Il Wall Street Journal si schiera: abolire la legge sull’aborto

Il principale quotidiano americano scende in campo dalla parte della Corte Suprema. Il Wall Street Journal ha infatti chiesto di annullare la sentenza Roe v Wade per affidare democraticamente la decisione ai cittadini dei singoli Stati americani.

 
 
 

Ribaltare la legge sull’aborto, lo ha chiesto (incredibilmente) anche il Wall Strett Jorunal.

Il quotidiano a maggiore diffusione negli Stati Uniti si è infatti schierato a favore della Corte Suprema USA, intenzionata per l’appunto ad annullare la sentenza Roe v. Wade che legalizza l’interruzione di gravidanza dal 1973.

In verità, l’editoriale del WSJ è uscito il 26 aprile scorso mentre soltanto ieri c’è stata la fuga di notizie sulla decisione della Corte Suprema.

E’ anche vero, tuttavia, che tutti conoscono da tempo qual è l’orientamento generale dei giudici essendoci già stato un voto preliminare (ed informale) nel febbraio scorso che ha visto favorire l’affossamento dell’attuale legge.

 

Il Wall Street Journal dalla parte della Corte Suprema.

Già il titolo dell’articolo del WSJ dice tutto: “L’aborto e la Corte Suprema: questo è il momento per i giudici di passare la questione agli elettori”.

Il Wall Street Journal si esorta infatti i giudici ad utilizzare il caso attualmente in discussione, Dobbs v. Jackson Women’s Health, per ribaltare la vecchia sentenza che cinquant’anni fa ha liberalizzato l’interruzione di gravidanza in tutti i 50 stati americani.

L’aborto venne infatti imposto ai cittadini americani con una sentenza e non scaturì da una decisione democratica come una legge federale o un referendum (come è avvenuto invece in Italia).

Nell’editoriale si legge che «cinque giudici» sarebbero propensi a votare contro la legge «ma una feroce campagna di lobbying sta cercando di far loro cambiare idea».

Come abbiamo scritto, scaraventare contro questi giudici la pressione mediatica è stato proprio l’obbiettivo della fuga di notizie avvenuta ieri. Il Wall Street Journal ci ha visto lungo, evidentemente, definendo l’imminente campagna come «apocalittica».

Nell’articolo si profetizza anche il ritorno dell’abusato argomento degli “aborti clandestini” e delle “mammane”, puntualmente ripescato in occasione di sentenze favorevoli al diritto alla vita dei nascituri. «Tutto ciò ha lo scopo di indurre i giudici a fare un passo indietro dal ribaltare» la vecchia sentenza.

 

Affidare democraticamente la decisione ai singoli Stati.

Il celebre quotidiano americano non tifa né a favore né contro una legge sull’interruzione di gravidanza, ritiene più democratico che la decisione vada ai cittadini di ogni singolo Stato tramite i propri rappresentanti politici.

«La possibilità di praticare l’aborto non scomparirebbe negli Stati Uniti», si legge infatti sul Wall Street Journal.

Interrompere una gravidanza «potrebbe rimanere in alcuni stati anche se ci sono già relativamente poche cliniche che praticano aborti. Il risultato più probabile è una molteplicità di leggi a seconda di come vanno il dibattito e le elezioni. La California potrebbe consentire l’aborto fino al momento della nascita, il Mississippi potrebbe vietarlo tranne in caso di stupro o incesto».

 

Corte Suprema, le reazioni in Italia e nel mondo.

Com’era prevedibile, i grandi media hanno reagito imbastendo una furente campagna contro la Corte Suprema.

Si nota un evidente coordinamento tra i responsabili delle redazioni nell’inserire nel titolo degli articoli la parola “abolire” di fianco a “diritto”, così da suscitare facile indignazione. Come si può abolire un diritto?

Ma il punto centrale indicato dai giudici della Corte Suprema è proprio l’aver sottolineato che non esiste alcun diritto all’aborto nella Costituzione americana (come nemmeno in quella italiana, d’altra parte): l’interruzione di gravidanza è stata decisa da una sentenza da parte dei loro predecessori nel 1973.

Il presidente Joe Biden è intervenuto dicendosi «pronto a reagire» quando verrà emessa la sentenza, invitando i suoi elettori a votare candidati pro-aborto nelle prossime elezioni di medio termine (novembre 2022).

I quotidiani conservatori hanno giocato sull’ipocrisia sottolineando tutte le volte che i democratici hanno salutato con sacro rispetto le sentenze della Corte Suprema quando favorivano la loro agenda politica.

 

Tantissime le donne intervenute a sostegno della Corte Suprema, tra le più attive Lynn Fitch, procuratore generale del Mississippi, Kristan Hawkins, presidente di Students for Life, la giovanissima Allie Beth Stuckey e l’ancor più giovane senatrice Julie Slama (26 anni).

Secondo Richard Garnett, docente di Diritto costituzionale presso University of Notre Dame, è improbabile che i giudici possano cambiare idea «a causa di questa fuga di notizie». «Se è stata realizzata con l’intento di influenzare il comportamento dei giudici», ha spiegato, «chiunque ha preso quella decisione si sta davvero sbagliando».

 

In Italia la reazione più scomposta è stata de La Stampa di Massimo Giannini: «Aborto, medioevo americano». In pagina la classica retorica del “diritto di scelta” e gli slogan femministi.

Ancora una volta, non esiste un “diritto di scelta” sulla vita altrui (lo ha spiegato perfino il giurista Vladimiro Zagrebelsky). Ci si dimentica sempre, infatti, dell’altro soggetto in questione: il bambino non nato ed il diritto alla vita. Troppo comodo buttarla sull'”utero è mio”.

Diverso il commento di Giuliano Ferrara su Il Foglio, per il quale la «riconsiderazione del “diritto assoluto all’aborto” può essere il frutto, più che di un inesistente colpo di mano dei conservatori o addirittura dei trumpiani, di una evoluzione comprensibile del diritto, che nascerebbe proprio là dove tutto era cominciato».

 

L’aborto non è un tema religioso ma scientifico.

Tutto questo dimostra ancora una volta che non si tratta di una tematica “religiosa”, ma politica e scientifica.

Chi si oppone all’interruzione di gravidanza lo fa basandosi sempre più spesso sull’evidenza del dolore fetale, della vitalità del bambino non ancora nato, della capacità di sopravvivenza autonoma al di fuori dell’utero materno.

Dati scientifici non disponibili cinquant’anni fa quando molti ritenevano l’embrione un grumo di cellule da asportare senza problemi.

Non si spiegherebbe, altrimenti, perché tra i difensori della vita nascente ci sono tantissime sigle di “Secular pro-life” (cioè atei pro-vita), come raccontavamo qualche anno fa. Molti di essi sono scesi nelle piazze americane in queste ore contrapponendosi ai pro-choice (in molti casi cattolici).

Tante volte Papa Francesco ha ripetuto queste sagge parole: «Perché la Chiesa si oppone all’aborto? E’ un problema religioso? Filosofico? No, è un problema scientifico, perché lì c’è una vita umana e non è lecito fare fuori una vita umana per risolvere un problema».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

L’ebreo Amos Oz: «Così trovai conforto in Gesù»

Nel libro postumo di Amos Oz, “Gesù e Giuda” (Feltrinelli 2022), la volontà di andare oltre i “pregiudizi” storici dell’ebraismo su Gesù di Nazareth. Leggendo i vangeli comprende finalmente la cultura occidentale, l’arte, la musica e la letteratura. E in Gesù trovò conforto.

 
 
 

Amos Oz è stato uno degli intellettuali più influenti e stimati di Israele, è morto nel 2018.

Un devoto ebreo affascinato misteriosamente da Gesù di Nazareth, tanto che nel suo ultimo e celebre romanzo, Giuda (Feltrinelli 2014), arriva a scrivere che Giuda sarebbe stato il più fedele dei suoi seguaci, al punto da spingerlo verso Gerusalemme e la crocifissione affinché potesse manifestare a tutti che era figlio di Dio.

Spesso vicino a vincere il Premio Nobel per la letteratura, è in uscita un saggio postumo intitolato Gesù e Giuda (Feltrinelli 2022), a conferma di quanto detto sopra.

 

Gesù per gli ebrei: non era cristiano, non fondò nulla.

Amos Oz afferma le storiche tesi della religione ebraica nei confronti del cristianesimo, ovvero che Gesù era “solo” un ebreo e non avrebbe inteso fondare una nuova religione. Un argomento al quale abbiamo già risposto nel 2018.

Secondo suo zio Joseph Klausner, ricorda ancora Amos Oz, Gesù non era cristiano perché «non era mai stato battezzato come si deve in una chiesa, mai era andato a confessarsi, non si era mai fatto il segno della croce, non assistette mai a una messa, non celebrò mai una domenica o la Pasqua. Che razza di cristiano poteva essere».

Un argomento un po’ debole se si considera che Gesù fu proprio l’iniziatore del movimento cristiano, proseguito dai suoi discepoli più stretti su suo mandato.

Sarebbe come dire che Charles Darwin non era darwinista perché non si definì mai così oppure che Buddha non era buddhista perché non frequentò mai un tempio buddhista.

 

Il libro di Amos Oz: «Nei Vangeli vedo la cultura europea»

Amos Oz cerca però di andare oltre suo zio Joseph e chiede che il Nuovo Testamento venga insegnato nelle scuole ebraiche di Israele.

Infatti, scrive, «molto ebrei, passati e presenti, non hanno altro che una vaga -spesso piuttosto superficiale, spesso molto incerta- idea su Gesù».

