal II secolo d.C., circa 400 anni prima che il cristianesimo arrivasse in Inghilterra e incontrasse qualche adoratore di Eostre.

L’unica cosa che si potrebbe sostenere, prendendo per vero quanto scrive il monaco Beda, è che la dea Eostre abbia “prestato” il suo nome alla Pasqua inglese, ovvero Easter.

La lingua tedesca è l’unica altra lingua europea ad utilizzare una parola germanica per “Pasqua” (Ostern) piuttosto che una variante basata sul greco Πάσχα (Pascha). Anche in questo caso il nome potrebbe derivare dal tedesco antico “Ostara”, una festività celtica primaverile.

Nelle altre lingue germaniche, invece, il nome della Pasqua deriva dall’originale termine greco: Páskir, in faroese; Påsk, in svedese; Páskar, in islandese; Påske, in norvegese; Påske, in danese; Pasen, in olandese.

Inglese e tedesco risultano così le uniche eccezioni che si discostano da tutte le altre lingue europee, concordi nel far derivare la Pasqua dal greco Πάσχα (e quindi dall’ebraico פֶּסַח, Pesach).

Certamente siamo ben lontani da qualunque “prova” di un’origine pagana della festività cristiana, si tratta invece di casistiche locali che hanno seguito un’evoluzione linguistica a sé stante.

Occorre tuttavia segnalare che l’autorevole enciclopedia Britannica ritiene altamente improbabile che la parola inglese Easter, parallela alla parola tedesca Ostern, possano avere un’origine pagana «considerata la determinazione con cui i cristiani hanno combattuto ogni forma di paganesimo».

Viene riferito, piuttosto, che «c’è un consenso diffuso sul fatto che la parola Easter derivi dalla designazione cristiana della settimana di Pasqua come in albis, una frase latina che era intesa come plurale di alba e divenne eostarum nel tedesco antico, precursore del termine tedesco e inglese moderno».

 

Qual è l’origine dell’uovo di Pasqua?

Che dire però dei cosiddetti “simboli pagani” (o almeno così si dice) come l’uovo di Pasqua ed il coniglio?

Come già detto, non esistono prove che colleghino questi simboli a Ishtar e Eostre, rispetto a quest’ultima la singola menzione della sua esistenza da parte del monaco Beda non riferisce nulla di più se non il suo nome.

Come tutti sanno, uova o conigli non appaiono nemmeno nelle narrazioni evangeliche della Pasqua e quindi non sono prettamente definibili “simboli cristiani” (anche se nel tempo sono stati rivestiti di simbologia cristiana).

Questo tuttavia non autorizza a pensare automaticamente che debbano avere origini pagane, anche se ciò non creerebbe alcun problema ai cristiani (anche Babbo Natale, vestito con i colori della Coca-Cola, non è un simbolo cristiano e tuttavia non crea problemi all’origine storica della festività natalizia).

Esiste una spiegazione molto semplice che fa risalire le uova di Pasqua ad un’usanza del cristianesimo medievale.

La prima prova del precetto di digiuno di 40 giorni prima della Pasqua (detta Quaresima) praticata dai cristiani è nella lettera di Atanasio del 330 d.C. (usanza confermata da Socrate Scolastico nel V secolo), esso comportava l’astensione dalla carne e richiedeva di evitare tutti i prodotti alimentari di origine animale, tra cui formaggio, burro e uova.

Durante il Concilio in Trullo (detto anche Concilio Quinisesto), che si tenne a Costantinopoli nel 692, si raccomandò anche che «tutta la Chiesa di Dio, in tutto il mondo, segua una regola e osservi perfettamente il digiuno, e come si astenga da tutto ciò che viene ucciso, così anche dalle uova e dal formaggio, che sono il frutto di quegli animali dai quali ci asteniamo».

Nel Medioevo, divenne abituale nell’Europa occidentale l’astensione dalle uova nei giorni di digiuno e, soprattutto, in Quaresima, preferendo un’alimentazione umile a base di pane, verdure e pesce.

Tommaso d’Aquino ne spiegò il significato in questo modo:

«Uova e cibi a base di latte sono vietati a chi digiuna, in quanto provengono da animali che ci forniscono carne […]. Anche in questo caso il digiuno quaresimale è il più solenne di tutti, sia perché è tenuto ad imitazione di Cristo, sia perché ci dispone a celebrare devotamente i misteri della nostra redenzione. Per questo è vietato mangiare carne in ogni digiuno, mentre il digiuno quaresimale prevede un divieto generale anche sulle uova e sui latticini»2Tommaso d’Aquino, Summa Teologica, II.2. 127

Così, il digiuno diede origine a due tipi di usanze: il mangiare “abbondantemente” (frittelle e pasticci) durante il cosiddetto “martedì grasso”, prima dell’inizio della Quaresima e mangiare uova la domenica di Pasqua, al termine del digiuno. Infatti, le galline continuavano a produrne uova anche durante la Quaresima così, alla fine del periodo di digiuno, la gente ne trovava da consumare in abbondanza.