Lui stesso, rivela Amos Oz, quand’era giovane studente si rese conto che:

«Se non avessi letto il Nuovo Testamento, almeno i Vangeli, non sarei mai stato in grado di capire la maggior parte dell’arte europea; non sarei mai stato in grado di apprezzare nel modo giusto la musica di Johann Sebastian Bach; non sarei mai stato capace di comprendere appieno un romanzo di Dostoevskij. Di conseguenza, per alcune settimane mi rinchiusi nella biblioteca del kibbutz, dove me ne stavo tutto solo a leggere i Vangeli, capitolo per capitolo. Gli altri ragazzi del mio anno passavano la sera giocando a pallacanestro o corteggiando le ragazze. Io ero un disastro in entrambi i campi, così trovai conforto in Gesù».

 

Ratzinger: «Le opere della fede testimonianza di verità»

Nelle parole di Amos Oz riecheggia la lucida analisi di Benedetto XVI presente nel suo bellissimo libro Perché siamo ancora nella Chiesa (Rizzoli 2008) .

«La Chiesa ha proiettato nella storia un fascio di luce tale da non poter essere ignorato», scrive il Papa emerito.

«Anche l’arte che è nata sotto l’impulso del suo messaggio, e che ancora oggi ci si mostra in opere impareggiabili, diventa una testimonianza di verità: ciò che è stato in grado di esprimersi a simili livelli non può essere soltanto tenebre», spiega.

«La bellezza delle grandi cattedrali, la bellezza della musica che si è sviluppata nell’ambito della fede, la dignità della liturgia della Chiesa, la stessa realtà della festa, che non si può fare da soli ma si può solo accogliere, il ciclo dell’anno liturgico, nel quale convivono l’ieri e l’oggi, il tempo e l’eternità – tutto questo non è a mio avviso una insignificante casualità».

Concludendo con una più che opportuna riflessione: «La bellezza è lo splendore del vero, ha detto Tommaso d’Aquino. Le espressioni nelle quali la fede è stata in grado di tradursi nella storia sono testimonianza della verità che è in essa».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Corte Suprema, i giudici sapranno resistere ai radicali pro-aborto?

E’ uscita in anteprima la bozza della decisione dei giudici della Corte Suprema USA contro “Roe v Wade”, la sentenza che legalizza l’aborto dal 1973. Qual è lo scopo della soffiata? Cosa si aspetta da questo la lobby pro-choice?

 
 
 

Perché è stata fatta uscire in anteprima la bozza della decisione della Corte Suprema USA sull’aborto?

Innanzitutto capiamo cosa sta succedendo.

Dal 1973 la sentenza Roe v. Wade obbliga gli stati americani a legalizzare l’interruzione di gravidanza anche quando il feto potrebbe vivere autonomamente fuori dall’utero materno (anche fino al momento della nascita).

Alla base dell’aborto legale, quindi, non c’è alcuna legge o alcun referendum popolare.

Una nota di curiosità: la donna che ha dato il nome alla storica sentenza del 1973, Jane Roe, nel frattempo si è convertita al cattolicesimo ed è oggi un’attivista pro-life.

 

La Corte Suprema chiamata a decidere sul caso Dobbs.

Nel dicembre 2021, tuttavia, il Mississippi ha contestato direttamente la legge ritenendola incostituzionale (non esiste un diritto all’aborto), antidemocratica (non decisa dai cittadini attraverso i rappresentanti politici) e obsoleta rispetto alle moderne evidenze scientifiche.

Il Mississippi ha così approvato il divieto di aborto dopo la 15° settimana di gravidanza innescando la causa Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, finita inevitabilmente davanti alla Corte Suprema.

Nel febbraio scorso un primo voto informale dei giudici ha dato ragione al Mississippi e nel prossimo giugno avverrà il voto ufficiale che, secondo molti, annullerà Roe v. Wade e consentirà autonomia legislativa ai singoli stati.

 

La soffiata per creare pressione e ricatto morale ai giudici.

Stamattina il sito web Politico ha pubblicato in anteprima una bozza che conferma il voto di febbraio, manifestando l’orientamento contrario alla legge pro-aborto.

Il testo è stato presumibilmente scritto dal giudice Samuel Alito, il quale parla di un «ripudio totale e incrollabile della decisione del 1973 che garantiva la protezione costituzionale federale del diritto all’aborto [sic]».

Ma la legge, prosegue l’eminente giurista «ha sbagliato clamorosamente fin dall’inizio e riteniamo che debba essere annullata. E’ tempo di dare ascolto alla Costituzione e restituire la questione dell’aborto ai rappresentanti eletti del popolo».

La fuga di una bozza di parere non ha precedenti nella storia della Corte Suprema.

L’obbiettivo è chiaramente quello di scatenare la bagarre mediatica come ultimo, violento e disperato tentativo di mantenere viva una legge antidemocratica che ha interrotto la vita di circa 60 milioni di bambini nell’utero materno.

C’è già notizia delle prime manifestazioni nei pressi della Corte Suprema, anche se si stanno radunando anche centinaia di attivisti pro-life (si scorgono anche sigle di femministe e atei pro-life).

I radicali pro-aborto contano sul supporto della pressione di giornali e televisioni tramite i soliti servizi a senso unico ed interviste quotidiane a vip, show girl e sportivi pro-aborto usati come grimaldello sociale.

Ci aspettiamo inoltre una feroce campagna di ricatto morale verso i giudici dell’alta corte, tramite insulti, denigrazioni a livello personale e la prevedibile gogna social. I progressisti, si sa ormai, si comportano così.

Nella nostra piccolissima realtà italiana è accaduto qualcosa di simile dopo la sentenza contro i referendum su eutanasia e cannabis quando il giudice Giuliano Amato è stato preso di mira per settimane, scavando nel suo passato e nella sua vita privata.

 

Già 29 gli Stati pronti a difendere la vita.

In uno studio del dicembre 2020 il Guttmacher Institute, il braccio statistico di Planned Parenthood, la più grande catena di cliniche abortiste degli Stati Uniti, ha rivelato che 29 stati americani sarebbero “ostili” ad una legge di interruzione di gravidanza e favorevoli ad una legislazione a favore della vita.

Al contrario, soltanto 16 stati mostrano supporto all’attuale legislazione americana.

Un motivo in più per comprendere la volontà dei giudici della Corte Suprema di rimandare la decisione ai singoli stati e quindi agli stessi cittadini.

 

Il card. Dolan: «Equilibrio tra salute donna e diritto vita».

In una recente intervista apparsa su Vatican News, il card. Timothy Dolan, arcivescovo di New York, ha dichiarato di aspettare la decisione sul caso Dobbs e sulla costituzionalità della legge sull’aborto.

Dolan si augura che «sia temperato, se non eliminato. Non c’è stato nessuno Stato che abbia limitato totalmente il diritto all’aborto, ma sarebbe gradita una legislazione che difenda la vita del bambino nel grembo materno dopo un certo numero di mesi di gravidanza».

Tuttavia, ha saggiamente aggiunto, la Chiesa auspica un equilibrio tra la salute della donna ed i diritti alla vita nascente:

«Dobbiamo sempre guardare ai bisogni di salute della donna e dobbiamo assicurarci che una donna, in particolare una madre incinta, abbia l’assistenza sanitaria e il supporto di cui ha bisogno, anche dopo la nascita del bambino. A volte l’enfasi sull’assistenza sanitaria delle donne ha visto la complicazione mortale per l’altra parte, ovvero del bambino nel grembo materno. Per noi contano “entrambi”. Amiamo la mamma ed amiamo il bambino. I pro-aborto invece parlando di un “o” – “o”. Per loro, c’è solo la mamma e dimenticano il bambino. Auspico nuove leggi che tutelano i diritti civili del nascituro, è una questione di diritti umani».

 

Manterremo attivo l’aggiornamento sugli sviluppi più interessanti.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Harvard, 17 universitari sono diventati cattolici a Pasqua

La parrocchia di Cambridge (Massachusetts), a fianco dell’Università di Harvard, è colma di giovani studenti e alcuni di loro hanno chiesto ed ottenuto il battesimo a Pasqua. Ecco la storia di cinque di loro, convertitisi grazie all’incontro cristiano e a testimoni autorevoli.

 
 
 

Anche quest’anno migliaia di adulti si sono battezzati nella messa di Pasqua.

Ne avevamo parlato poche settimane prima, recandoci sui siti web di decine di parrocchie in tutto il mondo per conoscere quanti catecumeni avessero finito il loro percorso in vista del battesimo.

Tra di essi vi sono 17 studenti dell’Università di Harvard, che si sono battezzati durante la Veglia Pasquale dello scorso 16 aprile presso la Paul’s Catholic Church di Cambridge (Massachusetts).

Assieme ad altri 14 adulti hanno concluso il percorso di catecumenato e in un’intervista alla CNA hanno raccontato la loro conversione.

 

Il cappellano di Harvard: «Con il lockdown molti giovani hanno riflettuto».

Percorsi diversi ma tutti diretti nella stessa destinazione: la Paul’s Catholic Church, il cui campanile svetta da secoli su Harvard Square.

Padre Patrick J. Fiorillo, vicario parrocchiale e cappellano universitario dell’Harvard Catholic Center, ha spiegato che «c’è sicuramente un segmento significativo di persone che hanno iniziato a pensare più profondamente alle loro vite e alla loro fede durante il COVID-19. Uscire dal periodo di pandemia ha dato loro l’opportunità di fare il passo successivo e andare avanti».

«La maggior parte delle persone, pur trovandosi in circostanze di vita ordinarie mettono in discussione le vie del mondo e cercano di entrare in contatto con questo desiderio nei loro cuori di qualcosa di più», ha proseguito padre Fiorillo.

«E’ bello vedere che molti giovani continuano a convertirsi al cattolicesimo, e lo fanno in un luogo laico come Cambridge».

 

Ecco come sono nate alcune conversioni ad Harvard.

Katie Cabrera è una matricola di Harvard di 19 anni, è entusiasta di sperimentare per la prima volta il «potere trasformante di Cristo attraverso il suo corpo e il suo sangue» alla messa della veglia pasquale.

Nativa di Dorchester (Massachusetts), dice di essere stata battezzata da bambina ma di aver abbandonato la Chiesa ma, spiega, «anche se me ne sono andata, ho sempre saputo di credere in Dio. Ho sempre avuto quella fede, ma non sapevo cosa farne. C’era un vuoto che esisteva nel mio cuore». Ha scoperto cosa mancava quando è stata coinvolta con l’Harvard Catholic Center.

Dopo essere arrivata da un’amica alla “festa del gelato” dell’Harvard Catholic Center, «così è iniziato tutto», sentendo anche per lei la chiamata a voler diventare cattolica. «Questo è ciò che ho cercato per tutta la vita».

 

Kent Shi ha invece 25 anni, sulle labbra agnostico e quindi ateo nella vita.

Anche nel suo caso la potenza dell’incontro cristiano ha inciso: invitato da un amico ad una Adorazione Eucaristica, senza nemmeno sapere di cosa si trattasse, rimase turbato e iniziò a partecipare alla Messa a St. Paul ed al programma RCIA (Rito di Iniziazione Cristiana per Adulti) della parrocchia.

 

Per Loren Brown, la scelta di frequentare un’università laica come Harvard si è rivelata “provvidenziale”. Anche lui 25enne, originario di Los Angeles e mai battezzato. Ancora una volta l’opera di testimoni cristiani, come i suoi amici cattolici, ha influito sulla sua messa in discussione della mancanza di impegno per la fede.

Così, durante il lockdown, ha iniziato a leggere alcuni libri da loro consigliati, come le poesie di TS Eliot e le Confessioni di Sant’Agostino che lo hanno «attirato alla fede».

Brown descrive la sua conversione come un processo graduale che è culminato in un altro incontro, quello con un sacerdote. Nell’estate del 2021, infatti, fuori dalla chiesa di St. Paul, ha incontrato padre George Salzmann, cappellano dell’Harvard Catholic Center. «Mi ha chiesto come stavo, cosa stavo studiando e abbiamo subito trovato un interesse comune per sant’Agostino», racconta il giovane. La settimana successiva ha frequentato la sua prima messa domenicale e non ha più smesso.

Brown dice che ora si rende conto che c’era molto di più nel venire ad Harvard, oltre alla semplice specializzazione universitaria. «Quello che volevo da Harvard è completamente cambiato. Invece di un’istruzione che mi prepari per un lavoro o una carriera, ne voglio una che mi formi come essere umano e morale».

 

Verena Kaynig-Fittkau ha invece 42 anni, è arrivata ad Harvard dalla Germania come docente e per fare un post-dottorato in elaborazione di immagini biomediche. Mamma di un bambino, cresciuta come “luterano laica”, a Cambridge ha subito due aborti spontanei che hanno «rotto il mio orgoglio e mi hanno fatto capire che non posso fare le cose da sola».

Con un cuore forse per la prima volta colmo di umiltà, si è ritrovata a guardare un video su YouTube di padre Mike Schmitz, prete cattolico della diocesi di Duluth (Minnesota), “scoprendo” il cattolicesimo. Ha così cercato altri video di sacerdoti, tra cui padre Casey Cole ed il vescovo Robert Barron. Infine ha deciso di partecipare alla messa a St. Paul fissando un appuntamento con padre Fiorillo.

Il cappellano dell’Harvard Catholic Center le ha risposto a ciò che lei chiama «l’elenco di problemi protestanti con il cattolicesimo», è entrata nel programma RCIA tre settimane dopo.

 

La potenza dell’incontro con testimoni autentici.

Il denominatore comune di queste conversioni, come di quelle che avvengono ogni anno, è l’incontro cristiano.

In uno splendido articolo su l’Osservatore Romano, il filosofo Massimo Borghesi si è domandato giustamente «perché mai un giovane di oggi dovrebbe essere attratto da una posizione che si qualifica solo per un campo ristretto di battaglie etico-culturali.

Effettivamente per molti strati del cattolicesimo, la fede sembra ridursi a contrapposizioni etiche che non scaldano il cuore, come disse Francesco nella sua celebre intervista a la La Civiltà Cattolica.

Le cose cambiano, invece, quando si ripropone la dinamica della Chiesa nei primi secoli: «quella della testimonianza personale e comunitaria», scrive Borghesi, «della partecipazione ad un’esperienza di umanità rinnovata capace di investire la realtà e la storia».

Purtroppo questa dinamica non è all’ordine del giorno e «ciò che difetta al cattolicesimo odierno, anche e soprattutto a quello impegnato, è la categoria di “incontro”. Una categoria che attraversa e supera la distinzione tra destra e sinistra e che consente di andare direttamente al cuore dell’umano».

«Il problema della Chiesa odierna», conclude il filosofo, «è che difetta troppo spesso di pastori, di persone che amano Cristo e condividono la vita di coloro che sono loro affidati. Là dove il pastore è un uomo di Dio che si fa tutto a tutti lì le chiese tornano, miracolosamente piene. L’uomo odierno, il giovane di oggi, non ha perso il senso dell’amore divino».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Cannabis, la scienza contro l’Associazione Luca Coscioni

Quattro neuroscienziati riassumono in una review gli ultimi studi sulla pericolosità della cannabis, dimostrando conseguenze psichiatriche importanti anche nei consumatori moderati. Ecco il motivo per cui l’Associazione Luca Coscioni non cita mai studi scientifici a sostegno delle sue istanze politiche.

 
 
 

Peserà ancora per il radicale Marco Cappato la sonora bocciatura della Corte Costituzionale.

Il referendum sull’eutanasia è stato respinto in quanto avrebbe legalizzato l’omicidio del consenziente, mentre quello sulla cannabis se fosse passato avrebbe legalizzato qualunque droga.

Il rispetto integrale per la vita umana, così caro al cristianesimo, passa anche dal fronteggiare leggi che la vita la danneggiano irreparabilmente, come quelle a favore della droga. Per questo talvolta ci occupiamo anche di questo tema.

 

La legalizzazione non danneggia l’attività della mafia.

Dopo la bocciatura del referendum, l’Associazione Luca Coscioni ha dovuto accontentarsi di polemizzare con i giudici sostenendo che “la mafia ringrazia”.

E’ famoso, infatti, il mito che la legalizzazione minerebbe minerebbe le basi della criminalità organizzata.

Si tratta di un argomento usato a grimaldello per ingannare l’opinione pubblica, smentito categoricamente da noti procuratori antimafia come Nicola Gratteri, Raffaele Cantone, Fausto Cardella e Paolo Borsellino.

In caso di liberalizzazione, la mafia abbasserebbe semplicemente il prezzo rispetto allo Stato e inizierebbe a vendere la droga alla nicchia di mercato rimasta illecita per lo Stato, ovvero i minorenni.

 

Gli studi recenti sulle conseguenze della marijuana

A smentire l’altro mito dei radicali, secondo cui “uno spinello non ha mai ucciso nessuno”, vi sono schiere di studiosi, scienziati, psichiatri e ricercatori.

Proprio recentemente su The Conversation quattro neuroscienziati hanno riassunto gli studi peer-review più recenti sul tema. Si tratta di Barbara Jacquelyn Sahakian (University of Cambridge), Christelle Langley (University of Cambridge), Martine Skumlien (University of Cambridge) e Tianye Jia (Fudan University).

Il paper è stato stimolato da due studi recenti. Il primo, pubblicato su The Journal of Psychopharmacology, ha dimostrato una diagnosi di disturbo da uso di cannabis (CUD) sui consumatori abituali, rilevando peggiorate prestazioni cognitive in termini di memoria, funzione esecutiva e processo decisionale rischioso.

Il secondo studio, apparso su International Journal of Neuropsychopharmacology, ha dimostrato che l’uso di cannabis in adulti ed adolescenti è associato a dipendenza, apatia ed anedonia.

I quattro scienziati scrivono che «il tetraidrocannabinolo (THC) è il principale composto psicoattivo della cannabis ed agisce sul “sistema endocannabinoide” del cervello, che sono recettori che rispondono ai componenti chimici della cannabis». L’uso di cannabis, provoca «desiderio persistente di usare droga e genera l’interruzione delle attività quotidiane, come il lavoro o l’istruzione. È stato stimato nel DSM-5 che circa il 10% dei consumatori di cannabis soddisfa i criteri diagnostici per questo disturbo».

Solitamente si sostiene che uno spinello ogni tanto non farebbe nulla di male.

Oltre ad essere stato esplicitamente smentito da uno studio pubblicato nel 2019, questa affermazione è direttamente contrastata da quanto scrivono i ricercatori: «Sono stati notati disturbi cognitivi anche nei consumatori lievi di cannabis: essi tendono a prendere decisioni più rischiose di altri e hanno più problemi con la pianificazione».

Un altro studio ha analizzato i consumatori saltuari di cannabis rilevando deficit cognitivi.

Per quanto riguarda le differenze di sesso, scrivono i neuroscienziati, «abbiamo dimostrato che, mentre i consumatori maschi di cannabis avevano una memoria più scarsa nel riconoscere visivamente le cose, le consumatrici avevano più problemi con l’attenzione e con le funzioni esecutive. Questi effetti sessuali persistevano quando si controllava l’età; il QI; l’uso di alcol e nicotina; sintomi di umore e ansia; stabilità emozionale; e comportamento impulsivo».

Nel 2021 su Neuroscience & Biobehavioral Reviews è stato certificato che l’uso di cannabis è anche associato a specifiche menomazioni nella ricompensa e nella motivazione e «l’uso di cannabis durante l’adolescenza è stato segnalato come un fattore di rischio per lo sviluppo di esperienze psicotiche e schizofrenia».

 

Nel 2021 smentita efficacia della cannabis terapeutica.

Nel marzo scorso su JAMA Network Open è stata colpita un’altra area d’azione dell’Associazione Luca Coscioni, ovvero la legalizzazione della cannabis terapeutica (utile a preparare il terreno a quella non terapeutica).