Non potendole consumare tutte, con il tempo si iniziò anche a decorarle e nel XIII compaiono i primi riferimenti storici di questo anche se tale pratica potrebbe essere iniziata molto prima.

Se ne trova traccia, ad esempio, nei libri contabili di re Edoardo I d’Inghilterra, i quali registrano la commissione di ben 450 uova rivestite d’oro e decorate da donare per la Pasqua. Nei paesi ortodossi ed orientali si usa ancora oggi colorare le uova.

Ma, ancora prima, nel 1176, in occasione delle festività pasquali, il superiore dell’abbazia di St. Germaindes-Pres donò a re Luigi VII, rientrato a Parigi dopo aver partecipato alla II crociata, alcuni prodotti delle sue terre, come appunto delle uova.

Nel tempo i cristiani hanno “rivestito” le uova di una simbologia religiosa, vedendo nel loro guscio il sepolcro dal quale Cristo è risorto.

La spiegazione più attestata e semplice dell’usanza dell’uovo di Pasqua deriva dunque dalla pratica cristiana del digiuno quaresimale in cui questo alimento, facilmente disponibile, non veniva mangiato.

Quello che non esiste in alcuna fonte storica, invece, è un riferimento ad una festa primaverile pagana che coinvolga le uova.

 

Perché a Pasqua si mangia il coniglio o l’agnello?

Che dire del “coniglio di Pasqua“?

Anche in questo caso non esistono prove di un’origine pagana, si tratta di una versione moderna e commerciale dell’usanza nordeuropea di alimentarsi con le lepri (non i conigli) per festeggiare la Pasqua.

Con l’inizio della primavera, in vista dell’accoppiamento, le lepri diventano più socievoli e verso marzo, nella maggior parte del nord Europa, i maschi si contengono le femmine formando veri e propri  gruppi.

La loro presenza venne usata dalle popolazioni rurali, prive di calendario, per indicare l’inizio della primavera e la vicinanza della Pasqua.

Da qui deriva la tradizione tedesca e olandese della Easter Hare (la lepre di Pasqua) che negli Stati Uniti si trasformò nel Easter Bunny (coniglietto di Pasqua), diffondendosi con il tempo nel resto del mondo come usanza commerciale per vendere dolci.

Diversa invece la tradizione di consumare l’agnello, molto presente in Italia.

Questa usanza deriva direttamente dalla Pasqua ebraica, riferendosi alle parole bibliche nel Libro dell’Esodo (12, 1-9) con cui Dio chiese al popolo d’Israele di marcare le loro porte in terra d’Egitto con del sangue d’agnello. Esisteva anche un comandamento riguardo la Pasqua ebraica che prevedeva l’offerta dell’agnello il giorno 14 del mese ebraico di Nisan.

Con il cristianesimo, l’usanza ebraica dell’agnello assunse la simbologia del sacrificio per eccellenza e simboleggiò l’agnello immolato per la salvezza di tutti, cioè Gesù Cristo. Già nei vangeli avviene questo accostamento: «Ecco l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato dal mondo» (Gv 1, 29-34).

 

Chi inventò i collegamenti tra la Pasqua ed il paganesimo.

L’origine dei collegamenti tra la Pasqua ed il paganesimo sembra provenire da Alexander Hislop, un pastore protestante dell’Ottocento appartenente alla Chiesa Libera di Scozia.

Noto per essere stato un veemente critico di qualsiasi cosa avesse a che fare con il cattolicesimo, si convinse la Chiesa cattolica era in realtà l’antico culto misterico babilonese di Nimrod, un’oscura figura pagana menzionata alcune volte nell’Antico Testamento.

Secondo Hislop, Satana permise all’imperatore Costantino (un nome frequente quando si parla di leggende) di dirottare la vera fede cristiana e di condurla al culto degli idoli, solo riconoscendo gli errori dei papisti romani si sarebbe potuti tornare al vero cristianesimo.

Il suo libro The Two Babylons: The Papal Worship Proved to Be the Worship of Nimrod and His Wifenel (1858) è un concentrato di miti e leggende come quelle descritte finora (aggiunse anche che le mitre indossate dai vescovi cattolici prenderebbero la forma dai “cappelli a testa di pesce” indossati dagli antichi sacerdoti del dio Dagon, senza sapere che assunsero tale forma soltanto dal X secolo).

 

Concludendo questo breve excursus, la dea Ishtar non ha niente a che fare con la Pasqua, mentre la dea pagana Eostre può aver “ceduto” il suo nome alla festa cristiana in lingua inglese anche se l’enciclopedia Britannica, come abbiamo visto, ritiene il nome inglese Easter un’antica denominazione cristiana, slegata da Eostre.

Nemmeno le uova ed il coniglietto di Pasqua risultano essere simboli pagani.

L’unico collegamento documentato è quello tra la Pesach ebraica e la Pasqua cristiana.

 
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Avviso
La redazione UCCR augura a tutti una buona e santa Pasqua!
Domenica 17/04 pubblicheremo un dossier storico sulla resurrezione di Cristo e, dopo un breve periodo di vacanza, torneremo ad aggiornare il sito web venerdì 22 aprile 2022.

 

La redazione

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