I ricercatori hanno scoperto che l’uso di prodotti a base di cannabis per trattare dolore, ansia e depressione non è riuscito a migliorare questi sintomi, raddoppiando invece il rischio di sviluppare i sintomi di dipendenza del disturbo da uso di cannabis.

 

La Rivista di Psichiatrica contro legalizzazione cannabis.

Questi sono solo alcuni motivi per cui la Rivista italiana di Psichiatria si è fortemente opposta alla liberalizzazione della cannabis.

Nel farlo ha contrastato apertamente quei movimenti che ne sponsorizzano l’uso e la legalità (tra cui l’Associazione Luca Coscioni, per l’appunto) basandosi sull’assunto «della “innocuità” della cannabis, considerata non in grado di indurre dipendenza e libera da importanti o duraturi effetti a livello somatico o psichico».

Eppure, fa notare la celebre rivista medica, «la letteratura scientifica, per chi volesse obiettivamente documentarsi sull’argomento, è vastissima e assolutamente concorde nell’indicare rischi e conseguenze psichiatriche dell’assunzione di cannabis […]. La letteratura epidemiologica che lega l’assunzione di cannabinoidi – con particolare riguardo all’età precoce, al dosaggio giornaliero e alla continuità di questa – a conseguenze di natura psichiatrica è vastissima e, fatte salve le necessarie variabilità di natura clinica, assolutamente univoca».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Addio alla storica Chiara Frugoni: «Ecco perché sono grata al Medioevo»

Morta la celebre medievalista italiana, Chiara Frugoni. Da non credente, una vita dedicata a San Francesco d’Assisi ed al Medioevo cristiano, di cui narrò a lungo le innovazioni contribuendo a smentire il mito dei “secoli bui”.

 
 
 

Il 9 aprile scorso ci ha lasciato Chiara Frugoni, una studiosa di prestigio.

Medievalista ed atea dall’età di 15 anni a causa di un’istruzione severissima (e poco umana) da parte di alcune suore canossiane.

Frugoni era però francescana, stimava la spiritualità di San Francesco d’Assisi.

«Sono affascinata da Francesco, come uomo oltre che come santo», disse in un’intervista a TV2000. «Mi piace vedere tutte le cose che ha pensato e proposto molto al di là del suo tempo».

 

Chiara Frugoni e il Medioevo: «Ma quali secoli bui?!»

Eccellente è anche il suo lavoro sul Medioevo, un periodo storico profondamente cristiano.

«Sono felice di aver contribuito a sfatare l’immagine di Medioevo come a un’epoca arretrata, buia, oltranzista, dogmatica»1C. Frugoni, Frugoni: “Studio San Francesco e ho portato il cilicio, ma le suore sono state la mia scuola di ateismo”, intervista a Repubblica, 19/01/04, disse nel 2014.

Lo fece, in particolare, con il suo Medioevo sul naso. Occhiali, bottoni e altre invenzioni medievali (Laterza 2001), dove in 200 pagine raccolse tutte le grandi innovazioni che i secoli medievali donarono alla storia e di cui godiamo ancora oggi, spesso senza accorgercene.

Alcuni esempi: l’università, il libro, la stampa a caratteri mobili, la carta, gli occhiali, la filigrana, le banche, i notai, le note e la scala musicale, gran parte dei vestiti, gli scacchi, il carnevale, l’anestesia, i vetri alle finestre, i camini, le posate, il mangiare seduti, i gatti domestici, la pasta, i bottoni e quindi la moda, i mulini ad acqua e a vento, l’aratro, gli ospedali, i frantoi, le segherie, l’uso del cavallo come forza motrice, la bussola, la carriola, il timone, la polvere da sparo e così via.

«Per chi come me porta gli occhiali», spiegò a TV2000 nel 2016, «porta sul naso un po’ di Medioevo». In questi secoli vi furono «una quantità tale di invenzioni che dobbiamo essere gratissimi. Purtroppo nella scuola vengono insegnati ancora tanti luoghi comuni, molto difficili da estirpare, come l’idea che fossero un’epoca di mezzo tra il Rinascimento e l’antichità classica».

Il Medioevo, disse Chiara Frugoni, «va molto di moda perché ci permette di pensare che le contraddizioni, le paure e l’irrazionalità fossero tutte lì. E’ una valvola di sfogo perché pensiamo siano esistite davvero queste cose e ci convinciamo di essere migliori. E non è affatto vero».

 

Le invenzioni del Medioevo, dalle università al cavallo

Le università, ad esempio, nacquero sotto l’ala della Chiesa e del papato e gli studenti, scrive Frugoni, ricevevano «tutto il necessario per vivere e per studiare» ed era «quasi impossibile reprimerli» in caso di scorribande «a causa dei privilegi che usufruivano: godendo automaticamente della condizione clericale, che permetteva loro di appellarsi alla giustizia ecclesiastica, sfuggivano a quella civile»2C. Frugoni, Medioevo sul naso. Occhiali, bottoni e altre invenzioni medievali, Laterza 2001, p. 45.

La Chiesa tutelava assolutamente questi atenei, «favorendo il moltiplicarsi delle università nel Medioevo» ed offrendo «molteplici occasioni di guadagno ai cittadini, che a loro volta avevano la possibilità di fare istruire i figli, avviandoli a prestigiose carriere»3C. Frugoni, Medioevo sul naso. Occhiali, bottoni e altre invenzioni medievali, Laterza 2001, p. 45.

Una delle tante innovazioni rispetto ai Romani fu l’uso del cavallo, mentre i popoli precedenti «aggiogavano» questi animali trattandoli come dei buoi, «nel Medioevo un più attento esame dell’anatomia dell’animale portò all’introduzione del collare di spalla», scrive la storica. «Il nuovo collare, introdotto nell’anno Mille e ancora in uso oggi, permette al cavallo di tirare agevolmente l’aratro senza soffocare moltiplicandone la trazione (addirittura triplicandola)»4C. Frugoni, Medioevo sul naso. Occhiali, bottoni e altre invenzioni medievali, Laterza 2001, p. 137.

 

«Grata al Medioevo, ne godiamo ancora oggi»

Nel 2014 è deceduto un altro grande storico, il celebre Jacques Le Goffe, per il quale il Medioevo cristiano fu sinonimo di «sviluppo e progresso, in tutti i campi», aggiungendo anche la concezione dell’uguaglianza della donna all’uomo.

Nell’introduzione del suo libro, la storica Chiara Frugoni scrive qualcosa di simile spiegando che la sua opera «vuole essere un omaggio al Medioevo, ai tanti miglioramenti introdotti di cui ancora oggi godiamo. Spero portino a condividere, forse con sorpresa, la mia gratitudine»5C. Frugoni, Medioevo sul naso. Occhiali, bottoni e altre invenzioni medievali, Laterza 2001, p. VI.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Nietzsche: «Ecco perché odio il cristianesimo»

Quale fu il giudizio di Nietzsche sul cristianesimo? Stima per Gesù ma odio profondo per la religione cristiana la quale impedisce «di vantare diritti particolari, di supremazia». La carità e l’attenzione ai più deboli furono per lui il principio opposto alla selezione naturale.

 
 
 

Già in passato ci eravamo occupati di Nietzsche e della sua viscerale intolleranza per il cristianesimo.

Ne ha parlato qualche tempo fa anche David Lloyd Dusenbury, docente alla Hebrew University of Jerusalem, riflettendo anche sulla visione nicciana di Socrate e Gesù, che il filosofo tedesco accomunò strettamente, criticando instancabile l’eredità platonico-cristiana.

 

Nietzsche e la stima per Gesù.

La morte di Cristo e quella di Socrate furono per Nietzsche «i più grandi assassinii giudiziari della storia del mondo». Mentre ritenne il secondo, Socrate, un grande dialettico «ambulante di Atene», Gesù fu «l’uomo più nobile».

Dusenbury ha commentato così queste parole: «Nietzsche è l’unico a riflettere sul fatto che che la cultura europea è stata inaugurata, anche solo simbolicamente, da questi due processi».

La psicologia di Nietzsche, scrive lo studioso, «è modellata dai testi greco-romani pre-cristiani (e anti cristiani). Questo gli impedisce di vedere il cristianesimo secondo il modello stereotipato dell’Illuminismo, cioè la fede più sanguinosa della storia umana».

 

Ecco perché Nietzsche odiava il cristianesimo.

Mentre la stima per la figura di Gesù è palpabile («questi in verità è stato un uomo divino», scrisse ne L’Anticristo), alrettanto lo è la repulsione per i Vangeli e il cristianesimo.

Nietzsche parla addirittura di «sorte funesta» diffusa dal cristianesimo. Cos’è che lo scandalizza? E’ il fatto che l’eredità cristiana impedisce che qualcuno oggi «possa avere il coraggio di vantare diritti particolari, di supremazia».

I cristiani distruggono la gerarchia tra gli uomini, essi, scrive il filosofo tedesco, sono «per un profondissimo istinto ribelli contro tutto quanto è privilegiato, egli vivono, combattono sempre per “diritti uguali”». La carità, l’attenzione ai malati, ai più deboli è insopportabile per l’autore de L’Anticristo, il cristianesimo «si volgeva a ogni specie di diseredati della vita».

Ecco le parole di Nietzsche ne L’Anticristo:

«Se si pongono gli individui come uguali si mette in questione la specie, si favorisce una prassi che mette capo alla rovina della specie; il cristianesimo è il principio opposto a quello della selezione. Se il degenerato e il malato devono avere altrettanto valore del sano, allora il corso naturale dell’evoluzione è impedito. Questo amore universale per gli uomini […] ha in realtà abbassato la forza, la responsabilità, l’alto dovere di sacrificare uomini. La specie ha bisogno del sacrificio dei falliti, deboli, degenerati; ma proprio a questi ultimi si rivolse il cristianesimo. Questo pseudoumanesimo che si chiama cristianesimo, vuole giungere appunto a far sì che nessuno venga sacrificato»1Friedrich Nietzsche, L’Anticristo. Maledizione del cristianesimo, Adelphi 1977, p. 73-136.

 

Secondo David Lloyd Dusenbury saranno proprio i pensieri di Nietzsche a “difendere” il cristianesimo dagli attacchi illuministi, quando venne accusato di essere gerarchico e patriarcale. «Se avessimo ascoltato Nietzsche», conclude lo studioso, «saremmo stati più riluttanti nell’accusare» l’eredità cristiana.

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

La Specola Vaticana supera Einstein: nuovo studio sul Big Bang

Due astronomi del Papa, ricercatori della Specola Vaticana, hanno proposto una nuova comprensione matematica del Big Bang. Uno studio rivoluzionario, sulle orme di padre Lemaitre (ideatore del Big Bang) e che migliora la spiegazione di Albert Einstein.

 
 
 

Nel marzo scorso avevamo parlato di due importanti scoperte realizzate dagli astronomi del Papa.

Si trattava di padre Richard Boyle, che ha scoperto l’esistenza di un oggetto nel sistema solare esterno dopo Nettuno e di padre Richard D’Souza, coautore di uno studio su una nuova galassia.

Ma in questi giorni la Specola Vaticana, l’osservatorio astronomico e centro di ricerca scientifica della Chiesa cattolica, diretto da padre Guy Joseph Consolmagno, è tornata a far notizia per aver “superato” in qualche modo Albert Einstein.

 

Cos’hanno scoperto gli astronomi della Specola Vaticana.

Sulle orme di padre Lemaitre, il gesuita ideatore della teoria del Big Bang, i ricercatori della Specola Vaticana hanno infatti proposto una comprensione matematica radicalmente nuova del momento iniziale dell’Universo.

Al momento si ritiene che l’universo si sia espanso tramite la cosiddette inflazione cosmica, ovvero in modo esponenziale da uno stato ad altissima densità.

Il fenomeno è stato descritto nel 1915 da Einstein con la relatività generale ma teorie più recenti, come la Brans-Dicke, hanno provato a combinarla con la meccanica quantistica. Un tentativo di unire una spiegazione del comportamento della materia su larga scala con quello su scale microscopiche.

Data la complessità della teoria di Brans-Dicke, tuttavia, gli scienziati tendono a “semplificarla” in riferimenti più semplici, chiamati “riferimento di Jordan” e “riferimento di Einstein”.

Sulla rivista Physical Review, il 15 aprile scorso, il gesuita padre Gabriele Gionti e don Matteo Galaverni, entrambi ricercatori della Specola Vaticana, hanno dimostrato che «contrariamente a quanto gli scienziati credono, il riferimento di Jordan e quello di Einstein non sono sempre matematicamente equivalenti».

Inoltre, i due ricercatori vaticani hanno scoperto che le soluzioni nel “riferimento di Jordan” si trasformano matematicamente ad un altro riferimento «non considerato precedentemente. In quest’ultimo esiste un limite in cui la forza gravitazionale va all’infinito mentre la velocità della luce si avvicina a zero».

Molto più semplicemente, lo studio vaticano potrebbe portare ad una rivoluzione nella nostra comprensione dell’universo primordiale in quanto offre una nuova chiave di lettura per le teorie precedentemente formulate sull’espansione esponenziale dell’universo e potrebbero favorire la ricerca di una più generale teoria di gravità quantistica.

 

Ecco chi sono gli autori dello studio rivoluzionario.

Don Galaverni è stato ordinato sacerdote nel 2015 presso la diocesi di Reggio Emilia-Guastalla dopo essersi laureato in Fisica presso l’Università di Ferrara.  Da sempre è studioso di cosmologia e nel 2009 ha conseguito il dottorato con una tesi sulla luce primordiale del Big Bang.

Nel giorno della sua ordinazione spiegò ai quotidiani quanto la scienza possa essere una risorsa per la fede in quanto «guardando l’universo da un punto di vista scientifico possiamo cogliere degli aspetti di Dio che non potremmo cogliere diversamente».

Molto interessante quanto ha detto anche da padre Gionti, l’altro autore dello studio, sulla differenza tra la teoria del Big Bang ed il concetto di creazione: «La teoria del Big Bang non è connessa col termine “creazione”», spiegò nel 2013. «Il Big Bang parla di un inizio ma non di una creazione, sono due termini completamente differenti. “Creazione” è un concetto teologico mentre “inizio” è un concetto scientifico. La teoria del Big Bang è quella che funziona meglio ma non è detto che sia la teoria definitiva. Il Big Bang è una teoria scientifica, non è una dottrina teologica».

 

In un nostro e visitatissimo dossier abbiamo raccolto le citazioni sul rapporto tra fede e scienza dei più grandi scienziati della storia, ci auguriamo di poter presto aggiungere anche qualche attuale ricercatore della Specola Vaticana.

 

Qui sotto un’intervista su Tv2000 all’astrofisico don Matteo Galaverni

 

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

La Sindone autentica? Come un esperto risponde alle obiezioni

Intervista ad Alessandro Piana sulla Sindone, una panoramica generale sul dibattito circa gli elementi proposti di autenticità e di non autenticità. Uno sguardo in particolare sul Memoriale di Pierre d’Arcis, uno degli argomenti storici più usati dai critici della Sindone.

 
 
 

Ci sono novità riguardo alla Sindone di Torino.

Ad inizio aprile alcuni ricercatori dell’Istituto di Cristallografia hanno pubblicato sul Journal of Cultural Heritage uno studio su un campione della Sindone.

Applicando un nuovo metodo per la datazione di antichi fili di lino ed ispezionandone il degrado strutturale hanno concluso che si tratte di una reliquia molto più antica di quanto si pensi, compatibile con l’idea tradizionale che risalga al I secolo. Ne parleremo in futuro più dettagliatamente.

Nella nostra selezione dei migliori libri pubblicati tra gennaio e marzo 2022 abbiamo incluso anche Perché la sindone non è un falso? (Mauro Pagliai 2022), un’analisi storica (e non solo) della celebre reliquia.

 

Nella nostra intervista del venerdì abbiamo dialogato proprio l’autore del libro, Alessandro Piana, esperto studioso della Sindone e già membro del Comitato Scientifico Internazionale dell’International Workshop on the Scientific Approach to the Acheiropoietos Images, tenutosi presso il centro ricerche ENEA di Frascati.

 

La Sindone e l’attendibilità dei sindonologi.

 

DOMANDA – Prof. Piana, il più noto critico della Sindone, Andrea Nicolotti, polemizza spesso con il lavoro dei sindonologi sostenendo che la maggioranza degli studiosi sosterrebbe la non autenticità della Sindone. Qual è al momento il panorama di ricerca sulla Sindone?

RISPOSTA – Il prof. Nicolotti è da sempre molto critico con i sindonologi, screditandoli in quanto studiosi e ponendo la comunità scientifica contro di loro. Ma la questione dell’autenticità è ancora lungi dal ritenersi conclusa.

Contrariamente a quanto qualche irriducibile si ostini a voler far credere, non si tratta di un confronto tra conservatori e progressisti, tra credenti e atei, tra faziosi studiosi della Sindone e serissimi studiosi neutrali. Come se non si possa studiare la Sindone in maniera seria e neutrale!

A conferma di ciò non bisogna trascurare il fatto che tra chi si interessa alla Sindone – o chi se ne è interessato in passato – troviamo persone appartenenti alle confessioni religiose più diverse da quella Cristiana.

Errore madornale è pensare che alla Sindone si interessino unicamente i Cristiani e che, in maniera del tutto aprioristica, antepongano le loro convinzioni alla logica più razionale.

Sulla possibile identità tra la Sindone di Torino e la sindòn utilizzata per avvolgere il corpo del Cristo al momento della deposizione nel sepolcro (Mt 27,59; Mc 15,46; Lc 23,53) non è mai stata presa una posizione ufficiale da parte della Chiesa: la Fede non si fonda certo sulla Sindone!

Seppur sempre più precisa e affidabile, la Scienza si trova nella condizione in cui non è in grado di dimostrare l’autenticità della Sindone quale lenzuolo funerario di Gesù, ma esclusivamente, attraverso il concetto di esclusione, la sua non autenticità.

Poiché non esiste una metodica sperimentale in grado di dimostrare l’identità dei due soggetti – l’Uomo della Sindone e Gesù – una tecnica in grado di provare la sua origine artificiale, sarebbe sufficiente per dimostrare la non autenticità. Cosa che ad oggi non si è ancora verificata, se non nel caso della datazione radiocarbonica, sulla cui affidabilità sono già stati espressi molti dubbi.

La questione dell’autenticità è un problema ancora aperto.

 

La Sindone e l’obiezione del Memoriale di Pierre d’Arcis.

 

DOMANDA – Lei saprà che l’argomento storico più utilizzato contro l’autenticità della Sindone risale al commento del XIX secolo da parte del canonico Ulysse Chevalier sui documenti medievali riferiti al momento in cui la reliquia emerse nella documentazione storica. In particolare, Chevalier parlò della posizione espressa del vescovo della città di Troyes, la diocesi in cui la reliquia apparve nel XIV secolo, che denunciarono la reliquia come falso, proibendone la venerazione.

RISPOSTA – Si tratta del “Memoriale di Pierre d’Arcis” e gli scritti contemporanei – che definiscono la cosiddetta “Controversia di Lirey” – rappresentano uno degli elementi più volte utilizzati per screditare la Sindone, adducendo alla sua possibile origine artificiale.

Corre l’anno 1389 quando Goffredo II de Charny, figlio del defunto Goffredo, chiede al cardinale de Thury, Legato papale alla corte del re di Francia Carlo VI, il permesso di affidare nuovamente alla chiesa di Lirey la Reliquia già deposta dal padre, mostrarla al pubblico e venerarla pubblicamente. Il permesso è accordato abbastanza rapidamente, ma solo per la prima parte della richiesta.

Questa concessione irrita profondamente il vescovo di Troyes, Pierre d’Arcis, punto nell’orgoglio da questo scavalcamento della sua competenza. Il Decano e i canonici della Collegiata, senza considerare le disposizioni episcopali, si spingono oltre quanto concesso loro dal Legato e continuano a esporre e venerare il Lenzuolo. In seguito ad una petizione degli Charny, Clemente VII, con una lettera a Goffredo II datata 28 luglio 1389, autorizza l’ostensione della Sindone proibendo al vescovo di Troyes di interferire nella modalità delle stesse.

È interessante rilevare che nella lettera papale si invita a utilizzare l’espressione figura seu representacio (figura o rappresentazione) per indicare l’immagine presente sul Telo. Se Clemente VII nel luglio 1389 usa questa espressione, è perché, molto probabilmente, gli Charny avevano usato la stessa espressione nella loro missiva iniziale.

Così Pierre d’Arcis inizia a redigere un Memorandum in cui esprime tutto il suo sdegno per quanto sta avvenendo a Lirey: «Da qualche tempo il decano di una certa chiesa collegiata, vale a dire quella di Lirey, falsamente e con l’inganno si era procurato per la sua chiesa un certo lenzuolo abilmente dipinto sul quale era riprodotta la doppia immagine di un uomo, cioè la parte frontale e dorsale».

Il vescovo prosegue nel suo feroce atto di accusa chiamando in causa il predecessore, Henri de Poitiers, vescovo di Troyes tra il 1353 e il 1370, raccontando di come questi si era premurato di sconfessare quella che riteneva essere una vera e propria truffa ai danni dei fedeli. Occorre precisare una cosa: di questa presunta inchiesta condotta da Henri de Poitiers non esiste alcuna traccia! Appare quanto meno strano che un vescovo che invia i suoi rallegramenti a Goffredo, complimentandosi per la realizzazione della collegiata di Lirey, possa essere stato in conflitto con lo stesso.

 

DOMANDA – Clemente VII diede ragione al vescovo Pierre d’Arcis o a Goffredo II de Charny?

RISPOSTA – Si aprì una vera e propria diatriba in cui nessuna delle due parti fu intenzionata a cedere.

Pierre d’Arcis si rivolse direttamente al re di Francia, chiedendo la revoca del permesso concesso da Clemente VII di esporre la Sindone. Carlo VI, il 4 agosto 1389, ordinò a Giovanni Vendereste, balivo di Troyes, di sequestrare la Sindone e riporla sotto custodia in un’altra chiesa. Il decano della collegiata si oppose adducendo la scusa di non essere in possesso della chiave necessaria per aprire il reliquiario in cui è conservata. Il 5 settembre del 1389 il lenzuolo venne dichiarato proprietà del re.

Goffredo II fu costretto a ricorrere nuovamente a Clemente VII il quale, stanco ormai di questo logorante “tira e molla”, emise, il 6 gennaio 1390, una Bolla nella quale concesse di esporre nuovamente la Sacra Sindone senza però lo sfarzo che ne aveva caratterizzato le precedenti ostensioni; fu inoltre imposto ai canonici di riferirsi al Lenzuolo come a una pictura seu tabula, e non all’originale. Nella Bolla non manca nemmeno un riferimento a Pierre d’Arcis che ottiene ciò che si merita: gli è imposto il silenzio perpetuo sull’argomento!

La Bolla accontentò entrambe le parti: da un lato fu accordato il permesso ai canonici di mostrare la Sindone, dall’altro queste ostensioni sarebbero dovute avvenire senza lo sfarzo caratteristico delle venerazioni di altre reliquie e con il preciso obbligo da parte dei canonici di affermare che non si trattava della vera Sindone ma di una sua rappresentazione. Contemporaneamente a questa Bolla vennero inviate due lettere: una a Pierre d’Arcis e l’altra agli ufficiali ecclesiastici delle diocesi, limitrofe a Troyes, di Autun, Langres e Châlons-sur-Marne.

Nella lettera inviata al vescovo, è invitato a verificare che le ostensioni avvengano secondo le norme stabilite senza impedimento, pena la scomunica. Gli ufficiali ecclesiastici sono invitati a far rispettare a entrambe le parti, i de Charny e Pierre d’Arcis, quanto stabilito dal papa di Avignone. La bolla di Clemente VII del 6 gennaio 1390, insieme alle due lettere, potrebbe essere interpretata come la risposta al Memoriale redatto dal vescovo d’Arcis ma, oltre ad essere diversa per toni e impostazione, non fa il minimo cenno al documento, contrariamente alla prassi che voleva che ci si rifacesse agli scritti del richiedente.

I negatori dell’autenticità della Sindone a questo punto ritengono chiusa la questione senza tenere conto di due documenti molto importanti.

La modifica di alcune espressioni del documento datato 6 gennaio, e la successiva pubblicazione di una nuova Bolla con concessione di nuove indulgenze. L’originale della Bolla del gennaio 1390 riporta alcune correzioni a margine, apposte il 30 maggio successivo. In particolare, l’espressione pictura seu tabula è stata cancellata e, affianco alla cancellazione, troviamo – unitamente all’espressione figura seu representacio – l’indicazione: Cor. de manto. Jo de Neapoli (Correctum de mandato. Joannes de Neapoli). La cui traduzione suona come Corretto per ordine (dell’autorità superiore N.d.A.), seguito dalla firma del responsabile della rettifica: Giovanni Moccia da Napoli, secretarius del papa.

Le correzioni trovano conferma con la Bolla che lo stesso Clemente VII emette il 1° giugno in cui concede nuove indulgenze per chi visita la collegiata di Lirey, dove è custodito «con venerazione, il Sudario con l’impronta o immagine di Nostro Signore Gesù Cristo». A questo punto della vicenda, è anche possibile ipotizzare che Clemente VII – imparentato con il secondo marito di Jeanne de Vergy – abbia ricevuto informazioni utili a fargli rivedere in parte il punto di vista sulla questione.

Giunti a questo punto è utile ricordare che la polemica innescata da Pierre d’Arcis non riguarda l’autenticità del Telo esposto a Lirey, bensì l’aspetto liturgico e dottrinale; ma è stata (e, talvolta, lo è ancora oggi!) strumentalizzata in questo senso.

 

DOMANDA – Il punto, però, è che il vescovo Pierre d’Arcis definì la Sindone “un dipinto”, anche se spinto probabilmente per motivi di gelosia politica, come ha ricordato lei.

RISPOSTA – Le accuse del vescovo di Troyes cadono di fronte alle inequivocabili evidenze scientifiche ricavate sul finire del XX secolo in occasione dell’esame diretto della Sindone, sconfessando, in questo modo, l’idea dell’origine artificiale del Lenzuolo torinese.

Non un dipinto, ma un’immagine achiropita, cioè non fatta da mano umana. Ciononostante assistiamo periodicamente ad una serie di tentativi volti a ricreare artificialmente un oggetto che si avvicini tanto dal punto di vista macroscopico quanto, soprattutto, da quello microscopico, la complessità dell’originale. Tentativi infruttuosi – e talvolta persino maldestri – di riprodurre l’unicum Sindone!

Le ricerche dirette sulla Sindone, hanno escluso l’origine pittorica dell’impronta facendo crollare, in questo modo, la colonna portante della tesi di Pierre d’Arcis!

Il chimico Walter Mc Crone sostiene di aver rilevato l’esistenza di una serie di particelle, componenti di pigmenti, a suo avviso sufficienti per affermare che la Sindone sia stata dipinta da qualche anonimo artista medievale.

Lo studio radiografico effettuato nel 1978, integrato con la registrazione degli spettri di fluorescenza e raggi X, ha consentito di evidenziare la presenza sul telo di ferro, calcio e stronzio. In particolare, le concentrazioni di ferro sono risultate essere costanti sia nelle zone con immagine sia in quelle che ne sono prive e pertanto la loro presenza sembra dover essere collegata con la lavorazione del lino e, in particolare, con la sua macerazione in acqua, piuttosto che essere la diretta conseguenza della apposizione di pigmenti.

I risultati delle analisi autorizzate nel 1978, smentiscono inequivocabilmente questa convinzione: «Nessun pigmento, vernice colorata, tintura o macchia è stata trovata sulle fibrille. La fluorescenza ai raggi X e la microchimica sulle fibrille escludono la possibilità che sia stata usata la pittura come metodo per creare l’immagine. L’esame all’ultravioletto e all’infrarosso conferma questi studi»1Dichiarazione finale dei membri dello STURP (Shroud of Turin Research Project), New London, 9 ottobre 1981.

 

DOMANDA – Il Memoriale di Pierre d’Arcis venne ripreso e rilanciato dal canonico Ulysse Chevalier, un altro nome sempre presente nelle trattazioni critiche verso l’autenticità della Sindone.

RISPOSTA – Si, il primo studioso a sostenere la non autenticità della Sindone fu all’inizio del XX secolo Ulysse Chevalier, canonico e professore di Storia Ecclesiastica all’università Cattolica di Lione: analizzando il Memoriale si convince dell’origine artificiale della Sindone.

Se gli scettici si basano sulla presunta infallibilità dello Chevalier, si può ricordare come Nicolas Camusat, canonico della cattedrale di Troyes e compilatore del Prontuarium Tricassinae Dioecesis parli della collegiata di Lirey, di Henri de Poitiers, di Pierre d’Arcis ma non citi mai il Memoriale.

Forse l’omissione è dovuta al fatto che, come diceva lo stesso Chevalier, esso appariva come una minuta e che questo non sia mai stato redatto in forma ufficiale da inviare ad Avignone. Del resto sul rovescio del foglio del Memoriale è stato trovato il nome del destinatario del documento: Magistro Guillelmo Fulconis (Guillaume Foulques), la persona che doveva redigere in linguaggio burocratico l’esposto del vescovo.

Lo scritto, così com’è, non è probabilmente mai giunto alla cancelleria papale e di conseguenza non è richiamato nella lettera di Clemente VII indirizzata al vescovo di Troyes. Se Clemente VII non si riferisce al Memoriale, significa che questo non è mai arrivato nelle sue mani e dunque non è mai stato spedito.

È possibile considerare il Memoriale come una sorta di pro-memoria personale che certe fonti hanno fatto passare per documento ufficiale. Questo documento, quindi, è da considerarsi storico perché esiste, ma non ufficiale perché non accusato come ricevuto.

Una revisione critica dei lavori dello Chevalier è stata portata avanti, a partire dagli anni Sessanta, dal salesiano Luigi Fossati2L. Fossati, La Sindone. Nuova luce su antichi documenti, Borla 1961 che ha avuto modo di contestare il metodo utilizzato dallo Chevalier e il fatto che quest’ultimo abbia trascurato alcuni dei documenti in cui si parla della Sindone. Concetti poi ripresi anche nel testo del 20003L. Fossati, La Sacra Sindone. Storia documentata di una secolare venerazione, Elledicì 2000.

 

Il tessuto della Sindone, quali prove dall’archeologia?

 

DOMANDA – Il dibattito sulla Sindone è aperto anche sul tipo di stoffa utilizzata. Quali sono al momento le evidenze sul tessuto funerario?

RISPOSTA – Pur non avendo un’indicazione precisa riguardo all’epoca e all’area geografica in cui la Sindone è stata realizzata, grazie alle analisi macroscopiche e microscopiche compiute sulla stoffa, siamo in grado di ipotizzare un’origine antica e orientale del tessuto sindonico.

L’irregolarità dell’intreccio del tessuto propende per una realizzazione su di un telaio manuale a pedale, di fattura rudimentale. Pur riscontrandosi la presenza di salti di battuta ed errori lungo tutto il lenzuolo, questo è da considerarsi fatto con una stoffa raffinata. I profili longitudinali, così come l’orlatura dei lati corti, sono stati realizzati in maniera competente e ciò suggerisce che la realizzazione del lenzuolo funebre sia avvenuta in un’unica fase di lavoro.

Inoltre, si suppone che il telo che conosciamo sia stato ricavato da un tessuto venduto a metraggio, il che fa presumere che si trattasse di materiale pregiato destinato ad acquirenti benestanti.

La Sindone è formata da un telo al quale è stata applicata su un lato lungo, mediante una cosiddetta cucitura ribattuta, una striscia dello stesso tipo del lenzuolo larga 8 cm. La stessa cucitura, che unisce la striscia longitudinale di otto centimetri al resto del telo sindonico, presenta alcune peculiarità riscontrabili in manufatti tessili ritrovati nel contesto archeologico di Masada e risalenti al I secolo d.C.

Dunque, sia per quanto concerne la tecnica realizzativa del tessuto sia per le modalità con le quali sono state realizzate le cuciture, abbiamo motivo di supporre che la Sindone possa corrispondere a una manifattura risalente al I secolo d.C.

Il lino usato per la realizzazione della Sindone è stato filato a mano: questa deduzione è resa possibile dal fatto che le fibre presentano un diametro variabile. Ogni filo, composto di un numero variabile da 70 a 120 fibrille, presenta la caratteristica torcitura detta “Z”, cioè in senso orario. Ritrovamenti archeologici di lini aventi la medesima torcitura “Z” in area mediorientale – Siria e Iraq in particolare – farebbero supporre che la manifattura sia stata realizzata in quest’area geografica e in seguito importata. Le stoffe rinvenute nell’area palestinese sono, infatti, caratterizzate dalla torcitura “S”, in senso antiorario.

La tessitura è quella così detta a “spina di pesce” – diagonale 3:1 – ottenuta facendo passare il filo trasversale della trama alternativamente sopra tre e sotto uno di quelli longitudinali dell’ordito, una lavorazione particolare già conosciuta ai tempi di Gesù, contrariamente a quanto sostenuto da chi ritiene la nascita di questa particolare tecnica manifatturiera risalente al periodo medievale.

Infine, una curiosità: nella Sindone sono presenti contaminanti di cotone, mentre non esistono contaminanti di lana. Quest’osservazione – solo all’apparenza banale – ci riporta ai precetti della religione ebraica e in particolare al libro del Deuteronomio, dove troviamo: «Non ti vestirai con un tessuto misto, fatto di lana e lino insieme» (Dt 22,11).

Ciò significa che i due tessuti di origine diversa – animale, la lana; vegetale, il lino – dovevano essere lavorati su telai diversi, onde evitare la contaminazione tra essi e la conseguente violazione dei precetti. Segno dell’attenzione nei confronti del defunto, evidentemente per l’importanza che rivestiva era degno di una sepoltura onorifica.

Un ulteriore contributo allo studio del tessuto è stato dato dalle ricerche effettuate negli anni settanta dello scorso secolo dallo svizzero Max Frei Sulzer che in due riprese, nel 1973 e nel 1978, effettuò alcuni prelievi di microtracce rinvenendo granuli di polline provenienti da una serie piante che crescono in Terra Santa, nell’Anatolia e nell’Europa continentale e peninsulare. Il ricercatore concluse che è altamente probabile la permanenza della Sindone in queste regioni del mondo, che coincidono con il supposto percorso storico ricostruito sulla base di una serie di testimonianze documentarie e iconografiche.

 

Sindone e datazione al radiocarbonio: contaminazione?

 

DOMANDA – Siamo giunti così alla datazione al radiocarbonio del 1988, ritenuto il colpo più grave alla Sindone in quanto ne colloca l’origine tra il 1260 e il 1390. Anche in questo caso viene detto che la questione è chiusa: si tratta di una reliquia medievale. E’ così?

RISPOSTA – E’ uno degli aspetti più dibattuti da oltre trent’anni.

Già Willard Libby, l’inventore del metodo della datazione mediante radiocarbonio (1947), propose di effettuare una serie di misure sul tessuto sindonico, ma il progetto sfumò a causa dell’eccessiva quantità di campione da utilizzare. L’affinamento della tecnica, con la conseguente diminuzione della quantità di campione necessaria per la misurazione, permise di presentare nuovi progetti nella seconda metà degli anni 80, proponendo l’esecuzione concertata di prelievi di misure di radiodatazione e di tutta una serie di accertamenti in parallelo fatti sui campioni prelevati atti ad evitare errori e a fornire una conoscenza corretta e dettagliata del telo sindonico.

Purtroppo, però, a causa della netta opposizione da parte dei laboratori incaricati dell’operazione di datazione il progetto ad ampio spettro non andò in porto.

Il 21 aprile del 1988 un campione di tessuto fu prelevato da un unico sito, posto nell’angolo in alto a sinistra del telo, e a ciascuno dei tre laboratori incaricati – Oxford, Zurigo e Tucson – venne consegnato un campione di Sindone del peso di circa 50 mg, unitamente a tre campioni di controllo di età nota.

Il risultato della campagna di analisi ebbe un effetto dirompente e scatenò una serie di discussioni e – soprattutto – di contestazioni intorno all’intero programma di datazione, alimentato da una lunga serie di leggerezze, imprudenze e, in taluni casi, anche da comportamenti poco professionali da parte dei responsabili dell’intera operazione.

Da subito si fece notare come un determinante elemento di cautela nell’accettazione dei risultati ottenuti riguardò le modalità di prelievo del campione, contestualmente alla mancanza di esami multidisciplinari atti ad accertare la quantità e la tipologia di sostanze estranee presenti sui campioni esaminati.

Due studiosi statunitensi, Alan Adler e Raymond Rogers, ebbero modo di analizzare un filo residuo del campione sindonico utilizzato per la radiodatazione e scoprirono che questo presentava caratteristiche fisiche differenti rispetto al complesso del telo sindonico ed anche il suo spettro all’infrarosso risultò diverso. Secondo Rogers esisterebbero sufficienti evidenze per supporre che il sito dal quale fu prelevato il campione sia stato sottoposto in passato ad un rammendo esteriormente invisibile e che pertanto la data misurata corretta da un punto di vista strettamente sperimentale non corrisponderebbe alla vera età della Sindone.

È chiaro, dunque, che il prelievo effettuato in un solo sito rischia di fornire dati che sono indubbiamente omogenei tra loro, ma non  rappresentativi dell’intero oggetto in studio.

Al congresso dell’ENEA, tenutosi a Frascati nel 2010, Marco Riani diede i “primi colpi” all’esame del C14 dal punto di vista dell’analisi statistica dei dati pubblicati dai tre laboratori, dimostrando l’esistenza di un’anomala variazione spaziale dell’età dei dodici pezzetti di lino datati, quattro per ciascuno dei tre laboratori. In altri termini, si evince che l’età del tessuto aumenta in maniera costante mano a mano che ci si sposta da un pezzetto all’altro adiacente, muovendosi dall’esterno verso l’interno della Sindone.

Tale dato anomalo suggerisce la presenza di una contaminazione talmente consistente al punto da aver potuto falsare i risultati. Appare evidente che la procedura di pulizia preliminare dei campioni non è stata in grado di rimuovere tutte le sostanze contaminanti depositate sul lino.

 

Le bugie (riconosciute) del laboratorio di Tucson.

 

DOMANDA – Ha accennato a comportamenti poco professionali tenuti dai responsabili della datazione del 1988…

RISPOSTA – L’analisi statistica ha permesso di dimostrare un dato sconcertante per quanto riguarda la correttezza delle procedure comunicate: uno dei due frammenti forniti al laboratorio di Tucson non venne datato, contrariamente a quanto ammesso e pubblicato. Esempio lampante delle falle presenti in tutto il percorso della campagna di studi.

Sul finire del 2010, il responsabile del laboratorio di Tucson si trovò costretto a pubblicare un articolo in cui mostrò per la prima volta la foto del campione del Telo ricevuto dal suo laboratorio e mai datato.

Di conseguenza la quantità di tessuto utilizzata dal laboratorio di Tucson non è sufficiente per ottenere un risultato significativo, motivo per cui la datazione da loro ottenuta avrebbe dovuto essere scartata e non concorrere, così, alla determinazione dell’età radiocarbonica della Sindone.

 

Gli errori statistici nell’articolo di Nature sulla Sindone.

 

DOMANDA – Anche il famoso articolo pubblicato dai tre laboratori su Nature è stato analizzato recentemente.

RISPOSTA – Come se non bastasse, nel 2017 una richiesta legale europea di accesso agli atti amministrativi nel Regno Unito ha obbligato il British Museum – all’epoca coordinatore dell’operazione di datazione – a fornire i dati grezzi, ovvero i dati non ancora elaborati e mediati, dopo che per quasi 30 anni ogni richiesta era stata sempre rifiutata.

L’analisi statistica di tali dati grezzi ha dimostrato che il livello di confidenza del 95% dichiarato nell’articolo pubblicato su Nature non è accettabile poiché i dati contengono gravi incongruenze tra i risultati ottenuti dai tre laboratori, probabilmente a causa dei contaminanti non rimossi, come già indicato più sopra e come testimoniato da ulteriori studi effettuati su tessuti antichi dove la contaminazione di tipo biologico, chimico e tessile è in grado di alterare in maniera significativa l’età radiocarbonica.

Sulla base dei risultati ottenuti, dunque, i tre laboratori avrebbero dovuto dichiarare la non attendibilità dell’operazione di datazione e richiederne la ripetizione utilizzando nuovi campioni, Cosa che, come ben sappiamo, non è avvenuta.

Come ben si può immaginare sulla base di quanto detto finora, i risultati della radiodatazione sono ancora oggi oggetto di un ampio dibattito tra gli studiosi circa l’attendibilità dell’uso del metodo del radiocarbonio per datare un oggetto con caratteristiche chimico-fisiche così particolari come la Sindone.

Diversi studiosi hanno proposto metodiche alternative di datazione del tessuto (es. lignina, misura della scomparsa graduale della Vanillina, nuove metodiche spettroscopiche, tanto per citarne alcune) chissà che in un prossimo futuro possano essere prese in considerazione per una nuova stagione di studi. Allo stato attuale il problema della datazione del tessuto sindonico risulta del tutto aperto.

 
——————————————-

Leggi le altre interviste del venerdì.

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace

Le fosse comuni in Canada e la morte di Raiola: come nasce una fake news

Due esempi attuali di come nascono le fake news accreditate dai principali quotidiani: la morte del procuratore Mino Raiola e le fosse comuni delle scuole residenziali canadesi. La prima smentita dallo stesso protagonista, la seconda dall’assenza di foto e dagli ex studenti.

 
 
 

Ieri tutto il mondo si è reso conto di cosa sia diventato oggi il giornalismo.

Dato per morto da tutti i media nella mattinata di ieri, il re dei procuratori Mino Raiola ha twittato dichiarando di essere vivo e arrabbiato per quanto si stava dicendo di lui.

Ai fiumi di inchiostro, alle migliaia di articoli, ai miliardi di post sui social sulla sua morte sono così seguiti altrettanti articoli e tweet di rettifica, il tutto nel giro di poche ore.

Difficile capire da chi sia nata la fake news, ancora più inspiegabile che nessuno abbia verificato prima di scrivere.

 

La verità non conta, basta ripubblicare la stessa cosa.

L’importante per i giornalisti è arrivare primi o comunque dimostrare di esistere ed essere “sul pezzo” scrivendo una news che altri trecento colleghi hanno già pubblicato, magari su quotidiani più blasonati.

Nessun approfondimento, nessuna iniziativa personale, solo un mero esercizio di ripubblicare allo sfinimento lo stesso fatto spesso con identiche parole.

In secondo piano passa la verità, la realtà dei fatti: è sufficiente che qualcuno di più autorevole l’abbia pubblicata per far diventare automaticamente vera qualunque notizia.

Le fake news raramente sono totalmente inventate, spesso hanno una base di verità che le rende apparentemente credibili. Raiola, ad esempio, non è morto ma è ricoverato in gravi condizioni in ospedale (i nostri migliori auguri!).

 

Le fosse comuni in Canada: nessuna foto, ma non importa.

Un altro esempio recente di colossale bufala giornalistica è quella delle fosse comuni canadesi ritrovate nel giardino delle scuole residenziali, di proprietà statale ed amministrate per la maggior parte dalla Chiesa cattolica.

Ce ne siamo occupati nel febbraio scorso e ad inizio aprile abbiamo intervistato Jacques Rouillard, docente emerito di Storia all’Università di Montreal e tra i massimi esperti di storia del Quebec.

Ma non esiste nessuna fossa comune, la fake news è nata nel 2021 da un antropologa che ne ha ipotizzato l’esistenza rilevando con un georadar depressioni e anomalie nel terreno.

Pur non avendo mai realizzato neppure un piccolo scavo, i media canadesi hanno dichiarato il ritrovamento di 315 (!) resti umani in una fossa comune (è ancora un mistero da dove sia nato quel numero così preciso). La notizia è esplosa nel mondo quando il primo ministro Justin Trudeau ha rilanciato la “scoperta” tramite un tweet.

Così, ogni quotidiano del globo ha dato per vera la fossa comune. Eccezioni a parte, come il settimanale britannico The Spectator.

Come nel caso di Raiola, i giornalisti si sono copiati a vicenda senza porsi alcun dubbio nonostante l’assenza di foto o immagini della presunta fossa, degli scavi o dei 315 resti (al contrario dell’abbondanza di immagini delle fosse comuni di Bucha, in Ucraina).

 

L’errore commesso anche dai media cattolici.

Anche i media cattolici italiani hanno fatto lo stesso, accodandosi senza criterio e senza verifica ai grandi quotidiani.

Il primo a scrivere delle fosse comuni in Canada è stato Vatican News. Questo ha autorizzato anche Avvenire a scrivere lo stesso e l’amico giornalista, autore dell’articolo, ci ha risposto: «La mia fonte è Vatican news che ha scritto la stessa notizia».

A differenza del caso di Raiola, nessuna delle presunte vittime può alzare la mano e dire “non è vero”.

 

Gli ex studenti contro gli attuali leader indigeni.

Ci sono però ex studenti delle scuole residenziali canadesi, come le sorelle Whiteman, che hanno smentito.

L’idea di tombe appartenenti ai bambini che frequentavano queste scuole, dicono, «vive di vita propria, è bastato che i media raccogliessero queste storie», lamentano.

A volte, com’è normale che sia, a fianco delle scuole si trovano semplici cimiteri ed «i più vecchi tra noi sanno che non ci sono solo bambini», spiegano. «Furono sepolti i contadini e anche membri della comunità Métis seppellivano persone nel nostro cimitero».

Vedere moltiplicarsi questa falsa notizia «è stato molto sconvolgente, per non dire altro», sostengono le ex alunne. «Si è diffusa a livello nazionale quasi subito, dall’oggi al domani».

 

Abusi nelle scuole residenziali? Qualcosa non torna.

Gli attuali leader indigeni, in visita anche dal Papa in Vaticano, stanno raccontando al mondo degli abusi e delle violenze che sarebbero avvenute nelle scuole residenziali canadesi, così che chi non parla di genocidio fisico parla invece di genocidio culturale.

Eppure lo stesso storico Jacques Rouillard ma anche James C. McCrae, ex procuratore generale di Manitoba e Tom Flanagan, professore emerito di Scienze politiche all’University of Calgary, hanno messo fortemente in dubbio la loro affidabilità.

Una ricercatrice indipendente canadese, Nina Green, sta dimostrando giorno dopo giorno tramite lo studio degli archivi quando le antiche comunità indigene tenessero alle scuole residenziali. Ne parleremo dettagliatamente in un prossimo articolo.

In una relazione datata 18/01/1930, ad esempio, inviata dal Sovrintendente Generale per gli Affari Indiani al Comitato del Privy Council, si evince che quando la Old Sun Indian Residential School bruciò in un incidente nel 1928, la comunità indigena Blackfoot Indian Band fu così ansiosa di ricostruirla il più rapidamente possibile che prestò addirittura al governo federale $80.000 dal proprio fondo fiduciario.

Questo ovviamente contrasta con l’idea che le comunità indiane fossero contrarie a queste scuole o che esse furono luoghi di ripetuti abusi e violenze fisiche. Ciò ovviamente non significa che non ve ne furono in assoluto, ma bisogna quantomeno provarli.

Il vero obbiettivo degli attuali leader indiani, secondo Rouillard, è diffondere queste voci (senza preoccuparsi di dimostrarle) per ottenere risarcimenti milionari da parte della Chiesa, così come li hanno già ottenuti dal governo canadese.

Anche le sorelle Whiteman, ex studentesse delle scuole residenziali, hanno drasticamente criticato gli attuali leader indigeni: «Avrebbero dovuto chiedere il consiglio della generazione più anziana, chiedi loro la storia per come la ricordano. Eravamo lì. L’abbiamo vissuta. Dovremmo saperlo. Non pretendo di avere 110 anni, di sapere tutto, ma penso di aver sperimentato abbastanza quanto accadde nella scuola residenziale per ricordare non solo i momenti brutti ma anche quelli belli».

La redazione

Condividi su:
  • Aggiungi su Facebook
  • Aggiungi su Twitter
  • Aggiungi su Windows Live
  • Aggiungi su MySpace